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Autore: ashtonsdimples    06/04/2014    3 recensioni
"Sentì il cuore pompare a ritmo della musica appartenente alla sua playlist preferita e, per quelle poche volte che succedeva, si sentì più vivo che morto."
Genere: Fluff, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Vic Fuentes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo uno.
 
    Pensava di essere abituato a quel tipo di mal di testa, al fastidio delle tempie e alla bocca dello stomaco che brontolava, facendolo tremare, come nei primi anni. Si diede del bambino, pensando a come il sodo allenamento fosse stato sprecato. Pensò alle parole di sua madre, dandole ragione: un ventunenne dovrebbe essere ottimista e spensierato, privo di complicazioni o timori assurdi. Dovrebbe tornare a casa alle due di notte il sabato, dopo una sbronza. A volte si ubriacava, ammise, ma per futili motivi (delle volte inesistenti) e soprattutto in compagnia del suo fedele fratellino che lo seguiva in tutte le sue sventure.
    Non c’era vento, i capelli ondeggiavano naturalmente, rivolti verso il terreno. Da sempre pensava a quanto fosse scomoda quella posizione, ma si arrampicava sopra quell’albero fin da quando era bambino. Abbandonava i pensieri, come se potessero scivolare dalle punte di quei rovi mossi e castani. La signora Manson era morta, i suoi ottant’anni passati a rimproverare lui e Mike per le mele rubate, per poi regalargliene alcune da portare alla madre con un sorriso ironico in volto. Gli venne da piangere, ricordando il giorno in cui la vide bianca e fredda su una bara scura, avvolta da tessuti candidi e morti con lei; il grembiule rosso e l’odore di dolci nelle mani. Le gambe cominciavano a far male, pensò a quando non sarebbe più riuscito a salire per via dell’essere troppo “grande” e quindi ingombrante. Si convinse che non sarebbe mai accaduto, ridendo. Sostava con le mani penzolanti nel vuoto, insieme ai suoi capelli. La testa all’ingiù, dondolandosi con il busto, le gambe circondavano un ramo evitandogli la caduta. Fu un’impresa arrampicarsi le prime volte, la schiena faceva male e l’interno delle ginocchia sanguinava. Era abituato a salirci d’estate, con i pantaloni corti e i rami più piccoli a graffiargli la pelle. Non era un dolore poi così impossibile da sopportare, dunque di giorno in giorno si faceva forza e saliva, a volte sino in cima, altre divertendosi dondolando nel vuoto mentre Mike lo guardava con preoccupazione, richiamandolo.
    Quella sensazione lo avvolgeva spesso, soprattutto la notte, quando il tempo per pensare era troppo e il silenzio si faceva opprimente. Il buio era sempre stato il suo migliore amico, lo circondava senza lasciargli nemmeno una parte scoperta. Chiudeva gli occhi periodicamente, lasciandosi trasportare dai pensieri, permettendo loro di cadere e smettere di tormentarlo per quel minuto periodo di tempo. Aveva bisogno di momenti in cui tentava di pensare al nulla, fracassandosi le orecchie dal rumore rotto del silenzio, mentre i singhiozzi cercavano di venir fuori e le lacrime bruciavano le guance. Ma erano solo sensazioni. Da quel giorno non pianse più, un po’ per la vergogna ed un po’ per il risentimento, per la malinconia e per l’incazzo che si teneva chiuso dentro, come fosse in un armadio chiuso a chiave. Quella chiave, però, era stata buttata in un pozzo ed il coraggio mancava per andare a recuperarla. Piuttosto, come solo un codardo può fare, aspettava che qualcuno sarebbe andato a prenderla al suo posto, e per un momento si illuse che quel qualcuno esisteva in chissà quale remota parte del pianeta.
    Si decise a scendere solamente dopo aver sentito vari richiami da parte del fratello e di sua madre: era pronta la cena, ed un buco nello stomaco gli fece capire quanta fame aveva. Non seppe con certezza quanto fosse rimasto appeso al ramo dell’albero, ma notò il tramonto nel cielo e si chiese se quella volta non avesse esagerato. Mike lo aspettava con un sorriso in volto, una cuffia nell’orecchio e l’altra lungo il petto. « Allora, che si mangia? » chiese il maggiore, ricambiando il sorriso e cercando di tenere a bada quei mostri che si diradavano nella sua mente. Nonostante tutto si sentiva apposto, circondato da quelle mura che per lui non odoravano di nulla mentre per gli ospiti di pulito e lavanda. Abitudine, pensò. Gli sarebbe piaciuto sentire un profumo nuovo, accogliente, appena attraversata la soglia di casa. Aveva, però, il sorriso di sua madre, che gli bastava. Si sedette al tavolo, incosciente di cosa avrebbe mangiato, lasciando che il suo stomaco mugugnasse qualcosa e che l’acquolina gli salisse in gola, per una volta.

 
**

Il cigolio delle ruote le rimbombava nelle orecchie e si chiese a quanto risalissero quei carrelli, ridendo. Osservava le persone cercare tra le varie liste i prodotti da trovare, i prezzi bassi ed il buon sapore o uso. Era divertente guardare i bambini ammirare grandiosi giocattoli, supplicare le proprie madri ed uscire, in alcuni casi, vittoriosi all’esterno, con il proprio bottino tra le braccia. Lei non ebbe mai avuto un suo tesoro, che poteva essere un orso di peluche a grandezza naturale o una chitarra giocattolo. L’unica cosa che portava sempre con sé riguardante la sua infanzia era una macchinina verde con due saette rosse ai lati, appartenente a suo padre. La vide per la prima volta all’età di cinque anni ed in quel momento si stupì, pensando che anche suo padre avesse passato un’infanzia.
    Mentre caricava nel carrello quasi del tutto traballante due flaconi di ammorbidente alla lavanda si chiese come fosse stato suo padre da bambino, con un sorriso dolce in volto e una spensieratezza innaturale, una voce tenera, le lentiggini ben evidenti e gli occhi color cielo curiosi di colorare il mondo. Pensò a quanto fosse impossibile, scosse la testa e si lasciò infastidire dal rumore delle ruote che presero a scricchiolare.
    Entrò nella corsia dei dolci, torturandosi le unghie nel sentire la salivazione aumentare, chiedendosi se fosse quella la famosa “acquolina in bocca”, che mai aveva provato. Sorrise vedendo un bambino arrampicarsi per raggiungere un pacco di biscotti al cioccolato. Nel vederlo così interessato le si scaldò il cuore, e si ritrovò a dare tra le mani la confezione di dolci al piccolo. « Grazie » una donna dagli occhi verdi identici a quelli del bimbo le sorrise, mostrando una dentatura perfetta. Capì immediatamente chi fosse, ricambiando il sorriso e salutando il bambino, che però la guardò sgranando gli occhi. Indicò le sue mani, non mosse le labbra, tremò e si nascose dietro le gambe della madre. « Alex, si puo’ sapere cosa fai? Ringrazia, avanti » disse poi, cercando di far avanzare il figlio. Marie non seppe cose dire, guardava il viso del piccolo, incerta su cosa fare. Si abbassò, piegando le ginocchia e puntellandosi sui piedi, allungando la mano cercando di toccare quella di Alex. « Mamma » urlò lui, nascondendo completamente il viso nel giubbotto della donna, che lo guardava spaventata. « Mamma, guardala! È morta, è morta! È un fantasma, è così pallida! » continuò poi, alzando sempre più la voce, indicandola e indietreggiando un po’ di più. Marie sentì un forte dolore alla testa ed il battito cardiaco aumentare sempre più. Si rizzò in piedi, le lacrime che minacciavano di sgorgare come fiumi e la delusione nel cuore, che pesava come un macigno.
    Capitava spesso che qualcuno la guardasse come una persona diversa per via della sua carnagione troppo bianca, ma mai un bambino. Dava molta importanza al loro pensiero, poiché a suo parere i bambini dicono sempre la verità, anche se non vogliono. Sentirsi dire quelle parole dal piccolo le lasciò un vuoto dentro, mentre spingeva il carello nella coda dinanzi alla cassa. Sentì il magone alla gola alleviarsi ed il dolore agli occhi diminuire, per poi pagare e dirigersi verso la macchina di sua madre, che l’aspettava nel parcheggio. Sospirò, salendo nel veicolo e cercando di pensare al nulla. Prese a contare la serie dei bracciali che aveva nei polsi, gesto che faceva quando troppi pensieri le invadevano la mente.
    Arrivata a casa si precipitò nella sua camera, fiondandosi nel letto e nascondendo la testa sotto al cuscino. Avrebbe voluto dormire, ma il suo cervello decise di lavorare proprio in quel momento, tenendola sveglia. Indossava ancora i jeans e la sua felpa grigia, avrebbe dovuto mettersi il pigiama ma a quell’ora la stanchezza s’impossessava del suo corpo senza alcuna pietà. Sentì le urla di sua madre chiamarla, probabilmente era pronta la cena o aveva combinato qualche altro pasticcio. « Devi andare a prendere Jason, è a casa di Rose a fare i compiti » sua madre le lanciò le chiavi di casa tra le mani, facendola spaventare. « È a due isolati da qui » sussurrò Marie, con un lamento. « E quindi? Se vuoi mangiare devo preparare qualcosa, tuo padre sta lavorando e tu sei l’unica libera in questo momento. Per favore » concluse poi, tenendo le buste tra le mani e guardandola come sempre faceva. La ragazza sentì il sangue ribollire, il nervoso crescere e lo sguardo di sua madre puntarsi nei suoi occhi. Non disse nulla, uscendo di casa e sbattendo la porta alle sue spalle.
    Quella sera, stranamente, non soffiava il vento, e Marie dovette aumentare il passo per raggiungere casa di Rose prima delle nove, poiché altrimenti si sarebbe fatto troppo tardi. Si maledisse per aver dimenticato le cuffie nella scrivania, sole. Le sarebbero servite in quel momento, poiché senti la voce arrivare nella trachea, incastrarsi nei denti sino a farli sanguinare e poi uscire fuori con un grido che avrebbe fatto spaventare, probabilmente, tutta San Diego. Le macchine andavano veloci e l’odore dello smog la fece tossire. Volle arrivare a casa il prima possibile. Svoltò l’angolo verso la casa dell’amica – o ragazza, non ne aveva idea - del suo fratellino, per poi vedere Jason seduto sul marciapiede con la cartella in mano e dei fogli sparsi sul pavimento. Corse da lui, notando anche i colori e l’astuccio ovunque. « Jason! » lo chiamò senza preavviso, facendolo spaventare: era concentrato. « Aspetta un momento, Marianne » le rispose alzando l’indice e prendendo un pastello verde, per poi terminare uno dei tanti disegni lì presenti. La maggiore si sedette al suo fianco, raccogliendo più fogli possibili e sfogliandoli, chiedendosi come riuscisse a rappresentare quei paesaggi o quelle persone.
   Notò sé stessa nel foglio che suo fratello teneva in mano: i capelli verde scuro scarmigliati ed un sorriso largo in volto, gli occhi azzurri e la pelle non colorata. « Tu sei molto bianca, Marianne. Sembri colorata con un gessetto che si usano nelle lavagne, e non mi è mai capitato di non dover colorare la pelle di una persona, nei miei disegni. Sei particolare. Non è una bella cosa, esserlo? » le chiese, guardandola negli occhi. Lo abbracciò, impulsivamente, senza alcuna spiegazione. Non era mai stata brava con le parole e lui questo lo sapeva, nonostante lo avesse sempre trattato come un bambino piccolo. Aveva quattordici anni, i capelli ricci, mille idee per la testa e una maturità troppo grande per le sue deboli spalle. Gli prese il viso fra le mani, gli diede un bacio nella fronte e, dopo aver raccolto e messo nello zaino tutti i disegni, insieme si incamminarono verso casa. « Hai quattordici anni, Jay. Che diavolo ci fai in mezzo alla strada a disegnare? » gli chiese, ridendo. « Tu scappi sempre di casa con le cuffie nelle orecchie e la custodia della chitarra. So che vai a suonare e non in una casa. Perché io non potrei fare la stessa cosa? » Marie, sentendo quella risposta, pensò a quanto suo fratello potesse essere così simile a lei. Lo guardò nuovamente, perdendosi nei suoi occhi e gli sorrise teneramente. « Smettila di guardarmi così, mi metti in imbarazzo » le diede una spinta, facendola ridere. « Sei uno stupido. Ti voglio bene » « Anch’io, e tu sei la maggiore, quindi sei più stupida »
    Continuarono a conversare in quel modo, prendendosi in giro e spintonandosi, circondando l’aria delle loro risate e dei pochi momenti in cui potevano stare insieme. Imboccarono il vialetto di casa facendo morire i propri sorrisi, guardandosi negli occhi e lasciando cadere la felicità del momento. « E rieccoci all’inferno » sospirarono all’unisono.
 
 
 
Spazio autrice:
eccomi qui, con il secondo capitolo. Premetto dicendo che, molto probabilmente, questo non sarà il titolo ufficiale di questa fan fiction. Mi sembra piuttosto deludente e scontato, per cui è quasi sicuro che nel corso dei capitoli verrà cambiato.
Credo sia arrivato il momento di parlare del capitolo. Devo dire che non mi soddisfa come il precedente ma spero vi piaccia ugualmente. Se nel prologo abbiamo avuto una scena particolare, dove il punto di vista di Vic faceva da padrone, in questo scritto possiamo notare che la vita del nostro protagonista viene messa un po' da parte e viene messo in risalto, invece, il punto di vista di Marianne. Non voglio svelare nulla su di lei, credo sia scontato e che chiunque legga non sia stupido, per cui avrete sicuramente capito a cosa mi sto riferendo con queste righe.
Spero, comunque, che non diate tutto per scontato poichè potreste avere varie sorprese. Sono ancora indecisa su come sviluppare questa storia ma spero di farlo nel migliore dei modi.
La parte in cui Marie incontra il bambino al supermercato mi ha toccata profondamente, poichè ho passato una situazione simile avendo la pelle molto bianca come la sua. Mi sono immersa in entrambi i personaggi e spero di ricavarne qualcosa di utile.
Aspetto delle recensioni, ribadisco di accettare critiche poichè mi aiuteranno a crescere e migliorare. Non mi pare ci siano errori, ma nel caso me ne sia scappato qualcuno perdonatemi ma non ho fatto caso.
Nel caso aveste voglia di contattarmi il mio nick di Twitter è
@themaysflower.
Un bacio, a presto.
ashtonsdimples
  
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