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Autore: Sen    09/04/2014    4 recensioni
Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.
La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.
La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.
Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.
Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La Luce e l’Ombra

Sage si alzò dal trono, silenzioso come un’ombra, dirigendosi verso la grande balconata del Tredicesimo Tempio.

“Sommo Sage”, la voce di Athena era un sussurro stanco. “Ne ho scritti più di cinquecento in tutto”, fece un rapido cenno col capo nella direzione del grande tavolo di legno intagliato, sul quale spiccava una pila disordinata di sigilli dipinti.

Le lettere del suo nome spiccavano nere contro la pergamena e verso la fine, in un moto di ribellione, avrebbe voluto scriverci “Sasha” così, tanto per vedere se avessero funzionato ugualmente.

Il Grande Sacerdote le sorrise, carezzandole la testa, benevolo.

“Vada a riposare, somma Athena”, sussurrò. “Domani terminerà il lavoro”, concluse volgendosi verso le lunghe ombre che le colonne gettavano sul pavimento di marmo levigato.

Attese che la giovane dea si allontanasse sbadigliando verso  le sue stanze, prima di parlare di nuovo.

“Così alla fine sei giunto, Hakurei, fratello mio”, sussurrò alla figura, così simile a lui che si rese palese alla luce delle lanterne.

“Il destino mi ha chiamato ancora una volta, Sage”

Entrambi sedettero a godere del tè bianco che il maggiore versò in due tazze di porcellana.

“Sento il tuo animo turbato”, riprese dopo un lungo silenzio.

“Rodorio nasconde segreti che possono rivelarsi pericolosi per noi”, concluse il minore, lo sguardo perso all’orizzonte scuro del mare.

Sage annuì, cupo. “Le stelle demoniache si stanno svegliando, non potrò contare ancora sulla benevolenza del tempo prima che i soldati di Hades ci attacchino.”

 Hakurei sospirò. “La nuova guerra ormai è alle porte”, concluse. “Spero solo che Athena sia forte abbastanza.”

Le stelle stavano cambiando, lo avvertiva chiaro nell’urgenza delle cose che accadevano  intorno a lei. Gli abitanti di Rodorio, tutti, avevano una spiccata sensibilità per certe situazioni al limite tra il mondo umano e quello degli eroi.

O almeno così le aveva detto sua nonna, una volta, durante una sera d’estate in cui la calura le aveva costrette a pernottare nel piccolo giardino sul retro della loro abitazione.

Sorrise, fiaccata dall’intensa giornata, ormai l’estate era arrivata con il suo bagaglio di stelle brillanti e caldo soffocante.

 E quella notte erano davvero luminose, quasi troppo luminose: la Via Lattea sembrava una strada nel cielo, aperta a chiunque avesse solo tentato un passo. La luna era un’unghia pigramente coricata ad occidente e lei, allungata mollemente sulla sabbia, in una caletta nascosta dagli scogli accanto a capo Sounion, voltandosi, si stupì nel constatare come lui non se ne fosse ancora andato.

Ormai la sua presenza era diventata molto più ingombrante, e non si limitava più alle notti di luna nuova.

Che si sia accorto di qualcosa?,  temeva lei, in silenzio.

Erano giorni che la Surplice nascosta nella sua cantina sembrava vibrare, in risonanza con lei e, probabilmente, qualcuno, su al Santuario, sarebbe presto sceso a controllare cosa diamine stesse succedendo.

“Deuteros”, iniziò lei a mezza voce, lui voltò un poco il capo, squadrandola con quegli occhi intensi e profondi.

Nessuno dei due parlò per lunghi secondi, occhi negli occhi, perché tanto, a lui, delle parole importava ben poco, poi la prese, abbracciandola.

“Non devi temere”, bisbigliò agli occhi stupiti di lei.

La baciò, come un fidanzato, davanti alla porta di casa sua, spingendole in mano una statuetta di legno che lui stesso aveva intagliato.

“Domani Dimitra compirà quattro anni”, sembrò volersi giustificare, torvo, strappandole una risata.

Eranthe rientrò ancora sorridente, ma quando aprì la mano per guardare il soggetto scolpito, la statuetta cadde. E fu solo per un colpo di fortuna che nessuna delle sue ali si spezzò.

Melina era agitata. Da quando Francine era uscita definitivamente dalla casa dei piaceri per raggiungere El Cid del Capricorno, le altre ragazze sembravano essere contagiate dal suo entusiasmo.

Sospirò; forse anche loro sognavano qualcosa di diverso, qualcosa di simile a quanto capitato alla giovane francese, qualcosa di concreto e tangibile che le liberasse da quella solitudine tremenda che le attendeva, inesorabile. Si appoggiò languida al battente della portafinestra che si affacciava sul Santuario, la mente persa nei ricordi di quando era stata anche lei una giovane donna, selvaggia e solitaria, che tuttavia aveva finito per accettare la guida sorridente della sorella maggiore Erato, dopo aver vissuto mesi per le strade polverose di Rodorio.

L’aveva guardata per anni con la stessa immutabile devozione che leggeva negli occhi di quegli uomini d’oro, ne aveva venerato la bellezza e la generosità come si fa con una dea. Spense la sigaretta con rabbia sotto il tallone del calzare.

E lei, alla fine, si era innamorata. Sputò a terra per scaramanzia, come se quell’uomo scuro potesse materializzarsi di fronte a lei. 

Gli eserciti di Hades si andavano formando nuovamente, dopo duecento anni di quiescenza. Spie delle Ombre vagavano per la terra a risvegliare i custodi delle Stelle Malefiche, e il Santuario era spesso bersaglio di sporadici, deboli attacchi attirati dal naturale cambio generazionale della casta più potente.

Erano davvero trascorsi così tanti anni? 

Erato era salda, nel suo ruolo, imponente come una colonna, a consolare, a curare con i decotti che loro madre, la saggia Areia, le aveva insegnato con tanta pazienza. E lei, Melina, la osservava, giovane nei suoi diciotto anni, con ammirazione e tenacia.

Voglio essere come te...

Rientrava stanca dal Tempio, Erato, nelle sere in cui doveva prestare cure a chi tornava dalle battaglie, o semplicemente preparare i decotti per Hakurei, sempre in prima linea nelle missioni di esplorazione nonostante la sua avanzata età.

Spesso Ilias del Leone la riaccompagnava a casa con il suo sguardo fermo e il sorriso aperto, se la sera era tiepida non era raro che suo fratello minore Sisifo, futuro Santo del Sagittario, si unisse a loro.

 Capitava a volte, che lei fosse accompagnata da Lugonis dei Pesci, e Melina rideva, da dietro le tende tirate, agli strenui tentativi del Cavaliere di rimanere ad almeno un paio di metri di distanza da lei che, invece, scherzando, gli si avvicinava con fare distratto e fingeva di sentirsi male ad ogni passo.

 

Poi, una notte di giugno, era tornata da sola, livida in volto, gli occhi sgranati, non si era soffermata a bere il caffè assieme a lei, come faceva di solito, conversando amabilmente delle faccende della giornata o delle persone che aveva incontrato: era sparita veloce oltre la porta della sua stanza, riemergendo solo la mattina dopo, all’alba.

Era trascorsa una settimana, o poco più, quando Melina aveva visto che l’espressione spaventata al suo rientro si stava tramutando in qualcosa di decisamente più terribile.

La situazione divenne presto talmente seria che la saggia Areia, che ad Athena doveva il suo nome, decise di recarsi a cena dalle figlie, lasciando la casupola al limitare del villaggio.

“Allora, bambine mie”, aveva proferito, austera, in mezzo agli aromi emanati dall’elegante bruciatore in argento. “Vorrei che foste voi a parlarmene, prima che arrivi notizia tramite il Santuario stesso”, agitò una mano, come a voler scacciare una mosca fastidiosa, ponderando, nel medesimo tempo, le reazioni delle due ragazze.

“E poi sapete anche voi quante scocciature! Sembra che su al Santuario si stiano preparando per la venuta di Athena in persona. Questa volta si tratta di una bambinetta dall’Italia”.

Prima ancora che Melina riuscisse a spiccicare parola in difesa di quella sorella così vicina e così irraggiungibile allo stesso tempo, Erato si alzò dalla sedia sulla quale era rimasta, rigidamente accomodata.

“Sono nei guai, madre”, asserì abbassando il capo. Le mani strette, le dita intrecciate di fronte a lei.

“Non riconosco il suo cosmo”, la incalzò lei, ed Erato seppe che ormai la saggia Areia aveva capito, aveva riconosciuto l’oscurità e la luce.

“Lui non è un Santo.

La donna si alzò di colpo e Melina capì dai suoi occhi grigi come il mare d’inverno che sarebbero arrivate tempesta e vento.

“È un guerriero di Hades”

Un tuono squarciò il cielo, lo schiaffo secco della saggia madre la colpì in pieno viso.

“Sciocca, sciocca ragazza! Non lo devi vedere, mai più”, sputò nella sua direzione “E non riempire di stronzate la testa di Melina.”

Uscì sbattendo la porta e Melina vide grosse lacrime cadere sulla tovaglia di cotone, quando anche il cielo cominciò a piangere.

 

Ma Erato non ascoltò sua madre, vestita di quel manto rosso d’orgoglio che caratterizza tutti i nati sotto il segno del Toro, aveva percorso il sentiero che aveva deciso.

Con segreta discrezione, con la cura delle piccole cose. 

Nonostante la luna piena, le sue mani e le sue parole, lui restava sempre un soldato di Hades, nonostante la sua professione e l’assenza di armatura, lei rimaneva consacrata ad Athena. Lo sapevano entrambi, anche quando lui la prendeva all’ombra delle stelle, accanto a roccia e mare, anche quando le aveva detto di amarla, di volerla accanto, più di quanto avesse voluto combattere.

E poi, a un certo punto, tutto sembrò scendere per una spirale che girava senza controllo.

 

Melina, quel giorno, si era recata in udienza dal sommo Sage al Tredicesimo Tempio, con un misto di eccitazione ed apprensione: Erato avrebbe dovuto presentargli ben due nuove ragazze che le avrebbero aiutate nel loro arduo compito ed aveva stabilito che ormai la sorella fosse abbastanza grande e responsabile da poterla avvicendare nel compito.

Erano giorni, ormai, che si sentiva debole e stanca e non voleva che Melina non fosse pronta, nel caso lei avesse dovuto lasciare il lavoro.

 Le stelle facevano capolino nella prima ora della sera, ma lei non si beò del panorama che si scorgeva oltre la grande balconata, né vide gli occhi preoccupati di Sage, solo le sue mani che corsero a sostenere Erato accasciata ai suoi piedi.

E quell’uomo di fumo che, con le sue ali nere, entrò nel cuore del Santuario, la prese e la portò via con sé.

Poi fu solo un doloroso crescendo, fatto di sangue e lacrime mai versate, fatto di Santi d’Oro che scendevano ad ogni ora del giorno e della notte, a cercare qualche ora, qualche minuto di sollievo, prima che una nuova battaglia, una nuova lotta, li reclamasse, o prima che tornassero nel ventre della madre terra. 

E un giorno d’estate, Erato tornò, assieme al suo uomo di fiamme scure. Bussarono alla porta della madre Areia, recandole in dono un fagotto di qualche mese, le guance rubizze spiccavano sui capelli chiari, gli occhi blu che sarebbero diventati scuri come quelli di suo padre.

“È troppo pericoloso portarla con noi. Al Santuario sarà protetta”, aveva proferito lei, prima che le lacrime le rigassero il volto.

“Non sappiamo cosa fare per proteggerla”, continuò lui, la voce grave. “Entrambi gli eserciti ci danno la caccia da mesi, ormai.” Strinse la ragazza, baciandole i capelli di luna.

“Parlerò con Sage, vi terremo al sicuro”, continuò Areia gli occhi bassi.

Ma sua figlia scosse il capo, scoprendosi il seno gonfio dal quale la piccola, affamata bevve avidamente.

“Noi non possiamo rimanere. La nostra presenza la metterebbe ancora più in pericolo”, concluse appoggiandosi a lui.

La madre, ormai diventata nonna, le carezzò i capelli e le guance.

“Erato. Sai che sacrificio ti stai imponendo?”

Le lacrime che le scendevano dagli occhi l’avevano resa ancora più bella agli occhi di lui, che la strinse, come ad infonderle la forza necessaria per andare avanti e mantenere fede alla sua promessa.

“La mia Surplice potrà esservi di protezione”, disse con un tono calmo, come se stesse parlando del tempo.

“Prenditi cura di lei, mamma, ti prego!”, la supplicò Erato, in ginocchio, porgendole quel fagotto che profumava di latte e di fuoco.

“Qual è il suo nome?”, fu l’unica frase che Areia riuscì a proferire senza scoppiare in lacrime a sua volta.

“Eranthe”

Sparirono nel cielo, come stelle scure, la luna piena unica testimone del loro silenzioso commiato.

“Zia Melina, mi avevi fatta chiamare?” La voce di Eranthe si sovrappose all’immagine della bambina con i boccoli e della ragazzina vivace, salde nella mente della donna.

“Sì, sì, tesoro”, si riscosse lei. Rientrando nella stanza con passi lenti e misurati.

Il vento aveva scompigliato tutti i suoi pensieri, assieme alla sua acconciatura. Si accese stancamente una nuova sigaretta, preparando un decotto al luppolo per entrambe.

Fece accomodare la nipote con un gesto pigro della mano, e lei prese posto sulla solita sedia di un chiaro verde acqua.

“I tempi sono maturi, cara”, cominciò lei sbuffando una nube di fumo azzurrognolo, Eranthe la guardò fissa come se la zia si fosse di colpo tramutata in un animale mitologico.

“Presto gli eserciti di Hades e Athena si scontreranno e questa terra sarà teatro di quelle battaglie”, concluse abbassando gli occhi sulla tazza fumante.

“Prendi le tue cose, prendi Dimitra, prendi quel tuo fidanzato belloccio e quella sar...sur...quella cosa che hai in cantina.” Fissò gli occhi azzurrissimi in quelli scuri di lei. “E sparisci.”

 Ma il destino amava giocare d’anticipo e un’esplosione di petali di rosa aveva fatto tremare i vetri delle case.

Le due donne scesero in strada, tra lo sgomento generale.

Gli abitanti del villaggio avevano invaso le vie di ciottoli e polvere, gli occhi spaventati rivolti nella generale direzione dalla quale provenivano quei tremendi suoni di devastazione.

Agathê le si fece vicina, piccola piccola, nella paura che le faceva dilatare gli occhi verdi.

“Il signor Albafica sta combattendo”, proferì con un filo di voce, le mani strette al petto, di fianco alla rosa, rossa, perfetta, che spiccava, appuntata proprio all’altezza del cuore.

“Mamma!”, la chiamò con urgenza Dimitra, lasciando la mano della nonna e correndole incontro, completamente dimentica della regola aurea impostale di non usare mai quell’appellativo.

“Dimitra. Tesoro mio”, l’accolse Eranthe tra le braccia, stringendola forte.

Petali di rose cremisi stavano piovendo sul villaggio come una danza di sangue, ora, testimoni della potenza dell’avversario.

“No!” Agathê scivolò in ginocchio come se fosse completamente svuotata da ogni energia e le sue gambe non fossero più in grado di reggerla.

Il silenzio che si abbatté di colpo sull’intero Santuario fu denso come una coltre di piombo e più intimidatorio di qualsiasi esplosione.

Eranthe non si lasciò distrarre: cominciò ad allontanarsi, dirigendosi con la bambina verso la sua casetta al limitare del villaggio, un luogo che, a sua esclusiva convinzione, non avrebbe mai attirato alcun interesse di un eventuale nemico.

La vocina nella sua testa le ricordava ad ogni passo che, in effetti, nella sua cantina riposava una Surplice. E che magari qualche collega o superiore di suo padre si era alla fine accorto di un’assenza nel novero delle corazze.

Accelerò l’andatura, accorgendosi solo allora che la sua mano era saldamente stretta sul polso di Agathê e che lei stava praticamente trascinando con sé la ragazza in lacrime.

“Vedrai, andrà tutto bene, andrà tutto bene”, ripeteva come una litania, più a se stessa che non alle sue improvvisate compagne di fuga, gli occhi pieni di lacrime, il profumo di rose talmente intenso da permeare ogni cosa ed eliminare ogni altro odore.

Una serie di esplosioni dietro di loro le fece voltare, sgomente.

La nube di polvere e fumo, che aggredì i loro occhi, diradandosi, rivelò la totale distruzione un solo isolato alle loro spalle.

Le persone, ormai cadaveri, riverse lungo la strada, gli edifici, le case, i negozi erano solo cumuli scomposti di macerie.

Agathê cominciò a gridare, riconoscendo il luogo dove c’era l’esercizio del padre, il banchetto di legno lavorato, ordinato nei colori dei fiori che lei con così tanto amore arrangiava, era stato annientato con un solo battito d’ali.

“No! Papà!”. Corse via, cadendo, verso l’uomo riverso al suolo, il sangue scuro che imbrattava mesto il selciato, gli occhi che un tempo erano stati vivi e gentili, ora erano solo un vuoto simulacro della sua anima.

La ragazza si inginocchiò piangendo, carezzandogli il capo.

“Forza, andiamo”, la spronò pragmatica Eranthe, rifiutandosi di andare col pensiero a zia Melina, alla nonna Areia e alle ragazze. “Non c’è più nulla che tu possa fare per lui!”

 

Poi Dimitra, a scapito della morte che aleggiava attorno a loro, cominciò a ridere divertita: “Guarda mamma, un uccello graaandissimo!”.

Puntò il ditino grassoccio verso il cielo, dove un guerriero protetto da una Surplice nera, planava lentamente, i lineamenti distorti da un sorriso crudele.

Atterrò con grazia di fronte a loro, proferendosi in un inchino beffardo.

Agathê cominciò a singhiozzare senza controllo, scuotendo i capelli castani raccolti in una disordinata coda di cavallo.

“Signor Albafica...Non può essere...”

Ma Eranthe aveva occhi solo per lui, non riconosceva i suoi capelli del colore della luna o la sua Surplice nera, ma il suo cosmo recava la medesima oscurità.

“Buonasera signore”, rise sguaiato. “Il mio nome è Minos del Grifone. E sarà un piacere per me spegnere la vostra vita!”

I suoi occhi andarono a lei, rimanendo impigliati un secondo di più nei suoi, scuri, spaventati.

Una scintilla e le fu accanto

“Tu”, sussurrò, un filo di voce, mentre appoggiava una mano sulla sua spalla.

“Tu sei una di noi!”, rise sguaiato allo sguardo spaventato di Eranthe. “Che Zeus mi fulmini, tu appartieni al sommo Hades!”

Tentò una carezza mentre lei scuoteva il capo. “Cosa ci fai qui, al Santuario, allora? Torna a casa con noi”.

Lei scosse il capo, il terrore rese indaco il colore del mare dei suoi occhi. 

“Eranthe”, pigolò al suo fianco Agathê, “che cosa sta dicendo?”.

“Io non sono affatto una di voi!”, gli urlò contro, meravigliandosi di vedere i suoi occhi attraversati da un lampo di timore.

“Allora perché il tuo cosmo...”,
Lei lo interruppe, la rabbia, l’ostinazione avevano preso il posto della cieca paura. “Mio padre!”, abbaiò al suo indirizzo, cercando di allontanare Dimitra che voleva giocare con una delle ali della Surplice del Grifone. “Lui era uno di voi”, concluse piantando decisa gli occhi in quelli di lui. “Ma ora non lo è più!”.

 Lo sfidò con talmente tanta convinzione che lui fece un passo indietro, prima di mettersi a ridere di nuovo.

“E da dove ti arriva questa certezza?”, la schernì, beffardo. “Una volta che diventi Specter, non c’è modo di tornare indietro.”
Le sembrò di avvertire rimpianto nella sua voce.

“Non è vero!”, cocciuta e testarda. “Mio padre ha scelto, ha lasciato indietro la sua Surplice!”, concluse, la testa alta, le mani salde sui fianchi.


 Sgranò gli occhi, quando lui fece ballare un cadavere di fronte a Dimitra come una marionetta. La bambina rideva battendo le manine.

Minos rise, rise di gusto. “Ragazza ingenua”, l’apostrofò. “Nessuno può semplicemente disfarsi della Surplice!”, rise ancora ottenendo in risposta uno sguardo di rimprovero “Lascia che ti illumini”, le pose una mano sul capo. “La Surplice è come un’Armatura. L’unico modo in cui può lasciare il suo custode, quando questi è ancora in vita, è averne un altro. O un’altra, nel tuo caso.”

Lei scosse il capo. “Non capisco”, disse e lui sbuffò.

“Che allieva indisciplinata!”, il cadavere fece una capriola, Dimitra rise battendo le manine “Ancora zio!”, e fu subito accontentata.

“La Surplice ha lasciato tuo padre, perché ha riconosciuto in te la sua nuova custode.”

 
Spostò la mano sulla sua guancia, avvertendo le lacrime bagnare le sue dita, chiuse gli occhi concentrando il proprio cosmo in quel gesto all’apparenza banale e famigliare, avvertendo la pelle formicolare di energia.

“Ecco, lo sento, sta rispondendo al mio richiamo, ora: il tuo cosmo”, appoggiò la fronte alla sua, i suoi occhi chiari in quelli di tempesta di lei.

E poi sussurrò, tombale come una sentenza.

“Eranthe di Bennu.

  
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