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“Quando nelle tenebre vago sperduto,
quando nella vita più nulla sorride
ad un cuore smarrito nell’oblio di un’oscurità
[che avvolge ogni gesto e pensiero,
quando rinnego me stesso pensando che a nulla vale
vivere un’ingenerosa esistenza,
quando ogni speranza svanisce come un bambino che muore
senza che nessuno lo aiuti ad innalzarsi ancora verso un cielo indifferente
[al suo destino di innocenza sconfitta,
allora incontro i tuoi occhi, in cui quel bimbo rivive e sorride,
nelle tenebre una luce guida i miei passi,
nella notte per me ancora si accende
la scintilla di stelle che mi illumina la vita…
Per te fratello mio, il mio cuore pulsa in eterno… i battiti del
[nostro amore
più forte del fato, più immenso del cosmo…
per te mia stella, con te mio tesoro percorro una strada
[che ci condurrà fino al cielo…
tuo Ikki…”
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1
Shun
*Scintilla di
stelle nella notte*
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“Torna
e una nuova progenie
scende dall’alto del cielo.
E il bambino che nascerà, con cui avrà fine per la prima
[volta
la stirpe del ferro e
quella d’oro sorgerà nel mondo
[intero,
tu, casta Lucina,
proteggilo…”
-Virgilio; Bucoliche,
Egloga IV-
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Il primo ricordo nitido della mia vita non riguarda me ma la nascita di una stella… della mia preziosa stella,
alla quale mi sono legato indissolubilmente e felice di farlo fin dal momento
in cui giunse ad illuminare, con la sua preziosa esistenza, questo mondo.
Sì, è questo il mio primo ricordo, come se io stesso
avessi iniziato a vivere e ad esistere da quel momento… Be’, avevo solo due
anni all’epoca ed è logico che un bambino non ricordi pressoché nulla dei suoi
primi anni di vita, però questa è la mia sensazione quando
ripenso a quel giorno… e da allora, i ricordi sono molto più fluidi, chiari,
numerosi.
Non avevamo una dimora fissa. Mio padre, o meglio, colui che ritenevo tale, percorreva in lungo e in largo il
mondo per svolgere il suo lavoro; non ricordo bene di cosa si trattasse
esattamente o forse non l’avevo mai saputo; ero troppo piccolo per interessarmi
a certe cose.
Se non sbaglio, era qualcosa che
aveva a che fare con l’arte, una specie di pittore o artista girovago…
Quella mattina, nel momento in cui l’alba si stava
avvicinando e il cielo era ancora tinto dalle indefinite sfumature che segnano
il passaggio dalla notte a un nuovo giorno, giungemmo
in una città del Giappone; sbarcammo dalla nave e papà prese una macchina a
noleggio.
Io continuavo a dormicchiare in braccio alla mamma,
appollaiato sulla sua pancia che era diventata così grossa; probabilmente non
mi ero mai chiesto come mai, o forse sì… come ho detto non ricordo
assolutamente nulla prima di quel giorno.
Fu proprio un movimento strano che sentii
all’interno di quel confortevole grembo a svegliarmi; non mi spaventò… era come
se qualcuno vivesse lì dentro e, percependo la mia presenza, volesse toccarmi,
comunicare con me… una presenza amica, tuttavia, per niente inquietante.
Mi aggrappai alla veste della mamma e appoggiai l’orecchio
sul ventre, cercando di sentire ancora qualcosa e, forse, provando con tutto me
stesso a comprendere il linguaggio di quell’essere misterioso, chiunque egli
fosse… e lo capii… probabilmente è l’affetto viscerale che ancora adesso provo per quella creatura a farmelo credere… razionalmente
mi dico che è impossibile ma il cuore mi suggerisce, invece, che io compresi il
messaggio… lui voleva che continuassi a stare lì, ad abbracciare la mamma
cosicché, in quel modo, potessi abbracciare anche lui.
Me la presi quasi con papà quando
interruppe quel contatto, direi mistico, con una risatina:
“Ma guardalo” disse “Pare che
Ikki abbia fatto conoscenza con il suo fratellino!”
Anche la mamma rise, con la sua
voce cristallina, da eterna bimba:
“Gli ho già detto che aspetto un
altro bambino, per prepararlo nel migliore dei modi al nuovo arrivo; ma non mi
pare che mi abbia mai dato molto ascolto… forse era questo il trucco… farglielo
sentire direttamente.”
Io intanto chiacchieravo, provando un istinto naturale a
farlo, con l’esserino misterioso. Per i miei due anni avevo un linguaggio
piuttosto sviluppato e un vocabolario ricco. I miei genitori, sia con me che in seguito con mio fratello, hanno sempre ritenuto
fondamentale curare la nostra crescita fisica e culturale nel migliore dei
modi, hanno sempre fatto di tutto per non renderci dei disadattati nonostante i
continui spostamenti.
“Lì dentro c’è il tuo fratellino o la tua
sorellina e presto lo conoscerai di persona” mi spiegò la mamma, accarezzandomi
i capelli.
“Sai” proseguì papà “anche tu, un po’ di tempo fa, eri lì,
dove è lui adesso.”
Lo guardai con stupore… prima di
allora non avevo mai pensato a una simile possibilità.
“Devo dire, però” aggiunse la mamma scoppiando in una
delle sue allegre risate che mi contagiavano sempre “che Ikki mi dava più filo da torcere… era irrequieto anche qui dentro e scalciava
in un modo che mi faceva vedere le stelle! Questo invece è molto più
tranquillo, solo qualche piccolo spostamento, qualche leggero colpetto ogni
tanto, come se volesse discretamente ricordarmi la sua presenza
ma avesse paura di farmi male.”
“Figuriamoci!” esclamò papà ironicamente “Sarà
semplicemente un tipo più calmo.”
Passò qualche ora; il viaggio in macchina era lungo. Io
stavo diventando nervoso: l’immobilità forzata e prolungata per troppe ore non
era per me, ero un bambino sempre in movimento. La mamma non sapeva più come
tenermi fermo e papà cominciava ad alzare la voce… era buono come il pane ma io ero un’autentica peste.
“E’ anche da capire” mi giustificò mamma, in gambissima nell’educarmi ma quasi
del tutto priva di polso “Non si può pretendere di tenere un bambino di due
anni fermo in macchina per ore!”
La sua frase si interruppe con un
gemito e una smorfia:
“Oddio Koji… c’è qualcosa che
non va… temo… temo…”
Papà frenò bruscamente:
“Non può essere il momento! E’ troppo presto!”
“Sì, lo so, ma lui vuole uscire!”
“Maledizione! Dove sarà un ospedale in questo posto?!”
“E’ la tua terra! Non la conosci?!”
“Non è che io conosca a menadito
tutto il Giappone!”
Sospirò, afferrando con forza il volante e gettando
indietro la testa. Poi continuò:
“Va bene; Aspetta qui.”
Si precipitò fuori dall’auto e,
osservandolo dal finestrino, lo vidi accostarsi ad un poliziotto lungo la
strada. Dopo pochi istanti, l’agente si avvicinò insieme a
lui e accostò il capo al finestrino abbassato:
“Stia calma signora! Ci pensiamo noi a scortarvi fino
all’ospedale più vicino!”
“Oh, grazie al cielo!” esclamò la mamma con il fiato
mozzo, boccheggiando.
E così ripartimmo a velocità
sorprendente, con una sirena che strillava davanti a noi e tutti che si
spostavano al nostro passaggio. In un’altra occasione per me sarebbe stato uno spasso ma percepivo nell’aria l’inquietudine dei miei
genitori e la facevo mia… ero spaventato da tutta quella agitazione, vedevo
chiaramente il malessere di mia madre e non capivo… quindi cominciai a
strillare.
Mia madre stava troppo male per confortarmi e si limitava
a mormorare:
“Ti prego Ikki… piccolino… non avere
paura… è tutto a posto…”
Si preoccupava per me e cercava di rassicurarmi… una cosa di lei che ricorderò fino alla fine è il suo carattere
altruista e amabile, la sua capacità di sperare sempre e comunque, la sua gioia
nell’alleviare le sofferenze degli altri, accompagnando ogni gesto con un
sorriso e con la luce dei suoi occhi grandi e perennemente infantili… qualità
ereditate dalla creatura che quel giorno le stava causando tanti problemi… e in
effetti, anche ora, quando guardo mio fratello, sono felice perché mi sembra di
veder rivivere nostra madre in lui.
Papà frenò bruscamente; evidentemente
eravamo giunti a destinazione. Un poliziotto mi prese in consegna e mi
affidò alle braccia di una bella signorina tutta vestita di bianco.
“Adesso tu starai qui con me” mi disse con una gentilezza
esageratamente mielosa “Poi, quando il tuo fratellino sarà nato, ti porterò da
mamma e papà.”
Era difficile pressoché per chiunque tenermi a bada,
soprattutto se mi mettevo in testa che c’era qualcosa che dovevo fare; dopo
qualche minuto passato senza i miei genitori, con l’intuito proprio
dell’infanzia che, pur senza la capacità di comprensione, presagisce
quando nell’aria c’è qualcosa che non va, cominciai a fare i capricci e a
rendermi insopportabile.
Probabilmente portai quella povera infermierina
alla disperazione. Non so ancora come feci… forse si distrasse per un attimo,
forse qualcuno la chiamò… fatto sta che sfuggii alla sua attenzione e
sgattaiolai fuori dalla stanzetta nella quale ci
eravamo chiusi… avevo un’idea fissa: trovare la mamma e il misterioso esserino
che portava dentro di sé.
L’unica cosa che avevo capito era che tutto quel trambusto
era dovuto proprio a quella creatura che chiamavano
“fratellino” e che papà e mamma erano molto preoccupati per lui.
Giunsi davanti a una porta che,
chissà perché, mi attirava in modo insistente. All’improvviso si spalancò e ne
uscì di corsa un’altra di quelle donne in bianco. Con
una velocità e un intuito che, devo ammetterlo, erano
sorprendenti in un bambino della mia età, mi infiltrai nella stanza e lei si
richiuse la porta alle spalle senza avermi minimamente notato.
La prima sensazione dalla quale fui colpito, furono gli
acuti strilli che si susseguivano l’uno all’altro, ininterrottamente.
Provenivano tutti da una cosina microscopica che stavano
posando in braccio a mia madre.
“E’ un maschietto” le dicevano “un po’ piccolo ma sano…”
C’era anche papà, chino su quella cosa buffa che ora
faceva silenzio.
Io feci qualche passo avanti; fu allora che mi videro e
nella stanzetta asettica si scatenò il panico generale.
“Ikki!” esclamò papà, precipitandosi ad afferrarmi e
dirigendosi con me verso l’uscita.
Io cominciai a gridare e a piangere disperatamente,
tendendo le mani verso la mamma… o, più probabilmente, verso il “fratellino”.
La mamma sorrise; era sudata, rossa in viso, esausta ma
serena:
“Lasciateglielo vedere, non c’è niente di male.”
“Non è possibile signora!” disse
gentilmente un uomo in camice bianco, screziato di rosso “Nessuno può
restare qui durante il parto, soprattutto un bambino!”
“Ma il parto è finito, no?” ridacchiò la mamma, con una
naturalezza che sconcertò tutti “E dai, siate gentili,
fate un’eccezione.”
Il medico spalancò la bocca come per ribattere e invece,
intenerito, si strinse nelle spalle:
“Be’… solo qualche secondo però.”
Allora papà cambiò direzione e mi portò accanto alla
mamma. Io non avevo occhi che per quell’esserino minuscolo che lei stringeva
teneramente al petto… era come vedere mia madre in miniatura, con quei capelli
biondo scuro, gli occhi grandissimi, già spalancati e pieni di fiducia verso il
mondo che l’aveva accolto.
Allungai una mano per toccarlo.
“Attento Ikki!” esclamò papà “Lui è
ancora molto fragile… è delicato… non devi essere rude come al tuo solito!”
Non fui affatto rude, lo sfiorai
appena, pieno di ammirazione e timore reverenziale.
Ci fissammo negli occhi e fu allora che il nostro legame
fu stabilito; nessuno dovette dirmi niente: quello era il mio fratellino,
dipendeva da me e io l’avrei protetto, guai a chi avesse
osato togliermelo o fargli qualcosa di male!
E invece, qualcuno già ostacolava
le mie decisioni, venendo a prelevarlo, a sottrarlo al mio sguardo adorante.
“Dobbiamo sottoporlo a delle cure precauzionali” dissero
“E’ nato un po’ in anticipo ed è vulnerabile…”
“Ma sta bene vero?!” esclamò mia
madre, improvvisamente terrorizzata.
“Be’, si direbbe di sì… ha sicuramente dei buoni polmoni a
giudicare da come ha strillato e appare decisamente
sano; si tratta solo di qualche accertamento, non si preoccupi”.
Mamma e papà sospirarono di sollievo
mentre io riuscivo solo a capire che lo stavano portando via e non
volevo, non volevo assolutamente!
Piansi con una rabbia spropositata inveendo, con il mio
vocabolario infantile, contro quelle persone.
“Si direbbe che abbia paura che
vogliano fargli del male” osservò papà cercando di tenermi buono “Tranquillo
Ikki… vogliono solo prendersi cura di lui… per il tuo fratellino è meglio così…
lo rivedrai presto, non temere.”
E infatti mi portarono a vederlo
tutti i giorni successivi ed ogni volta era una tragedia quando giungeva l’ora
di andarsene.
Papà prese una casa alla
periferia di Tokyo, lontano dal caos della città ma abbastanza vicino ad essa
per avere comodità negli spostamenti. Lui e io ci trasferimmo
lì, in attesa che la mamma e il piccolo fossero dimessi.
Per la mamma pochi giorni di ricovero… il bambino invece
restò in ospedale più di una settimana.
Una mattina, al mio risveglio, mi prepararono al grande
evento:
“Andiamo a prendere il tuo fratellino” mi disse papà con
una gioia luminosa negli occhi scuri “Sta benissimo e finalmente potrà stare
sempre con noi.”
E dal momento in cui uscimmo
dall’ospedale, io non mi staccai un attimo da quel fagottino che un po’ piangeva,
un po’ rideva e, notarono subito anche i nostri genitori, mi seguiva
continuamente con lo sguardo… come fa un girasole con l’astro luminoso in
cielo, dissero loro.
Ancora non gli avevano dato un
nome; discutevano su quale fosse adatto e non sapevano decidersi. Di una cosa
erano sicuri: sarebbe stato un nome giapponese, come il mio.
“I nomi giapponesi racchiudono spesso un significato così
profondo” diceva la mamma “Io vorrei dargli un nome
che possa in qualche modo collegarsi a quello di Ikki, un nome che abbia a che
fare con la luce, un nome luminoso che sia degno di lui.”
Evidentemente, mia madre doveva avere un’autentica
passione per il Sol Levante, dato che da un giapponese si era fatta sedurre e
da un altro aveva ottenuto l’amore… e aveva voluto darmi, quando ancora
vivevamo in Irlanda, nella sua terra, un nome giapponese.
Una sera eravamo tutti sul balcone, compreso il piccolo
che dormicchiava in braccio alla mamma; era tranquillissimo, piangeva poco e
durante la notte non si svegliava quasi mai.
La nostra abitazione era fuori città, lontano
dall’inquinamento luminoso che impediva a Tokyo di godersi una notte come
quella, punteggiata da un oceano infinito di stelle.
Papà e mamma si stavano divertendo a riconoscere le
costellazioni e a indicarsele vicendevolmente.
“Ecco Andromeda!” esclamò papà puntando un dito verso una
fila di stelle disposte ordinatamente una di seguito all’altra.
E’, all’improvviso, da quel gruppetto di
astri, si staccò una scia luminosa che attraversò tutto il cielo,
visibile per parecchi secondi.
“Una stella cadente” mormorò papà “Raramente ne ho viste
di così belle.”
“Si è specchiata nei suoi occhi” sussurrò mamma, quasi tra
sé.
Papà la osservò perplesso:
“Di cosa parli?”
“Della stella cadente… e di tutte le stelle
che brillano negli occhi di questa creatura…”
Papà si chinò a osservare il
piccolo:
“Ha gli occhi luminosi come i tuoi…”
“Scintillio di stelle…” la mamma continuava a guardare il
bimbo in fasce.
Papà annuì:
“Sì… abbiamo trovato il nome per lui… Shun… scintillio di
stelle…”
Io li ascoltavo attentamente. Aggrappandomi al braccio
della mamma mi sollevai in punta di piedi e sporsi il viso per guardare quegli
occhi così strani di cui loro due parlavano… ma si
erano già richiusi, sprofondati in un sonno innocente e sereno.
Sorrisi e gridai, in preda ad un’allegria incontenibile:
“SHUN!”
Lo ripetei tante volte, a squarciagola, finché papà mi
zittì:
“Ora basta Ikki! Sveglierai tutto il vicinato… tuo
fratello compreso!”