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Autore: OrenjiAka    07/04/2014    2 recensioni
La Londra del diciottesimo secolo è divisa in due parti: la piccola e protetta fazione dei ricchi e la marea irrimediabilmente grande dei poveri, criminali, ladri, assassini.
Zoro è uno spadaccino. Da quando è arrivato in Inghilterra, però, per avere i soldi appena sufficienti a mangiare deve lavorare o rubare. E nemmeno il suo impiego nel Galop riuscirà a proteggerlo dall'onda impetuosa della criminalità londinese.
Qualcosa nel dietro le quinte scuote le acque, e da lì che questa storia comincia.
Dalle prime righe: [Tre sono i punti fondamentali per iniziare questa storia.
Punto primo: i discorsi, se riguardano la politica, sono sempre troppo lunghi.
Come quello che l’uomo in frak dall’aspetto fantomatico stava leggendo, eppure tutta quella folla era rimasta ad ascoltarlo per una buona mezz’ora.
Ci si stupiva sempre di come le persone fossero attratte dalle esecuzioni pubbliche.]
Genere: Avventura, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Eichiiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Capitolo 6, Incontri sul Tamigi
Una foglia, troppo secca per rimanere attaccata all’albero, si lasciò cadere.
Il bambino distolse lo sguardo dalla sua lettura per osservarla.
Si era concessa un valzer con il vento come compagno di ballo e lo scorrere del Tamigi come musica.
Alla fine di quella danza decise di sdraiarsi su un’onda.
Un braccio magro emerse dal pelo dell’acqua, affondò portando la foglia con sé. Trafalgar chiuse il suo libro e si avvicinò alla riva. Qualcuno si trovava nel fiume, stava annegando.
Il bambino gettò il cappello maculato sul prato e si tuffò nel freddo abbraccio del Tamigi.

Dall’acqua si sollevarono nuvole di vapore, le foglie di tè nuotavano verso il fondo del tegamino. Trafalgar sbatté le palpebre più volte per strapparsi dai ricordi dell’infanzia. Un “maledizione” scappò dalle labbra senza che se ne accorgesse, la pacca sulla sua spalla destra lo rilassò.
«Da un po’ di tempo “maledizione” è diventata la tua parola preferita, eh?», Penguin sapeva scherzare ogni volta che vedeva qualcosa di più serio.
Il braccio di Shachi era stato risucchiato da un cassetto della cucina, alla ricerca di un colino perduto: «Nah! È solo stravolto, come sempre».
I due avevano bussato alla porta di casa Trafalgar elemosinando una colazione, noncuranti dell’orologio che gridava con la sua lancetta più corta come fosse l’orario meno opportuno.
Trafalgar si era chiesto se la visita di Doflamingo e Vergo non avesse avuto una parte in quella storia.
Penguin si versò da bere in una tazza: «Come sempre, in effetti. Solo che adesso Law soffre anche di amnesie...».
Il dottore circondò la sua tazza con le mani e una vampata di calore colpì le dita congelate: «Amnesie?».
«Ma come? Non ricordi?».
Shachi scoppiò in una risata, sputacchiando qui e là gocce ambrate di tè. Trafalgar tese le labbra come un ago: «Molto divertente».
Un’espressione seria continuava a regnare sul volto di Penguin: «Sai che è successo ieri notte?».
Il moro socchiuse gli occhi mentre l’odore del tè inebriava l’olfatto.
Nascoste sotto le garze, le ferite sulle braccia stavano ancora bruciando. Aveva avuto una rissa con Kidd la sera prima, dopotutto. Ne valeva la pena: avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vederlo ancora sbraitare sulle spalle di Killer mentre se ne andavano via. Non si era potuto godere la scena, erano arrivati quelli di Scotland Yard. Era riuscito a seminarli e per le prime luci del mattino era già a casa sua. Aveva trovato degli ospiti così gradevoli che quando se ne erano andati aveva tirato un sospiro di sollievo. Poi Penguin e Shachi erano arrivati lì. La porta era stata sfondata, a essere precisi. Si erano scusati e avevano promesso di ripararla. Fine riepilogo.
Trafalgar alzò lo sguardo e trovò quello di Penguin su di lui: «Non so di cosa tu stia parlando».
L’altro allontanò la tazza dalle labbra corrugate: «Ieri sera tu ed io eravamo dalle parti di St James’s Park, cercando un posto dove mangiare. Abbiamo sentito la voce d’usignolo di Eustass Kidd che malediva chissà quale poveretto. Mi hai chiesto di aspettare, questione di minuti. Invece mi hai piantato lì. Memoria rinfrescata?».
La tazza tra le mani di Trafalgar rischiò di scivolare a terra.
«Fregato!», la risata di Shachi fermò il costante innalzamento di temperatura nella stanza.
Il rumore dei respiri dominò la scena. A rompere l’atmosfera di marmo fu Penguin. Schioccò la lingua: «Alla fine com’è andata?».
Trafalgar massaggiò le meningi, mentre la testa fluttuava ancora su punti vaghi della giornata precedente: «Parli della rissa?».
«Già».
«Abbastanza bene. Ho trovato un pianoforte su un tetto e ho pensato di buttarlo di testa a Eustass-ya. L’ho mancato».
Shachi inghiottì un biscotto intero e pensò di soffocarsi: «Che?».
«Non ho idea di come sia finito lì, io ho solo colto l’occasione», fece le spallucce. Poi ebbe paura di essere stato lui a portare il pianoforte su quel tetto.
Penguin consumò le ultime gocce della bevanda calda: «Ci sono serate in cui ci si diverte con gli amici e serate in cui piovono pianoforti sui tuoi nemici. Tutto è possibile a Londra».
«Come lo scheletro parlante del Circus Galop: quello è strano forte», Shachi si alzò e portò le tazze vuote in una bacinella d’acqua.
Trafalgar scosse la testa: «Scheletro parlante?».
«I manifesti sono sparsi per mezza Londra, solo per arrivare qua ne abbiamo visti parecchi». Penguin appoggiò la schiena alla parete: «Questo, però, non lo rende uno scheletro vivente a tutti gli effetti».
Il chirurgo rimase in silenzio.
Shachi gli scrollò la spalla: «Law, non ci crederai sul serio?».
«Non sono superstizioso, ma di tanto in tanto è sano mettere un punto interrogativo davanti a quello che si dava per scontato da tempo».
Penguin scivolò verso la finestra: «Che intendi dire?».
Un sorriso si aprì sulle labbra del moro: «Stasera si va al circo, ragazzi!».
E sperò di non dimenticarsene, almeno per quella volta.

 
~~~

«Ce l’hai con Zoro?».
«No».
«Sanji ti ha dato fastidio?».
«No».
«Ho trovato: stai male per il prelievo di sangue».
Nami sospirò: «Usop, davvero, sto bene». “Ma se continui così avrò un ottimo motivo per prendere a pugni in faccia qualcuno. Ottimo, davvero”.
Da quando Usop era tornato da lei con un cartone di Fish and Chips stracolmo di patatine, aveva avuto la sensazione che il buon umore di Nami avesse tirato fuori le valige e stesse ancora agitando un fazzoletto bianco da un treno che partiva per terre lontane. Al suo posto si era piazzata un’aria pensierosa e malinconica, che aveva chiuso le tendine polverose della comunicazione e che non ne voleva sapere di sgomberare.
Il ragazzo infilò in bocca una patatina, ghignò: «Credo di aver capito qual è il problema».
La rossa inciampò sui suoi stessi passi: «Che?».
«Tu in realtà... sei a dieta!», le puntò del pesce fritto contro. «Sei combattuta da una guerra interiore tra bene e male: tra mantenere la linea e mangiare le mie patatine! ».
Del silenzio fu tutto ciò che proseguì tra i due, a dominare la scena era rimasto solo l’anonimo fruscio delle onde del Tamigi.
Usop rimise il pesce nel cartone: «Dai, sto scherzando! Lo so che non può essere colpa delle patatine. Se ti vanno puoi servirti, eh!».
Nami alzò le spalle e assaggiò le fritture, anche se il suo stomaco era chiuso. Era passata quasi un’intera giornata e ancora non era tornata da Arlong, né stava lavorando per lui. Sentì un enorme macigno crescere sulla sua schiena e temeva di rimanere schiacciata.
Lo scorrere del fiume le entrò in testa e sentì la gola secca. «Ho sete».
Usop sorrise: «Il tuo tempismo è perfetto! Siamo vicino al locale di un’amica di vecchia data».
Il duo arrestò i loro passi di fronte a un’enorme insegna. Inciso nel legno, vi erano le parole “Rip Off Bar”.
Nami aggrottò la fronte: «Tu lo sai che dicono dei locali del Southwark, vero? E di tutto il resto del Southwark?».
«Che è il posto migliore dove piazzare un teatro?».
La rossa lo guardò stranita.
«Shakespeare, il Globe... ah, ignoranti!», la prese per il polso e la trascinò con sé.

Non sapevano ancora quanto se ne sarebbero pentiti.

~~~


Kidd picchiò il fondo del boccale contro il bancone. Espirò. Continuando di quel passo si sarebbe ubriacato. In pieno giorno. In un locale nel vespaio criminale di Londra. Se ne fregò e tornò a bere.
Killer leggeva il Daily Journal, una copia buttata da un tipo in frak dal caratteristico naso rosso. Non gli importava chi fosse né della sua fisionomia, ma di un giornale se ne facevano troppe cose per gettarlo.
La proprietaria del posto se ne stava nascosta dietro il bancone, sembrava non curarsi del vecchio addormentato in un angolo. Oltre a questi quattro personaggi, il locale era vuoto.
«Cos’ha quello che non va?», urlò Kidd. Le gote erano rosse, gli occhi lucidi.
Killer gli lanciò un’occhiata e due parole balzarono nella sua mente: “Ubriaco fradicio”. «Chi?», chiese.
«Mia nonna. Di chi vuoi che parli? Trafalgar!», indicò una fasciatura a caso sul suo corpo. «Mi fa imbestialire: si mette in mezzo nei momenti più scomodi e non si leva di torno finché non arrivano i piedipiatti, e per allora sono cazzi amari per tutti. Sembra che mi stia col fiato sul collo!».
«Ti è mai venuto in mente che a furia di derubare ogni notte, qualcuno ci sarebbe stato alle costole? Uno scagnozzo di Doflamingo, per esempio».
Kidd immerse la mano tra i capelli rossi mugugnando qualcosa d’incomprensibile.
Killer abbassò il giornale e guardò il suo amico: «Allora?».
L’altro non rispose, alzò la testa in alto come se un’intuizione l’avesse travolto, poi la riabbassò come se si fosse deluso da solo. Fissò Killer negli occhi: «Un altro giro di birra».
~~~


Il cielo di Londra era inspiegabilmente diventato azzurro. Non un velo di fumo, solo qualche nuvola bianca dipinta qua e là abbracciava il quartiere della City.
Trafalgar alzò il colletto del suo cappotto nero: «Voi due, vedete di comprare biglietti per tutto il gruppo».
Penguin e Shachi si passarono una mazzetta di soldi: «Sicuro di volere spendere così tanto?».
«Lavorare per Doflamingo ha i suoi privilegi. Ci rivediamo stasera davanti alla Southwark Cathedral». La cattedrale era dall’altra parte del London Bridge, divisa da loro dal fiume.
Penguin infilò la mazzetta nella tasca del giaccone, inarcò le sopracciglia: «Non possiamo fare da un’altra parte? Insomma, lo sai che si dice del Southwark?».
Il moro raddrizzò il cappello maculato sulla testa: «Sono solo voci, e saremo davanti a una cattedrale. Quale criminale vorrebbe mettersi contro l’ira divina?».
«Eustass Kidd?».
«Grazie, Shachi».
«Quando vuoi, tesoro», e sentì un tuono. Capì che si trattava del suo stomaco: «Mezzogiorno. La tentazione di comprarsi da mangiare con tutti questi bei soldini è tanta, sai?».
«Potrei offrirvi il pranzo».
Shachi credeva di aver sentito male. Quando vide l’espressione stupita si Penguin, si rese conto che qualcosa di strano doveva essere stato detto per forza. Era sul punto di chiedergli se faceva sul serio, ma la paura di una risposta negativa uccise le parole ancora in gola. «È ufficiale: il tè gli è andato alla testa. Dove si va di bello?».
Trafalgar si voltò: «In un locale del Southwark. Tanto per farvi passare quest’idea del quartiere criminale».
«Credo di essere sazio». Penguin puntò verso una meta più sicura, possibilmente immersa nella City of London. Sentì una presa salda alla collottola e seppe per certo che la sua condanna a morte era già stata firmata.
Tra uno strattone e una lamentela, Penguin notò come Trafalgar quel giorno fosse diventato particolarmente generoso.
Si chiese se il circo, il pranzo e tutte quelle cose che avrebbero fatto non fossero nient’altro che un’informale richiesta di scuse per la sera prima.

~~~

Quella del criminale era esattamente il genere di carriera che Smoker avrebbe potuto intraprendere.
Abbastanza forte da non farsi mettere i piedi in testa, aveva la mente di uno stratega.
Nessuno era riuscito a capire come fosse stato risucchiato dal giro di quella dozzina di persone.
Erano i pochi a non vedere la giustizia come un ideale.
Organizzavano pattuglie, catturavano ricercati e li consegnavano alle prigioni.
L’ingresso della loro sede era il numero quattro di Whitehall Place,
 qualche londinese con un forte senso dell’umorismo aveva deciso di chiamarli
col nome della stradina secondaria sulla quale si affacciava l’edificio.
Era la Great Scotland Yard.

 
Il chiasso riempiva ogni angolo della stanza. Sengoku aggrottò la fronte, afferrò la sua copia maltrattata dell’Utopia di More e la batté ripetutamente sul tavolo: «Ordine!».
I presenti si ammutolirono uno alla volta. Alcuni erano sugli sgabelli ammassati alla scrivania, i meno fortunati stavano in piedi in fondo alla stanza o attaccati a una parete.
Sengoku abbandonò il volume: «Dichiaro aperta la quarantanovesima assemblea degli uomini di Scotland Yard».
Una mano con le nocche coperte di metallo si sollevò dall’impasto di persone. Fullbody ottenne la parola, indicò una figura accanto a sé: «Che ci fa questa qui?».
Tashigi guardò a destra e a sinistra, poi si indicò: «Chi? Io?».
«Sì, proprio tu».
La ragazza sbatté le palpebre: «Che intendi dire?».
«Sei una donna».
«E allora?».
Smoker passò una mano sugli occhi: «Ci risiamo...».
Fullbody gonfiò il petto come un gallo durante la stagione degli accoppiamenti. «Qui siamo tutti uomini. Hai presente? Quel genere di persone abbastanza forti e capaci per fare questo lavoro: un lavoro da uomini».
«Sono in grado di catturare qualsiasi criminale», Tashigi posò la mano sull’elsa della katana.
L’uomo inarcò il sopracciglio: «Se pensi che essere Yard significhi solo questo perché non ti unisci ai Bow Street Runners?».
«Ordine!», altre violenze furono subite dal libro la cui funzione era stata scambiata per quella di un martello. «Signorina, l’assemblea è riservata ai membri di Scotland Yard, lei non può restare qui».
Tashigi sentì prurito alle mani, che si trasformò in calore ardente. Il caldo salì fino ai gomiti e arrivò al viso.
Sengoku allargò il colletto della camicia: «L’argomento del giorno è una banda di ladri che si apposta ai moli londinesi. Il loro capo si fa chiamare Creek o Don Krieg».
Tashigi fece in tempo a uscire prima che notassero gli occhi lucidi.
«Se c’è qualcuno che ha altri argomenti da discutere, lo faccia sapere adesso», concluse.
Momonga schiarì la voce: «Avrei qualcosa da dire. Garp, è per i tuoi nipoti».
Furono soppresse delle risate in punti indefiniti della stanza. Una figura emerse dalla penombra: «Cosa hanno combinato stavolta?».
«Mentre ero di pattuglia ieri notte, un uomo è stato derubato in casa sua».
«Sai che novità!»
«Hanno preso un pianoforte. E stamane Bastille ne ha trovato uno sfracellato qui nella Whitehall. La forza dei tuoi ragazzi la conosciamo tutti. Potrei chiudere un occhio, ma cerca di mettergli la testa a posto!».
Smoker fece un cenno con la mano: «Tranquilli, Tashigi ed io li abbiamo portati a Impel Down di persona. Non combineranno guai per un po’».
Una testa rosa emerse tra le altre: «Quasi dimenticavo! Il vicedirettore Hannyabal ha fatto uscire Ace e Rufy perché molestavano le guardie. Pare che cantassero una canzone sulle terre del sud... il resto non mi è ben chiaro».
La cenere scivolò dal sigaro, cadde sulla scarpa di Smoker lasciando un alone grigio: «La prossima volta giuro che li lascio al Marshalsea».
«Sarebbe l’ora», Vergo appoggiò la schiena alla parete. «Hai il cuore troppo tenero con loro».
«Non dovrei stupirmi se l’argomento principale rimane quello della famiglia Monkey D. da quarantanove assemblee», Sengoku scosse la testa. «C’è qualche altra questione di cui volete discutere?».
Nessuno fiatò.
«Molto bene. Argomento del giorno: Creek. La sua banda è composta da circa cinquanta uomini, attaccano le navi approdate ai moli londinesi mentre fanno la fila. Pare che con i metalli racimolati dal Nuovo Mondo sia riuscito a creare una nuova lega. L’ha chiamata “Wootz” e ne ha fatto un’armatura che porta sotto i vestiti, si pensa che le armi da fuoco possano rivelarsi inutili...».
Un tonfo interruppe il discorso dello Yard. Davanti all’ingresso c’era il corpo di un uomo dai capelli lunghi e neri, indossava due orecchini di perla.
Tashigi asciugò la fronte col dorso della mano: «Perdonate l’interruzione, prima di uscire ho sentito che eravate alla ricerca di Creek. Questo qui dice di essere il suo sottufficiale, si fa chiamare Pearl. Interrogatelo, trovate il punto debole di Creek e catturatelo. Semplice, no?».

Tashigi camminava seguendo il tragitto del Tamigi. Il sole sulla pelle la riscaldò: sembrava l’unico sorriderle. La sorte era molto più sarcastica. «Non riesco a capire perché mi abbiano cacciato via».
«Questione di orgoglio maschile», Smoker si passò la mano tra i capelli. «Stavamo parlando di un pericoloso criminale da affrontare quando la soluzione più pacifica ha fatto un capitombolo sull’uscio della porta. Niente pericoli, né azione. Per non parlare della figura di Fullbody, non sarebbero resistiti un minuto di più».
«Perché hanno cacciato anche lei, signor Smoker?».
«Sanno che tu sei la mia fedele compagna: combini un guaio tu, ci vado di mezzo io».
Tashigi d’un tratto sentì la sua indipendenza rotta da una catena che la legava al primo uomo più vicino. Il calore si rimpossessò di lei, riuscì a ricacciarlo indietro: «Pensavo di chiederglielo, a Sengoku».
Lo Yard affondò le mani nelle tasche: «Di voler diventare un membro di Scotland Yard?».
Lei annuì.
«Non accetterà mai».
La ragazza accarezzò la fodera della katana: «Dovrà darmi una spiegazione. Una valida, e non il solito “sei una donna”. Ho dimostrato troppe volte che sono in grado di assumermi questa responsabilità. Adesso è il loro turno», si voltò verso Smoker. «Lei che ne pensa?».
La studiò per qualche secondo: «Conta su di me».
E Tashigi sorrise.
~~~

«Kidd, sei vivo?» Killer gli punzecchiò la spalla con il Daily Journal arrotolato.
Il rosso alzò la testa: «Eh? Cosa... cosa c’è?».
«Ti eri addormentato. O sei svenuto, non è molto chiaro».
«Ah, bene!» socchiuse gli occhi e si ributtò sul tavolo.
Killer sospirò: «Sai cosa ho trovato nel giornale di quel tizio in frak? Un sacco di segni. Sottolineature, parole cerchiate... cose che di solito le persone non fanno sui giornali, no?».
«Che ti frega? Sei analfabeta».
Killer mise da parte Daily Journal: «Un giorno mi spiegherai perché tu hai avuto la fortuna di genitori che ti abbiano insegnato a leggere e io no».
Il rosso svuotò l’ultimo boccale di birra: «Non esageriamo, i miei genitori con le lettere erano messi peggio di te ed io non devo loro nulla».
«Allora chi...».
«Tredici».
Si voltarono. La proprietaria del posto se ne stava a braccia conserte, indossava l’espressione meno rassicurante del suo repertorio.
Kidd si appoggiò allo schienale della sedia: «Vuoi farci il malocchio, donna? O forse dovrei dire strega?».
«Parla quello con i capelli rossi», spostò una ciocca corvina dietro l’orecchio. «Tredici è il numero delle birre che hai bevuto. Più un bicchiere di latte. Questo è il conto». Lasciò un foglio sul tavolo, il numero in fondo alla pagina era particolarmente lungo.
Il rosso gli diede un’occhiata veloce. Si alzò, indossò la sua pelliccia, camminò verso l’uscita: «Paga il mio amico».
Killer era perso tra lo sguardo austero della signora e il foglio di carta.
A metà strada Kidd si voltò: «Te lo dico prima: non ce l’hai tutti quei soldi».
La donna mise le mani sui fianchi: «Cosa intendeva il tizio che si fa passare per tuo amico?».
«Emh», Killer si schiarì la gola. «Non sono uno che di solito fa il portoghese e ho il massimo rispetto per le locandiere di questo paese...».
Kidd frenò la sua passeggiata barcollante: «Pessimo inizio!».
Riprese: «Quello che intendo dire è che non ho nulla contro di lei. Solo, mi chiedo, non sarà che il listino prezzi è troppo alto?».
Sotto la frangetta nera sbucò un’occhiata gelida come l’inverno.
«Ah, Killer! C’è una cosa che non ti ho detto», Kidd fece un passo indietro e si appoggiò a una sedia lì accanto. «Questo locale è vuoto».
«Fin qui c’ero arrivato anch’io», vide che la donna stava rimboccando le maniche. Sentì un piccolo Scotland Yard dentro la sua testa dirgli che era nei guai.
Rubicondo, Kidd sorrise: «Sì, certo. È vuoto. Non perché è giorno, è sempre vuoto. Nessuno si azzarda a entrare, sono tutti troppo spaventati. Ah, dovrei fare le presentazioni! Killer, ti presento Shakuyaku. Hai presente quel periodo di cui non si parlava d’altro di un assassino spietato che veniva dalla Cina? Eccola qui».
La locandiera schioccò le nocche: «Io vengo dal Giappone, e sono un’ex pirata».
«Cina, Giappone», il rosso prese la sedia e ci si sdraiò. «Sei sempre spietata, no?».
«Senza dubbio», tirò un pugno. Prese in pieno il casco a strisce.
Killer scattò indietro troppo tardi. Fronte, naso e mento gli bruciavano. «Quello non è un pugno da donna!».
«Sembri essere un esperto», Kidd se la rise.
Shakuyaku tirò un calcio all’altezza dell’addome, Killer lo parò con l’avambraccio: «Kidd, non ho le lame con me! Una mano!».
«Non voglio toglierti tutto il divertimento», il rosso portò la testa all’indietro.
Delle voci s’intromisero nella scena. venivano da fuori: «Tu lo sai che si dice dei locali del Southwark, vero? E di tutto il resto del Southwark?».
«Che è il posto migliore dove piazzare un teatro? Shakespeare, il Globe... ah, ignoranti!».
«Proprio sotto il London Bridge! Ti rendi conto di che significhi?».
«No, cosa significa?».
«Che il peggio del peggio di Londra è qui!».
Un giovane dal naso particolarmente lungo fu il primo a entrare, in mano aveva un cartone di Fish and Chips: «Sciocchezze! Guardati in giro e dimmi cos’è che ti da quest’impressione».
Killer fu spinto a terra, si sollevò sui gomiti: «Ero distratto, diamine!».
Usop osservò incuriosito chi aveva avuto il coraggio di non pagare il conto: «Ciao, Shakky. Vedo che le cose qui non sono cambiate».
Kidd mise da parte la sedia. Il braccio destro si sollevò incerto verso una figura longilinea: «Mi ricordo di te».
Nami sbarrò gli occhi: «Chi? Io?».
«Tu eri con lo scheletro parlante!».
Lei indietreggiò: «Macché! Mi starai scambiando per un’altra».
«Killer!», il rosso alzò la voce. «Questa qui non l’abbiamo già incontrata la scorsa notte?».
Un tavolo fu ribaltato. «Qui sarei un po’ impegnato!», il biondo si lanciò verso la donna e tirò un pugno. Lei si abbassò, con un calcio lo fece inciampare.
«Shakky, non hai più l’età per le risse», il vecchio seduto in un angolo del locale s’interessò alla faccenda.
La donna diede una testata all’avversario e balzò indietro. Le usciva sangue dal naso. Certo, non era lei quella a indossare un casco. «Nemmeno tu sembri nel fiore degli anni».
«Non ho la reputazione di un locale da difendere», Raleigh sistemò gli occhiali sul naso. Si rivolse a Killer: «Giovanotto, non ti vergogni a far del male a una signora?».
«Io dico che la “signora” ha la meglio», borbottò il rosso. Il suo occhio scivolò verso l’uscita. «Ferma, tu!».
Nami vide in frantumi il suo piano di fuga.
«È l’ora di saldare i conti», Kidd portò una mano alla tasca dei pantaloni e tirò fuori una pistola.
La ragazza sentì il sangue gelarsi, indicò l’arma: «Vuoi farmi fuori? Con quella?».
«Detesto sporcarmi le mani con una donna».
«In effetti, uno sparo a bruciapelo è molto più nobile».
«Calma!», Usop si piazzò davanti all’uomo a braccia aperte. «Non è il caso di arrivare a tanto!».
Kidd si chinò in avanti fino a raggiungere la distanza minima tra i loro sguardi. La sua voce si fece profonda: «Togliti di mezzo».
Usop prese un respiro: «Non preferiresti un delizioso cartone di Fish and Chips?». Gli porse un cono oleoso e mezzo vuoto, Kidd gli rivolse un’occhiata più dura. Il moro vide la sua vita corrergli davanti agli occhi e finire miseramente in un locale dove l’unica cosa buona che facevano era il conto. Buono per i proprietari, non per i clienti. Prese Nami per mano: «Addio, è stato bello conoscerti».
La ragazza scosse la testa: «Nella prossima vita ricordati di chiamare il temerario Capitano Usop quando serve».
Kidd caricò la pistola, sollevò la canna finché non raggiunse l’altezza della testa della ragazza: «Tranquillo, nasone. Ci inventeremo qualcosa anche per te».
«Fermati!», l’urlo di un’anima dannata rimbalzò per tutto il Rip Off Bar. Veniva dalla strada.
Nami e Usop aggrottarono la fronte, Kidd abbassò la pistola. Shakuyaku si fermò e Killer ebbe la saggia idea di prendere le distanze dalla donna.
Una voce continuò: «Sentivo giusto la mancanza di un timpano fuori uso, grazie».
«Lasciami subito! Non voglio finire sgozzato da un criminale del Southwark!».
Killer inclinò la testa: «Che problema hanno tutti con questo quartiere?».
Shakky sospirò: «È quello che mi chiedo anch’io da anni».
Le porte si aprirono, tre figure facevano capolino.
«Non ci credo, stiamo entrando sul serio!».
«Penguin, rilassati. Stiamo solo andando a mangiare. Chi pensi di incontrare di pericoloso per pranzo?» Trafalgar si fermò, stropicciò gli occhi. «Penguin, oltre alle amnesie credo di soffrire di qualche allucinazione».
L’altro si liberò dalla presa, poi rispose: «Che cosa intendi con “allucinazione”?».
«Ecco, c’è Eustass-ya che mi punta addosso una pistola. Ha la stessa espressione entusiasta di Vergo quando mi vede arrivare. Credo mi stia per venire qualcosa, perché le teste rosse sono raddoppiate. C’è anche un tipo con un naso sproporzionatamente lungo».
Usop si massaggiò il mento: «Mmh, continua».
«Vedo Killer-ya che in tutta la sua virilità scappa da una donna col caschetto».
«Frenafrenafrenafrenafrena!», Killer si scansò. La sedia andò in frantumi contro la parete.
«L’unica cosa normale è un uomo seduto in quell’angolo. Ah, no. Scherzavo. Ha la stessa faccia di uno dei peggiori criminali che Londra abbia mai conosciuto».
Raleigh li salutò agitando una mano.
Trafalgar si voltò: «Cosa mi dici, Penguin? Sto impazzendo?».
«Guarda che li vedo anch’io».
«Allora sono sano di mente».
«No, Law». Gli cinse il collo col braccio: «Qui siamo matti tutti e due».
Shachi s’inserì tra loro, scrollò le spalle: «Stavolta col tè abbiamo proprio esagerato».
Usop si sfregò le mani. Una piccola lampadina si era accesa nella sua testa a gridargli una soluzione geniale -sebbene lui, a dirla tutta, non avesse idea di cosa fosse una lampadina: «Sì, siamo tutti il frutto della vostra fantasia!».
Penguin lo indicò: «Il tizio col naso lungo dice che sono tutti frutto della nostra fantasia...».
«Sono in modalità “allucinazione si gruppo”, non c’è bisogno che ripeti quello che dico».
Shachi si massaggiò la nuca: «Perché il tuo naso è così lungo?».
«Mi snellisce il viso. Va molto di moda in questo secolo. Ora, che ne direste di fare un passo avanti?».
Il trio si scambiò sguardi poco convinti sul da farsi. Shachi fece un passo incerto, lo seguì Penguin subito dopo.
Kidd strinse i pugni: «Diamoci un taglio con questa pagliacciata. Avete messo i bastoni tra le ruote al sottoscritto durante il suo lavoro e ne pagherete le conseguenze!».
«Sssssst!». Il bugiardo si sfregò le mani: «Così, bene. Ottimo. Ora, se Nami vuole avere l’onore...».
Killer scappava da Shakuyaku. Qualcosa s’impossessò delle sue caviglie, si accorse dello sgambetto della rossa e se la cavò inginocchiandosi. Per Shakuyaku non fu lo stesso: gli finì addosso e nel cadere si aggrappò alla persona più vicina. Kidd avvertì una presa alle spalle, la sorpresa lo fece sobbalzare e diede uno strattone, crollò su Penguin e Shachi. Caddero tutti a terra.
Usop si cimentò verso l’uscita, gridò: «Corri, Nami!».
La rossa fuggì dietro di lui: «Prova ad abbandonarmi di nuovo e giuro che quelle palline da giocoliere di stamane te le infilo giù per la gola!».

Killer aveva bevuto appena un bicchiere di latte, si alzò per primo. «Kidd, sveglia!».
Il rosso, con ancora una vocina strillante in testa che canticchiava Hot Cross Buns, si mise a quattro zampe. «... Killer?».
Sotto di sé trovò due ragazzi più grandi, lo fissavano con un’aria sconvolta.
«Quanto ho bevuto esattamente?».
«Tredici birre!» Shakuyaku riemerse dalla pomata di persone spalmata a terra.
Shachi strisciò sul pavimento e tagliò i centimetri che lo dividevano dalla spalla del compagno: «Psst! Penguin, ci sei?».
«Dove vuoi che sia?».
«Questo quassù è Eustass Captain Kidd, giusto?».
«In carne e ossa».
«Altro che allucinazione di gruppo. Cosa dovremmo fare?».
Penguin si morse il labbro: «Propongo la tecnica “opossum”».
«Sarebbe?».
«Fingiamoci morti e speriamo che se ne vada».
Shachi sbatté le palpebre: «Forse c’è qualcosa che non ti quadra, amico mio».
«Cosa?».
«Io sono un’orca, tu sei un pinguino. Quante speranze abbiamo di usare la tecnica “opossum”?».
«Ottima osservazione», commentò Kidd dall’alto della sua posizione. «Che volete fare adesso?».
«Usiamo il piano “Eustass-ya”, che domande!» esclamò Penguin.
Il rosso scosse la testa: «Aspetta, come mi hai chiamato?».
«Hey, sai chi era qui un minuto fa? Trafalgar Law! E adesso lo vedi più? No? Che peccato, se n’è andato. Chissà, qualcuno di molto veloce potrebbe raggiungerlo», Penguin non aveva ancora finito quando Kidd si era alzato in piedi, tuffato verso l’uscita e iniziato un inseguimento senza precedenti.
Killer sospirò: «Non vi vergognate? Avete venduto il vostro amico».
Shachi fece le spallucce, indicò il compagno: «Gli deve una cena e un pranzo. Se non è un buon motivo questo!».





Note:
Non sono superstizioso, ma di tanto in tanto è sano mettere un punto interrogativo davanti a quello che si dava per scontato da tempo”.
Questa frase di Trafalgar è inspirata ad un aforisma del filosofo gallese Russel: “In ogni cosa è salutare, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato”.

Tu lo sai che dicono dei locali del Southwark, vero? E di tutto il resto del Southwark?”.
Non è che il Southwark sia un’area così pericolosa al giorno d’oggi. All’epoca, però, il London Bridge (che collega la City of London e il Southwark) era pieno di criminali, e i locali di quelle parti non avevano reputazione migliore. Non bastavano per scoraggiarli nemmeno i numerosi carceri, tra i quali spiccava il Marshalsea.

Che è il posto migliore dove piazzare un teatro? Shakespeare, il Globe... ah, ignoranti!”.
Usop fa riferimento al Globe, il teatro dove Shakespeare e la sua compagnia recitarono all’epoca di Elisabetta I. Fu costruito e ricostruito nel 1599, nel 1614 e nel 1999.

Killer leggeva il Daily Journal, una copia buttata da un tipo in frak dal caratteristico naso rosso”.
Il Daily Journal è un quotidiano inglese dell’1700, e non era nemmeno l’unico. L’Inghilterra fu uno dei primi paesi a dare importanza alla stampa e alla diffusione di notizie quotidiane.
Per quanto riguarda il tipo in frak, si tratta di Buggy.

L’ingresso della loro sede era il numero quattro di Whitehall Place, qualche londinese con un forte senso dell’umorismo aveva deciso di chiamarli col nome della stradina secondaria sulla quale si affacciava l’edificio. Era la Great Scotland Yard”.
L’origine del nome degli Yard viene davvero dalla strada su cui si trovava la loro sede, così come per i Bow Street Runners. Quando ancora l’Inghilterra non aveva fondato il primo corpo di polizia al mondo (tenetevi forte: non era quello di Scotland Yard), vigeva il Codice Winchester. Secondo questo, dai sedici ai sessanta anni era possibile avere e usare una pistola per la difesa della propria persona. Di tanto in tanto i Thief-taker facevano la loro parte, ma i criminali continuavano a creare problemi. Ronde volontarie di uomini organizzati aveva dato il via al primo prototipo di polizia. Gli Yard erano tra questi.

Signorina, l’assemblea è riservata ai membri di Scotland Yard, lei non può restare qui”.
Suppongo sia superficiale farlo notare, ma alle donne non sarebbe stato permesso neanche dopo l’ufficializzazione di Scotland Yard a entrare in un corpo di polizia.

La prossima volta giuro che li lascio al Marshalsea”.
Era una delle prigioni più crudeli. Charles Dickens ne fa riferimento in uno dei suoi libri, lì era stato rinchiuso suo padre. Voci dicono che i prigionieri venivano torturati dai carcerieri, di fatto si sa solo che molti morivano di fame. I bollettini di morte finivano ritoccati. Oggi non esiste più, c’è solo una targa riguardo Dickens.

“Il rosso con ancora una vocina strillante in testa che gridava Hot Cross Buns, si mise a quattro zampe”.
Gli Hot Cross Buns sono dei dolci inglesi, ma qui ci si riferisce alla canzone per la nursery, nata proprio nel diciottesimo secolo.

Io sono un’orca, tu sei un pinguino. Quante speranze abbiamo di usare la tecnica ‘opossum’?”.
“Penguin” in inglese significa “pinguino” così come “Shachi” significa “orca”. L’opossum invece è un adorabile marsupiale che per proteggersi dai predatori finge di essere morto.
  
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