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Autore: Viki_chan    07/04/2014    2 recensioni
- Seconda serie di (s)fortunati eventi -
Anna-chan ha vissuto qualche giorno in Corea, nel quale ha avuto modo di conoscere meglio se stessa e un mondo che da sempre l'ha affascinata. Tornata a Tokyo da qualche mese, il suo breve periodo a Seoul diventa un sogno da cui svegliarsi definitivamente.
Ma è davvero possibile dimenticare?
E soprattutto, è davvero solo lei a soffrire di questa situazione?
Evento #1: Nuova vita, nuovo lavoro, vecchia Anna
Evento #2: Cambi di programma, una faccia conosciuta e il ritorno di Anna-chan
Evento #3: Amiche deluse, telefonate inaspettate e cosmetici
Evento #4: Pensieri umani, pennarelli scarichi e messaggi cifrati
Evento #5: yakitori francesi, hotel blindati e il libro
Evento #6: le stesse parole, il silenzio e la crisi
Evento #7: l'uomo alla porta, luci drammatiche e accordi disattesi
Evento #8: Gimpo, le fan e la colazione per due
Evento #9: Provocazioni, Kim Camille e il sorriso di Ryeowook
Evento #10: lo schedule, la Kyobo e l'evento dell'anno
Evento #11: la sposa, i manager e la fine della discussione
Evento #12: l'appartamento, lo sguardo di Siwon e il ritorno
Evento #13: Il volo, il Capitol e la tenda bianca
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una Serie di (S)fortunati Eventi

Evento #8


 


Informiamo i gentili viaggiatori che siamo in arrivo all'aeroporto di Gimpo.
A Seoul sono le ore 7:05 e la temperatura è di 17 gradi centigradi. Vi ringraziamo per aver viaggiato con Korean Air e vi preghiamo di...


Apro gli occhi, me li strofino.
Il volo è durato solo un paio d'ore, ma sono comunque stata in grado di addormentarmi.
Meglio, penso.
Io odio volare.
Per lo meno sono sola, quindi posso lasciare che il mio volto tradisca qualche smorfia di terrore.
Il signor Park mi ha fatta accompagnare all'aeroporto da uno degli uomini della SM.
Silenzioso e efficiente, l'uomo mi è stato accanto affinché io superassi la barriera senza problemi.
O senza scappare.
L'aereo richiede insistentemente la mia attenzione: il carrello si abbassa e iniziamo a scendere di quota. Passano alcuni interminabili secondi e l'aereo tocca terra con un paio di contraccolpi calcolati. Il rumore dell'aria frustata dalle grandi ali del velivolo mi riempie le orecchie per qualche istante.
Poi il vociare di cento persone mi avverte che sono ancora viva.
Io odio volare.



Entrare in Corea è sempre complicato.
E' ancora più complicato quando non sai cosa succederà di te quando uscirai dall'aeroporto.
Ci sono controlli per ogni cosa, foglietti da compilare.
Anche ora che capisco un po' il coreano, tutti questi passaggi mi confondono.
Da quando abbiamo lasciato la Young Advertising insieme, il signor Park non ha fatto altro che parlarmi e farmi raccomandazioni di ogni genere. Io, tra la preparazione della valigia, le telefonate agli amici e l'ennesima svolta della mia vita, ho assorbito metà delle cose che mi ha detto.
Di due cose sono certa: la prima è che qualcuno mi aspetta all'uscita 2 dell'aeroporto e quello stesso qualcuno mi porterà da qualche parte.
La seconda è che Park mi ha voluto di nuovo in Corea per un motivo ben preciso: accompagnare i ragazzi durante la promozione di Super Junior Photobook.
Poi vedremo, ha aggiunto prima di lasciarmi con l'uomo che mi ha portato al Narita airport.
Poi vedremo.
Dopo aver impiegato più o meno un'ora a sbrigare tutte le pratiche burocratiche, supero le porte scorrevoli dell'uscita due.
Separate dai viaggiatori da un corrimano di metallo, ci sono una ventina di persone. Donne, uomini, bambini nel passeggino. Aspettano i loro cari.
In un angolo, lontano dal resto del gruppo, vedo un uomo con un completo scuro. Ha in mano un cartello con il mio nome.
Mi avvicino, gli sorrido.
“Buongiorno” gli dico in coreano.
L'uomo fa un mezzo inchino.
Trorrey” mi dice indicando il mio bagaglio. “Give me.”
“Capisco il coreano, adesso. Non come l'ultima volta” gli dico. “Ho studiato.”
L'uomo mi guarda un istante, sorpreso, poi annuisce e mi prende dalle mani la valigia e si incammina.
Gli sto un passo dietro, sorridendo.
E' lo stesso autista dell'altra volta.
Lo stesso che ogni giorno portava il suo taxi puntuale sotto il Fraser Place, l'hotel in cui ho alloggiato qualche mese fa.
Mentre l'uomo mi accompagna in una di quelle grandi auto nere con i vetri oscurati, non posso non pensare che il signor Park stia cercando in qualche modo di farmi sentire a casa.
“Ha qualcosa di importante in questa valigia?” chiede l'autista quando siamo arrivati al parcheggio. “Qualcosa che le può servire nelle prossime ore?”
“Tutto?” chiedo confusa.
“Il trolley verrà portato al suo alloggio, lei invece alla SM, signorina” dice l'uomo lentamente.
“Devo solo prendere una cosa” rispondo.
L'uomo annuisce e mi lascia sola. Apro la valigia e infilo il beauty case nella borsa, poi chiudo il baule e mi siedo sul sedile del passeggero.
L'auto parte e, facendosi strada tra i taxi di Gimpo, passa davanti a un gruppo di ragazzine con dei cartelloni in mano. Vedendo la mia auto, si voltano tutte curiose.
Sono davvero tornata in Corea.




Io ricordo tutto, alla perfezione.
Ricordo la paura di essere sola in un luogo sconosciuto, l'essere trattata come una straniera, il dormire in una guest house malridotta.
Lo ricordo come se fosse ieri.
Ricordo anche l'ansia di entrare alla SM per la prima volta, da impostora.
E invece ora sono qui, su un'auto che cerca di farsi strada tra le fan che sperano che su di essa ci sia uno dei loro idol.
“La guarderanno” commenta l'autista. “Lei guardi avanti e entri. Appena vedranno che non è una di loro si sposteranno.”
Ricordo tutte le sensazioni con la stessa intensità, perché nonostante io non abbia più paura di essere cacciata, sono consapevole di non essere una di loro.
Di dovermi confrontare ancora una volta con qualcosa di veramente troppo grande per me.
“Lei non scende?” chiedo quando l'auto riesce a fermarsi nel piccolo piazzale davanti al grattacielo della SM.
“Scatti verso la porta e non si volti a guardare le fan” dice prima di premere un pulsante e disattivare il blocco delle portiere.
Le ragazze ci hanno circondato.
Apro la portiera di qualche centimetro e lascio che una ragazzina dai folti capelli a caschetto mi guardi in faccia.
Che veda che io non sono ciò che vuole.
Scatto in avanti, sento qualche mugugno deluso, ma non mi volto.
Una ragazza più coraggiosa delle altre mi chiede chi sono.
Prendo un respiro profondo, cammino a testa bassa, tenendo la borsa stracolma davanti al petto.
Mi faccio strada tra una quindicina di fan, pesto un paio di piedi e mi scuso senza guardare.
Supero le porte e faccio la conta dei danni.
Sono ancora viva.
Il chiacchiericcio delle fan viene annullato dalla chiusura delle porte.
La donna dietro al bancone mi guarda e sorride.
“Lei deve essere Anna” dice in inglese. “Si avvicini.”
La guardo qualche secondo, poi faccio come dice.
La signora appoggia sul bancone una tessera magnetica legata a un cordino rosa.
“Questo è il suo badge per potersi muovere con più tranquillità nell'edificio senza fastidiosi controlli. Lo tenga sempre al collo. La riunione non inizierà prima delle dodici e si trova al quattordicesimo piano porta 14-H, visto che è ancora molto presto, il signor Park le ha fatto preparare la sala relax al ventesimo piano...”
Alzo la mano, in segno di resa. La signora si zittisce.
“Mi scusi, potrebbe ripetere?” chiedo abbassando lo sguardo. “Sono piuttosto confusa.”
La signora fa un mezzo sorriso.
“E' sempre così, qui fuori” commenta. “Impareranno a conoscerti e a lasciarti in pace.”
Le sorrido e prendo dalla borsa il mio blocco per appunti e una penna.
“Riunione alle 12 al quattordicesimo piano” dico scrivendo.
“Porta 14-H” aggiunge lei. “Ora può andare in sala relax al ventesimo piano."
Annuisco, la ringrazio e mi sposto davanti a uno degli ascensori.
Durante la prima visita alla SM ricordo che il viaggio in ascensore mi costrinse a pensare a cosa stavo facendo, ai rischi inutili che stavo correndo addentrandomi in uno dei grattaceli più sorvegliati della città.
Oggi sono troppo stanca e snervata per cercare di dare un senso a tutto e, arrivata al ventesimo piano, per inerzia mi dirigo verso la sala relax, indicata da una targhetta argentata. Dall'ascensore percorro un lungo corridoio su cui si aprono una mezza dozzina di porte chiuse.
Cammino lentamente: alle pareti ci sono alcuni poster promozionali. Sorrido pensando al Leeteuk appeso davanti all'ufficio del signor Park e, alla fine, trovo ciò che sto cercando.
La sala relax è una stanza quadrata, alla fine del corridoio. La parete d'ingresso è tutta fatta a vetri, così posso vedere subito al suo interno.
Un paio di divani, un grande schermo spento, un computer e una libreria.
Minimale e asettica.
Entro e mi avvicino a uno dei divani, quello che da le spalle alla porta. Sul tavolino che li divide, mister Park ha fatto preparare tanto cibo da sfamare un esercito.
La riunione è alle 12, mangia e riposati dice il biglietto appoggiato su uno degli scaldavivande.
Le due iniziali di John Park, scritte con una penna nera molto appuntita, sembrano incisioni.



Quando sono arrivata nella stanza erano le 9:30.
Ho mangiato, bevuto un paio di tazze di caffé e ho sfruttato il bagno per darmi una sistemata.
Tutto questo mi ha fatto arrivare alle 10:30.
Da lì in poi, ho controllato l'orologio ogni cinque minuti, passeggiando per tutto il perimetro della stanza, sfogliando qualche rivista. Di tanto in tanto, con la coda dell'occhio ho visto delle persone passare dal corridoio, ma ogni volta ho preferito non voltarmi.
Mi sento osservata, qui dentro.
Alle 10:57 prendo il mio libro di coreano e il mio blocco per gli appunti.
Devo studiare, se voglio capire cosa mi succede intorno.
So che le persone che si rivolgono a me fanno attenzione a come parlano, ma sono altrettanto sicura che la verità è nelle parole che i membri della SM si dicono tra loro.
Lavorando alla Y.Ad. ho imparato a non fidarmi della SM entertainment, dei suoi manager, delle sue regole non-scritte, dei “va bene” che significano quasi sempre l'esatto opposto.
Apro il libro e inizio a fare qualche esercizio di grammatica, a leggere qualche frase.
Quando guardo di nuovo l'orologio sono le 11.21.
Mi alzo e mi stiracchio.
“Anna-chan? You?
Mi volto.
“Donghae” sussurro.
You real.
Ci guardiamo per qualche secondo e ho un istante di vuoto.
Donghae sorride e fa un mezzo inchino.
You, Korea?
“P-puoi...” mi porto una mando davanti alla bocca e prendo un respiro profondo. “Puoi parlarmi in coreano, se vuoi.”
“Davvero?” chiede sorpreso.
Annuisco.
Silenzio.
“Cosa ci fai qui?”
“Non credo di potertelo dire, non ancora” rispondo ricordando vagamente una delle tante raccomandazioni del signor Park. “Tu?”
“Eravamo in Giappone. Stavi...”
“Studiando coreano.”
Donghae annuisce.
Ci guardiamo ancora. Nonostante ora parliamo la stessa lingua, non abbiamo comunque nulla da dirci.
Mi volto verso il tavolino e cerco un argomento di conversazione.
“Hai fame?” chiedo. “C'è molto da mangiare, qui.”
Donghae allunga il collo e cerca di vedere al di là del divano, poi appoggia a terra il borsone che ha a tracolla e si avvicina.
“Non mangi tu?”
“Ho già mangiato prima. Accomodati” dico indicando il divano accanto a me.
“Grazie.”
In silenzio, Donghae apre gli scalda vivande a testa bassa. Istintivamente, gli riempio un bicchiere di caffé e glielo metto di fronte. Quel gesto gli fa alzare la testa. Mi guarda, fa un mezzo sorriso.
“Grazie” ripete di nuovo.
Annuisco.
So quanto può essere inquietante mangiare con una persona che ti fissa in silenzio, l'ho provato poche ore fa con il signor Park, così, appurato che Donghae non ha intenzione di dire altro, riprendo il mio libro e il block notes e continuo a esercitarmi.
Donghae mangia a testa bassa e io, di tanto in tanto, do una sbirciata alle sue mosse.
Si è servito un piatto di riso e uova strapazzate e pesce alla griglia.
“E' ancora caldo?” chiedo.
“E' tutto molto buono, grazie.”
“Mmh.”
“Come sta Anna-chan?”
“Bene” rispondo di getto. “Donghae?”
“Sempre bene. Cosa stai studiando?” chiede pulendosi le mani in una delle salviettine da servizio.
“Esercizi di grammatica. Il coreano non è facile.”
“Riusciamo a parlare, però. Ci capiamo” commenta facendomi cenno di passargli il libro.
Donghae lo sfoglia e annuisce, poi prende il block notes dal tavolo e legge alcune frasi a mezza voce.
“Sei quasi alla fine del libro. Da quando stai studiando?”
“Mi manca un mese per finire il primo corso, ma non credo che riuscirò a frequentare fino alla fine, ormai.”
“Rimarrai molto in Corea?”
“Non lo so” rispondo abbassando lo sguardo.
“Non puoi dirmelo?”
“No, non lo so davvero” ribadisco con un mezzo sorriso.
Donghae non commenta e continua ad osservare il mio libro, poi il suo orologio da polso emette un suono.
Entrambi alziamo lo sguardo e ci guardiamo.
“E' mezzogiorno” borbotta scuotendo il polso in modo che l'orologio scenda verso la manica della felpa che indossa.
“Cosa?”
“Mezzogiorno. Hour, one two.”
“Io...” dico scattando in piedi.
Dico una parolaccia in italiano, poi mi copro la bocca.
“Mi dispiace” gli dico prendendo la borsa e scappando fuori.
Sono in ritardo alla mia prima riunione.
Perfetto.


 

   
 
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