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Autore: Minuialwen    09/04/2014    5 recensioni
Ogni azione, assunzione, rituale che abbia un effettivo o presunto valore terapeutico implica delle aspettative di guarigione in grado di influenzare corpo e psiche.
È questo ciò che si intende per "effetto placebo": una serie di reazioni dell’organismo ad uno stimolo o terapia non derivante da veri e propri principi attivi, ma dalle attese dell’individuo.
Una falsa cura, se vogliamo, ma con gli stessi - e a volte più potenti – effetti benefici di una cura reale, anche se artificiali e ingannevoli.
Bilbo Baggins della Contea, Elrond di Gran Burrone e Thranduil di Bosco Atro avranno ognuno a che fare col proprio effetto placebo personale.
[Concepita inizialmente per essere una OS di media lunghezza, si è poi trasformata in una storia suddivisa in più capitoli. Pairing principale: Bilbo/Thorin, con consistenti accenni di Fìli/Kìli e Thorin/Thranduil. Vaghi accenni inoltre di Elrond?/?Elros, Legolas/Aragorn, Erestor/Glorfindel e Lanthir (OC by Enedhil)/Eldarion.
Oltre ai generi indicati in basso, c'è da aggiungere un po' di fluff e anche un bel po' di angst, in particolar modo verso la fine. Sarà riservato un certo spazio anche ai fratelli di Thorin: Dìs e Frerin.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bilbo, Fili, Kili, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: Incest, Spoiler!
Capitoli:
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Nota dell’autrice: un ringraziamento speciale a ewan91, _juliet e Aliseia per aver recensito il secondo capitolo <3
 
Nota al capitolo: quello seguente è, finora, il capitolo più lungo che, in generale, io abbia mai scritto. Per via della sua lunghezza e delle quantità di informazioni contenute in esso, questa terza parte è da considerarsi praticamente come due capitoli messi insieme. Il punto è che non sapevo proprio dove tagliare perché, da una parte o da un’altra, mi sembrava di dargli uno stacco troppo brusco. Così ho proseguito a scrivere ad oltranza, fino a quando il momento in cui poi sono arrivata effettivamente a concluderlo, mi sembrava azzeccato. Probabilmente vi occorrerà prendervi più tempo del previsto, magari leggendo non in una volta, ma in due. Ad ogni modo spero di avervi fatto cosa gradita.

Infine, una piccola nota a margine che ha a che vedere con la parte in cui la compagnia finisce nel regno degli Orchi sulle Montagne Nebbiose. Ebbene, per scriverla mi sono attenuta sia al film che al libro, motivo per cui ciò che ne è venuto fuori (tra dialoghi e scene) è un mix tra le due cose, oltre che, ovviamente, ciò che mi ha dettato la fantasia.
Al riguardo non dirò nulla in particolare qui, ve ne accorgerete voi stesse/i leggendo ^_^
Buona lettura,
vostra Minu
 
Effetto Placebo
**Terza Parte**
 


Il mattino successivo, quando si destò dalle poche ore di sonno inquieto a cui s’era infine arreso, la prima cosa che a Thorin venne spontaneo fare fu quella di gettare uno sguardo sul letto che, nel corso dell’intera settimana, aveva accolto il riposo di Bilbo.
Lo trovò intatto, esattamente identico a come lo Hobbit l’aveva lasciato il giorno precedente, a differenza della sua sacca e dei suoi effetti personali che, spariti, non giacevano più ai piedi del giaciglio.
Il senso d’oppressione per cui non aveva fatto altro che rigirarsi tra le coperte per gran parte della notte tornò ad attanagliarlo come un macigno sulla coscienza, ma, ancora una volta, scioccamente e orgogliosamente, impiegò tutta la propria caparbietà al fine di scacciarlo.
 
Quando la compagnia fu nuovamente pronta a rimettersi in viaggio, Thorin la condusse verso una stradina secondaria dove - così com’era rimasto d’accordo con Gandalf - senza dare nell’occhio avrebbero potuto portarsi fuori dalla dimora di Elrond e proseguire oltre i confini d’Imladris.
Lo stregone temeva infatti che gli Elfi avrebbero potuto decidere di trattenere i Nani più del dovuto, per evitare di incappare nella possibilità di scatenare qualcosa che, a loro giudizio, sarebbe stato meglio lasciare ancora in sospeso. Così aveva detto a Thorin di proseguire per la loro meta, intanto che lui si recava a consiglio con Elrond, Saruman e Dama Galadriel. Sapendolo a corte – pensava lo stregone – i suoi interlocutori non avrebbero avuto motivo di sospettare un non annunciato allontanamento da parte dei Nani e, di fatto, fu proprio il ricorrere a una tale astuzia che permise a questi ultimi di andarsene indisturbati.
 
Non vedendolo da nessuna parte, mentre attraversavano di soppiatto i corridoi della reggia, Thorin si chiese più volte dove accidenti fosse andato a finire quell’impiastro di uno Hobbit, sussultando, altrettante volte, dinanzi alle infauste ipotesi che gli si dipingevano nella mente a proposito di un suo eventuale abbandono dell’impresa.
S’ostinava, Thorin, con tutta la proverbiale testardaggine dei Nani, a far finta di nulla nei confronti dell’angoscia che scendeva ad attorcigliargli le viscere ad ogni passo che faceva senza che vedesse spuntare da qualche parte i riccioli ramati di Bilbo.
Stava quasi per lasciare la furtiva evasione nelle mani di Balin – e il tutto senza che neanche se ne rendesse minimamente conto – per andare a cercarlo di persona e, nel caso in cui non l’avesse più trovato presente a corte, per andare dritto da Gandalf e utilizzare il contratto che Bilbo aveva firmato, come scusa che stesse a giustificare il reclamo per la sua assenza; quando finalmente lo vide. In piedi, sacca in spalla e la schiena addossata contro lo stipite della grande porta che immetteva sulla stradina secondaria che avrebbero dovuto percorrere.
 
Lo sguardo basso, la posa pensierosa e la mano destra che si portava la pipa alla bocca, ad inspirare una grande boccata di fumo.
Bilbo ci mise un po’ più del dovuto ad alzare gli occhi sui suoi compagni, come se cercasse dentro di sé la spinta necessaria a farlo, a convincersi che, nonostante le parole taglienti che Thorin gli aveva rivolto la sera prima, valesse ancora la pena, per lui, di portare a termine quella missione.
Il capo della compagnia gli aveva detto di non aver bisogno del suo sostegno: benissimo! – aveva pensato dopo essersi consolato con lo sfogo del pianto – non l’avrebbe più importunato in tal senso, limitandosi a svolgere il compito per cui era stato chiamato a compiere l’impresa! In fondo lo doveva a sé stesso perché, per una volta - si era detto - voleva potersi dimostrare di essere molto di più che non uno Hobbit abitudinario e incapace di vivere se separato dagli agi della sua accogliente dimora. E per quanto riguardava il suo cuore…bè, sarebbe riuscito a metterlo a tacere una volta per tutte, onde evitare d’incappare nuovamente nel sordido dolore che aveva provato dinanzi al rifiuto del Nano…
 
Beata ingenuità! – non poté fare a meno di constatare in seguito – Quanto genuinamente e deliziosamente ingenuo poteva renderlo l’inesperienza in fatto di fisicità e sentimenti! Quanto acerba poteva essere la sua mente a quel tempo, ché credeva di potersi ergere al di sopra di ciò che gli era ancora sconosciuto!...la necessità di strapparsi gli abiti di dosso per essere pelle contro pelle, la sensazione di non saper più respirare se non nella bocca dell’altro…e la pace interiore a fluire dentro al corpo, nel silenzio, rannicchiati nudi in un abbraccio, con le mani affondate nei capelli, gli occhi chiusi per lasciarsi andare senza difese, mentre le lingue si accarezzano così a fondo per raccontarsi ciascuno la propria fragilità ed il bisogno disperato di appartenersi…
 
Quando infine si decise ad alzare gli occhi sul resto della compagnia, si sforzò affinché gli angoli delle labbra gli si inclinassero in quello che – anche se malriuscito - potesse vagamente assomigliare ad un sorriso. Al che Thorin notò delle profonde occhiaie scure che gli solcavano il volto, segno di chi, con tutta probabilità, non solo aveva passato la notte in bianco, ma l’avesse anche trascorsa a piangere. Rendersi conto della cosa e contemporaneamente realizzare che, se da una parte Bilbo riservava un saluto a tutti, dall’altra evitava accuratamente d’incrociare il suo sguardo; fu, per Thorin, come ricevere una stilettata in pieno petto. 
Profondamente contrariato nei confronti di sé stesso, per quelle sensazioni che, nonostante la propria volontà, non riusciva a mettere a tacere, si sbrigò ad attraversare la soglia della porta e portandosi alla testa della compagnia s’incamminò lungo il sentiero, borbottando un’unica frase in Khuzdul che, sebbene suonasse come un’imprecazione, Balin, dinanzi allo sguardo incerto di Bilbo, s’affrettò a tradurre in “Il Dì di Durin incombe! Affrettate il passo o giuro che vi taglio i viveri per almeno una settimana!”
 
Per tutto il giorno marciarono attraversando valichi e strettoie che conducevano sulle cime delle Montagne Nebbiose, fermandosi solamente per una breve pausa che concedesse loro di mettere qualcosa sotto ai denti. Poi proseguirono di lena su sentieri sempre più ripidi e, a tratti, quasi impraticabili, fin quando, al calare del buio, pioggia e vento li sorpresero proprio mentre cercavano un rifugio dove passare la notte ed attendere che Gandalf li raggiungesse.
 
Mentre s’affrettavano nel loro intento, all’improvviso un fragore cupo e profondo squarciò le tenebre della sera, innalzandosi al di sopra della pioggia battente e del boato dei tuoni. Un grosso masso scagliato da un punto davanti a quello in cui si trovavano loro, s’infranse sulla cima della parete di roccia lungo la quale stavano faticosamente avanzando e, prima di cercare di ripararsi come meglio potevano per evitare di finire investiti dal cumulo di detriti che, in men che non si dica, gli fu addosso; fecero giusto in tempo a vedere la sagoma di un golem di pietra che si gettava violentemente contro un suo simile.
Con profonda costernazione si resero conto di essere incappati in una battaglia fra giganti e che la situazione, per non trasformarsi in tragedia, urgeva una soluzione immediata. Poi però la roccia su cui tenevano i piedi ben saldi iniziò a muoversi e ad oscillare finché la parete alle loro spalle si squarciò in due metà, gettando i componenti della compagnia ai due lati opposti.
 
Bilbo, Thorin, Balin, Dwalin, Nori, Fìli e Gloìn da una parte. Dori, Ori, Bombur, Bofur, Bifur, Oìn e Kìli dall’altra.
 
La porzione di roccia che si era improvvisamente trasformata nelle ginocchia di un terzo golem, si era squarciata esattamente nel punto in cui sostavano Fìli e Kìli. Non appena la pavimentazione aveva iniziato a dividersi, trascinandoli l’uno lontano dall’altro, Fìli aveva cercato di allungare una mano per afferrare il fratello e, se non fosse stato per il tempestivo intervento di Thorin che l’aveva prontamente acchiappato per un braccio, il maggiore dei due, tanto era il terrore che tutto d’un tratto aveva riempito ogni sua percezione, avrebbe probabilmente osato l’impossibile gettandosi con un salto dall’altra parte.
Lo stesso terrore traboccava dagli occhi di Kìli mentre guardava, impotente, la figura di Fìli farsi sempre più distante.
All’invocazione del suo nome – “KÌLI!!” – s’aggiunse l’urlo disperato di Nori che mai, come in quella circostanza, ebbe così tanta paura di perdere i suoi due fratelli.
 
Mentre il gigante prendeva vita e si ergeva minaccioso dinanzi ai suoi simili, sia da una parte che dall’altra, i Nani caracollarono e rotearono in aria, cercando di tenersi saldamente aggrappati alla roccia per evitare di finire sbalzati nei burroni sottostanti. Poi, quando finalmente quell’immensa massa rocciosa tornò nuovamente ad inanimarsi, lo sperone dove si trovavano Kìli e gli altri andò ad infrangersi violentemente contro ad una parete adiacente.
Ognuno dei Nani sullo sperone opposto parve pietrificarsi per dei secondi che parvero durare come un’eterna disperazione. Nessuno voleva credere a ciò che si era appena consumato davanti ai loro occhi, nessuno osava fiatare o muoversi; fin quando, scioccato, e trascinandosi con passo malfermo, Nori avanzò in direzione del punto in cui avevano visto schiantarsi i fratelli e il resto dei compagni.
Quel gesto bastò per spezzare l’incredulità nella quale tutti indugiavano come cristallizzati: le gambe di Fìli scattarono in avanti e seguito da Thorin, si precipitò laddove credeva si sarebbe imbattuto in uno spettacolo agghiacciante.
Fu con profondo giubilo che tutti loro, invece, trovarono i parenti sani e salvi: certo un po’ ammaccati, ma pur sempre vivi e vegeti giacché, fortuna aveva voluto che proprio a ridosso del punto in cui lo sperone si era frantumato, s’apriva la cavità di una grotta di media grandezza, all’interno della quale, nell’impatto, i Nani erano stati scaraventati.
Con le gambe che ancora non riuscivano a smettere di tremare, Nori aveva raggiunto i fratelli distesi a terra e abbassandosi a sua volta, li aveva stretti a sé mormorando i loro nomi e cercando di nascondere le lacrime prima nell’incavo del collo di Dori e poi tra i capelli di Ori. Nessuno dei due aveva mai visto prima una tale dimostrazione d’affetto da parte del fratello mezzano perciò, entrambi piacevolmente colpiti, lo abbracciarono a loro volta, lasciandosi andare alla gioia di essere ancora insieme.
Poco più in là, mentre Gloìn aiutava il fratello maggiore a rimettersi in piedi, sistemandogli il mantello sugli abiti, Kìli si era già alzato e nonostante le varie ammaccature che il suo corpo aveva subìto, con uno slancio era letteralmente saltato in braccio a Fìli che gli stava correndo incontro. Le braccia attorno al collo, le gambe incrociate dietro alla sua schiena e tanta era la foga con cui si stavano abbracciando che, a momenti, barcollando e rendendo vana la fortuna che li aveva assistiti, non finivano giù dal dirupo! Ma Fìli, con un colpo di reni, si era spostato contro la parete alle spalle di Kìli e come se non gli bastasse il fatto che suo fratello fosse praticamente appeso a lui a provare che, ammaccature a parte, stesse indubbiamente bene; s’ostinava a controllare che fosse tutto intero.
Qualche secondo dopo, quell’ossessività fu interrotta da Thorin giacché, inaspettatamente, sia Fìli che Kìli si ritrovarono avvolti dalle sue forti braccia e…per entrambi fu come tornare bambini.
Erano passati lunghi anni dall’ultima volta che lo zio li aveva stretti a sé in quel modo e anche allora ciò che avevano rischiato era stata la vita.
 
Quel momento d’intimità familiare, però, venne bruscamente interrotto dalla voce di Bofur che, sporgendosi oltre l’orlo del precipizio al di là dei loro piedi, tentava di afferrare la mano di Bilbo.
Lo Hobbit infatti, inciampando in un mucchietto di detriti sdrucciolevoli, era scivolato oltre il bordo della strettoia sulla quale sostavano e adesso, ciondolando nel vuoto, si aggrappava terrorizzato ad una sporgenza.
Thorin non ci pensò due volte a saltare al di là del valico per prestargli soccorso: con la forza di un braccio si assicurò ad un’altra sporgenza e con l’altro afferrò il Mezzuomo per un fianco fino a spingerlo verso le mani tese di Bofur e degli altri Nani. Ma quando Bilbo fu al sicuro e Thorin si mosse per risalire, la roccia alla quale era aggrappato fece per cedere. In una frazione di secondo il mancato Re Sotto la Montagna si vide già cadere nel vuoto, ma la mano di Dwalin fu più veloce dell’instabilità di quell’appiglio e prima ancora che quello finisse di frantumarsi, afferrò Thorin per un braccio. Fìli e Kìli si precipitarono a dargli manforte, sorreggendolo per le gambe, cosicché Dwalin poté sporgersi ulteriormente, afferrargli anche l’altro braccio e cominciare, assieme ai suoi nipoti, ad issarlo verso l’alto. 
Quando tutti, finalmente, poterono tirare un sospiro di sollievo, Dwalin, riferendosi a quanto appena accaduto con Bilbo, esternò il suo pensiero con una delle tipiche uscite sdrammatizzanti che ci si potrebbero aspettare da un Nano sprezzante del pericolo come lui - “Credevo l’avessimo perso!” – esternazione alla quale Thorin rispose con “lui si è perso! Fin da quando ha lasciato casa sua!...Non sarebbe mai dovuto venire, non c’è posto per lui tra noi!”
Dopodiché si voltò e con entrambe le braccia sulle spalle dei nipoti s’avviò all’interno della grotta, imperando ai compagni di ispezionarla fino in fondo e di prepararsi per trascorrere lì la notte.
Nel distogliere lo sguardo dall’espressione mortificata e al contempo ferita di Bilbo, la sua mente non poté fare a meno di chiedersi perché si fosse rivolto a lui con così tanta rabbia repressa.
Anche Fìli e Kìli, benché non avrebbero mai osato mettere in discussione il suo modo di agire – almeno non davanti al resto dei loro compagni e soprattutto non quando quest’ultimo si manifestava con un così tale imperio – erano contrariati. Thorin l’aveva avvertito dal sobbalzo che avevano avuto le spalle di entrambi non appena vi aveva posato sopra le braccia e sebbene cercasse con tutte le proprie forze di persuadere sé stesso che non ci fosse nulla su cui rimuginare, quella reazione fu per lui un’ulteriore conferma a riprova del fatto che il suo comportamento nei confronti di Bilbo fosse stato indubbiamente esagerato e il tutto senza che la motivazione scatenante fosse neanche sufficientemente valida a giustificarlo.
 
Quella sera il primo turno di guardia fu affidato a Bofur.
Tanto era stato lo spavento provato quel giorno che le disposizioni con cui i componenti della compagnia erano soliti coricarsi, subirono, almeno in quel frangente, delle modifiche basilari.
Nori preparò il proprio giaciglio esattamente in mezzo a quelli di Dori ed Ori, passando tutta la notte a stringersi a fase alterne ora il fratello maggiore, ora il fratello minore.
Thorin si unì al giaciglio doppio di Fìli e Kìli che, per quella notte, furono ben lieti di stringersi uno da una parte, uno dall’altra, all’amato zio, esattamente come quando erano bambini e, a volte, di nascosto, s’intrufolavano nel suo letto per sentirsi al sicuro, addormentandosi beati contro al suo petto.
Ovviamente, in altre circostanze - complice quel tipico codice di regole non scritte, ma secolarizzate nella cultura di un popolo - l’uno non si sarebbe mai comportato a quel modo per una questione di distanze da mantenere, atte a sottolineare quanto ciascuno, in una società guerriera, dovesse dimostrare la propria indipendenza e la propria virilità. Gli altri, d’altronde – a prescindere dal fatto che dormissero ancora insieme, abitudine che, ormai, sia per loro che per gli altri era normale come respirare - non avrebbero mai accettato di essere trattati a quel modo, determinati com’erano a non farsi più considerare come dei bambini.
 
Quando ebbe l’impressione che tutti si fossero assopiti, Bilbo sgattaiolò fuori dal proprio giaciglio con l’intenzione di abbandonare l’impresa; decisione che aveva maturato nell’arco delle poche ore trascorse.
Mentre faceva finta di dormire, lo Hobbit si era chiesto più e più volte quanto il gioco valesse ancora la candela. Certo: vero era che soltanto la mattina precedente si era detto che continuare ad andare avanti con la missione avrebbe rappresentato, per lui, una prova da dare a sé stesso; ma poi, all’ennesima dimostrazione di feroce intolleranza nei suoi confronti da parte di Thorin – per di più, come se non bastasse, nel giro di poche ore – non aveva retto.
In realtà si era anche chiesto quanto, effettivamente, potesse aver ragione il capo della compagnia a trattarlo in quel modo e quanto, invece, fosse soltanto Thorin ad avere un problema con lui per chissà quale motivo. In ogni caso non riusciva a sopportarlo perché ogni volta che i profondi occhi azzurri del Nano si posavano su di lui con quel cipiglio rabbioso, avevano sempre – sempre! - la capacità di ferirlo profondamente e di farlo sentire sbagliato e fuori posto.
Levarsi dalle scatole e tornare a Gran Burrone non avrebbe significato altro che una gran liberazione per Thorin e, visto che non aveva potuto far altro che convincersene, di certo – si disse – non sarebbe stato lui a negargli un così gran sollievo! Il suo cuore ne avrebbe sofferto grandemente, ma, d’altro canto: non stava forse soffrendo anche restando lì a sorbirsi i suoi improperi?
Piuttosto che continuare a star male avendo lui e le sue invettive davanti agli occhi e alle orecchie tutti i santi giorni, preferiva autocommiserarsi in solitudine sapendolo lontano e libero dalla sua, a quanto pareva, ingombrante presenza.
 
Con il tipico passo felpato che, quando vogliono, gli Hobbit sono in grado di usare, Bilbo raccattò quindi tutte le sue cose, si rimise la sacca sulle spalle e s’avviò verso l’uscita della caverna.
La via pareva libera da intoppi: tutti sembravano dormire e, vista la posizione con il capo ciondolante ed il mento piegato verso il petto, non sarebbe stato difficile neanche eludere la sorveglianza di Bofur.
Passò davanti a lui cercando di fare il più piano possibile, ma proprio quando ormai aveva quasi varcato la soglia della grotta, quello si riprese dal dormiveglia…
 
“Dove credi di andare?”
 
La domanda lo costrinse a fermarsi di scatto, ma prima di voltarsi sospirò sonoramente “torno a Gran Burrone” disse con fermezza.


“No! No, non puoi tornare ora!” Ribatté Bofur alzandosi e parandoglisi davanti “fai parte della compagnia, sei uno di noi!” affermò con sincera convinzione.
 
Quanto avrebbe voluto che quelle parole fossero vere anche per qualcun altro, ma benché sentisse che Bofur fosse realmente sincero, le parole rabbiose che Thorin gli aveva rivolto poc’anzi ancora bruciavano come tizzoni ardenti sul fondo della sua anima “…In realtà no, vero?...Thorin ha detto che non dovevo venire: ha ragione! Non sono un Tuc, sono un Baggins: chissà che mi è saltato in testa?!...Non dovevo uscire dalla mia porta…”
 
“Hai nostalgia di casa” tentò il Nano “lo capisco, io…” ma fu interrotto seduta stante da Bilbo, con un ardore nella voce che non gli aveva mai sentito prima.
Rabbia, disincanto, frustrazione…dolore malcelato.
 
“No, tu non puoi! Tu non capisci, nessuno di voi capisce: siete Nani! Siete abituati a questa vita, a vivere per strada, mai fissarsi in un posto, non appartenere mai a niente!...” Sbottò tutto d’un fiato senza sapere che, ad ascoltare quella conversazione, c’erano anche le orecchie di Thorin.
 
L’erede di Durin non aveva mai avuto il sonno pesante, men che meno nel bel mezzo di quella missione, con tutti gli innumerevoli pensieri e preoccupazioni che aveva per la testa!
Come al solito, anche in quella circostanza, ci aveva messo un po’ prima di lasciarsi andare ad un sonno leggero e i pensieri che ancora si rincorrevano nella sua mente mentre questa si addentrava, a mano a mano, oltre le porte del sogno, avevano a che fare con la domanda irrisolta che s’era posto subito dopo aver trattato lo Hobbit in quel modo riprovevole.
Perché, ancora una volta nell’arco di poche ore, gli si era rivolto con così tanta rabbia? Cosa c’era di preciso dietro ad un così grande disappunto?
Era disdicevole, si era detto, che sfogasse le proprie frustrazioni riversandole su qualcuno che, fondamentalmente, non aveva colpa alcuna. D’altronde erano stati loro che, dal nulla, si erano improvvisamente presentati davanti alla sua porta. Loro si erano introdotti in casa sua senza invito e sempre loro erano quelli che si ritrovavano nella condizione di aver bisogno e che gli avevano quindi avanzato la proposta che era stata messa per iscritto sul contratto che gli avevano dato. Forse, gli sovvenne poi, Bilbo aveva sbagliato a decidere di firmarlo, ma la logica - irreprensibile nonostante il cataclisma di emozioni e pensieri contrastanti che facevano la spola tra cuore e mente - non sentiva ragioni: lo Hobbit non avrebbe firmato un bel nulla se loro, quella sera, non fossero inaspettatamente incappati nella sua vita!
A parte un fazzoletto dimenticato a casa e lì rimasto, Bilbo non aveva mai chiesto niente a nessuno e sebbene, a volte, avesse la capacità di cacciarsi nei guai come, a momenti, neanche Fìli e Kìli da bambini; la sua presenza era diventata parte integrante della loro quotidianità  e…motivo di un sorriso interiore celato dietro a strati e strati di ineccepibile, consolidata, granitica maestosità.
 
Il problema – realizzò mentre ascoltava la conversazione tra Bilbo e Bofur e si rendeva conto, suo malgrado, che il primo aveva tutta l’intenzione di abbandonare l’impresa…di abbandonare lui… - aveva proprio a che fare con quel sorriso interiore. Non era più solo una questione di aver paura di cambiare, di scoprire che, al mondo, ci fosse qualcuno che effettivamente era in grado di farlo.
Il problema reale consisteva nel fatto che, sotto sotto e senza che lui neanche se ne accorgesse, Bilbo aveva già avviato un inaspettato processo di cambiamento.
Quel sorriso che tentava di nascondere in ogni modo ne era la prova. Il modo in cui si sorprendeva a fissarlo, l’agitazione che lo soggiogava quando Bilbo non era nei paraggi, l’angoscia spaventosa che aveva irretito il suo cuore nel momento in cui l’aveva visto ciondolare nel vuoto col terrore negli occhi e, sopra ogni altra cosa, ciò che gli era passato per la mente quando, con i piedi nel vuoto, ci era finito lui.
 
Ti amo
 
Quelle due semplici parole, con la potenza della verità che era racchiusa nella situazione estrema in cui si erano palesate, lo avevano sconvolto oltre ogni dire.
‘Ti amo!’ Gli aveva urlato il suo cuore mentre i suoi occhi si agganciavano a quelli grigi di Bilbo e la sua mente si vedeva precipitare nel vuoto.
‘Ti amo e non te l’ho mai detto…’
 
La rabbia che gli aveva rivolto non appena era tornato con i piedi saldi sul terreno era dovuta all’impossibilità di controllo che aveva su quel sentimento. Nato e cresciuto a prescindere dai lavaggi mentali autoimposti, l’amore lo rendeva vulnerabile, distoglieva la sua attenzione dalla missione, da tutto ciò che ancora avrebbero dovuto affrontare, dai sentieri e dalle piste migliori che avrebbero potuto battere per giungere più in fretta ad Erebor, dagli imprevisti che avrebbero potuto incontrare strada facendo, dal sangue – compreso quello dei suoi nipoti - che doveva assolutamente impedire di far spargere…dalla bestia immonda a causa della quale aveva perduto tutto ciò che faceva parte della sua vita passata e che aveva costretto lui e ciò che rimaneva del popolo di Durin ad un esilio durato centosettantuno anni!
Gli incubi di fiamme e morte che avevano sconvolto e sradicato la vita di coloro che dimoravano Sotto la Montagna, con l’avanzare del tempo, avevano fatto sì che Thorin perdesse il sonno a poco a poco poiché non voleva più sentir risuonare nella testa le grida strazianti di coloro che bruciavano vivi o che vedevano i propri cari scaraventati in aria come fuscelli o schiacciati come fossero stati nient’altro che mucchi di foglie secche. Non voleva più chiudere gli occhi e vedere i cardini di una dimora creduta inespugnabile, piegarsi e spezzarsi come vetro, fino a spalancare le porte a una desolazione senza scampo.
Ogni passo che aveva compiuto da allora, tutto il peso delle responsabilità che si era dovuto caricare sulle spalle a soli ventiquattro anni, essere guida e sostegno di un popolo che, di punto in bianco, si era ritrovato in una disperata condizione di esule e che, a stento, era riuscito a salvare quel poco che sì e no li avrebbe sfamati per meno di un mese; fungere da custode di un nonno e di un padre impazziti di dolore, di un fratello di soli diciannove anni che, caparbiamente, alzava il viso su di lui cercando di trattenere le lacrime per dimostrargli di essere forte abbastanza da potergli essere d’aiuto e di una sorella di soli dieci anni d’età che gli prendeva la mano chiedendogli dove fosse la mamma e perché non potesse più tornare a dormire nel suo lettino: tutto questo aveva contribuito a scolpire la sua corazza e a renderla più dura delle pietre preziose e dei metalli che erano stati causa della loro rovina.
Centosettantuno lunghi anni in cui ogni sacrificio compiuto, ogni sopruso subìto, ogni umiliazione a cui erano andati incontro ogni volta che si erano ritrovati per forza a dover scendere a compromessi, ogni ricordo doloroso che non si era mai assopito del tutto, ognuna delle perdite che quel giorno e nelle battaglie dei lunghi anni successivi avevano ulteriormente assottigliato il numero dei sopravvissuti; non avevano fatto altro che acuire, giorno dopo giorno, e plasmare fino a renderla fatalmente perfetta, una sete di vendetta senza eguali.
 
Per devozione e senso del dovere verso il suo popolo era andato avanti tutti quegli anni con l’onta del Principe detronizzato da tutto quello che per nascita gli sarebbe spettato di diritto, ma ciò che veramente e inquietantemente aveva contribuito a farlo crescere in fretta e a fargli affrontare col rigore degno d’un sovrano attempato la portata degli eventi che la venuta di Smaug aveva posto sul suo cammino; era stato il pensiero onnipresente di una violenta, tremenda vendetta. Un’ossessione che nutriva i suoi propositi e la sua fermezza e che, allo stesso tempo, lo lacerava dall’interno senza alcuna pietà.
 
Che la razza dei Nani - quelli appartenenti alla stirpe di Durin in particolare - come metallo fosse difficile da scalfire e come roccia fosse dura da abbattere, era risaputo in tutta la Terra di Mezzo, ma per Thorin – suo malgrado?, chi mai avrebbe potuto dirlo con certezza considerati i tempi bui che come un impietoso colpo di mannaia s’era abbattuto su tutti loro - tali caratteristiche erano da considerarsi amplificate all’ennesima potenza.
Aveva avuto la fortuna di nascere in tempi prosperi, di pace, ma non ne aveva avuta altrettanta quando s’era trattato di crescere. Suo nonno Thror soleva spesso ripetergli che “Re non si nasce, Thorin. Re si diventa con il ferro e con la sofferenza.” Dopo la caduta di Erebor e con tutto ciò che ne era conseguito, aveva infine appreso appieno il significato di quell’asserzione. Ma era andato ben oltre perché, la sicurezza del calore di un focolare, di una dimora a cui tornare dopo la battaglia, non l’aveva più. Lo spirito di coesione che spinge un popolo, dopo il lutto e la tempesta, a ricostruire dalle macerie del passato, rimaneva, per loro, un angoscioso e lontano miraggio perché non erano più padroni né dei resti in frantumi né di ciò che era rimasto in piedi.
Esuli.
Solo questo.
Popolo ricco e potente fino al giorno prima che la desolazione piovesse dal cielo in lampi di fuoco abbagliante, adesso erano nient’altro che poveri diavoli in bàlia di un mondo spietato, della sorte avversa, della derisione degli Uomini, del disprezzo degli Elfi, della ferocia degli Orchi.
Esuli, denigrati, umiliati e disperati.
Un popolo che stava disperdendosi dall’interno, a poco a poco: chi ad est, chi a nord, chi ad ovest.
Un popolo che, rimanendo senza un centro, si stava condannando con le proprie stesse mani a scomparire.
In un tale clima d’angoscia e di terrore, Thorin s’era ritrovato costretto a fare una scelta e, fin troppo consapevole del fatto che l’alternativa, per tutto il suo popolo, sarebbe stato soccombere, l’opzione su cui farla ricadere non era stata una scelta difficile da eseguire.
Il difficile era venuto dopo perché aveva comportato la rinuncia, in toto, alla sua intera giovinezza, compresi gli sbagli, i colpi di testa e la leggerezza tipici di quell’età.
A lui tutto ciò era stato negato e, se da una parte, il crescere e l’imparare a fare il Re a stretto contatto con la pratica piuttosto che con la teoria gli aveva risparmiato gli intrighi, le frivolezze, i capricci e l’arroganza tipici della corte, permettendogli così di essere un capo più equo, più oggettivo e più consapevole di quanto gli avrebbe mai potuto permettere la vita di palazzo; dall’altra aveva sviluppato un carisma che feriva tanta era la sua ferocia.
Thorin era disposto all’ascolto con chi considerava suoi degni pari, discuteva con loro a proposito delle decisioni più difficili da prendere, ma l’ultima parola spettava sempre a lui e guai a contraddirlo una volta presa la decisione. Concedeva rispetto ed offriva amicizia, ma pretendeva lealtà assoluta e, in quanto Re, più rispetto di quanto in realtà concedesse. Se decideva di lavare un’onta subìta soffocandola nel sangue, non si faceva problemi a sporcarsi lui stesso le mani, foss’anche significasse sporcarsele col sangue dei suoi stessi simili.                                                                                                                                                                                   
Comandava, pretendeva, esigeva e sbraitava come qualunque altro sovrano che si rispetti, ma era la ferocia glaciale nel suo sguardo che spingeva tutti quelli che lo guardavano negli occhi a chinare la testa, preda di un invincibile timore reverenziale.
Coloro che lo amavano, prima ancora d’amarlo, di lui avevano innanzitutto paura. Gli unici che lo amavano di un amore puro e disinteressato – e da lui ricambiati; le sole persone al mondo a cui permetteva, nei confronti della propria persona, di agire, dire o fare qualunque cosa – erano suo fratello e sua sorella.
 
La caduta di Erebor aveva reciso alla base molti dei condizionamenti tipici della vita di palazzo: v’erano, da esuli, innumerevoli esigenze a cui far fronte, prioritarie, invero, rispetto ai pettegolezzi, ai capricci e a quale che fosse la vastissima e assortita gamma di futilità del momento.
C’era però un aspetto che, secolarizzato nel ciclo vitale di tutte le dinastie - quasi fosse uno degli atomi di una data entità: inscindibile per sua natura – avrebbe potuto continuare ad esserne parte integrante nonostante l’esilio.
Da che venivano al mondo, i figli cadetti erano destinati a vivere nell’ombra del primogenito e la cosa, per le femmine, era ancor più valevole che non per i maschi. Imparare a camminare, parlare, leggere, scrivere e comportarsi voleva dire, contemporaneamente, imparare a lottare con le unghie e con i denti per avere una qualunque voce in capitolo sulle questioni inerenti il regno e la sua condotta, pur rimanendo sempre, rigorosamente, un passo indietro rispetto al fratello maggiore. Non erano state rare le volte in cui, coloro che s’erano rivelati i veri burattinai dei fili invisibili a guida di una casata e di un impero, fossero proprio i fratelli minori di colui che sedeva sul trono; senza che questo, spesso, tronfio e sicuro del proprio diritto, se ne accorgesse minimamente.
Una tale condizione di costante scaltrezza da mettere in pratica, non potendo mai, al contempo, evitare di guardarsi accuratamente le spalle, portava molti di coloro che avevano avuto – secondo il loro punto di vista – la sfortuna di nascere figli cadetti anziché primogeniti, a diventare, col passare del tempo, delle persone sempre più subdole e sempre più incattivite.
Thorin, Frerin e Dìs erano consapevoli di tale aspetto, così come erano consci del fatto che esso avesse tutto il potenziale per instaurarsi tra di loro e metter radici nella loro famiglia nonostante l’esilio. Per questo, una volta che Frerin era divenuto più grande e Dìs sufficientemente in grado di afferrare la portata di determinati argomenti, ne avevano parlato tutti insieme. Il rapporto che condividevano aveva continuato così ad essere un sano rapporto di fratellanza e di intimo scambio, esattamente come quello che li accomunava da bambini: senza tabù di sorta e basato su un reciproco, vero affetto.
D’altronde erano rimasti soli al mondo, gli unici su cui poter davvero contare giacché, se anche il nonno e il padre fossero ancora vivi, dopo la caduta di Erebor non erano stati più gli stessi. Thror - da ancor prima della venuta di Smaug e, in fondo, colui a cui si poteva imputare tale venuta - era caduto vittima di un tarlo che gli devastava la mente, spingendolo ad amare l’oro molto più che non la sua stessa famiglia. Thrain, perduta la moglie durante l’agguato di Smaug e perduto il proprio regno, era impazzito di dolore; una follia da cui, seppur a fasi altalenanti, non si sarebbe mai più ripreso, fino al giorno della sua misteriosa scomparsa nei pressi di Bosco Atro.
 
Date le premesse, per nessuna ragione al mondo – regno, esilio o secolarizzazioni di sorta poca importava – Thorin avrebbe mai permesso che qualcosa incrinasse il rapporto coi suoi fratelli. Frerin e Dìs, dal canto loro, non avrebbero mai rinunciato a stargli accanto e a sostenere colui che, semplicemente, mettendoli di fronte alla questione ed esponendo loro il rischio potenziale che la cosa aveva di prender piede; li aveva salvati da una vita che, con tutta probabilità, li avrebbe condannati a lottare costantemente – e, paradossalmente pur sapendo che non ne sarebbero mai venuti fuori - per riscattare l’ombra a cui, essendo nati come figli cadetti, sarebbero stati relegati.
 
Tra coloro che Thorin considerava degni pari, i primi erano sempre stati Frerin e Dìs, per questo aveva sempre mandato a chiamare Frerin quando si riuniva in consiglio coi generali e con gli anziani e, prima di prendere qualunque decisione importante, continuava a discuterne con lui anche a consiglio ultimato e mandando a chiamare Dìs in privato.
Queste e mille altre erano le motivazioni per cui i suoi due fratelli erano le uniche persone al mondo in grado di poter affermare di amarlo senza avere di lui alcuna paura.
Con loro, Thorin, si lasciava andare al riso, scherzava e si permetteva parte di quella leggerezza che i tempi bui in cui erano stati precipitati gli avevano negato. Dìs e Frerin non avevano l’obbligo di essere od utilizzare un linguaggio formale nei suoi confronti, ma anzi, privatamente, si prendevano in giro l’un l’altro, alzavano la voce se c’era da alzarla, si abbracciavano, si lanciavano addosso cuscini per giocare od oggetti per sfogare la rabbia, apostrofandosi, nel contempo, con epiteti poco carini.
I suoi fratelli erano liberi di aprirsi a lui come meglio avrebbero ritenuto opportuno: mai, Thorin, avrebbe riservato loro lo sguardo con cui puniva chi, tra i suoi sudditi, l’offendeva in qualche modo.
 
Succedeva infatti che, quando il Re riteneva che un’offesa arrecatagli non fosse così grave da dover essere soffocata nel sangue, bastassero i suoi occhi a vendicare la propria persona perché non v’era modo migliore per riuscire ad umiliare nel profondo coloro che gli stavano dinanzi.
Il suo sguardo, invero, era tanto in grado di accendersi di passioni letali, quanto di riempirsi di una ferocia spietata celata al di sotto di una freddezza glaciale capace di far sentire quelli che avevano osato offenderlo delle insignificanti nullità. Tale era il suo carisma e l’astuzia che gli permetteva di vedere chi, realmente, avesse di fronte. L’umiliazione infatti avveniva sempre in pubblico, per questo chi davvero lo rispettava in quanto suo Re non tardava a crollare in ginocchio e a chiedere umilmente perdono, al contrario di quelli che invece alzavano la testa sfidandolo, pur di non ammettere il proprio errore di fronte all’intera corte riunita.
Il sangue, in quei casi, non tardava ad essere versato, senza che spesso, quei poveri diavoli, si accorgessero di essere stati loro stessi a fornire al Re il pretesto atto a giustificarlo.
 
Eppure, a volte - specchio della sua anima - capitava che gli occhi di Thorin si isolassero. Fissavano il vuoto mentre la sua mente vagava in luoghi dove neanche i suoi fratelli avrebbero potuto raggiungerlo; e come a chiunque altro, in quei momenti, egli riservava loro una fredda, totale indifferenza.
 
Speculari come una scritta al contrario riflessa in uno specchio, una grande forza di volontà racchiude e cela dentro di sé una disperata fragilità interiore che, nel suo caso, con l’avanzare del tempo, era stata acuita dallo spettro della pazzia dietro l’angolo – la stessa che aveva irretito prima suo nonno e poi suo padre - pronto ad imbrigliarlo alla prima mossa falsa e dall’angoscia di non poter avere la certezza se essa ne avrebbe effettivamente atteso una o se, al contrario, l’avrebbe assalito quando meno se lo sarebbe aspettato.
E poi Frerin: il suo fratellino che spirava tra le sue braccia, le sue mani imbrattate del suo sangue, quasi fosse stato lui stesso ad ucciderlo e, sotto sotto, una vocina maligna che da quel giorno aveva preso a strisciargli dentro, sibilando che sì, era stata colpa sua se suo fratello non c’era più perché s’era lasciato sopraffare dall’odio e non aveva mantenuto la promessa reciproca di non perdersi mai di vista durante la battaglia…
 
In tutto questo non c’era mai stato spazio per l’amore e ora che invece, l’amore, aveva scelto di instillarglisi dentro pur contro la sua volontà, non riusciva a fare a meno di provare rabbia nei confronti di sé stesso e nei confronti di colui che quel sentimento aveva innalzato ad oggetto del desiderio.
C’era stata un’altra persona, tempo addietro, ancor prima che la sciagura si abbattesse su Erebor, che i suoi istinti meno casti, per un periodo, avevano innalzato ad oggetto di brama.
Era giovanissimo allora, un adolescente secondo i canoni del popolo nanico, e come tale era decisamente incline a lasciarsi sedurre da ciò che veniva considerato proibito. “Ripugnante” era il termine esatto che, solitamente, veniva usato per descrivere un qualunque tipo di relazione che avesse a che fare con gli Elfi. Un abominio, un sacrilegio, i termini con cui la sua gente non avrebbe tardato a riempirsi la bocca, se solo avesse saputo non solo della relazione che intercorreva tra il loro Principe e uno degli appartenenti alla stirpe immortale, ma anche chi fosse esattamente costui e che tipo di relazione, i due, si dilettassero ad intrattenere…
Ma non era mai stato amore: piuttosto si trattava di un gioco che, ad ogni incontro, assumeva dei risvolti sempre più torbidi. Era il delirio dei sensi in cui, ogni singola volta, Thorin finiva con l’essere la preda adescata, sedotta e portata al limite di una smania famelica soltanto per poi essere lasciato lì, ovunque si fossero trovati, alla mercé della violenza di un desiderio insoddisfatto che, da preda, finiva sempre col trasformarlo in predatore.
Non aveva mai capito perché, tra di loro, dovesse costantemente andare in quel modo, né sapeva perché, negli occhi che l’altro gli piantava addosso – blu come le profondità del mare e inafferrabili come gli abissi infiniti di un tempo che per Thorin sarebbe rimasto per sempre un mistero insondabile – ci fosse una dose così carica di rabbia da non poter trovare le parole adatte a descriverla.
Il suo amante per primo non l’aveva mai fatto giacché erano i suoi gesti a parlare per lui, non la sua bocca; e Thorin, per quante domande potesse farsi, succube di una carnalità sconvolgente, non avrebbe mai osato interrompere quei momenti con degli interrogativi che, sapeva, non avrebbero comunque trovato risposta. E allora con tutta la furia e l’impeto che il suo amante era capace di instillare nei propri gesti, il giovane erede di Durin si lasciava stringere e toccare fino a farsi condurre al limite di una passione sfrenata, eppure mai oltre quel confine perché, quella creatura tanto perfetta quanto mostruosa, sistematicamente, ad un certo punto sembrava compiacersi nel privarlo della presenza del proprio corpo.
Con un ghigno di soddisfazione  e l’espressione canzonatoria l’Elfo lo fissava, tutte le volte, prima di rimettersi in piedi ed allontanarsi da lui. Quello era il suo modo di sfidarlo, provocandolo a lasciarsi avvolgere dalle fiamme di un desiderio stroncato al suo apice, ma ancora dolorosamente incalzante. Era così che lo forzava a farsi inseguire, a fare in modo che Thorin si trasformasse da preda in cacciatore e quando questo accadeva – e mai una volta, il giovane Nano, aveva disatteso le regole di quel gioco – il suo atteggiamento mutava radicalmente. Con arrendevolezza si lasciava prendere e plasmare, duttile come il più inesperto e voglioso degli amanti, sottomettendosi alle maniere brutali che era lui stesso ad istigargli. Senza soffocare neanche il più piccolo gemito o continuare a violentarsi nell’impedire alla propria bocca di esplorare quella dell’altro, l’Elfo lo guardava affondare nel proprio corpo con occhi adesso carichi di un languore che relegava la rabbia in un angolo lontano, sebbene non fosse mai riuscito a diradarla del tutto.
E dinanzi a quello sguardo, altri perché si andavano ad aggiungere a quelli già esistenti, senza che per questo, Thorin, fosse mai riuscito a trovare una spiegazione univoca. Tutto ciò che sapeva aveva a che fare con l’impossibilità di riuscire a capacitarsi di come fosse possibile che una creatura così splendente – anzi: la creatura di luce più splendente  in cui si fosse mai imbattuto – potesse anche solo concepire una rabbia spaventosa come quella che aveva visto costantemente offuscargli l’anima.
Ogni volta che per un motivo o per un altro la cosa gli tornava alla mente, Thorin non poteva fare a meno di pensare che qualunque fosse la natura di tutta quella collera, su di lui che era l’incarnazione stessa della perfezione fisica, stonasse esattamente – e un paragone più azzeccato non lo avrebbe proprio potuto trovare - come un Elfo con la barba!
Più di una volta era stato sul punto di dirglielo, ma all’ultimo s’era sempre tirato indietro, onde evitare il rischio di invischiarsi ancora di più in faccende che, per quanto ne sapeva, potevano anche essere più torbide del gioco che avevano iniziato.
Così lui si era sempre limitato a prendersi il proprio piacere e quando entrambi lo avevano ottenuto, ognuno tornava alla propria vita senza mai voltarsi indietro nel momento in cui si davano le spalle l’un l’altro. Questo, almeno, era ciò che aveva sempre creduto, eppure, se solo si fosse voltato, anche una volta sola, anche solo per un istantaneo, misero secondo, avrebbe trovato un paio d’occhi blu a fissarlo con una vana quanto folle speranza che, sistematicamente disattesa, si tramutava nuovamente in una rabbia ancor più feroce di prima.
L’unica spiegazione che s’era dato in proposito e che, per quella che fondamentalmente era noncuranza aveva finito col dare per scontato, riguardava l’antico odio che voleva Nani ed Elfi da sempre acerrimi nemici. Thorin era perfettamente consapevole del fatto che termini come “ripugnante”, “abominio” o “sacrilegio” erano in voga tanto tra la sua gente quanto tra quella del suo amante per aggettivare una qualunque relazione che vedesse coinvolte le due razze. Lui non vi aveva mai badato più di tanto perché la sua mente e il suo spirito non erano mai stati inclini a lasciarsi irretire dai luoghi comuni, specialmente quando questi erano particolarmente privi di senso logico.
Evidentemente però, per il suo Elfo non doveva essere così e tutta quella rabbia che, sebbene come una stonatura, era diventata parte integrante della sua persona, doveva per forza avere a che fare con l’impossibilità, da parte di entrambi, di riuscire a privarsi del loro gioco. Così, superficialmente, Thorin s’era sbrigato a liquidare la faccenda che, presa per buona, gli aveva fornito un valido motivo per non pensarci più…almeno fino a quando, qualche mese più tardi dall’inizio di quegli incontri segreti, tutto ciò che riguardava quella creatura immortale, aveva finito col tramutarsi in odio.
Un odio nefasto che si andava ad aggiungere alla disperazione per la perdita di Erebor e per tutti gli amici e i congiunti che quel giorno erano morti sotto ai suoi occhi, senza che lui potesse fare niente per impedirlo. Un odio accanito che il giovane erede di Durin, da quel giorno, non smise più di provare nei confronti di Re Thranduil, l’Elfo che era diventato il suo amante, colpevole di avergli volontariamente negato il proprio aiuto in un momento di così grande necessità.
Nel vedere quegli occhi blu che, dall’altura della valle, lo fissavano con qualcosa d’indecifrabile all’interno e poi le sue spalle che si allontanavano assieme al resto del suo esercito; la libido smaniosa che fino al giorno prima Thorin aveva provato per colui che, nella sua mente, si era dilettato a definire il “suo Elfo”, s’era inarrestabilmente mutata in odio senza che le fosse mai stata concessa l’eventuale possibilità di transitare prima per i lidi dell’amore.
 
Amore.
 
Per quanto concerneva l’amore, ironico era il destino che Mahal aveva riservato alle sue creature.
I Nani avevano sembianze apparentemente più dure della roccia che erano soliti scavare, eppure, sotto sotto, erano dotati di un cuore disperatamente romantico.
L’amore era un sentimento che avrebbero provato una volta sola nella vita e per una sola, unica persona – il proprio o la propria azyungel, termine in Khuzdul che stava a significare “colui o colei che si ama al di sopra di qualunque altra cosa. L’amore di tutti gli amori.” Nel caso in cui l’avessero persa, non avrebbero amato più. Nel caso in cui non fossero stati ricambiati, avrebbero trascorso il resto dell’esistenza da soli.
 
Il re dei sentimenti non aveva bussato alla porta del giovane, spensierato Principe di Erebor quando, di nascosto, s’aggirava tra i confini di Bosco Atro. L’aveva fatto ora nel bel mezzo di una missione potenzialmente suicida, ora che non era più né giovane, né tantomeno spensierato, ma Thorin Scudodiquercia, nobile condottiero dalla forza e dall’animo affinati dai sacrifici e dalle innumerevoli gesta; mancato Re Sotto la Montagna.
Mai, dopo tutto quello che era successo e con tutti gli anni che adesso aveva sulle spalle, avrebbe pensato che quel momento sarebbe giunto anche per lui.
Ogni proposito che si era posto di compiere, ogni pensiero che gli aveva affollato la mente e tutte le energie che aveva speso, erano stati finalizzati a quattro unici scopi: il riscatto, la vendetta, provvedere alla propria famiglia ed essere guida per ciò che rimaneva del popolo di Durin.
Niente e nessuno, fino ad ora, gli aveva impedito di concentrarsi sui suoi obiettivi, ma da quando l’amore si era introdotto a forza tra di essi aveva prepotentemente preso il controllo della situazione.
Lo distraeva quando non avrebbe dovuto, distoglieva la sua attenzione dalla pianificazione dell’impresa per dirottarla su dove si trovasse o su cosa stesse facendo lo Hobbit, appannava e mitigava gli incubi di fiamme e morte che avevano iniziato a perseguitarlo fin da quando Erebor era caduta e, sebbene questo fosse nient’altro che un fatto positivo, Thorin non era ancora in grado di viverlo altrimenti che come una seccatura atta a togliere nutrimento ai suoi progetti guerrafondai.
Eppure non voleva lasciarlo andare: si rendeva conto di essere l’incoerenza fatta persona, come mai gli era capitato in tutta la sua lunga vita; tuttavia non avrebbe mai permesso a Bilbo di varcare la soglia della caverna in cui si trovavano in quel momento – né ora né mai! Gli fece eco la sua mente – e se Bofur non fosse riuscito a fermarlo…bè, allora, con le buone o con le cattive ci avrebbe pensato lui stesso.
 
Tese ancor più l’orecchio, in attesa di capire se fosse il caso di intervenire o meno…
 
“No, scusami…non…” tentò il soggetto in questione, cercando di trovare le parole adatte a riparare ciò che aveva urlato contro al Nano originario di Moria e, benché fosse sinceramente dispiaciuto per aver alzato la voce con lui che non c’entrava niente, con rammarico si rese conto di non averne.
Non aveva parole adatte per ritrattare o rimangiarsi ciò che aveva detto perché, in fondo, nonostante la rabbia, era quello che pensava realmente.
 
Bofur fu celere a toglierlo dall’impaccio “no, hai ragione…” disse pacato, volgendo lo sguardo alla schiera di Nani addormentati sul pavimento roccioso “non apparteniamo mai a niente…” nella sua voce una nota di triste consapevolezza.
Poi si volse di nuovo verso Bilbo e gli sorrise “ti auguro tutta la fortuna del mondo…” affermò sincero, posandogli, ricambiato, una mano sulla spalla “dico davvero…”
 
Fu a quel punto che Thorin fece per scattare in piedi e mettere in pratica le proprie intenzioni, quando, tutto d’un tratto, il leggero strato sabbioso che ricopriva la superficie su cui erano sdraiati, iniziò ad essere risucchiato verso il basso, come in una clessidra capovolta.
Contemporaneamente sentì la voce di Bofur chiedere “che cos’è?...” riferendosi al fodero della daga di Bilbo, all’interno del quale s’era improvvisamente accesa una fredda e scintillante luce lunare.
 
Orchi! Erano finiti in una trappola degli Orchi!
 
La voce imperante di Thorin risuonò tra le volte della grotta “Svegliatevi dannazione! Svegliatevi!” ma prima ancora che il resto della compagnia potesse capire cosa stava succedendo, si ritrovarono tutti a precipitare nel vuoto.
 
Fu un volo di parecchi metri all’interno del cuore della montagna, fin quando atterrarono l’uno sopra l’altro su una piattaforma di legno posizionata proprio alla fine del cunicolo da cui erano appena piombati giù.
In meno di un secondo un’orrenda frotta di Goblin ed Orchi di caverna fu loro addosso. I Nani, per quanto poterono, cercarono di opporre resistenza, ma la cosa risultava piuttosto difficile dato che, oltre che disarmati, non erano ancora neanche riusciti a rimettersi in piedi.
Una manciata di minuti più tardi erano stati sopraffatti e messi in fila indiana, costretti a dirigere i passi ovunque quelle fetide creature li stessero conducendo.
Poco dopo aver attraversato una fitta rete di cunicoli e fatiscenti ponticelli sospesi, si ritrovarono su una piattaforma più ampia e più illuminata rispetto al resto delle gallerie che avevano percorso, alla fine della quale era posizionato un trono rozzamente intagliato nella pietra, adorno di macabri scalpi, ossa e teschi. Su di esso era mollemente adagiato un grosso Orco butterato che, non appena vide il manipolo di guardie avanzare con dei prigionieri al proprio seguito, saltò su con fare iroso.
 
“Chi sono questi miserabili?” Tuonò facendo ondeggiare la vistosa pappagorgia.
 
“Nani, vostra malevolenza” rispose quello che doveva essere a capo della squadriglia che li aveva catturati “…e questo qua!” aggiunse strattonando la corda con la quale era stato legato Bilbo, fino a farlo cadere sulle ginocchia.
 
“Sfrontati al punto tale da entrare armati nel mio regno!” Urlò quello dopo che il resto delle guardie ebbe gettato ai suoi piedi asce, spade e quant’altro.
 
“È mia convinzione, vostra grande eccellenza, che siano in combutta con gli Elfi!” asserì lo stesso che aveva parlato poc’anzi, rovistando tra il mucchio di cianfrusaglie che avevano rovesciato fuori da un sacco e afferrando, tra quelle, un candelabro d’ottone.
 
Il Grande Orco l’afferrò, rigirandoselo tra le mani “realizzato a…Gran Burrone…” disse soppesandolo “Seconda Era: da buttare, non vale niente!” e lo lanciò di sotto.
 
Nello stesso istante Dori si girò verso Nori, fulminandolo con lo sguardo: non poteva credere che il fratello avesse rubato persino in casa di Elrond!
Quello fece spallucce e si stampò un sorrisino innocente sul volto “qualche ricordino da conservare!” si difese.
 
“Ebbene! Chi siete? Spie? Ladri? Assassini? E che cosa ci fa da queste parti dell’odiosissima feccia nanica quale voi siete?! Parlate in fretta!” Li incalzò con un tono tutt’altro che amichevole il capo di quella marmaglia.
 
Thorin fece per farsi avanti, ma Oìn lo prese per una spalla, superandolo “non preoccupatevi ragazzi, ci penso io…” disse rivolto ai suoi compagni, convinto di bisbigliare e senza quindi rendersi conto che la sua voce, in realtà, era uscita come una sonora affermazione.

“Come hai detto?” Tuonò il grande Orco a cui, ovviamente, ciò che Oìn aveva proferito era giunto forte e chiaro “Bada a te, Nano! Voglio la verità!”
 
“Sarai costretto ad alzare la voce!” Replicò il figlio di Groìn che, per sottolineare le sue parole, si era portato all’altezza del viso la trombetta acustica ridotta ormai ad un inutilizzabile pezzo di lamiera “i tuoi mi hanno appiattito la tromba!”

“Appiattirò ben altro che la tua tromba!” Inveì minaccioso quello alzandosi dal trono e brandendo la sua mazza chiodata.
 
“Se sono più informazioni che vuoi…” s’intromise improvvisamente Bofur, spingendo Oìn dietro di sé, tra il resto dei compagni “io sono quello con cui parlare!...”
L’Orco gli fece cenno di andare avanti e l’arzillo Nano attaccò con uno dei suoi tipici soliloqui “eravamo lungo la strada…” iniziò “bè…neanche una strada, un sentiero!…in effetti neanche un sentiero ora che ci penso, più un viottolo! Comunque!, eravamo su questa strada tipo sentiero, tipo viottolo e poi…non c’eravamo!, e questo è un problema perché dovevamo trovarci a Dunland da martedì scorso…”
 
“A far visita a dei lontani parenti!” Intervenne Dori.
 
“Endogamici da parte di mia madre.” Confermò Bofur.
 
Al grande Orco che, solo a cercare di star dietro a ciò che andava blaterando quel maledettissimo Nano col cappello, stava iniziando a venire mal di testa; improvvisamente fece saltare tutti per aria, sbraitando a più non posso “ZITTO! BAAAAASTAAAA!! Se non vorranno parlare, saremo costretti a farli strillare! Portate qui il maciullatore! Portate qui lo spezzaossa!” Ordinò ai suoi. Poi guardando Ori con uno sguardo di perfido compiacimento aggiunse “cominciate coi più giovani…”
 
“ASPETTA!” Risuonò improvvisamente una voce forte e autoritaria, mentre la possente figura di Thorin si metteva davanti ai suoi compagni che, come tutte le volte in cui il loro capo prendeva in mano la situazione, avevano sempre l’impressione che la sua sola presenza fosse sufficiente a far loro da scudo.
Probabilmente era il suo carisma, la forza della sua aura, il portamento fiero ed elegante, la voce priva d’incrinature o tutte queste cose insieme; fatto stava che Bilbo, specialmente in momenti come quelli, non riusciva a guardarlo senza arrossire.

“Bene, bene, bene!...” asserì il grande Orco riconoscendo colui che aveva di fronte. Gli Orchi odiavano tutto e tutti, era risaputo, ma provavano un odio più accentuato verso i Nani, in particolare nei confronti del popolo di Durin per la battaglia svoltasi dinanzi ai cancelli di Moria.
“Guarda chi c’è! Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror, Re Sotto la Montagna!” Lo schernì accennando un inchino.
 
Fìli e Kìli si mossero all’unisono: la collera ad attorcigliargli le viscere, pronti a saltare al collo di quel maledetto pezzo di sterco indegno persino di respirare la stessa aria che respirava loro zio – come osava prendersi gioco di lui? Gli avrebbero staccato la testa! - ma furono fermati da Dwalin con un braccio teso davanti ai loro petti.
 
“Oh!” Fece l’Orco, al quale non era sfuggito quel movimento “Ma guarda un po’: ti sei portato appresso dei giovani cani da guardia!...I tuoi mocciosi?” Tirò ad indovinare con un tono sempre più derisorio “quello lì, il biondino, non può essere tuo: la Regina Sotto la Montagna deve proprio avertela fatta sotto al naso!” Rise, non contemplando minimamente che, se anche fosse stato davvero figlio di Thorin, l’oro dei capelli di Fìli sarebbe benissimo potuto venire dalla Regina Sotto la Montagna “Ops! Ma mi dimenticavo: tu non ce l’hai una Montagna e non sei Re…il che fa di te un nessuno in realtà.”
 
Fìli, che si era sentito chiamato in causa e al quale prudevano sempre più le mani per ciò che era costretto a sentire, ignorando l’ammonimento di Dwalin, fece per farsi avanti, furioso “IO SONO…” esordì, ma qualunque cosa avesse avuto da dire, fu stroncata seduta stante da un rimprovero in Khuzdul di Thorin che, tutt’altro che propenso a fare il gioco del disgustoso essere che gli stavi innanzi, non rispose alle provocazioni e si limitò a guardarlo in cagnesco.
L’Orco, irritato, tornò a sedersi sul trono alle sue spalle, ma poi con aria improvvisamente raggiante asserì “conosco qualcuno che pagherebbe un bel prezzo per la tua testa. Solo la testa: nient’altro attaccato. Forse tu sai di chi sto parlando…un vecchio nemico tuo. Un Orco pallido, a cavallo di un bianco mannaro…”
 
Esattamente come poco prima, la voce di Thorin suonò ferma e decisa “Azog il Profanatore è stato distrutto. Trucidato in battaglia molto tempo fa!”
 
“Ah! Così credi che i suoi giorni da profanatore siano finiti, vero?” Rise sguaiatamente l’orrenda creatura; quindi si voltò verso un piccolo Goblin deforme appeso ad una specie di carrucola, ordinando “invia un messaggio all’Orco Pallido: digli che ho trovato il suo premio!” e quello, scribacchiando qualcosa su un foglio, volò via sghignazzando malignamente.
 
Dopodiché, non appena gli attrezzi di tortura che aveva ordinato di portare furono posizionati a poca distanza dalla piattaforma sulla quale si trovavano; il grande Orco si mise a cantare delle abominevoli strofe, facendo trascinare Thorin e i suoi compagni verso quel punto.
 
Bilbo si muoveva con la tipica aria terrorizzata di chi sta andando incontro al patibolo, chiedendosi quale mai avrebbe dovuto essere il senso di tutto ciò che era accaduto: l’incontro imprevisto coi Nani, l’inizio di un viaggio inaspettato, la scoperta di un amore che ancora non sapeva se definire la cosa più folle del mondo o quella più giusta e, adesso, l’epilogo di tutto questo dentro a quel luogo miserabile!
I Nani, strattonati e spinti brutalmente con calci e pugni, cercavano di darsi un contegno e di ribellarsi ai loro aguzzini, fin quando, uno dei Goblin, rovistando tra le armi dei prigionieri, afferrò il fodero lucente di Orcrist.
Come fece per sfoderare la spada dalla sua custodia, si ustionò le mani e lanciandola a terra mandò un urlo di dolore.
Tutti gli Orchi e i Goblin presenti, alla vista dell’antica lama elfica, si ritrassero spaventati.
 
“Conosco quella spada!” Gridò il grande Orco “È la Fendiorchi! Il Coltello! La lama che ha tagliato mille colli!” Un lampo di rabbia attraversò il suo sguardo e rivolgendola contro ai Nani tuonò ai suoi “squarciateli! Picchiateli! Uccideteli! Uccideteli tutti!”
 
Infuriati quanto il loro capo e aizzati ancor più dalle sue parole, i carcerieri iniziarono a frustarli selvaggiamente, fin quando, dapprima una luce accecante e poi un’esplosione spaventosa investì con un boato ognuno dei presenti.
 
Finiti gambe all’aria e frastornati per i colpi subìti, i Nani ci misero un po’ a riconoscere nel polverone che s’era alzato la figura di Gandalf – Glamdring sguainata nella mano destra e il bastone saldo nella sua sinistra.
 
“Imbracciate le armi!” Li esortò lo stregone “COMBATTETE!” Tuonò lanciandosi contro ai nemici ed iniziando a menar fendenti da tutte le parti.
 
I Nani non se lo fecero ripetere due volte e riacquistato nuovo vigore per la confortante presenza del loro amico, recuperarono le armi e, indomiti, si gettarono nella mischia.
 
“Brandisce l’Abbattinemici! Il Martello! Splendente come il sole!” Strillò il capo degli Orchi terrorizzato per la seconda volta in pochi minuti, di fronte ad un’altra lama elfica che ben conosceva.
Coltello e Martello – i nomi con cui gli Orchi, da sempre, erano soliti chiamare Orcrist e Glamdring; spade che, il grande Orco, alla fine della Prima Era, sperò di non dover mai più incontrare sul suo cammino.
 
“Seguitemi! Svelti!” Urlò Gandalf che, a furia di tirare fendenti mortali, era riuscito ad aprirsi una via di fuga.
Tutti gli furono immediatamente dietro, correndo a rotta di collo giù per i cunicoli e i traballanti ponticelli di legno.
“Più svelti, più svelti!” continuò ad esortarli concitato “E che qualcuno si occupi del Signor Baggins!” disse a mo’ di comando poiché, nonostante la fretta indiavolata, allo stregone non era sfuggito il fatto che Bilbo non riuscisse ad andare veloce neanche la metà di loro.
 
Prima ancora che potesse capire ciò che stava succedendo, lo Hobbit si ritrovò stretto al corpo di Thorin – uno, due, un altro paio di fendenti che, Orcrist alla mano, il capo della compagnia menò prima dietro e poi davanti a sé; dopodiché con lo stesso braccio con cui lo stava reggendo, se lo caricò in spalla e continuò a correre con Bilbo aggrappato alla sua schiena.
 
Da quel momento in poi, il tempo per lui parve scorrere come al rallentatore; la sua mente completamente smarrita all’interno di un’altra dimensione.
Non esistevano più né le frotte di Orchi che avevano alle calcagna, né gli sballottolamenti da una parte all’atra come conseguenza della corsa o dell’impeto che Thorin metteva nei movimenti di attacco e difesa.
Il terrore che aveva provato poc’anzi, in barba alla situazione di pericolo che tutti loro stavano ancora vivendo, si era totalmente dissolto per lasciare spazio ad un’estrema sensazione di pace interiore e ad un calore avvolgente che, traboccando a fiumi dal suo cuore, lo spinse ad affondare, con un sorriso di pura beatitudine sulle labbra, il volto tra i capelli del Nano.
Come? – si chiese – Come aveva potuto anche solo pensare di essere in grado di lasciarlo?
Se l’avesse fatto avrebbe probabilmente gettato la propria dignità alle ortiche nel giro di qualche minuto poiché – si disse - il tempo massimo che sarebbe stato in grado di reggere senza di lui, ammontava esattamente a quello. Se il morbo della follia fosse invece riuscito a spingerlo oltre, prima o poi – molto prima che poi - ne sarebbe certamente morto di crepacuore.
Mai, in tutta la sua vita, aveva provato qualcosa di sconvolgente e bellissimo come il sentimento che, secondo dopo secondo, stava inesorabilmente prendendo possesso della sua intera persona. Era qualcosa di magico e di spaventoso allo stesso tempo perché rendeva completamente succubi, irrazionali e lungi dal volersi sottrarre al suo dominio.
Fu con un disarmo totale, dunque, con una dolcissima arrendevolezza, che lo Hobbit portò entrambe le braccia ad avvolgersi attorno al collo di Thorin e, con un lato del viso posato teneramente contro la sua nuca, sussurrò “amore…amore mio…”
 
Al capo della compagnia, quel lieve sussurro - a causa del clangore metallico delle armi e dello scalpitio di stivali atti a fuggire - giunse ancor più ovattato di quanto già fosse. Ciononostante fu il suo cuore a percepire quelle parole e un angolo della sua mente - benché tutta la concentrazione fosse impegnata a colpire, schivare, correre - ne registrò il significato, facendolo arrivare dritto al luogo in cui risiede il raziocinio.
Quel mormorio, per un attimo, Thorin pensò di averlo solo immaginato, eppure il sussulto che dal suo petto ancora echeggiava in ogni anfratto del suo corpo, gli urlava a gran voce che era stato reale.
 
In un brevissimo quanto apparente attimo di calma, con altre frotte di Orchi che ancora li tallonavano a breve distanza e un bivio di fronte al quale Gandalf si era fermato un attimo a riflettere per decidere quale fosse la giusta via da imboccare; Thorin aveva voltato il viso verso la propria spalla sinistra e lì, ad un soffio, aveva incontrato le labbra di Bilbo. Sarebbe bastato solo un altro piccolo movimento in avanti per appropriarsene una volta per tutte senza che, nessuno dei loro compagni – concentrati com’erano a guardarsi dagli Orchi e dall’ansia crescente – facesse caso a loro; invece, tutto ciò che gli riuscì di fare, fu alzare gli occhi su quelli del Mezzuomo, cosa che lo fece avvampare oltre ogni dire! Bilbo, infatti, che fino a mezzo secondo prima stava a sua volta fissando le sue labbra, aveva appena compiuto lo stesso gesto e si ritrovò a puntare negli occhi azzurri del Nano uno sguardo ricolmo di bruciante, incontenibile desiderio.
Fu quello l’esatto momento in cui ogni residuo di barriera autoimposta crollò definitivamente poiché, così, senza parlare e senza più remora alcuna, l’uno aveva consegnato all’altro l’essenza, la forma precisa della propria anima messa a nudo.
 
“Per di qua, muovetevi!”
 
Una nuova esortazione di Gandalf li fece piombare nuovamente nella realtà circostante, restituendoli al pericolo che, lì dentro, ancora incombeva sulle teste dell’intera compagnia.
 
Nel momento in cui Thorin, suo malgrado, fu costretto ad interrompere il contatto visivo per gettarsi nuovamente nella rocambolesca fuga, Bilbo non riuscì a non lasciarsi sfuggire un profondo sospiro di frustrazione, esattamente come se il cercare di salvarsi la pelle da una mandria inferocita di Orchi assassini, a confronto, fosse solo una stupida inezia!
La mano sinistra di Thorin però – quella libera da Orcrist - non tardò a mitigare la sua insoddisfazione perché non appena le sue gambe avevano ricominciato a correre, quella, in una carezza impacciata, era salita a stringere entrambe le mani de lo Hobbit le cui braccia si trovavano ancora morbidamente avvolte attorno al suo collo.
Subito, Bilbo, ricambiò la stretta e come se, fino a quel momento, tutto ciò che era accaduto negli ultimi secondi fosse transitato direttamente al cuore e all’anima senza passare prima per il cervello; l’improvvisa realizzazione di quanto appena successo li colpì entrambi con tutta la potenza sottesa nei gesti che s’erano appena scambiati.
 
Fino a due giorni prima Bilbo aveva passato tutta la notte a piangersi addosso per le parole velenose che Thorin gli aveva rivolto e, qualche ora prima, era persino pronto – o quantomeno così credeva – ad allontanarsi definitivamente da lui.
Thorin, d’altro canto, ancora lottava con la convinzione di poter avere il pieno controllo sugli effetti di un sentimento la cui nascita era stata del tutto imprevista.
Ora, invece, l’intera situazione si era completamente capovolta, lasciandoli entrambi a dir poco sbalorditi.
Ciononostante, tutt’altro che propenso a lasciarsi sopraffare dall’emozione, dall’imbarazzo, dall’incredulità o dalla minaccia che incombeva a pochi metri da loro; Bilbo, decidendo di non voler più rifuggire la questione, afferrò il coraggio a due mani e facendo un grosso respiro - incurante degli scossoni, delle giravolte, delle imprecazioni, del sangue nero di Orchi e Goblin che schizzava fuori dalle miserabili membra o dalle teste digrignanti che, con Orcrist, Thorin trinciava di netto dal resto dei loro corpi – disse, a mo’ di macchinetta “non vorrei mai che fosse così, non sono mica pazzo!, eppure sono consapevole del fatto che, data la situazione, potremmo non rivedere più la luce del sole. Ebbene! Non voglio andarmene da questo mondo sapendo di non averti mai detto quanto…ti amo Thorin, perché è così: io sono perdutamente innamorato di te e penso di esserlo sin dal momento in cui quella sera, sulla soglia di casa mia, posasti per la prima volta il tuo sguardo su di me. Sei il motivo per cui vi sono corso dietro la mattina successiva, accettando infine di far parte di questa missione potenzialmente suicida perché, il pensiero di non rivedere più i tuoi occhi mi uccideva. Poi…bè si, certo: più in là nel tempo mi sono chiesto di cosa diamine mi fossi mai innamorato visto che sei…come dire?, a dir poco burbero, scontroso, taciturno, spaventoso…un mastino che ringhia insomma!...” – Thorin, che sin da quando Bilbo aveva attaccato col suo monologo non aveva mai smesso di correre, menar fendenti e tirare calci da tutte le parti; lo ascoltava esterrefatto, non sapendo se scoppiare a ridere e dar luogo ad una scenetta alquanto bizzarra con sé stesso che, con uno Hobbit chiacchierone aggrappato alla propria schiena, trucidava Orchi mentre se la rideva di gusto o se, piuttosto, far scendere suddetto Hobbit da lì e, tra un Orco decapitato e un Goblin sbudellato, dargli una strigliata coi fiocchi, esattamente come si conviene con un sottoposto particolarmente insolente. – “Ma sei anche dotato di un animo buono e gentile oltre che nobile” aveva proseguito Bilbo “lo so perché l’ho visto e benché tu possa tentare di ferirmi ancora dicendomi che parlo a sproposito perché non so nulla di te; io sono più che sicuro di cos’è che ho visto! Ogni singolo giorno trascorso da quando è iniziata quest’impresa!”

“…E sentiamo” asserì improvvisamente Thorin – non poteva credere di stargli davvero dando retta! – “cos’è che avresti visto?”
 
Bilbo non se lo fece ripetere una seconda volta e proseguì accomodandosi di più sulla sua schiena, proprio come se, seduto su un divano, si trovasse nel bel mezzo di una tranquilla chiacchierata “l’amore che ti lega ai tuoi nipoti, il particolare riguardo che hai nei loro confronti, così come in quelli di Dori ed Ori, che ti spinge a cercare sempre di affidar loro mansioni che non li obblighino a separarsi. Il rispetto che nutri per Balin ed Oìn, i membri più anziani della compagnia; lo stesso rispetto che, il giorno in cui perdemmo i pony, ti indusse a farti carico della maggior parte del bagaglio comune senza che se ne accorgessero, per non ferire il loro orgoglio. Inoltre sei sempre l’ultimo a nutrirti: ti preoccupi, prima ancora che per te stesso, che tutti gli altri abbiano avuto la giusta porzione di rancio e le rare volte in cui è avanzato qualcosa hai sempre lasciato che fossero i tuoi compagni a beneficiarne. Ti piace ridere, anche se lo fai molto di rado e, di notte, ti piace guardare a lungo le stelle. Ovviamente, quello che pensi in quei momenti non lo so, ma…dalle mie parti, quelli che sono soliti lasciar spaziare il proprio sguardo sulla volta stellata, non sono mai delle brutte persone e penso che questo valga anche al di fuori dei confini della Contea.”
 
Mahal!’ si ritrovò a pensare Thorin, piacevolmente colpito da quelle parole ‘perché me l’hai mandato solo adesso?’
Fìli e Kìli, da piccoli, gli avevano tirato spesso la barba e i capelli litigando su chi dei due dovesse stare in braccio o dovesse fare le trecce all’adorato cio toin – una volta, diventati un po’ più grandi, mentre giocavano a rincorrersi con delle spade di legno, erano saltati sul tavolo dove lui stava mangiando, finendo col rovesciargli addosso l’intera cena…cosa che, per un mese, gli era valsa due ore al giorno in più di lezioni con Balin - ma ora che erano cresciuti non avrebbero mai osato rivolgersi a lui usando termini come quelli con cui Bilbo gli si era appellato – un mastino che ringhia!
Solo Dìs si era azzardata a tanto e, a suo tempo, Frerin lo punzecchiava spesso dicendogli cose tipo “ecco fratellone: cooosì! Vedi che non è difficile?” mentre con due dita posate ai lati delle labbra gliele faceva inclinare in un sorriso forzato.
Ma, togliendo la famiglia, nessuno si era mai sognato di rivolgersi a lui senza farsi alcun tipo di scrupolo riguardo al suo titolo – cosa che, se da una parte lo faceva infuriare, dall’altra aveva la stramba peculiarità di divertirlo parecchio – così come nessuno, d’altronde, aveva mai avuto l’innata capacità di leggergli dentro come fosse stato un libro aperto.
 
“…Sai, Thorin, dalle mie parti si dice anche che chi tace acconsente” seguitò Bilbo poco dopo aver studiato la sua reazione “perciò, nonostante quello che potresti cercare di inventarti stavolta, sono più che certo di aver colpito nel segno!”
 
Per tutti i Valar! Chi l’avrebbe mai detto che gli Hobbit potessero essere addirittura più boriosi dei Nani?
“Hai presente quelle orrende creature che, se solo riuscissero a metterci le mani addosso, ci staccherebbero volentieri la carne a morsi?! Ero intento a farne fuori il più possibile nel caso in cui non te ne fossi accorto!”
 
“Eri intento nella stessa cosa anche poco fa, eppure non mi pare che ti abbia impedito di rispondermi!”
 
Di una boria che non demordeva, fra l’altro!
“E dunque dimmi, Bilbo Baggins, che cosa vorresti sentirti dire?”
 
“Voglio sapere dalla tua bocca se il mio amore per te è destinato a rimanere una vana speranza o se, piuttosto, esiste la concreta possibilità di essere ricambiato!”
 
“Non mi sembra il momento più adatto per parlarne!”
 
“Potremmo non averlo un momento più adatto, ci hai pensato?”
 
“Io non…”
 
“Ti prego, Thorin! Ho bisogno che tu sia sincero con me…adesso! Non ce la faccio più a tormentarmi dalla mattina alla sera, chiedendomi se quello che provo non debba essere considerato nient’altro che una follia! Ogni volta che mi guardi non so mai come interpretare i tuoi sguardi: vedo che mi cerchi quando non sono a un palmo di distanza da te, come se ti chiedessi con apprensione dove diamine sia finito. Allora, quando i miei occhi incrociano i tuoi, sembra ci sia sollievo ad illuminarli e…un calore che azzarderei a chiamare amore, eppure…poco dopo, viene tutto offuscato da una rabbia che non so spiegarmi; una rabbia che senza remora mi getti addosso, lasciandomi come il più stolto e il più infelice dei miserabili che non riesce a capire cosa mai abbia fatto di sbagliato per meritarsi un simile trattamento perché…deve pur esserci! Qualcosa di cui non riesco a capacitarmi deve pur…”
 
“No!” Lo interruppe Thorin con enfasi “Tu non hai fatto nulla di sbagliato! Sono io che…da quando ho iniziato a provare…” – amore…non riusciva ancora a dirlo … - “qualcosa per te, non ho fatto altro che cercare di rinnegarla gettandoti addosso una rabbia che, in realtà, provo nei confronti di me stesso perché…non sono in grado di combatterla! Non ci riesco! Ho provato con tutto me stesso, ma non…”
 
Il suo sfogo venne interrotto da un improvviso scappellotto in testa che Bilbo non riuscì proprio a tenersi “mi stai dicendo che se ho sofferto le pene dell’inferno è stato solo perché sei talmente testone da non capire che la cosa migliore da fare era semplicemente accettare quello che hai iniziato a provare per me?! Qualunque cosa essa sia!”
 
No, fermi tutti! Gli aveva davvero dato uno scappellotto in testa?! E…seriamente: testone?!? Ma come osava!
“Tu! Insolente che non sei altro! Se non…” – ti amassi – “provassi qualcosa per te, ti lascerei volentieri qui alla mercé degli Orchi! Saprebbero loro darti la lezione che meriti!”
 
“Non cercare di cambiare argomento, Thorin! Quello che voglio sapere è se…”
 
Per la barba di Durin! Adesso si metteva persino a dettare legge! Ma tra tutti gli Hobbit ficcanaso di tutta la dannata Contea, Gandalf doveva andare a scegliere proprio quell’impiastro lì?
“…se hai sofferto le pene dell’inferno perché io non riuscivo ad accettare quello che provo per te?” lo interruppe lui come una furia “Sì! Sì, è così! Contento adesso? Dopotutto non dovresti avere di che lamentarti, visto che, vuoi o non vuoi, hai ottenuto la tua confessione! Volevi sapere se esisteva la possibilità di essere ricambiato: sì, esiste!, anche se non dovrebbe! Cos’altro vuoi di più?”
 
“Non ho di che lamentarmi?!” fece Bilbo esterrefatto “No, sul serio! Non posso crederci! Tu non hai neanche la più pallida idea di quello che ho passato a causa del tuo atteggiamento! Tu non…”
 
Ma quello che si prospettava come un lungo monologo isterico venne improvvisamente interrotto da un’orda di Orchi proveniente proprio dalla direzione in cui la compagnia si stava dirigendo.
Presto, Gandalf e i Nani, si ritrovarono a dover combattere su due fronti, e Thorin, onde evitare che Bilbo venisse colpito alle spalle, fu costretto a farlo scendere dalla propria schiena.
“Sguaina la spada e cerca di rimanere il più possibile in mezzo al gruppo!” gli gridò col tipico fare autoritario di chi, in momenti come quello, non ammetteva repliche “Prova ad essere avventato e se non saranno gli Orchi a conciarti per le feste, giuro che lo farò io! Ora va’!” tuonò, non senza prima avergli lanciato uno sguardo carico di tacite promesse – non temere: adesso che ti ho trovato non permetterò che niente e nessuno ci separi
 
Bilbo, nonostante la sensazione di vuoto che avvertì non appena i loro corpi furono costretti a separarsi, s’affrettò ad eseguire gli ordini senza discutere.
La lotta, attorno a lui, imperversava cruenta, ma la superiore abilità dei Nani in battaglia, unita a una superiore prestanza fisica e a superiori tecniche di combattimento, permetteva loro di avere la meglio sugli avversari.
Solo a volte, un Orco o un Goblin, riusciva a penetrare oltre il cerchio che i Nani avevano creato coi loro corpi per difendersi l’un l’altro le spalle, finendo però con l’incontrare la lama a cui Bilbo, più tardi, avrebbe dato nome Pungolo.
Tutt’altro che abilmente, ma, a quanto pareva, in maniera sufficientemente utile; lo Hobbit cercò di mettere in pratica i movimenti di braccia e polso e di coordinazione di gambe e piedi che Fìli, tra una pausa e l’altra del viaggio, aveva tentato di insegnargli.
Non che nessuno l’avesse obbligato, anzi!, ma se pur non si fosse offerto come volontario, l’incombenza sarebbe comunque stata affidata a lui visto che, sin da quando era cresciuto abbastanza per riuscire a reggere una spada con una mano sola, gli era stato affibbiato il soprannome di “re delle lame.” Per ogni spada o pugnale che avesse in dotazione infatti, si poteva star certi che Fìli ne avesse dei gemelli. Per il viaggio verso la Montagna Solitaria, oltre alle due pesanti spade che portava sulla schiena, possedeva quattro coppie di pugnali di cui, due appesi alla cintola, due infilati nei bracciali di pelle su ognuno degli avambracci, due dentro a delle fessure esterne su ogni stivale e due – quelli a cui teneva di più visto che gli erano stati regalati dal fratello - nascosti dentro a dei foderi più piccoli all’altezza delle spalle, sotto alla folta pelliccia che ricopriva il bordo della sua giubba.
Con un totale di ben dieci lame al proprio attivo – le stesse che, non appena aveva messo piede in casa de lo Hobbit, gli aveva scaricato tra le mani con un “attento con queste: le ho appena fatte affilare!” - tra i componenti della compagnia, Fìli era l’unico a saper combattere maneggiando due spade per volta e, in generale, il più abile dopo Thorin ad usare la spada; ragione, questa, che gli era valsa il ruolo momentaneo di maestro d’armi di Bilbo.
Divertito dalla cosa e avvezzo sin da piccolo a seguire il fratello maggiore in qualunque impresa si lanciasse; Kìli volle dare anche lui il proprio contributo alla causa, finendo col trasformare quello che avrebbe dovuto essere un allenamento serio e sfiancante in uno altrettanto sfiancante, ma alquanto divertente.
Ovviamente Thorin, in merito a ciò che, a suo modo di vedere le cose, poteva essere una passione ma non certo un divertimento, non riusciva a nascondere i suoi borbottii di disappunto, benché, al di là di esplicitare la propria opinione, non avesse mai fatto nulla per imporre il proprio metodo di allenamento. Il capo della compagnia aveva infatti notato che Bilbo, pur rimanendo un imbranato di prima categoria a maneggiare le armi, apprendeva più velocemente se, tra una nozione e l’altra, gli veniva lasciato lo spazio necessario per degli sprazzi di buonumore in grado di metterlo a proprio agio.
La cosa gli ricordava i tempi in cui lui e Dwalin avevano iniziato ad allenare Fìli e Kìli, facendogli tornare alla mente, ancora una volta, l’abissale differenza che distingueva i tempi in cui lui e Frerin venivano allenati dal vecchio Bentor e quelli in cui lui e Dwalin avevano iniziato ad allenare i figli di sua sorella. Non aveva mai trovato una spiegazione univoca che giustificasse una così tale differenza di concessioni: forse, si era detto, la causa era da andare a ricercarsi nel periodo in cui Fìli e Kìli erano venuti al mondo.
Eredi di Durin, Principi ereditari della Montagna Solitaria e dell’immenso tesoro custodito al suo interno: tutti titoli – tanto veritieri quanto altisonanti – che, chiunque, non aveva fatto altro che ripeter loro sin da quando erano nati, eppure, fin tanto che quello di Erebor fosse rimasto un popolo in esilio, indipendentemente dalle quantità di volte e dall’enfasi che si impiegava a sciorinare quei nomi; Fìli e Kìli erano e rimanevano in realtà Principi ereditari di un bel niente.
Non che la cosa avesse anche solo minimamente il potere di turbare due bambini la cui unica preoccupazione era quella di gettarsi a capofitto nella vita, ma, volenti o nolenti, l’aveva eccome sugli adulti. E così, chiudere un occhio ed elargire un po’ troppo facilmente frasi tipo “e va bene! Per questa volta faremo un’eccezione!” che poi si rivelava comunque essere un’eccezione anche la volta dopo e quella dopo ancora; era, di fatto, divenuta la norma, anche su cose che, ai tempi in cui Thorin, Frerin o Dwalin erano ragazzi, avrebbe mandato su tutte le furie un irreprensibile Bentor o un severissimo Thrain.
Un comportamento, quello degli esuli, apparentemente atto a mitigare la consapevolezza di ciò che i giovani non avevano mai visto, sebbene poi, ciò che veramente attenuasse, era il senso di perdita di chi Ereber l’aveva vissuta e vista cadere coi propri occhi.
 
Un tale atteggiamento dunque, era quello che sin dall’inizio aveva costituito la base degli allenamenti di Fìli e Kìli.
Essendo il maggiore, Fìli era stato introdotto all’uso delle armi e alle tecniche di combattimento corpo a corpo con cinque anni d’anticipo rispetto a Kìli; e Mahal solo sapeva il casino che era stato in grado di armare il piccolo Kìli perché, i suoi cinque anni – così gli era stato detto - erano ancora pochi per poter essere addestrato a ciò che Fìli, invece, aveva l’età giusta per imparare!
Alla fine, complice un’esasperata Dìs che, mentre Fìli era via, non sapeva più cosa diamine inventarsi per riuscire a tenere a bada il minore dei suoi figli; erano riusciti a giungere ad un compromesso: lo zio Thorin e Dwalin gli avrebbero permesso di assistere agli allenamenti di suo fratello, ma solo quando questi sarebbero stati circoscritti all’arena vicino casa e a patto che lui si limitasse solo ed esclusivamente ad osservare. Ciò significava – parole testuali di Thorin – non provare nemmeno a fare un solo, singolo capriccio nei giorni in cui gli allenamenti di Fìli si sarebbero svolti all’aperto, in luoghi perlopiù impervi o, comunque, impervi da raggiungere, e che a lui, quindi, erano ancora insindacabilmente preclusi.
Il piccolo Nano, non stando più nella pelle per la gioia di averla spuntata, aveva promesso solennemente di rispettare tutte le condizioni che gli erano state imposte, benché poi, questo, non gli avesse di certo impedito – e a più riprese – d’irrompere all’interno dell’arena quando Fìli finiva ruzzoloni nella sabbia con qualche colpo di piatto delle spade o delle asce di legno che venivano usate in addestramento.
Con gli occhioni lucidi di lacrime e attaccandosi alla gamba del fratello strillava di non fargli del male, convinto che, per qualche strana ragione di cui lui non riusciva a capacitarsi, fossero proprio quelle le intenzioni di Dwalin e dello zio Thorin.
A nulla erano valse le rassicurazioni che i due, Dìs e persino lo stesso Fìli, gli avevano rivolto, dicendogli che, anche se sembrava, quei colpi non facevano affatto male e che l’allenamento a cui era sottoposto – lo stesso a cui, un giorno, sarebbe stato sottoposto anche lui – era necessario per diventare dei guerrieri forti e abili, degni, proprio come lo zio Thorin e Dwalin, di appartenere alla stirpe di Durin.
Alla fine, duro come solo i bambini talvolta sanno essere, era stato Fìli a farlo desistere dall’irrompere nell’arena ogni qualvolta lui finisse a terra. Con uno sguardo minaccioso che mai, prima d’allora, gli aveva rivolto, gli aveva detto di non intromettersi più nel suo allenamento ché a furia di perdere tempo per consolarlo su qualcosa che oltretutto era anche inesistente, lui non avrebbe mai imparato un bel niente! Poi rivolgendo lo stesso sguardo di fuoco alla madre che, seduta sugli spalti, guardava il suo bimbo dai capelli d’oro con aria di chi, prima o poi, si sarebbe aspettata una scenata del genere; le aveva detto di riprendersi Kìli e di portarlo a casa. Ma non ce n’era stato bisogno perché Kìli, profondamente ferito dal suo atteggiamento, era corso via piangendo. Fìli, a quella scena, come se fosse stato indeciso tra il corrergli dietro e riprendere l’allenamento dal punto in cui era stato interrotto; era rimasto a guardare per un po’ la figura del fratellino che si allontanava, ma poi, stringendo i pugni e soffocando la morsa che aveva preso a stringergli il cuore, si era voltato verso i suoi maestri e senza dire una sola parola s’era rimesso in posizione d’attacco.
Thorin e Dwalin, senza commentare a loro volta, si erano limitati ad assecondarlo, convinti che, in fondo, ciò che era successo fosse l’unico modo possibile per riportare un po’ di disciplina all’interno di un contesto che, a furia di “e va bene! Per questa volta faremo un’eccezione!” stava man mano perdendo gran parte della sua risma originaria.
 
Quella sera, a tavola, il silenzio pungente in cui vertevano i commensali, stava dando luogo ad un’atmosfera che Dìs non tardò a definire surreale. Solitamente, affinché lei e Thorin potessero comprendere ciò che l’una o l’altro andavano dicendo, erano costretti a sgolarsi per cercare di ergersi al di sopra del baccano che Fìli e Kìli erano in grado di creare; finché poi, quando Thorin perdeva la pazienza, metteva tutti e due a tacere ringhiando in Khuzdul.
In quel momento, invece, era Dìs che, con l’intento di spezzare l’opprimente velo di silenzio che regnava sovrano, ogni tanto cercava di fare qualche considerazione estemporanea sui più svariati argomenti. Entrambi i cugini, Balin e Dwalin, si erano fermati per cena e se il primo, com’era sempre stato nel suo carattere, l’assecondava con sorrisi e risposte gentili, l’altro, a volte – e altrettanto in conformità col suo, di carattere – grugniva qualcosa d’incomprensibile senza neanche curarsi di staccare gli occhi dal piatto.
Thorin invece, che da quando Raìli era caduto in battaglia tre anni prima, si era sentito in dovere di mettere Dìs e i suoi figli sotto al suo stesso tetto per prendersi cura di loro proprio come avrebbe fatto un fratello ed un padre devoto – cosa che, fra l’altro, in quanto famiglia reale, sarebbe stata normale prassi se si fossero trovati ad Erebor - si limitava ad osservare entrambi i nipoti, studiandone i pensieri attraverso gli atteggiamenti.
Molti anni prima, qualcosa di simile era successo anche a lui e a Frerin, ragion per cui nei gesti remissivi di Kìli, nel suo tener gli occhi puntati verso il basso mentre, col cucchiaio, continuava a rimestare una minestra che ormai era diventata gelata; Thorin leggeva quella che con tutta probabilità era una profonda vergogna nei confronti di sé stesso. Una tale interpretazione non era affatto lontana dalla realtà poiché, in effetti, Kìli si stava autocommiserando in silenzio per essersi comportato come un nanetto senza spina dorsale e, quel che era peggio, per aver fatto arrabbiare Fìli esponendolo al ridicolo e mettendolo quindi in imbarazzo davanti a coloro a cui suo fratello guardava per diventare forte e coraggioso.   
Di fronte a lui, dall’altra parte del tavolo, Fìli si muoveva a scatti, ostentando nei gesti una sicurezza che in realtà nascondeva il forte desiderio di dimenticare ciò che era successo, rivolgere lui per primo la parola a Kìli, foss’anche stato per chiedergli scusa e, contemporaneamente, il freno interiore che l’orgoglio gli stava imponendo di tenere.   
Alla fine, complice il profondo affetto che, già a quei tempi, li teneva saldamente legati tra loro, il tutto aveva finito col risolversi per il meglio entro quella stessa sera perché, la verità, era che nessuno dei due riusciva a tenere il broncio o a stare lontano dall’altro troppo a lungo.
Una volta in camera, dentro al letto a due piazze che condividevano – abitudine che avevano continuato a protrarre anche da adulti – Kìli gli si era fatto vicino e abbracciandolo da dietro gli aveva spiegato con una semplicità disarmante che tutte le volte che lo vedeva spinto a terra, gli faceva male “qua…” aveva detto, indicandosi il petto all’altezza del cuore. Fìli, che era voltato di spalle, si era rigirato nel suo abbraccio e stringendolo a sua volta, con aria colpevole, gli aveva immediatamente chiesto scusa per averlo fatto piangere. Non avrebbe mai voluto e solo per quello gli aveva chiesto scusa altre mille volte, ma a mandarlo fuori dai gangheri, gli aveva spiegato, era stato il suo impuntarsi a proposito di qualcosa su cui persino lui stesso, che era il diretto interessato, aveva più volte cercato di rassicurarlo, facendogli quindi pensare che o non si fidasse della sua parola o che il suo incaponirsi fosse solo un modo infantile per attirare l’attenzione su di sé, infischiandosene di rovinare l’allenamento a cui lui – e Kìli lo sapeva bene – tanto teneva.
 
Quello che, più in là negli anni, sarebbe diventato un morboso rapporto d’amore da proteggere da tutti quelli che, seppur non sarebbero mai stati in grado di capire, si sarebbero comunque affrettati ad additare come malato, scandaloso, inammissibile; a quei tempi era ancora in fase di evoluzione e per ognuno dei fratellini aveva seguito dinamiche differenti.
Kìli, l’attaccamento ossessivo nei confronti del fratello, l’aveva manifestato poco dopo esser venuto al mondo, a nemmeno un anno d’età. Le sue prime parole non erano state, come per la maggior parte degli altri bambini, “mamma” o “papà”, ma “iondi”; “caaavegli iondi.”
Raìli, tutto pimpante e su di giri per il fatto che il suo piccolino avesse una così particolare considerazione per i suoi capelli, tanto da diventare addirittura le sue prime parole; gli aveva messo in mano una ciocca della propria chioma leonina, con un sorriso inebetito stampato sul bel volto “ecco, amore del papà: biondi! I capelli biondi del papà!”, ma Kìli, sorridendo, aveva riaperto il pugno e aveva proteso le manine verso Fìli, seduto poco distante a fare colazione.
Fìììì iondi” aveva detto sporgendosi oltre le braccia del padre “Fìììì caaavegli iondi” aveva briosamente dichiarato mentre afferrava una delle treccine di suo fratello e se la portava alla bocca per darle un candido bacino.
Da allora, benché non potesse certo negare di avergli voluto bene anche prima, seppur – come tutti i fratelli maggiori - lo avesse considerato un piccolo impiastro venuto a rubagli il primato di attenzioni; Fìli aveva razionalmente deciso che, in fondo, un po’ di bene a quel cosino senza denti, con i capelli e gli occhi scuri completamente differenti dai suoi, poteva anche volergliene.
Tale decisione aveva fatto sì che, negli anni della prima infanzia, Fìli accettasse di buon grado di essere seguito sempre e ovunque dal proprio fratellino, quasi fosse stato la sua ombra, e molto rare erano le volte in cui “Fìììì”, divenuto poi “Fee” – e conseguentemente “Kee” – arrivava a perdere la pazienza: come per ciò che era successo nell’arena, bisognava proprio portarlo all’esasperazione per farlo reagire in malo modo!
Poi, le cose, attorno ai ventun anni di Fìli e ai sedici di Kìli, erano cambiate ulteriormente.
Secondo i canoni del popolo nanico erano ancora entrambi, a tutti gli effetti, dei bambini – l’età adulta l’avrebbero raggiunta solo una volta superata la soglia dei settant’anni – ciononostante, bambini o meno, quello era anche il periodo in cui si risvegliavano i primi ormoni e, come per tutti i ragazzi di tutte le razze esistenti in Arda, il periodo in cui si è ostinatamente convinti che qualunque occasione è buona pur di manifestare quanto si sia indipendenti dal prossimo - di per sé, già un valido motivo atto a dimostrare che tale convinzione sia quanto di più lontano dalla verità.
Fatto stava che, già da qualche mese a quella parte, Fìli aveva preso a frequentare un gruppo di giovani Nani e Nane della sua stessa età, trascorrendo la maggior parte del proprio tempo libero con loro. Kìli sembrava tollerare ben poco sia questo, sia il fatto che suo fratello gli proibisse categoricamente di unirsi alla compagnia ché, diceva, ciò di cui parlavano non erano argomenti adatti ai marmocchi. Eppure, ciò che più di tutto lo faceva imbestialire, aveva a che fare con le volte in cui Fìli condivideva le sue giornate con una Nana in particolare; lui e lei da soli senza nessun altro intorno.
A Kìli, per quanto sedici anni, tra i Nani, più che pochi potessero esser irrisori e per quanto esperienze di un certo tipo non ne avesse ancora mai avute; non era comunque sfuggito il modo in cui la giovane facesse il filo a suo fratello. Le occhiate dolci che gli rivolgeva, il modo in cui cercava sempre di sedersi vicina a lui, di sfiorare il suo corpo con il proprio facendola passare per casualità e, non da meno, il suo costante ronzargli attorno come un’ape sull’alveare anche quando, benché non attesa, piombava in casa senza preavviso, recando con sé sacchetti di dolci e biscotti per scrollarsi di dosso il rischio di essere considerata da Dìs e soprattutto da Thorin, invadente e maleducata.
Se anche sua madre, di fronte a quelle gentilezze, potesse chiudere un occhio o chiuderli entrambi e se anche suo zio lasciasse correre perché, in fondo, la cosa gli risultava indifferente; così non era per Kìli.
Da quando Fìli aveva preso a trascorrere la maggior parte delle proprie giornate con quel suo nuovo gruppo di amici e da quando Eldren – questo il nome della giovane Nana – sembrava essere diventata la sua fidanzatina; gli scoppi d’ira, tra lui e Kìli, avevano finito col diventare normale prassi quotidiana.
Kìli gli urlava contro come un ossesso al minimo pretesto, foss’anche stato per gesti che li accomunavano da tutta una vita: ritrovarsi schiacciato sui cuscini di una poltrona al grido di “il fratellone ti tiene in pugno!” o farsi rubare, sotto al naso, l’ultima fetta della famosa torta alle fragole di Dìs, quello col pezzo di frutta in cima, conservato, avendo maniacalmente mangiato prima tutt’intorno, per essere l’ultimo boccone a concludere con delizia la fine di altrettanta delizia.
Fìli si era ritrovato basito da – a suo modo di vedere le cose - tanta inspiegabile aggressività, ma poi l’iniziale sconcerto si era trasformato in boria e in pari irruenza.
Erano fortunati che in quel periodo, Thorin, si fosse recato fuori per affari e stando come al solito lontano per qualche mese, non aveva potuto assistere ai loro ormai continui litigi.
La mattina dopo il suo rientro però, la giovane Eldren aveva bussato, come tante altre volte da un po’ di tempo a quella parte, alla porta dei Durin. Dìs era già uscita di casa per andare a fare compre e sapendo che Fìli e Kìli ancora dormivano, Thorin era l’unico che potesse andare ad aprire la porta. Così, già sveglio da un po’, s’era alzato dallo scrittoio su cui stava esaminando alcune carte e s’era incamminato fuori dalla propria stanza. Appena socchiusa la porta sul corridoio però, aveva visto Kìli sfrecciare in direzione dell’entrata e spalancare il portone d’ingresso con un unico, stizzito, secco gesto.
Fuori, dall’altra parte della porta, Thorin aveva intravisto il viso di una giovane Nana che gli era già capitato di vedere in compagnia di Fìli e di altri ragazzi; così aveva fatto per girare sui tacchi e tornare alle proprie incombenze. Senonché, proprio mentre stava per richiudersi la porta alle spalle, aveva udito Kìli rivolgersi alla ragazza con un tono di voce e con parole inammissibili “Eldren! In nome di Mahal! Nessuno ti ha mai detto che sei una gran sfacciata a presentarti qui un giorno sì e l’altro pure, soltanto perché sbavi appresso a mio fratello? Sai, detto tra noi, visto che stai sempre in mezzo ai piedi quando si tratta di Fìli, qualcuno, in città, potrebbe iniziare ad avere dei seri dubbi sulla tua condotta…se capisci cosa intendo! Pensa che cosa direbbe tua madre al riguardo e…per tutti i Valar! Pensa alla faccia che farebbe tuo padre se…” ma le sue parole, dettate da una velenosa quanto irrefrenabile gelosia, furono improvvisamente interrotte da Thorin…
“KÌLI!” tuonò, facendo sobbalzare entrambi per lo spavento e per il terrore che la sua voce adirata incuteva. Con gesto imperioso comandò al nipote di rientrare in camera ed alzando, subito dopo, gli occhi sulla ragazza, fece solo in tempo a vederla mentre, col corpo tremante, accennando una riverenza e balbettando un “v..vostra maestà…vogliate perdonarmi…” si sottraeva al suo sguardo il più in fretta possibile.
Quando poi aveva varcato la soglia della camera dei nipoti, aveva trovato Kìli con la testa china, seduto sul letto a gambe incrociate e Fìli che, svegliatosi di soprassalto a causa dell’urlo con cui, poco prima, lo zio aveva ripreso suo fratello, con gli occhi ancora impastati di sonno, volgeva interrogativo lo sguardo dall’uno all’altro.
Niente, qualche attimo dopo, aveva salvato Kìli da una furibonda ramanzina di Thorin e, nell’ascoltarla, Fìli aveva appreso cos’era accaduto, trovando anche la risposta al perché, suo fratello – com’era solito comportarsi in quelle occasioni – non avesse cercato il suo sguardo o la sua vicinanza a mo’ di sostegno.
Benché lo zio si fosse limitato ad articolare la propria paternale su un rispetto che l’intera comunità era tenuto ad osservare come primo principio regolatore atto a gestire i rapporti e gli scambi che avvenivano al proprio interno; principio di cui anche i membri della famiglia reale, anzi: soprattutto loro, dovevano far tesoro – e guai a chi abusava indebitamente del proprio potere per questioni di grande come di piccola importanza! – le intuizioni di Thorin a proposito di ciò a cui aveva assistito, erano andate ben oltre quello che aveva dato ad intendere nella sua predica.
Per lui, il rapporto di interscambio che c’era tra i nipoti, era come un percorso iniziato sedici anni prima e man mano che se ne scoprivano le tappe – almeno per chi, come Thorin, era davvero capace di osservare - era possibile intuirne la direzione. Dai capelli biondi che erano state le prime parole di Kìli, ai baci che quest’ultimo pretendeva di dare a Fìli sulla bocca perché così aveva visto fare dagli adulti, fino all’ossessione quotidiana dei regalini: fiori di campo ed insetti morti, abominevoli intrugli culinari che il piccolo di casa osava chiamare torte o biscotti e, più in là nel tempo, piccoli oggetti intagliati nel legno fino ad arrivare poi alle forgiature di metallo e alle incisioni, arte in cui avrebbe eccelso e da cui sarebbero derivati i pugnali che gli aveva regalato poco prima della partenza per Erebor.
Al contrario di suo zio però, Fìli, per via dell’età e dunque per la poca esperienza di vita, si era limitato a recepire quanto combinato da suo fratello, fermandosi alla superficie, ovvero al fatto che Kìli avesse - chissà per quale motivo!, probabilmente solo per fargli un dispetto - ficcato il naso in questioni su cui lui gli aveva categoricamente intimato di non impicciarsi…marmocchio!
Indispettito, era saltato giù dal letto e cercando di vestirsi il più in fretta possibile per andare da Eldren e provare a porre rimedio a ciò che suo fratello aveva fatto; aveva preso ad inveirgli contro, quasi che la sfuriata di Thorin non fosse stata già di per sé abbastanza traumatica.
 
“Giuro che questa me la paghi Kee! Ma io dico: ma si può sapere che cosa ti è saltato in mente? Ti ha per caso dato di volta il cervello? Aggredire Eldren in quel modo sulla soglia di casa! Ti pare bello quello che hai fatto? Che poi, per Mahal!, non riesco a capirne il perché! Magari non ti piace o forse ti sta antipatica, ma quali che siano le tue motivazioni, questi non sono affari che ti riguardano!”
 
Kìli continuava a tenere la testa china, seduto sul letto con le ginocchia al petto, immobile nella stessa identica posizione in cui Thorin l’aveva lasciato prima di uscire dalla loro stanza.
Fìli stava ultimando di allacciarsi le stringhe della casacca e attendeva da suo fratello una qualche forma di replica che però, a quanto sembrava, non aveva intenzione di arrivare.
 
“Ehi, ci sei?” aveva quindi insistito “Non pensare di cavartela trincerandoti dietro ad un infantile mutismo! Se non sapessi che la mattina dormi come un sasso, mi verrebbe quasi da pensare che tu l’abbia fatto intenzionalmente…insomma! Poteva aprire lo zio e, in ogni caso, prima che un qualunque bussare, foss’anche il più forsennato, riesca a buttarti giù dal letto, farebbe svegliare me come minimo cento volte ancor prima che tu apra un solo occhio! Così, invece, sembra quasi che tu non abbia dormito per niente pur di attenderla al varco e, ciò che più mi dà da pensare: pur non sapendo se Eldren sarebbe venuta o meno!, quindi esigo delle spiegazioni e le esigo ora!” aveva concluso infine, appoggiandosi con una spalla, a braccia incrociate, sullo stipite della porta. 
 
“Come se occorra davvero sapere con certezza se si presenterà o meno…”
 
Kìli aveva parlato a denti stretti, con tono sarcastico e senza nemmeno alzare lo sguardo su suo fratello il quale, non avendo ben afferrato ciò che l’altro aveva detto, aveva mosso qualche passo verso di lui…
 
“Non ho sentito, Kee! Sarebbe troppo chiederti di alzare la vo…”
 
“HO DETTO” era improvvisamente saltato su interrompendolo “COME SE CI FOSSE DAVVERO BISOGNO DI SAPERE SE VERRÀ O MENO! È PRATICAMENTE SCONTATO CHE SIA COSÌ VISTO CHE ANCHE IN MANCANZA DEL RESTO DEI VOSTRI AMICI, NON SI È MAI FATTA PROBLEMI A PRESENTARSI QUI DA SOLA UN GIORNO SÌ E L’ALTRO PURE!”
 
Investito dalla valanga di parole furiose che il fratello gli stava gettando addosso, Fìli si era immobilizzato a metà strada tra il letto e la porta, con un’espressione alquanto basita stampata sulla faccia. Poi però, tempo qualche secondo per metabolizzare quello che aveva tutta l’aria di presentarsi come un nuovo, ennesimo litigio, che aveva preso a rispondergli a tono anche lui.
 
“QUESTO NON GIUSTIFICA IL TUO COMPORTAMENTO! E SE ANCHE FOSSE VERO CHE LEI STIA SEMPRE QUI, NON VEDO COMUNQUE COME LA COSA POSSA RIGUARDARTI IN ALCUN MODO!”
 
“ED È PROPRIO QUI CHE TI SBAGLI FEE, PERCHÉ TU SEI AFFAR MIO!”
 
Non ce l’aveva fatta, Kìli, a trattenersi oltre: in quel momento, mentre suo fratello lo guardava senza capire – eppure, a ben vedere, con una fievole scintilla di consapevolezza che, improvvisa, s’era accesa sul fondo delle sue iridi azzurre – avrebbe voluto non solo mordersi semplicemente la lingua, ma sotterrarsi seduta stante con le sue stesse mani.
 
“Kee…io…” aveva iniziato Fìli, distogliendo lo sguardo e stringendo i pugni come per imporsi di non cedere a qualcosa che, benché ancora indefinita dentro alla sua testa – o almeno così gli faceva comodo credere - aveva il potere di soggiogare a sé il suo spirito; quando, neanche il tempo di riuscire a formulare una veloce risposta un minimo adeguata alla situazione che, uno degli stivali di Kìli gli era atterrato al centro del petto.
 
Piegandosi su sé stesso improvvisamente senza respiro, aveva sentito il fratello ringhiare un “ TU NON CAPISCI MAI NIENTE, FEE!” mentre, sfrecciandogli accanto, si precipitava correndo fuori di casa.
Qualche secondo dopo, l’unico rumore che si poteva  avvertire, era il suo respiro che tornava mentre si accasciava sul pavimento e, tanto stupidamente quanto ironicamente, nella sua testa suonavano parole tipo ‘come sarebbe a dire che non capisco mai niente? Ma se sono sempre io quello che si mette a rispiegargli daccapo gran parte delle lezioni di Balin?’
 
Da quel giorno, la sera, Kìli aveva preso a rincasare sempre più tardi, ma mai così tanto da far preoccupare sua madre o suo zio: semplicemente, rimaneva fuori casa più del solito e più a lungo del solito, stando però ben attento a non sforare quei limiti d’orario che, tendenzialmente, venivano considerati da un po’ tutti gli adulti come accettabili.
Ma se così facendo poteva darla a bere a Dìs o ad un Thorin troppo concentrato su ben altre questioni per badare al fatto che Kìli avesse preso a rientrare all’ora di cena anziché, com’era sempre stata consuetudine, due o tre ore prima; di certo, la cosa, non era passata inosservata agli occhi di Fìli.
Inoltre era da allora che suo fratello gli rivolgeva la parola lo stretto indispensabile – anzi: sarebbe stato più corretto dire che cercava di evitarlo il più possibile – eliminando molte delle consuetudini che li univano sin da piccoli. La mattina, ad esempio, non gli intrecciava più i capelli – anche se, sulla sua chioma indomita, l’unica cosa che sopportava era il fermaglio di mithril, Kìli, avendo da sempre una particolare adorazione per i capelli del fratello, era bravissimo a fare le trecce! – e a letto, di notte, gli dava sempre le spalle, senza augurargli più la buonanotte con un abbraccio.
Tutte queste cose insieme stavano iniziando a dargli parecchio sui nervi; ancor più quando aveva capito con chi, Kìli, subito dopo le lezioni di Balin, trascorreva tutti quei pomeriggi fuori casa.
 
Su decisione di Thorin infatti, il vecchio Nano si occupava dell’istruzione dei due giovani Durin, facendo loro da tutore, mentre lui e Dwalin provvedevano alla parte inerente l’addestramento alle armi e al combattimento.
Capitava però a volte che, quando Thorin si allontanava dalle Montagne Azzurre per i suoi viaggi d’affari – accompagnato sempre da Dwalin e da altri Nani a fargli da scorta – Balin si occupasse di entrambe le cose.
Era stato per merito suo se Kìli era diventato un arciere straordinario, arrivando, nonostante la minor altezza, a battere persino alcuni degli arcieri più bravi tra gli Uomini che dimoravano in quei luoghi.
A differenza del cugino e del fratello che basavano la propria tecnica di combattimento sulla forza e sulla stazza – caratteristiche di tutti i Nani – insegnando ai loro allievi, di conseguenza, a combattere in tal modo; Balin aveva capito che Kìli avrebbe potuto sviluppare anche altre peculiarità: prima fra tutte la maggiore statura rispetto alla media della loro gente.
Non che Kìli avesse difficoltà ad apprendere il metodo di Thorin e Dwalin - era anzi piuttosto bravo - ma di fronte a Nani più bassi e più massicci di lui, nel corpo a corpo non veniva mai al dunque. Praticamente sgusciava da tutte le parti, sfruttando a proprio vantaggio superiori velocità e agilità di movimento, fino a quando l’avversario, impossibilitato a stargli dietro, si arrendeva sfiancato. Il problema però era che anche lui, alla fine, non ne usciva proprio fresco come una rosa perché correre, schivare, abbassarsi e rotolare in continuazione era come portare avanti una danza che finiva solo nel momento in cui la stazza di chi gli stava di fronte s’arrendeva alla propria pesantezza.
Così, un giorno in cui Thorin contrattava mercanzie con gli Uomini che vivevano a sud dell’Ered Luin – perlopiù leghe metalliche e attrezzature come armi o strumenti di lavoro forgiati dalla maestria dei Nani: la venuta di Smaug niente aveva potuto su quell’eredità, tramandata sotto forma di capacità ed esperienza millenaria - Balin aveva pensato bene di mettere in mano a Kìli un arco. 
Non che l’anziano Nano si fosse mai potuto reputare un arciere degno di questo nome - e la cosa, d’altronde, valeva un po’ per tutti i Nani esistenti - ma nel corso della sua lunga vita aveva avuto tutto il tempo di venire a contatto con le più disparate categorie di armi forgiate da Elfi, Uomini e Nani.
Il giorno stesso aveva insegnato a Kìli i primi rudimenti necessari a maneggiare quell’arma: lui ne era stato talmente entusiasta da continuare ad allenarsi anche da solo, fino a che, qualche settimana dopo, nel bosco vicino casa aveva trovato un ragazzo che si allenava con arco e frecce sfruttando il bersaglio appeso ad un albero che lui e Balin avevano provveduto a sistemare.
Inizialmente era rimasto sconcertato da quella presenza, ma poi aveva visto che il ragazzo, dopo avergli dato una veloce occhiata, soffermandosi a posare lo sguardo un po’ più a lungo sull’arco che teneva in mano; aveva rialzato gli occhi su di lui e gli aveva sorriso cordialmente.
 
“Ora capisco! Tu devi essere il proprietario di questo bersaglio: mi era parso alquanto strano infatti che si trovasse ad un’altezza, per me, così insolitamente bassa! Spero non ti dispiaccia se mi sono permesso di spostarlo un po’ più in alto in modo tale da potermici allenare anch’io!”
 
Kìli gli aveva sorriso di rimando, rispondendogli che non gli dispiaceva affatto ed esortandolo, anzi, a continuare.
Poi si erano presentati – Dàirendil era il suo nome - ed era venuto fuori che era il figlio minore del capo della comunità di Uomini che vivevano qualche miglio a sud dalla valle del fiume Lhun, a un paio d’ore di cammino dalle dimore dei Nani. Suo padre e suo zio Thorin si conoscevano perché erano in affari.
Quel giorno, gli aveva detto, si era inoltrato parecchio nel bosco spinto da chissà quale irrefrenabile desiderio – forse, aveva confessato poi, per cercare di sfuggire a tutte le conversazioni tanto blande quanto obbligate con cui, la sua gente, in occasione del suo diciannovesimo compleanno avvenuto una settimana prima; aveva preso a tartassarlo.
 
Ciò che di Dàirendil saltava subito all’occhio era la sua particolare avvenenza. I suoi capelli, di media lunghezza, chiusi da un laccio all’altezza della nuca, erano lisci e avevano il colore dei rubini. Non rossicci come molti dei Nani di sua conoscenza, a metà tra il castano chiaro e l’arancio, ma rossi fuoco, come le pietre preziose che la sua gente tanto amava. Gli occhi, azzurri come un cielo estivo, gli ricordavano molto quelli di Fìli e creavano, nel viso dall’incarnato chiarissimo e - data la giovanissima età - ancora completamente privo della barba, un contrasto incantevole. Il suo corpo era alto e slanciato, con una muscolatura accennata che un giorno sarebbe diventata molto più possente di ciò che era ora. Fosse rimasto sempre così – e avesse avuto le orecchie a punta - Dàirendil avrebbe benissimo potuto essere scambiato per un giovane Elfo.
Dal canto suo, Kìli, già a sedici anni era molto più alto rispetto alla media della sua gente, ma Dàirendil, appartenendo alla stirpe degli Uomini, lo superava di circa quaranta centimetri.
 
Il resto del giorno i due nuovi amici lo trascorsero insieme, tirando con l’arco e imparando a conoscersi tramite le più disparate conversazioni: dagli usi e i costumi delle rispettive popolazioni a domande sempre più personali come i rispettivi punti di vista su questa o quell’altra cosa.
 
Le settimane passavano e Dàirendil e Kìli, pur vedendosi quasi ogni giorno, dandosi appuntamento a circa metà strada dai luoghi in cui si trovavano le loro case, ponevano sempre un occhio di riguardo rispetto all’ora in cui ciascuno avrebbe dovuto rincasare; fin quando, un pomeriggio, spinto dalla curiosità di capire dove diamine finisse il proprio fratellino da un po’ di tempo a quella parte e, più che altro, indispettito dal fatto che Kìli, dopo quanto avvenuto con Eldren, praticamente non gli rivolgesse più la parola; Fìli aveva deciso di andarlo a cercare.
 
Dopo un’oretta di cammino lungo la strada che si inoltrava nel bosco, l’aveva trovato in una radura, seduto sull’erba, che intrecciava ciocche di capelli rossi appartenenti ad un ragazzo che non aveva mia visto prima e che, sdraiato davanti a suo fratello, gli poggiava la testa sulle ginocchia.
Archi e frecce abbandonati in un angolo, vicino al bersaglio poco distante. Le maglie di entrambi – un po’ per il caldo torrido dell’estate inoltrata, un po’ per la mancanza di un lenzuolo vero e proprio su cui accomodarsi - adagiate in terra alla buona, sotto ai loro corpi.
 
Quella visione inaspettata ebbe, inspiegabilmente – o almeno così ancora si ostinava a credere – il potere di farlo infuriare.
Chi era quel ragazzo? - Un appartenente alla stirpe degli Uomini per di più! - E perché aveva così tanta confidenza con suo fratello da arrivare addirittura a posargli la testa in grembo mentre quell’altro sciagurato – che, per inciso, non gli aveva detto nulla in proposito – gli intrecciava i capelli!, ovvero stava adoperandosi in un gesto tanto intimo e confidenziale – tra i Nani lo era - che, fino ad allora, aveva riservato solo ed esclusivamente a lui, alla madre o allo zio Thorin!
Per di più, come se tutto ciò non fosse già di per sé sufficientemente snervante, ci si metteva pure la nudità dei loro corpi troppo vicini a mettere a dura prova il suo autocontrollo!
 
Sapeva, Fìli, quanto suo fratello, crescendo, fosse divenuto avvenente. Già soltanto a sedici anni aveva una corporatura tonica e slanciata impossibile da non notare e un viso dai tratti delicati reso ancor più aggraziato dalla totale mancanza di barba. Kìli non faceva che lamentarsene, ma lui, al contrario, lo trovava bellissimo; così come, d’altronde, obiettivamente lo era anche lui stesso.
Anche Fìli infatti non aveva nulla di cui lamentarsi: per quanto estremamente diversi nel fisico, Mahal era stato molto generoso con entrambi.
A differenza di Kìli, lui possedeva una muscolatura più sviluppata, più conforme alla tipica stazza della loro gente. La barba, per quanto ancora solo leggermente accennata, data la giovane età, gli conferiva un tocco più virile rispetto al fratello, ma ciò che lo distingueva da qualunque altro Nano che viveva sui Monti Azzurri era la capigliatura leonina. Crescendo, i suoi capelli non si erano scuriti come spesso accadeva quelle rare volte che un Nano venisse al mondo coi capelli biondi, ma avevano assunto i riflessi ed il colore dell’oro, identici a come li aveva avuti Raìli.
 
Spesso, Fìli, osservando la propria figura e quella del fratello riflesse nel grande specchio della loro stanza, mentre Kìli immergeva le mani nella sua chioma per intrecciargliela; si era ritrovato a pensare a quanto le loro immagini fossero speculari. Due metà agli antipodi che solo insieme formavano un’unica entità perfetta giacché, se separate, ciascuna presso qualcun altro e qualche altro luogo, non faceva che dibattersi alla ricerca dell’altra.
Cercarsi in continuazione – con gli occhi, con la voce, con il tatto - era per loro un gesto talmente spontaneo da non accorgersene nemmeno, esattamente come respirare.
Tutte le volte che Fìli si perdeva a guardarlo, sul fondo della sua anima sentiva il perpetuo echeggiare di un nome, un mormorio costante che era sempre lì, nonostante cercasse di soffocarlo, di combatterlo, di rinnegarlo. Confortante, imperterrito e spaventoso, quel nome recitava “azyungel” e lui non sapeva fare a meno di esserne terrorizzato ed esaltato allo stesso tempo.
 
Schiarendosi la voce per palesare la propria presenza e facendosi largo tra i rami dei bassi arbusti che stavano tutt’intorno alla radura, Fìli si portò al centro dello spiazzo, a pochi passi dagli altri due ragazzi. Quelli alzarono subito gli occhi su di lui e non appena incrociò lo sguardo con quello di suo fratello, lo vide irrigidirsi all’istante e mollare la presa sulle ciocche di capelli che stava intrecciando, proprio come se si fosse improvvisamente scottato.
Per circa una decina di secondi nessuno disse nulla e Daìrendil, spostando lo sguardo dall’uno all’altro, poté notare come il nuovo arrivato fissasse il suo amico con un’intensità tale che lasciava trasparire quello che, con tutta probabilità, doveva essere un legame molto forte; mentre Kìli, di rimando, aveva puntato lo sguardo a terra, quasi si vergognasse di qualcosa, e sembrava non sapersi più smuovere da quella posizione.
 
Fu Fìli, con tono secco e risentito, a spezzare per primo il silenzio che si era venuto a creare “ti è per caso caduta la lingua, Kee?, o stai ostentando una maleducazione che, di certo, non è attribuibile alla tua famiglia? Non mi presenti al tuo nuovo amico?”
 
Kìli, quasi cercasse di farsi sempre più piccolo – le mani chiuse a pugno posate sulle ginocchia, la schiena curva, lo sguardo basso e il cuore in tumulto – non osò levare gli occhi su quelli del fratello poiché temeva di trovarci biasimo e delusione.
Ogni parola di Fìli era equivalsa ad una stilettata dritta nel petto e già solo quello bastava a farlo sentire un essere miserabile. Rendersi conto, adesso, che quegli occhi azzurri che tanto amava gli stessero riservando un qualunque sentimento ascrivibile alla lista dei sentimenti deprecabili - cosa che lui, da parte del suo Fee, non sarebbe mai stato in grado di sopportare - sarebbe servito soltanto ad accelerare il processo di totale disfatta della propria autostima.
 
Con una voce tanto fioca da risultare innaturale rispetto a quella che era sempre stata una personalità solare, Kìli, continuando imperterrito a tenere lo sguardo agganciato al terreno, presentò i due ragazzi “L..lui è…Dàirendil, figlio di Mèledil, minore dei tre figli d..del capo della comunità di Uomini a sud della valle del Lhun e…lui è Fìli, della stirpe di Durin, primogenito di Raìli, se..secondo alla successione del trono di Erebor…mio…fratello.”
 
Fratello? – Fu la domanda che sorse spontanea nella mente del giovane Dàirendil – davvero due persone così fisicamente diverse tra loro potevano essere fratelli? Di certo non aveva nessun motivo per mettere in dubbio la loro parola, ma ‘che io possa diventare blu se questa non è la prima volta che mi capita di imbattermi in un simile miracolo della natura!’
 
Stava quasi per esternare il proprio pensiero, quando Fìli fece nuovamente risentire la sua voce, imperando a Kìli che era ora di tornare a casa.
Quello si alzò senza dire una parola, raccattò la propria maglia in fretta e furia e, indossandola, lo salutò con un unico sguardo mortificato.
 
Quella sera, a cena, Fìli simulò una calma che quasi faceva paura tanto era invidiabile la sua recita, mentre Kìli si dibatteva nell’incertezza se sentirsi oltraggiato per essere stato trattato come un pivello davanti al suo amico o se, piuttosto, continuare a sentirsi una specie di traditore abietto per essere stato sorpreso ad avere a che fare con una situazione di cui non aveva fatto parola con nessuno, compreso colui con cui aveva sempre condiviso tutto quanto.
 
Una volta terminato il pasto e rientrati finalmente in camera loro, Kìli non fece neanche in tempo ad allentare i bottoni della leggera tunica che indossava, che Fìli aveva già spalancato la finestra e afferrandolo per un braccio l’aveva costretto a seguirlo all’esterno. La casa in cui abitavano era tutta sviluppata su un unico pian terreno, onde per cui sgattaiolare al di fuori, per loro, non era mai stato un problema. L’unica accortezza da prendere consisteva nel porre particolare attenzione davanti alla finestra di Thorin: acquattati nell’erba e silenziosi come ombre strisciavano sotto al suo davanzale; poi, scampato il pericolo, si dileguavano nella notte.
Per evitare che la sorpresa di suo fratello, a quel gesto inaspettato, si trasformasse in sonore proteste, Fìli gli aveva messo una mano sulla bocca, premendo con forza per intimargli di fare silenzio. Superata la potenziale minaccia rappresentata dalla finestra dello zio, aveva poi proseguito continuando a trascinarsi dietro Kìli, fino a giungere in un punto del bosco in cui nessuno, a parte loro, avrebbe potuto udirli.
 
“Bene!” esordì dando finalmente libero sfogo alla rabbia repressa che, per tutta la sera – e a dispetto della farsa che aveva dovuto mantenere durante l’intera cena - non aveva fatto altro che montargli dentro sempre di più al solo pensiero delle modalità in cui aveva beccato il fratello soltanto poche ore prima “Ora, di grazia, mi faresti il sacrosanto favore di dirmi chi è quel ragazzo e come vi siete conosciuti? Che tipo di rapporto c’è tra voi due?...” chiese puntandogli l’indice contro e assumendo un’aria alquanto minacciosa “e bada a te, Kee, ché voglio la verità!”
 
Benché continuasse a sentirsi colpevole per non avergli detto nulla di Dàirendil, per essere stato colto in flagrante mentre riservava ai capelli di quest’ultimo gli stessi trattamenti che per una vita aveva riservato solo ed esclusivamente ai suoi famigliari e, in ultimo, perché gli occhi azzurri di Fìli - volente o meno poco importava – avevano sempre avuto l’innata capacità di sollevarlo o di gettarlo in un baratro oscuro a seconda del modo in cui lo guardavano; Kìli, sentendosi aggredito a quel modo, non riuscì a fare a meno di reagire con altrettanta aggressività.
 
“Mahal! Non ci posso credere! Ma ti sei sentito quando parli? Esattamente qual è il tuo problema, Fee? Il fatto che non ti abbia detto niente di lui o, piuttosto, il fatto che, da quando tu non hai più tempo per me, io abbia finalmente trovato qualcuno con cui condividere le mie giornate? E malgrado ciò, dimmi: per caso io sono mai venuto da te a chiedere spiegazioni sul conto di Eldren?”
 
Le controbattute di Kìli, per un attimo, ebbero il potere di scuotere quel muro che con tanto accanimento Fìli si era ostinato ad erigere sempre un po’ più in alto, mattone dopo mattone, ogni volta che un particolare del sorriso dell’altro, o una buffa espressione o la vista del suo corpo mezzo nudo in giro per casa o durante gli allenamenti, gli procuravano un tuffo al cuore. A causa di ciò che sentiva, provava il costante terrore di essere sporco e, quel che era peggio, aveva una paura tremenda di insozzare, conseguentemente, anche il suo prezioso fratellino…
Sebbene non potesse non ammettere che Eldren fosse per lui una compagnia molto piacevole, soprattutto quando, lontani da occhi indiscreti, si dilettavano insieme a scoprire le prime emozioni che il corpo è in grado di dare; niente era mai equivalso alle mille e più sfumature che assumevano le sue sensazioni per un singolo abbraccio di Kìli.
Malgrado cercasse di nasconderlo in ogni modo, di rinnegarlo, di eclissarlo dalla sua mente perché, magari, così facendo, forse quell’ignominia sarebbe davvero scomparsa anche dal suo cuore; in fondo in fondo la consapevolezza di ciò che Kìli rappresentava per lui, era sempre lì. Per questo scappava, per questo non gli dedicava più il suo tempo, per questo, da un po’ di tempo a quella parte, era molto meno incline al contatto fisico tra loro…per questo Eldren.
E allora che cosa gli era saltato in mente? A quale scopo trascinare Kìli nel bosco e costringerlo a sorbirsi quella piazzata che così tanto sapeva di scenata di gelosia?
Le risposte, premendo con forza oltre la soglia del buco oscuro in cui le aveva rinchiuse una dietro l’altra, senza mai aver avuto veramente il coraggio di fermarsi a guardarle in faccia; spalancarono l’uscio con una tale violenza da fargli andare il sangue dritto al cervello mentre, ancora una volta, le immagini di quel pomeriggio gli si dipingevano chiare e nitide nella mente.
 
“Oh, per favore!” – nella sua voce una nota di sprezzante sarcasmo che Kìli non aveva mai sentito prima; almeno non rivolto a lui. Rabbrividì – “Mi tiri fuori la storia di Eldren con la scusa di non avermi mai chiesto nulla in proposito, quando sai perfettamente che, invece, da quando ho iniziato a frequentarla, non hai fatto altro che cercare di trasformare ogni minimo pretesto in un furibondo litigio col sottoscritto! E per che cosa se non per sfogare la tua gelosia repressa?”
 
Colpito e affondato, ma Kìli, già che c’era, era ormai intenzionato a portare tutta quella storia ad una svolta, ovunque essa avrebbe potuto condurli! Ormai erano in ballo - si disse - tanto valeva la pena ballare: non si lasciò abbattere d’animo.
 
“Come quella che mi hai appena dimostrato anche tu?” Chiese, lapidario.
 
“Cosa dici?” continuò ad impuntarsi Fìli, cercando di dissimulare il proprio disagio “Come puoi paragonare le due cose? Eldren è una femmina! Il tuo amico Dàirendil invece, nel caso in cui non te ne fossi accorto è un maschio!”
 
“E credi davvero che la cosa possa risultare in alcun modo un impedimento? Lo so da me che Dàirendil è un maschio e credimi Fee, me ne sono accorto molto bene…”
 
“Non avrai osato…”
 
“Cosa, Fee? Fare cosa?...Baciarlo? Toccarlo? Desiderare il suo corpo?...Concedermi a lui?...Beh, caro il mio fratellone: mi spiace deluderti, ma…anche se fosse così, la cosa non ti riguarderebbe in alcun modo!”
 
“No” fece il Nano biondo completamente preso in contropiede “no” ripeté “non è vero. Non ci credo. Tu non hai…”
 
Si stava odiando, Kìli, in quel momento. Il petto gli si stava stringendo in una morsa di dolore a vedere il suo Fee così incredulo, disorientato e ferito da chi, in realtà, lo amava più di chiunque altro al mondo. Eppure, in qualche modo, benché si vergognasse di star usando in maniera così abietta l’immagine del suo amico, qualcosa dentro di sé gli urlava forsennatamente di continuare con quella pantomima se voleva arrivare davvero a giocare, una volta per tutte, a carte scoperte.
In palio c’era l’amore della sua vita; in caso contrario il disprezzo di suo fratello e un’esistenza che da quel momento in poi non sarebbe stata altro che solitudine e sofferenza.
 
“Chissà, Fee? Chissà…” mormorò con tono misterioso, soltanto per insinuargli ancora di più il dubbio “Beh, se questo è tutto…” fece dopo un po’ con calcolata nonchalance, mentre iniziava ad incamminarsi da dove erano venuti “me ne tornerei volentieri a casa. Non so te, ma io avrei un po’ di sonno, è stata una giornata pesan…”
 
Prima ancora di riuscire a terminare quella frase, si sentì nuovamente afferrare per un braccio, finendo con violenza addosso al petto di suo fratello.
In realtà non aspettava che quello.
 
“L’hai…baciato?” gli sussurrò Fìli con rabbia; le bocche che quasi si sfioravano “Ti sei concesso a lui?”
 
Glielo chiese, pretendendo di sapere la verità, ben sapendo di non avere alcun diritto di farlo. Lui, d’altronde - sebbene non si fossero mai azzardati ad andare oltre ai limiti dei baci e di qualche intima carezza - aveva avuto il suo da fare con Eldren. Inoltre, benché fisicamente fosse lì con lei, non erano rare le volte in cui la sua mente si perdeva nell’immagine di vispi occhi ambrati e di indomabili capelli scuri che svolazzavano nel vento. Si sentiva in colpa, tutte le volte, nei confronti di entrambi, eppure, sul momento, quella gli era parsa l’unica soluzione plausibile ad allontanare Kìli dal suo cuore. Solo che non aveva mai pensato che lui potesse fare altrettanto e adesso saperlo tra le braccia di qualcun altro stava risvegliando in lui una gelosia talmente rabbiosa da indurlo a mettere da parte il raziocinio, il senso del dovere e quello di una morale prestabilita, in favore del solo istinto che, con gesti dettati da una cruda e semplice spontaneità, avrebbe abbattuto il muro di riluttanza che, per paura, aveva disperatamente cercato di innalzare tra sé stesso e ciò che realmente provava.
 
“Non. Sono. Affari. Tuoi.” Scandì Kìli guardandolo dritto negli occhi, con aria di sfida.
 
“Nessuno deve toccarti!” ringhiò Fìli stringendo ancor più la presa sul suo braccio “Nessuno può farlo a parte…” – me! Non lo disse, si fermò in tempo, spaventato dalla propria stessa furia e da ciò che gli stava per confessare.
Con gli occhi sbarrati fece per allentare la morsa con cui stava costringendo a sé il fratello, ma a quel punto fu lo stesso Kìli a sorprenderlo, ribellandosi alla piega imprevista che stavano assumendo gli eventi. Con una mano dietro la nuca lo portò sulle proprie labbra, forzandolo ad annullare quei pochi centimetri che separavano le loro bocche. Senza dargli il tempo di realizzare cosa stava accadendo, iniziò a muoverle sulle sue, imponendogli di aprirle, e non appena avvertì l’umido della sua lingua, prese ad accarezzargliela con la propria, ogni secondo che passava con sempre più foga.
Contemporaneamente il suo corpo reagì di conseguenza e stringendosi a lui s’incontrò con quello del suo Fee in una danza di muscoli tesi e di carezze frenetiche.
Il bacio sempre più passionale. L’eccitazione che montava ad ogni più piccolo o violento fremito. L’emozione attraverso cui le loro anime si fondevano insieme… Tutto era quanto di più naturale entrambi avessero mai provato; esattamente come se, da ancor prima che venissero al mondo, i loro spiriti fossero stati predestinati ad essere una cosa sola.
 
“Che cosa fai?...” gli mormorò Fìli ad un soffio dalle sue labbra, non appena si ritrovarono avvinghiati sull’erba umida, l’uno sopra l’altro.
Era una domanda retorica, lo sapeva bene; l’ultimo mattone rimasto in piedi prima del crollo definitivo del muro atto a separare l’abisso di come lo vedevano gli altri da ciò che realmente era per sé stesso.
 
“Mi prendo ciò che mi spetta. L’amore di tutti gli amori. Sei tu il mio azyungel, Fee, ed io lo sono per te: è questo ciò a cui ci ha destinato la vita; vorresti forse continuare a negarlo?” gli rispose Kìli in dolci sussurri, senza smettere di baciare la sua bocca, il suo viso, il suo collo mentre, a pieni polmoni, respirava l’odore della sua pelle, affondando le mani in quella chioma dorata che adorava da ancor prima che imparasse a parlare.
 
“No…” asserì lui, infine sconfitto, arreso dinanzi a una forza a cui non era in grado di opporsi “Che Mahal mi perdoni!, ma non posso più farlo! Non riesco più a mentire, Kee; almeno non a me stesso! Nessuno lo capirà e se qualcuno dovesse scoprirlo nessuno sarà pronto ad appoggiarci! Saremo condannati a nasconderci per sempre!...Mi dispiace fratellino!, perdonami! Avrei voluto proteggerti da tutto questo, non avrei mai voluto riservarti un futuro di sofferenza, ma non sono abbastanza forte da starti lontano! L’amore dovrebbe portare gioia con sé, non i dispiaceri derivati dalla condanna di non poter mai essere realmente sé stessi alla luce del sole!”
 
“L’amore non è mai sbagliato, Fee. Io ti amo da sempre, più della mia stessa vita, più di quanto dovrebbe fare un fratello e non posso, e non voglio farci niente! Affronterei qualunque cosa con te al mio fianco e non chiedermi mai più perdono per ciò che provi giacché l’unico torto che mi faresti è proprio quello di impedire a te stesso di amarmi. Ti prego…” concluse iniziando ad allentargli i lacci della maglia “non allontanarmi più da te…”
 
A quella richiesta Fìli rispose con un dolce bacio, lasciandosi spogliare e spogliandolo a sua volta. Quella stessa sera, in quello stesso luogo, fecero l’amore per la prima volta, suggellando, con il dono reciproco dei propri corpi e delle proprie anime, la mutua promessa di appartenersi per sempre.
Quale che fosse la sorte che avrebbe riservato loro il destino, l’avrebbero affrontata l’uno accanto all’altro e quando parecchi anni dopo Thorin annunciò che avrebbe finalmente dato avvio all’impresa per la riconquista di Erebor, insieme avevano deciso che, in quanto eredi di Durin, era loro preciso dovere esserne parte. L’antico regno nanico non sarebbe mai stato casa loro e probabilmente, anche nel caso in cui fossero riusciti a riconquistarlo, non l’avrebbero mai sentito come tale. Ma faceva parte della loro storia e, che lo volessero o meno, entrambi avvertivano quelle origini come una parte integrante del proprio sangue.
Era un onore essere affianco dello zio in quella missione e un onore sarebbe stato dare la vita per essa; ma comunque fosse andata a finire, loro non si sarebbero mai separati.
Morire al servizio di una causa o vivere per vedere un’antica gloria restaurata: in entrambi i casi avrebbero affrontato il tutto mano nella mano, sarebbero stati quel paio d’occhi sempre vigili a sorvegliarsi l’un l’altro le spalle, sarebbero stati la spalla su cui piangere e le braccia tra cui rifugiarsi quando del domani non vi sarebbe stata alcuna certezza…esattamente come in quel buco miserabile in cui adesso erano finiti; un buio pesto fatto di cunicoli e gallerie, a difendersi da Orchi e Goblin che simili a un’onda d’inarrestabile putredine li attaccavano da tutte le parti.
 
Ancora una volta l’intera compagnia ne aveva avuto ragione e Bilbo era stato preso in custodia da Dori, colui che in quel momento gli era più vicino e che, a ragione, se l’era potuto caricare in spalla senza stare a perdere del tempo prezioso.
Thorin gli aveva lanciato un’occhiata d’intesa, come a volerlo rassicurare, come a dirgli che sarebbe andato tutto bene. Bilbo aveva ricambiato il suo sguardo e se solo avesse potuto, gli avrebbe risposto volentieri che ‘bada bene che sia così perché io e te abbiamo ancora un lungo discorso in sospeso!’
 
In men che non si dica tutti i Nani avevano ricominciato a correre appresso a Gandalf, fino a ritrovarsi in un passaggio strettissimo, più buio ed angusto degli altri e che li costrinse ad avanzare ad una velocità più ridotta rispetto a prima.
Tesi come corde di violino e con le armi sguainate procedettero a tastoni, avvertendo, come unico suono, il respiro accelerato del compagno che stava loro a fianco finché, svoltata una curva, con immenso sollievo intravidero finalmente un’apertura che dava all’esterno, illuminata da un raggio di luce crepuscolare.
Rincuorati da tal visione si mossero in quella direzione aumentando nuovamente il ritmo della fuga quando, inaspettati e mostruosi, gli Orchi furono loro addosso calandosi dalle pareti del cunicolo.
Silenziosi come ombre avevano strisciato attraverso le aperture delle gallerie sovrastanti, attendendoli laddove quella che stavano percorrendo i Nani, si allargava in un passaggio più arioso.
Pugni, calci, imprecazioni e versi spaventosi volarono da tutte le parti, finché facendosi largo a gomitate e a colpi di spada ed ascia, la compagnia riuscì a sfuggire definitivamente ai loro inseguitori…
 
Fu con un immenso sollievo che accolsero l’aria fresca sul viso, mentre continuando a correre a rotta di collo, si precipitavano giù dal fianco della montagna attraverso un bosco di alti abeti.
 
Quando ritenne di aver messo sufficiente distanza tra loro e l’orribile tugurio dal quale erano appena scappati, Gandalf intimò al resto dei compagni di fermarsi affinché potesse contarli, ma ancor prima che finisse di elencarli tutti, la voce di Thorin si levò alta ed inquieta “dov’è Bilbo?” chiese guardandosi freneticamente attorno “DOV’È ANDATO A FINIRE IL NOSTRO SCASSINATORE?...
Dori!...” esalò con gli occhi pieni di terrore mentre levava lo sguardo ad incrociare quelli del compagno...
 
Per tutta risposta quello si strinse nelle spalle e biascicò che era stato afferrato nel buio, alle spalle.
 
Allora Gandalf s’intromise, irato, e chiese “E come ti è venuto in mente di lasciarlo cadere e di andartene, Dori?!”
 
“Anche tu l’avresti lasciato cadere” si difese il Nano “se all’improvviso un Orco ti avesse afferrato le gambe da dietro, nel buio, e preso a pugni nella schiena!”
 
“Ma allora perché non l’hai ripreso?” insistette lo stregone.
 
“Gran Cielo! E me lo domandi? Con gli Orchi che combattevano e mordevano al buio e tutti che cadevamo gli uni sugli altri e ci pigliavamo a pugni a vicenda! Tu mi hai quasi staccato la testa con Glamdring, e Thorin tirava colpi da tutte le parti con Orcrist! Poi, quando siamo riusciti ad avere la meglio su quegli schifosi tu hai urlato ‘seguitemi tutti!’ e tutti avrebbero dovuto seguirti. Pensavo che tutti lo avessero fatto, non c’è stato tempo per contarci, lo sai benissimo!, finché, tutto d’un tratto, eccoci quaggiù senza il signor Baggins!...”
 
Sgomenti e abbattuti, ognuno dei presenti ascoltò lo svolgimento di come erano andati i fatti chiedendosi – benché nessuno osasse esprimersi ad alta voce – che ne era stato di Bilbo e se l’avrebbero mai più rivisto.
 
Poi Thorin parlò di nuovo, sorprendendoli tutti “non lo abbandoneremo al suo destino! Non lasceremo questo luogo dannato finché non lo avremo recuperato!...Vivo o morto.” 
  
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