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Autore: PerseoeAndromeda    10/07/2008    2 recensioni
Questa storia cominciai a pubblicarla tempo fa con un altro account. La ripubblico nella sua versione riveduta e corretta. La storia di due fratelli, il loro perdersi e ritrovarsi, il più prezioso dei legami.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Shun, Phoenix Ikki
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Quando nelle tenebre vago sperduto,

quando nella vita più nulla sorride

ad un cuore smarrito nell’oblio di un’oscurità

[che avvolge ogni gesto e pensiero,

quando rinnego me stesso pensando che a nulla vale

vivere un’ingenerosa esistenza,

quando ogni speranza svanisce come un bambino che muore

senza che nessuno lo aiuti ad innalzarsi ancora verso un cielo indifferente

[al suo destino di innocenza sconfitta,

allora incontro i tuoi occhi, in cui quel bimbo rivive e sorride,

nelle tenebre una luce guida i miei passi,

nella notte per me ancora si accende

la scintilla di stelle che mi illumina la vita…

 

Per te fratello mio, il mio cuore pulsa in eterno… i battiti del

[nostro amore

più forte del fato, più immenso del cosmo…

per te mia stella, con te mio tesoro percorro una strada

[che ci condurrà fino al cielo…

tuo Ikki…”

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1

 

Shun

*Scintilla di stelle nella notte*

 

 

 

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Torna la Vergine, tornano i regni di Saturno;

e una nuova progenie scende dall’alto del cielo.

E il bambino che nascerà, con cui avrà fine per la prima

     [volta

la stirpe del ferro e quella d’oro sorgerà nel mondo

[intero,

tu, casta Lucina, proteggilo…”

 

-Virgilio; Bucoliche, Egloga IV-

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Il primo ricordo nitido della mia vita non riguarda me ma la nascita di una stella… della mia preziosa stella, alla quale mi sono legato indissolubilmente e felice di farlo fin dal momento in cui giunse ad illuminare, con la sua preziosa esistenza, questo mondo.

Sì, è questo il mio primo ricordo, come se io stesso avessi iniziato a vivere e ad esistere da quel momento… Be’, avevo solo due anni all’epoca ed è logico che un bambino non ricordi pressoché nulla dei suoi primi anni di vita, però questa è la mia sensazione quando ripenso a quel giorno… e da allora, i ricordi sono molto più fluidi, chiari, numerosi.

Non avevamo una dimora fissa. Mio padre, o meglio, colui che ritenevo tale, percorreva in lungo e in largo il mondo per svolgere il suo lavoro; non ricordo bene di cosa si trattasse esattamente o forse non l’avevo mai saputo; ero troppo piccolo per interessarmi a certe cose.

Se non sbaglio, era qualcosa che aveva a che fare con l’arte, una specie di pittore o artista girovago…

Quella mattina, nel momento in cui l’alba si stava avvicinando e il cielo era ancora tinto dalle indefinite sfumature che segnano il passaggio dalla notte a un nuovo giorno, giungemmo in una città del Giappone; sbarcammo dalla nave e papà prese una macchina a noleggio.

Io continuavo a dormicchiare in braccio alla mamma, appollaiato sulla sua pancia che era diventata così grossa; probabilmente non mi ero mai chiesto come mai, o forse sì… come ho detto non ricordo assolutamente nulla prima di quel giorno.

Fu proprio un movimento strano che sentii all’interno di quel confortevole grembo a svegliarmi; non mi spaventò… era come se qualcuno vivesse lì dentro e, percependo la mia presenza, volesse toccarmi, comunicare con me… una presenza amica, tuttavia, per niente inquietante.

Mi aggrappai alla veste della mamma e appoggiai l’orecchio sul ventre, cercando di sentire ancora qualcosa e, forse, provando con tutto me stesso a comprendere il linguaggio di quell’essere misterioso, chiunque egli fosse… e lo capii… probabilmente è l’affetto viscerale che ancora adesso provo per quella creatura a farmelo credere… razionalmente mi dico che è impossibile ma il cuore mi suggerisce, invece, che io compresi il messaggio… lui voleva che continuassi a stare lì, ad abbracciare la mamma cosicché, in quel modo, potessi abbracciare anche lui.

Me la presi quasi con papà quando interruppe quel contatto, direi mistico, con una risatina:

Ma guardalo” disse “Pare che Ikki abbia fatto conoscenza con il suo fratellino!”

Anche la mamma rise, con la sua voce cristallina, da eterna bimba:

“Gli ho già detto che aspetto un altro bambino, per prepararlo nel migliore dei modi al nuovo arrivo; ma non mi pare che mi abbia mai dato molto ascolto… forse era questo il trucco… farglielo sentire direttamente.”

Io intanto chiacchieravo, provando un istinto naturale a farlo, con l’esserino misterioso. Per i miei due anni avevo un linguaggio piuttosto sviluppato e un vocabolario ricco. I miei genitori, sia con me che in seguito con mio fratello, hanno sempre ritenuto fondamentale curare la nostra crescita fisica e culturale nel migliore dei modi, hanno sempre fatto di tutto per non renderci dei disadattati nonostante i continui spostamenti.

“Lì dentro c’è il tuo fratellino o la tua sorellina e presto lo conoscerai di persona” mi spiegò la mamma, accarezzandomi i capelli.

“Sai” proseguì papà “anche tu, un po’ di tempo fa, eri lì, dove è lui adesso.”

Lo guardai con stupore… prima di allora non avevo mai pensato a una simile possibilità.

“Devo dire, però” aggiunse la mamma scoppiando in una delle sue allegre risate che mi contagiavano sempre “che Ikki mi dava più filo da torcere… era irrequieto anche qui dentro e scalciava in un modo che mi faceva vedere le stelle! Questo invece è molto più tranquillo, solo qualche piccolo spostamento, qualche leggero colpetto ogni tanto, come se volesse discretamente ricordarmi la sua presenza ma avesse paura di farmi male.”

“Figuriamoci!” esclamò papà ironicamente “Sarà semplicemente un tipo più calmo.

Passò qualche ora; il viaggio in macchina era lungo. Io stavo diventando nervoso: l’immobilità forzata e prolungata per troppe ore non era per me, ero un bambino sempre in movimento. La mamma non sapeva più come tenermi fermo e papà cominciava ad alzare la voce… era buono come il pane ma io ero un’autentica peste.

“E’ anche da capire” mi giustificò mamma, in gambissima nell’educarmi ma quasi del tutto priva di polso “Non si può pretendere di tenere un bambino di due anni fermo in macchina per ore!”

La sua frase si interruppe con un gemito e una smorfia:

“Oddio Koji… c’è qualcosa che non va… temo… temo…”

Papà frenò bruscamente:

“Non può essere il momento! E’ troppo presto!”

“Sì, lo so, ma lui vuole uscire!”

“Maledizione! Dove sarà un ospedale in questo posto?!

“E’ la tua terra! Non la conosci?!

Non è che io conosca a menadito tutto il Giappone!”

Sospirò, afferrando con forza il volante e gettando indietro la testa. Poi continuò:

“Va bene; Aspetta qui.

Si precipitò fuori dall’auto e, osservandolo dal finestrino, lo vidi accostarsi ad un poliziotto lungo la strada. Dopo pochi istanti, l’agente si avvicinò insieme a lui e accostò il capo al finestrino abbassato:

“Stia calma signora! Ci pensiamo noi a scortarvi fino all’ospedale più vicino!”

“Oh, grazie al cielo!” esclamò la mamma con il fiato mozzo, boccheggiando.

E così ripartimmo a velocità sorprendente, con una sirena che strillava davanti a noi e tutti che si spostavano al nostro passaggio. In un’altra occasione per me sarebbe stato uno spasso ma percepivo nell’aria l’inquietudine dei miei genitori e la facevo mia… ero spaventato da tutta quella agitazione, vedevo chiaramente il malessere di mia madre e non capivo… quindi cominciai a strillare.

Mia madre stava troppo male per confortarmi e si limitava a mormorare:

“Ti prego Ikki… piccolino… non avere paura… è tutto a posto…”

Si preoccupava per me e cercava di rassicurarmi… una cosa di lei che ricorderò fino alla fine è il suo carattere altruista e amabile, la sua capacità di sperare sempre e comunque, la sua gioia nell’alleviare le sofferenze degli altri, accompagnando ogni gesto con un sorriso e con la luce dei suoi occhi grandi e perennemente infantili… qualità ereditate dalla creatura che quel giorno le stava causando tanti problemi… e in effetti, anche ora, quando guardo mio fratello, sono felice perché mi sembra di veder rivivere nostra madre in lui.

Papà frenò bruscamente; evidentemente eravamo giunti a destinazione. Un poliziotto mi prese in consegna e mi affidò alle braccia di una bella signorina tutta vestita di bianco.

“Adesso tu starai qui con me” mi disse con una gentilezza esageratamente mielosa “Poi, quando il tuo fratellino sarà nato, ti porterò da mamma e papà.

Era difficile pressoché per chiunque tenermi a bada, soprattutto se mi mettevo in testa che c’era qualcosa che dovevo fare; dopo qualche minuto passato senza i miei genitori, con l’intuito proprio dell’infanzia che, pur senza la capacità di comprensione, presagisce quando nell’aria c’è qualcosa che non va, cominciai a fare i capricci e a rendermi insopportabile.

Probabilmente portai quella povera infermierina alla disperazione. Non so ancora come feci… forse si distrasse per un attimo, forse qualcuno la chiamò… fatto sta che sfuggii alla sua attenzione e sgattaiolai fuori dalla stanzetta nella quale ci eravamo chiusi… avevo un’idea fissa: trovare la mamma e il misterioso esserino che portava dentro di sé.

L’unica cosa che avevo capito era che tutto quel trambusto era dovuto proprio a quella creatura che chiamavano “fratellino” e che papà e mamma erano molto preoccupati per lui.

Giunsi davanti a una porta che, chissà perché, mi attirava in modo insistente. All’improvviso si spalancò e ne uscì di corsa un’altra di quelle donne in bianco. Con una velocità e un intuito che, devo ammetterlo, erano sorprendenti in un bambino della mia età, mi infiltrai nella stanza e lei si richiuse la porta alle spalle senza avermi minimamente notato.

La prima sensazione dalla quale fui colpito, furono gli acuti strilli che si susseguivano l’uno all’altro, ininterrottamente. Provenivano tutti da una cosina microscopica che stavano posando in braccio a mia madre.

“E’ un maschietto” le dicevano “un po’ piccolo ma sano…”

C’era anche papà, chino su quella cosa buffa che ora faceva silenzio.

Io feci qualche passo avanti; fu allora che mi videro e nella stanzetta asettica si scatenò il panico generale.

“Ikki!” esclamò papà, precipitandosi ad afferrarmi e dirigendosi con me verso l’uscita.

Io cominciai a gridare e a piangere disperatamente, tendendo le mani verso la mamma… o, più probabilmente, verso il “fratellino”.

La mamma sorrise; era sudata, rossa in viso, esausta ma serena:

“Lasciateglielo vedere, non c’è niente di male.

“Non è possibile signora!” disse gentilmente un uomo in camice bianco, screziato di rosso “Nessuno può restare qui durante il parto, soprattutto un bambino!”

“Ma il parto è finito, no?” ridacchiò la mamma, con una naturalezza che sconcertò tutti “E dai, siate gentili, fate un’eccezione.”

Il medico spalancò la bocca come per ribattere e invece, intenerito, si strinse nelle spalle:

“Be’… solo qualche secondo però.”

Allora papà cambiò direzione e mi portò accanto alla mamma. Io non avevo occhi che per quell’esserino minuscolo che lei stringeva teneramente al petto… era come vedere mia madre in miniatura, con quei capelli biondo scuro, gli occhi grandissimi, già spalancati e pieni di fiducia verso il mondo che l’aveva accolto.

Allungai una mano per toccarlo.

“Attento Ikki!” esclamò papà “Lui è ancora molto fragile… è delicato… non devi essere rude come al tuo solito!”

Non fui affatto rude, lo sfiorai appena, pieno di ammirazione e timore reverenziale.

Ci fissammo negli occhi e fu allora che il nostro legame fu stabilito; nessuno dovette dirmi niente: quello era il mio fratellino, dipendeva da me e io l’avrei protetto, guai a chi avesse osato togliermelo o fargli qualcosa di male!

E invece, qualcuno già ostacolava le mie decisioni, venendo a prelevarlo, a sottrarlo al mio sguardo adorante.

“Dobbiamo sottoporlo a delle cure precauzionali” dissero “E’ nato un po’ in anticipo ed è vulnerabile…”

“Ma sta bene vero?!” esclamò mia madre, improvvisamente terrorizzata.

“Be’, si direbbe di sì… ha sicuramente dei buoni polmoni a giudicare da come ha strillato e appare decisamente sano; si tratta solo di qualche accertamento, non si preoccupi”.

Mamma e papà sospirarono di sollievo mentre io riuscivo solo a capire che lo stavano portando via e non volevo, non volevo assolutamente!

Piansi con una rabbia spropositata inveendo, con il mio vocabolario infantile, contro quelle persone.

“Si direbbe che abbia paura che vogliano fargli del male” osservò papà cercando di tenermi buono “Tranquillo Ikki… vogliono solo prendersi cura di lui… per il tuo fratellino è meglio così… lo rivedrai presto, non temere.”

E infatti mi portarono a vederlo tutti i giorni successivi ed ogni volta era una tragedia quando giungeva l’ora di andarsene.

Papà prese una casa alla periferia di Tokyo, lontano dal caos della città ma abbastanza vicino ad essa per avere comodità negli spostamenti. Lui e io ci trasferimmo lì, in attesa che la mamma e il piccolo fossero dimessi.

Per la mamma pochi giorni di ricovero… il bambino invece restò in ospedale più di una settimana.

Una mattina, al mio risveglio, mi prepararono al grande evento:

“Andiamo a prendere il tuo fratellino” mi disse papà con una gioia luminosa negli occhi scuri “Sta benissimo e finalmente potrà stare sempre con noi.

E dal momento in cui uscimmo dall’ospedale, io non mi staccai un attimo da quel fagottino che un po’ piangeva, un po’ rideva e, notarono subito anche i nostri genitori, mi seguiva continuamente con lo sguardo… come fa un girasole con l’astro luminoso in cielo, dissero loro.

Ancora non gli avevano dato un nome; discutevano su quale fosse adatto e non sapevano decidersi. Di una cosa erano sicuri: sarebbe stato un nome giapponese, come il mio.

“I nomi giapponesi racchiudono spesso un significato così profondo” diceva la mamma “Io vorrei dargli un nome che possa in qualche modo collegarsi a quello di Ikki, un nome che abbia a che fare con la luce, un nome luminoso che sia degno di lui.”

Evidentemente, mia madre doveva avere un’autentica passione per il Sol Levante, dato che da un giapponese si era fatta sedurre e da un altro aveva ottenuto l’amore… e aveva voluto darmi, quando ancora vivevamo in Irlanda, nella sua terra, un nome giapponese.

Una sera eravamo tutti sul balcone, compreso il piccolo che dormicchiava in braccio alla mamma; era tranquillissimo, piangeva poco e durante la notte non si svegliava quasi mai.

La nostra abitazione era fuori città, lontano dall’inquinamento luminoso che impediva a Tokyo di godersi una notte come quella, punteggiata da un oceano infinito di stelle.

Papà e mamma si stavano divertendo a riconoscere le costellazioni e a indicarsele vicendevolmente.

“Ecco Andromeda!” esclamò papà puntando un dito verso una fila di stelle disposte ordinatamente una di seguito all’altra.

E’, all’improvviso, da quel gruppetto di astri, si staccò una scia luminosa che attraversò tutto il cielo, visibile per parecchi secondi.

“Una stella cadente” mormorò papà “Raramente ne ho viste di così belle.

“Si è specchiata nei suoi occhi” sussurrò mamma, quasi tra sé.

Papà la osservò perplesso:

“Di cosa parli?”

“Della stella cadente… e di tutte le stelle che brillano negli occhi di questa creatura…”

Papà si chinò a osservare il piccolo:

“Ha gli occhi luminosi come i tuoi…”

“Scintillio di stelle…” la mamma continuava a guardare il bimbo in fasce.

Papà annuì:

“Sì… abbiamo trovato il nome per lui… Shun… scintillio di stelle…”

Io li ascoltavo attentamente. Aggrappandomi al braccio della mamma mi sollevai in punta di piedi e sporsi il viso per guardare quegli occhi così strani di cui loro due parlavano… ma si erano già richiusi, sprofondati in un sonno innocente e sereno.

Sorrisi e gridai, in preda ad un’allegria incontenibile:

“SHUN!”

Lo ripetei tante volte, a squarciagola, finché papà mi zittì:

“Ora basta Ikki! Sveglierai tutto il vicinato… tuo fratello compreso!”

 

 

   
 
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