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Autore: Bonnie75    09/04/2014    6 recensioni
Adriana Ferraris , è una donna forte e sicura di sè , che ha deciso di indossare una maschera nei rapporti amorosi , per evitare di provare quelle sensazioni forti , che le hanno causato tante sofferenze , nella precedente relazione . Ma l'incontro con quegli occhi blu , in solo quattro giorni , la porterà a voler tentare ancora , accorciando quelle distanze che la separavano anche da sè stessa . Perchè è vero che un vento di passione , un' occasione senza preavviso , ha il diritto di essere colta al volo .
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ian Somerhalder, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                                                                                            Capitolo 21


 
Da dieci minuti ero seduta su una panchina, con la lettera di mio padre stretta tra le mani, ormai congelate, e ripensavo a mia madre. Era come se l‘avessi vista realmente per la prima volta. Mi domandavo come non mi fossi mai accorta di nulla e pensai e ripensai, a quanti sacrifici aveva compiuto solo per assicurare una stabilità emotiva alla mia infanzia. Sicuramente il suo prodigarsi per me era andato ben oltre la soglia dell’immaginazione, del consentito. Oltre il tempo. Se da genitore avevo appreso bene che l’amore per un figlio è sicuramente un istinto che non può essere represso, mi risultava complicato il non scrutare la sua posizione anche da un'altra prospettiva. Lei era prima di tutto una persona, una donna, che aveva il diritto di riprendersi il ruolo di protagonista che le spettava nella sua storia e, non appena tutta questa faccenda si fosse risolta, la prima cosa che avevo il dovere morale di compiere era quella di restituirle la sua di vita, che avevo da troppo imbrigliato tra le mie mani.
 Un vecchio orologio in ferro battuto posto su un palo all’entrata di una piazza, segnava le 6.30. Mi guardai intorno e avvertii il risvegliarsi della città nell’intensificarsi del traffico. Il mio cellulare indicava cinque gradi Fahrenheit e, se fossi rimasta ancora lì, sarei di certo morta per assideramento. Quindi, mi alzai, dopo aver deposto la lettera di papà nella borsa. Non sapendo dove andare, decisi solo di procedere passo dopo passo sul marciapiede, sulle orme di una moltitudine di persone. Sentii una goccia pizzicarmi il viso e, sollevando la testa, mi accorsi che stava iniziando a nevicare. Mi era sempre piaciuta la neve che quando cade sembra fermare ogni cosa, cancellando tutte le tracce di ciò che è imperfetto. La neve rende tutto immacolato, pulito, rallentato. Il tempo sembra fermarsi, per darti la possibilità di riscrivere su una nuova pagina bianca tracce del tuo spirito perduto. Probabilmente per resettare tutta la mia vita, avrei dovuto trasferirmi qui, dove nevicava spesso e faceva molto più freddo di quello che potessi credere. Il Canada era davvero un posto troppo, troppo gelido per i miei gusti.
Sempre più intirizzita, mi portai le mani alla bocca e vi soffiai contro per riscaldarle e le sfregai l’una contro l’altra. Intravidi le sembianze di un locale degno di una signora, entrai e mi sedetti al bancone, ordinando poco convenzionalmente, data l’ora, un bourbon, ma, sicuramente non ero l’unica al mondo che in questo momento beveva un goccio. Mi sistemai meglio sullo sgabello e mi guardai intorno. Notai una coppia di giovani davanti a una tazza fumante di caffè. Lei gli porgeva un assaggio della sua ciambella e gli portava via le briciole intorno ai lati della bocca con un bacio. Mera illusione, giacché lui l’avrebbe sicuramente scaricata al prossimo semestre con la cheerleader della squadra del campus. Quella bionda e superficiale ragazzina che gli avrebbe ridonato quella leggerezza, che ora mancava a entrambi. Lui era visibilmente imbarazzato e lei coglieva questa sfumatura di lui, facendola dubitare sulla veridicità dei sentimenti del ragazzo che aveva a fianco. Questa era la magia del primo amore che come per incanto, silenziosamente svanisce. Bevvi il primo sorso di liquore che mi pizzicò la lingua, scaldandomi all’istante. Il tonfo della porta annunciò l’entrata in scena di un’altra coppia, stereotipata, sulla quarantina. Lui le appoggiava la mano sulla spalla e, quando mi passarono accanto, lui mi lanciò un’occhiata furtiva. Non appena presero posto, la aiutò a levarsi di dosso il cappotto. Lei gli sorrise e gli pizzicò il mento con la stessa grazia che avrebbe riservato al muso del proprio cane. Magari un incantevole barboncino. Lui, per agganciare la giacca allo schienale della sedia, si girò verso di me, alzò gli occhi al cielo e mi sorrise sconfitto. Ricambiai il sorriso, non per civetteria ma in segno di grande solidarietà. Poverino, anzi poverini entrambi. Insomma, quello era un fantastico scorcio di come un rapporto di coppia tenda a prevaricare le libertà altrui, cedendo il passo all’abitudine. In sostanza un affossare le proprie vite nell’attesa, o meglio speranza, che uno dei due incontri qualcun altro. Davvero esaltante! Bevvi ancora un goccio e la mia attenzione venne calamitata da una donna al tavolo con un uomo distinto. Puttana. Voglio dire, quella non era sicuramente la sua compagna.
Bevvi tutto d’un sorso il mio bicchierino e ne ordinai un altro.
«Oh, questo è un incubo. Davvero il peggior sogno ad occhi aperti di tutta la mia vita», dissi in un sospiro, passandomi una mano sopra agli occhi.
Appoggiai la fronte sul bancone, cercando di calmarmi, perché avevo come il sentore che il parlare tra sé, ad alta voce, fosse sicuramente tutto tranne che sinonimo, o sintomo, di un atteggiamento sano.
«Se fossi in te, io ci andrei piano con il buon vecchio Colonnello Taylor», mi disse un uomo in giacca e cravatta accanto a me, riferendosi al liquore d’orato nel mio bicchiere.
«Oggi credo che sarà uno tra i mie migliori amici», gli dissi irritata dall’intrusione e da tutta questa paradossale situazione. «Mi serve qualcosa per mandare giù questo posto. E’ dannatamente freddo qui e pullula di donnine e prostitute in calore», proseguii, picchiettando le dita sul bancone.
«Sai, l’una non potrebbe sussistere se non grazie all’altra. Quelle che tu definisci “donnine” sono semplicemente l’alter ego, senza macchia né peccato, di quelle che io chiamerei, meno volgarmente, “le altre consorti”, abilissime nel farti vivere una vita da sogno nell’inferno della realtà», sentenziò.
Mi voltai soppesando le sue parole. Una parte di me sapeva che quest’uomo aveva ragione, ma questo giorno era talmente pregno di sorprendenti eventi che nessuna logica argomentazione sarebbe stata sufficiente a pareggiare i conti.
«Questa è sicuramente l’interpretazione più bizzarra e originale che abbia mai ascoltato, devo dartene atto. Ti distrae dalla realtà dei fatti. Gran bel tentativo davvero», commentai ironica.
«Mi dispiace, ma credo che la motivazione per la quale si tendano a ingigantire i problemi, non risieda nel fatto che siano poi così particolarmente articolati, ma è perché le persone non vogliono ascoltare interpretazioni che li lascino emotivamente insoddisfatti. Perché è così appagante scovare un cattivo da odiare e un eroe da celebrare. Ma tutti, prima o poi, recitiamo in entrambe le parti», mi disse ignorando il mio sarcasmo.
«Ti prego allora di lasciarmi vivere in santa pace i miei cinque minuti d’insoddisfazione emotiva, scaraventando superficialmente il mio astio sul primo “povero malcapitato”», risposi seccata, avendo esaurito ogni carineria.
Ecco, quello di cui avevo bisogno. Un altro uomo pieno di sé che aveva probabilmente una fidanzata da qualche parte, ignara del fatto che lui fosse qui a flirtare con una facile preda. Una donna che alle sei e trenta del mattino era al quasi terzo bicchiere di alcool.
«Eccone là una», proseguii, alzando il bicchiere verso le persone che avevo osservato già prima. «Giovane almeno tre volte meno di quel tipo. Disposta a tutto pur di arrivare a quelle tasche gonfie di denaro e potere. E quello è il solito uomo rincretinito. Senza offesa, sia ben intesi».
Mi lanciò un’occhiata molto dubbiosa.
«Non dirmi che sei una di quelle donne che odiano gli uomini?», replicò, chiedendo al barista un altro giro per entrambi.
«Mi sembra di averla già sentita da qualcuno questa», gli dissi, ricordando una delle prime battute che ci eravamo scambiati qualche mese prima io e “Occhi blu”. «No. Per mia sfortuna non odio gli uomini».
«Allora forse il sesso?», continuò divertito.
«No. Ma odio come gli uomini siano spinti dal sesso», conclusi rivolgendogli un’occhiata furtiva e rendendomi conto che si trattava ancora di un uomo bellissimo.
«Allora rassegnati, perché la spinta al sesso è per gli uomini come cavalcare un’onda travolgente e non cambierà. Non so che cosa ti porti a essere tanto astiosa, ma se non ammetterai che il sesso condiziona la maggior parte delle cose che diciamo e facciamo, ti ritroverai con il tempo a essere una donna molto acida», terminò.
«Se vuoi saperlo, io sono già molto acida. Perciò grazie per questo giro, ma le tue parole non mi danno conforto e preferisco tornare al mio drink», gli risposi seccata.
Sarei davvero diventata una stronza, acida, vecchia zitella per merito del genere maschile?
«Okay, vuoi sapere tutta la verità?», gli dissi, mentre lui sollevava entrambe le spalle. «Poco fa ho scoperto che il mio defunto padre tradiva mia madre. E questo mi ha turbata. Enormemente», ripresi a parlargli con enfasi.
«Ti va di parlarne?», mi domandò, utilizzando la tattica di chi sa anche ascoltare.
«Con te? Che mi proponi storie di cavalcate travolgenti in universi paralleli?».
«Non sei costretta. Stavo solo pensando a quanto tre bicchieri di whiskey e uno sconosciuto possano essere di grande aiuto a volte», disse in tono sufficientemente convincente da aprire il mio fiume di parole.
«Due anni fa ho scoperto che mio marito mi tradiva. Li ho trovati in una, vorrei poter dire squallida, ma si trattava invece di una strepitosa suite. Lui mi aprì la porta con solo indosso un asciugamano e con la schiuma ancora intorno ai fianchi. Pensai di dire “Sorpresa!”, ma grazie a dio mi risparmiai questa ulteriore umiliazione. Mi affacciai nella stanza e dopo alcuni secondi sentii la voce di quella donna che lo stava probabilmente chiamando dalla vasca da bagno. Girai i tacchi e me ne andai, senza guardarlo in faccia. Lui mi raggiunse e mi afferrò per un braccio. Così gli dissi: “Non voglio perdere un altro istante con te. La vita è troppo corta e non ho intenzione di sprecare tempo con una delle peggiori persone che mi potessero capitare. Hai insultato la mia intelligenza e hai oltraggiato il mio cuore”», conclusi con la voce sprezzante dall’astio mai sopito.
«Wow. E lui che cosa ti ha detto?», chiese incuriosito.
«Non ricordo e non ha rilevanza, perché adesso penso esattamente le stesse cose di mio padre e mi sento grottesca, perché ora sono adulta e so quello che fanno gli uomini. Ma lui era mio padre ed è morto.  Non posso ucciderlo e neanche più chiedergli il perché l’abbia fatto», gli dissi con le lacrime agli occhi.
«Non so definire cosa spinga gli esseri umani a ferirsi. Quello che so è che quando amiamo qualcuno non lo facciamo perché sono perfetti. Noi amiamo gli altri per ciò che sono. Anche quando se ne sono andati. Non possiamo permettere mai che le persone e le loro azioni ci cambino. Avere timori è lecito ma smettere di rischiare è deleterio. Anche se ci fa star male e anche se può far soffrire l’altro», mi disse bevendo alla goccia il suo bicchiere che posò sul bancone.
«Sai, io vorrei solo poter giocare una partita in modo onesto con un avversario altrettanto pulito», gli dissi guardandolo negli occhi.
«Mi auguro che prima o poi ti capiti», mi rispose abbozzando un sorriso sincero.
«Non lo so davvero. Magari non sono nemmeno adatta a questo genere di cose», dissi dopo una pausa. «Insomma, sapresti indicarmi almeno un rapporto amoroso che ha funzionato per davvero?».
Lui inarcò un sopracciglio.
«Bene, fammi pensare», iniziò lui grattandosi il mento. «Che ne dici dei Kennedy? Credo che se non fosse stato per Marylin, John e Jackie sarebbero stati perfetti», replicò con ironia.
Poi guardò il suo Rolex e pagò il conto al barman.
«Mi piacerebbe tanto darti il mio biglietto da visita ma credo che sarebbe poco credibile dopo tutto quello che è stato detto e, perciò, per oggi ti lascerò in pace», mi disse alzandosi dallo sgabello e, infilandosi il cappotto, mi sorrise languidamente.
«Grazie», gli dissi.
Mi allungò la mano e me la strinse.
«E’ stato un piacere. Quando hai voglia di farti un goccetto sai dove trovarmi».
Mi sorrise e mi strizzò l’occhiolino, prima di imboccare la porta.
Decisi di tornare in hotel, mi fermai alla reception per prendere la chiave della mia stanza. Mi fu consegnato un messaggio da parte di mia madre che non era riuscita a contattarmi telefonicamente, avendo spento ogni legame con il resto del mondo in un clic. Mi annunciava che sarebbe rimasta accanto ai genitori di Alessandro e che poi si sarebbe recata all’aeroporto a prendere il suo “amico” Henry. Si era avvicinata a lui molto rapidamente negli ultimi due mesi e ne ero stata leggermente infastidita al principio ma, dopo questa notte, non avrei che potuto dare la benedizione al loro rapporto. Aprii il mio iPhone e trovai numerose chiamate e decisi di dare la precedenza tra tutti a quelli di Morena che m’informava che avrebbe portato la bambina a mangiare un boccone in un ristorante del centro e che, poi, sarebbero passate in un negozio di giocattoli a fare shopping compulsivo. Mi sentii sollevata perché, mi veniva concessa un po’ di solitudine per provare a metabolizzare gli ultimi eventi.
Entrai nel salotto della camera, buttai il mio cappotto sul divanetto e mi sfilai la sciarpa dal collo. La feci scivolare lentamente tra le dita e la osservai, come se potesse sussurrarmi qualche confortante emozione. La portai alla bocca e socchiusi gli occhi rivivendo quel momento.
 Ian l’aveva presa dalla sua cassettiera l’ultima volta che ci eravamo visti. Si era avvicinato e me l’aveva fatta scivolare dietro al collo, poi mi aveva attirata a sé baciandomi con dolcezza. Mi aveva detto di amarmi ed io non avevo potuto che dirgli altrettanto perché era così probabilmente dalla prima volta che l’avevo incontrato.
Deglutii a stento e la feci volare nervosamente accanto al resto delle mie cose. Mi avvicinai alla vetrata appannata che dava sulla città. Passai una mano sul vetro gelido e guardai le luci dell’albero di Natale posto davanti all’hotel. Pensai al potere della menzogna epocale che mi aveva condizionata in tutte le mie scelte affettive per tutti questi anni.  La messinscena del perfetto matrimonio dei miei genitori mi aveva protetta, donandomi un punto di appiglio nelle innumerevoli occasioni, quando credevo di annegare. Mi avevano dato un margine di speranza quando temevo di averla persa. Ma, adesso, tutto cambiava ancora e mi ritrovavo a dover riprogrammare i miei pensieri, credendo seriamente che non fosse così semplice riconoscere l’amore che tutti sogniamo. Forse si tratta di una colossale invenzione di chi, un giorno, si era sentito troppo spaventato all’idea di sostenere le proprie angosce in solitudine.
La mia famiglia, il perno attorno al quale ruotava il mio primordiale mondo emotivo, si era rotto. Le convinzioni venivano offuscate dall’inganno e mi sentivo fragile, piccola, disorientata, abbandonata a me stessa, incapace di trovare un ordine nel quale ricollocarmi. Quella stessa identità che era stata il principio di riconoscibilità della mia essenza e aveva regolato costantemente i miei rapporti con gli altri, non era stata generata da una serie di opzioni e scelte coerenti con essa. Ero stata imbrogliata in un’illusione e la vulnerabilità, che irrompeva ora nella mia vita, mi avrebbe portato probabilmente a scelte imprevedibili e contraddittorie. Chissà, quella ragazzina di un tempo aveva storpiato i progetti con i sogni, le fantasie con la passione di un giorno, le trasgressioni con il desiderio illusorio di rifondare il mondo.
 Oggi, dieci natali fa, i miei ballavano al centro della nostra sala da pranzo, con gli altri incantati a guardarli. Da lì avevo pensato che era il tipo di amore che anch’io meritavo. Quello che un giorno mi avrebbe travolta. Ma, adesso, ciò che provavo era solo una fastidiosa sensazione di diffidenza che forse si sarebbe perpetuata all’infinito.
Il tradimento della fiducia da parte di un genitore è di gran lunga peggiore di quello di un amante, perché proviene da chi ti ha donato la vita. È viscerale, troppo intimo per non ferirti sulla tua stessa pelle, lacerandoti, lasciandoti tagli che mai si rimargineranno. Perciò non sapevo quando, e se mai, avrei potuto perdonare mio padre, che aveva costruito i cosiddetti castelli di sabbia in riva al mare e aveva miseramente fallito. L’amore lo aveva ucciso in ogni senso e aveva ucciso l’idea di amore che avevo sempre avuto fino ad ora.
  Mi decisi ad andare a fare una doccia per ripulirmi dai pensieri appiccicati ossessivamente alla mia pelle. Avrei riposato e più tardi avrei cominciato ad analizzare come procedere. Dovevo fare un passo indietro, per tornare a essere la vecchia Audrey di un tempo, quella che pianificava le proprie emozioni per renderle meno enfatizzate da un puro e semplice minuto di follia. Entrai in camera e vidi distesa sul letto, al buio, la sagoma di una persona. Era forse possibile che qualcuno avesse sbagliato stanza? Lanciai istintivamente un urlo e la figura cadde a terra.
«Audrey! Audrey sono io!», disse, appigliandosi al comodino accanto per accendere la luce.
 Ian era qui. Rimasi immobile, come paralizzata, cercando di capire se non si trattasse di un sogno e valutando una possibile via di fuga.
«Mi hai fatto prendere un colpo, Audrey», disse, portandosi le mani tra i capelli lucenti e perfettamente disordinati.
«In realtà sono io quella a essere spaventata. Potevi avvisarmi prima», gli risposi seccata, cogliendolo alla sprovvista perché era palese che si aspettasse un'altra accoglienza.
«Mi dispiace, devo essermi addormentato. Ultimamente ho fatto così tante miglia tra lavoro e per la fondazione, che il jet lag ormai sta mettendo a dura prova il mio fisico», disse avvicinandosi lentamente, come se avesse percepito la mia intenzione di allontanarmi.
 «Non volevo spaventarti. Volevo solo farti una sorpresa», disse, appoggiandomi le mani sulle spalle.
Una scossa calda mi paralizzò brutalmente. Trattenni il respiro mentre schiudeva le labbra, regalandomi il sorriso più dolce e adorabile che gli avessi mai visto fare. Poi mi abbracciò e decisi che, almeno in quell’istante, avrei ignorato la mia coscienza che mi urlava di non illudere nessuno dei due. Avevo bisogno di sentirlo ma ero vittima di una battaglia interiore, che a tratti mi convinceva a scacciarlo e un secondo dopo m’impediva fisicamente di farlo.
«Non hai idea di quanto mi mancasse tutto questo piccola», mi disse prendendomi una mano e portandosela al petto, sul cuore che in questo istante sapevo appartenergli.
Era impossibile non ammettere che fosse così ed era buffo accettarlo, adesso che stavo per dirgli addio. Sempre che ci fossi riuscita.
«Forse avresti dovuto chiamare», gli dissi, ritraendo la mia mano come se mi avesse scottata.
Distolsi lo sguardo, tornando alla realtà.
«Che cosa ti prende?», chiese titubante.
«Io… io sono così stanca, anzi, direi che l’aggettivo sfinita renda meglio l’idea».
Mi incamminai verso lo scrittoio, dove tenevo il beauty con le pillole per l’incombente mal di testa e ne presi una.
«Certo, ti capisco. Chiunque lo sarebbe al tuo posto», disse con molta comprensione.
«Alessandro si è risvegliato poche ore fa», gli dissi dopo una breve pausa.
«Lo so. Ero qui con tua madre quando l’hai chiamata».
«Cosa? Non mi ha detto nulla. Se solo lo avessi saputo io…».
Stavo per replicare altro ma mi bloccò con un gesto deciso della mano.
«No, aspetta. Le ho chiesto io di non farlo», la giustificò.
«Certo, tu e la tua tempistica sorpresa. Sai, credo che forse tu non ti renda conto di parecchie cose e che sia solo inconsciamente condizionato dai copioni delle tue recite», dissi, con rabbia. «E poi con Morena avete programmato tutto alle mie spalle per fare in modo che tu ed io rimanessimo soli?».
«Aspetta. Sì, ok Morena mi ha detto che avrebbe tenuto Martina ma esclusivamente per lasciarti riposare prima di ritornare da Alessandro. Il fatto che io fossi qui e avessi bisogno di raccontarti delle cose era un’altra questione ancora».
«Quello che non capisco è il perché tu abbia fatto tutta questa strada per parlare con me?», insistetti per scatenare una qualche sua reazione.
«Con chi dovrei voler parlare se non con te?», mi chiese allargando le braccia.
«Non lo so, magari potevi risparmiarti altre inutili miglia di volo e cercare qualche tua amichetta, totalmente devota e predisposta ad assecondare le tue nascenti doti da sceneggiatore», lo provocai.
L’espressione di Ian si fece improvvisamente intensa. Ci guardammo irritati per qualche secondo, senza fiatare.
«Vuoi rallentare per un attimo e farmi capire? Perché forse sono così stanco da aver sbagliato camera», mi chiese con fermezza.
«Senti, mi dispiace tradire le tue aspettative. E non hai sbagliato stanza. Questa sono io. Probabilmente non ti è ancora chiaro il fatto che non sono manovrabile come tutte le donne che pagherebbero oro per trascorrere il loro insulso tempo in tua compagnia».
Lo studiai, concentrandomi sulla sua prossima mossa. Placai però il mio nervosismo per via del suo convincente sguardo azzurro che mi esortò a tacere.   
«Audrey non ho intenzione di aggredirti in nessun modo. Non sono qui per questo e ti assicuro che nessuno agisce senza tenere conto della tua persona e delle tue esigenze. Volevano solo lasciarci un po’ di privacy per stare insieme e lo volevo anch’io. Per parlare con calma di quello che è successo dopo Daytona», ammise sollevando le spalle.
«Dannazione perché tutti mi tenete allo scuro delle cose e stabilite ora e data per dirmele, credendo che coincidano necessariamente con la mia volontà? Sono stufa di sentirmi in colpa per non essere comprensiva o felice a comando», dissi esasperata.
«Va bene. Allora scusami per aver sperato che avrebbe fatto piacere anche a te rivedermi. Probabilmente non so più niente quando si tratta di te», disse, alzando le mani in segno di resa.
«Non si tratta di questo», puntualizzai. «Credo che tu ed io dovremo rallentare».
«Non dirmi che hai ancora dei dubbi su di noi?», rise con nervosismo. Il mio silenzio era solo una conferma. «Dimmi Audrey, per quanto tempo ancora credi che io sia disposto ad aspettare che tu decida cosa fare con la tua tormentata esistenza?».
«Non ti ho mai chiesto nulla Ian né tantomeno di prenderti carico dei miei tormenti», gli risposi con sufficienza.
«Credo che tu abbia dei seri problemi di autolesionismo, perché guardati, ti piace tanto complicare tutto quando non lo è», sbottò.
«Per te forse è tutto semplice. La tua vita è esaltante e questa cosa tra di noi forse è solo un simpatico diversivo. Ma per me non è un gioco e non sono l’interprete di una puntata di un tuo fottuto film», dissi, muovendo un passo verso di lui. «Ian, io vivo in una dimensione dove nulla è facile e mi sono fatta ingenuamente trascinare in una storia romantica senza riflettere sul mondo reale, fatto di menzogne e privo di sensi di responsabilità», continuai cinica, cercando di mantenere un tono distaccato.
«Menzogne? Responsabilità? Quello che c’è stato tra di noi non è stato il frutto dell’immaginazione. Non è un’illusione. E’ tutto vero e perciò sono qui. Ho mantenuto le distanze proprio perche sei tra le persone che io rispetti maggiormente, non perché non volessi fiondarmi da te. Tu sei fatta così, hai bisogno dei tuoi spazi per dimostrare a te stessa che puoi farcela. Ma ora ci sono. Dannazione, permettimi di aiutarti Audrey», mi disse con quel suo caratteristico modo di fare protettivo.
Non avrebbe dovuto trovarsi qui, non ora, e non gli buttai le braccia al collo rassicurandolo che era tutto come prima. Sperai solo che si girasse e corresse via lontano ma, invece, cominciò a camminare ancora verso di me e, molto lentamente, iniziò ad avvicinare il suo volto al mio.
«Mi dispiace ma non ricordo di averti chiesto aiuto. Non voglio nulla e sì, so cavermela perfettamente da sola», gli dissi, voltandogli di scatto le spalle, nel timore che decifrasse i miei occhi che gli avrebbero dato una versione differente da quella che stava concretandosi con le mie parole.
«Ti prego ascoltami. Non rovinare tutto. Ti prego, non hai idea di quello che mi è passato per la testa in tutto questo tempo», disse, costringendomi a voltarmi e giungendo poi le mani come a pregarmi.
Nessuno lo aveva mai fatto per me e mi sfiorò l’idea presuntuosa di assistere alla prima volta in cui lo faceva. Ero sgomenta e non sapevo quasi più da dove attingere le forze per oppormi.
«Non ho idea di cosa? Certo che ce l’ho. Non dovevi venire qui. Non ho voglia di vederti e, tra parentesi, ti ho già detto quanto odii quando le persone danno per scontato quello che desidero», dissi pur pensando che non odiavo nulla di lui.
Alzai gli occhi e lo guardai dritta nei suoi, pieni di stupore.
«Io so quello che desideri», disse con uno sguardo torvo cui era davvero tanto difficile resistere.
«Ecco, vedi stai sbagliando ancora ed è stato un mio errore permetterti di pensarlo. Ho forzato questa cosa quando non ero ancora pronta».
«Audrey», disse a bassa voce.
Stava venendo verso di me, ma con esitazione. Chiusi gli occhi e incrociai le braccia al petto come per proteggermi dal suo tono implorante che stava provando a sortire il suo giusto effetto.
«Dimmi cosa posso fare, sono disposto a tutto. Anche ad allentare per un po’ le cose, se è questo che vuoi. Ne riparleremo ad Atlanta quando ritornerai».
Ci fu ancora una lunga pausa di silenzio.
«Potresti dimenticare questi mesi. Cancellare tutto questo dalla tua mente. Se hai provato un briciolo di affetto per me, adesso vai via e mi lasci libera di voltare pagina».
«Batti in ritirata?», sussurrò con gli occhi lucidi.
«Mettila come ti pare», controbattei dura.
Se dovevo passare per questo, allora dovevo essere convincente.
«Sei così glaciale e razionale. Mi domando con chi ho creduto di passare gli ultimi quattro mesi. Chi diavolo sei?».
Non sapevo cosa rispondergli. Non lo sapevo davvero.
«Guardami negli occhi», mi disse sollevandomi il mento tra le due dita. Il contatto mi fece sciogliere. «Io ti amo e… molto. Ma adesso è arrivato quel momento nel quale è obbligatorio scegliere cosa fare, assumendosi le proprie responsabilità», disse guardandomi serio. «Sono disposto a uscire da quella porta e dalla tua vita, ma solo nella certezza che tu non sia davvero sicura di provare le stesse cose che io sento nei tuoi confronti. Perciò guardami negli occhi e dimmi qualcosa di sensato», mi disse determinato.
«Io…io non posso guardarti negli occhi e non pensare che quello che è successo ad Alessandro è solo a causa nostra e per cosa? Tra qualche tempo non ti ricorderai nemmeno il mio nome se non dando uno sguardo alla tua biografia su Wikipedia alla voce “Vita privata”», gridai.
«Credi davvero di ferirmi con queste cazzate? Perché non la finisci e ammetti per una buona volta di essere solo una ragazza borghese e viziata che per insensate paranoie manda allo sfascio la vita di tutti, nella sicurezza che poi chiunque sarà sempre disposto a venirti a cercare. Ma con me questo giochetto sappi che non funzionerà», ribatté, alzando di due toni il volume della voce.
«Tu non sei nessuno e non ti puoi permettere di dirmi queste cose», gli dissi voltandogli la schiena.
«Sì, invece. Tu scappi e basta e te l’hanno sempre permesso. Nessuno ti ha mai affrontata, costringendoti a fermarti per prendere una posizione. Lo hai fatto con i tuoi, con Alessandro e ora stai cercando di farlo con me».
Mi prese con forza il braccio e mi costrinse a voltarmi ancora.
«Ian tu non sai nemmeno chi sia. Ci conosciamo da quattro mesi appena. A volte non basta nemmeno una vita per capire chi sono veramente le persone che hai accanto», gli dissi con voce tremolante.
«Come si può pretendere che le persone possano capire chi siamo e che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. Gli stessi errori di sempre».
 «Facciamo così. Se ti fa stare meglio dare una spiegazione a tutti i costi a ogni cosa, pensami come a uno tuo di errore. E chiudiamola una volta per tutte», gli dissi sfidandolo ancora.
L’atmosfera nella stanza si stava facendo sempre più incandescente. «Bene», disse buttando fuori aria. «Mi fa piacere sentirtelo dire».
«Ottimo», aggiunsi con una scrollata di spalle, mentre lui cominciava a ridere. «Che cosa c’è da ridere adesso?».
«Trovo quasi ironico tutto questo perché è praticamente da tutta una vita che vengo rincorso dalle donne e adesso guardami, sono qui a implorarti».
Di colpo, senza preavviso mi strattonò verso di lui e premette le labbra sulle mie, levandomi il respiro, miscelando rabbia e passione. Avrei dovuto fermarlo prima di arrivare a questo punto e lo sapevo benissimo che ci saremmo arrivati. Mi detestavo per non averlo fatto. Prima che riuscissi ad allontanarlo, m’imprigionò tra le sue braccia. La pressione delle sue labbra aumentò e dischiuse le mie. La sua lingua m’invase con determinazione. Sentii le ginocchia tremare e le vene pulsarmi ai lati delle tempie. Così dimenticai ogni motivo per cui sarei dovuta rimanere distante da lui e risposi al suo bacio. Infilai le mani tra i suoi capelli così morbidi. Il tempo si fermò mentre tutto scorreva intorno a noi. Eravamo ancora nel nostro mondo, dove ero quella che volevo essere, senza esitazione alcuna. Le nostre lingue continuarono a stuzzicarsi, le mani a vagare sui corpi che strusciavano l’uno addosso all’altro. Il respiro diventò sempre più corto. Fece scivolare le labbra sul mio collo fino a mordermi sensualmente la spalla.
«Ian…», sospirai il suo nome come fosse una supplica, perché sapevo di non essere mai riuscita a resistergli quando eravamo così vicini.
Lo odiavo perché sapeva rendermi vulnerabile e odiavo me stessa perché permettevo al mio buonsenso di venire sopraffatto dal desiderio di essere sua.
«Mi piace quando sussurri il mio nome», mi disse afferrando con i denti il lobo del mio orecchio.
«Ian non è una buona idea», gli sussurrai lasciando cadere la testa sulla sua spalla.
«Perché?», domandò sempre più confuso.
«Perché non vuoi capire? Finiremo col farci sempre più male e non so se riuscirei a sopportarlo», gli dissi mentre le nostre labbra avevano ripreso a sfiorarsi dolcemente.
«Io ho capito benissimo e sono qui e sto insistendo come mai prima proprio per farlo capire a te» sibilò.
«No, non ce la faccio», gli dissi appoggiando la fronte sulla sua guancia. Sollevai gli occhi. «Dannazione, io non volevo più innamorarmi di nessuno perché ci sono già passata una volta e faceva schifo. Ho mille problemi da risolvere e delle responsabilità da affrontare e non posso farlo con te accanto. Alla fine mi odieresti perché non riuscirei a darti quello di cui hai bisogno», gli dissi facendo riaffiorare lentamente la ragione sulla mia coscienza.
Gli sfiorai i capelli scompigliati per addolcire quello che stavo per dirgli.
«Mi dispiace. E’ finita e basta. Non voglio il tuo amore. Smettila di cercarmi e, vedrai, un giorno mi darai ragione per quello che sto facendo adesso», gli dissi con fermezza.
Lo guardai per capire se comprendeva veramente quello che stavo dicendo. I suoi occhi azzurrissimi mi dissero che questa volta aveva ricevuto il messaggio. Rimasi zitta, con il fiato corto, alterata dall’elettricità che avevo avvertito tra di noi sin dal primo istante. Lui indietreggiò e mi tracciò una linea sulle labbra con il pollice.
Mi guardò con gli occhi sbarrati per l’orrore che anch’io provavo.
«Sei sicura di pensarlo seriamente?», chiese ancora osservandomi le labbra, sperando che pronunciassero un segno di positivo cedimento.
Feci un bel respiro per riuscire a continuare.
«Ti sembro una che sta scherzando?».
Mi osservò ancora controllando le proprie emozioni celate nel luccichio dei suoi occhi.
Imprevedibilmente mi strinse in un ultimo interminabile abbraccio. Poi abbassò le mani, abbandonandole sui fianchi. Si voltò, dandomi le spalle e avviandosi verso l’ascensore presente nella stanza. Lo seguii con lo sguardo. Si appoggiò alla parete, passandosi una mano tra i capelli. Udii il rumore dell’ascensore che saliva. Mi mancavano solo pochi istanti per dirgli di non andare, di aspettarmi e che lo avrei amato per sempre. Chiusi gli occhi mentre le parole mi rimbombavano nella testa. Ma non dissi nulla. Tirai su con il naso e mi asciugai le lacrime che erano riuscite a rotolare sulle guance. Le porte si aprirono e lui esitò per un attimo prima di entrarvi, legando le mani a un’invisibile catena ai lati dell’ascensore. Poi balzò dentro, si girò a guardarmi e si morsicò il labbro, per distrarsi dal dolore acuto che provava. Scosse la testa che inclinò di lato, per restare con gli occhi nei miei fino all’ultimo. Le porte si richiusero.
Mi guardai attorno, non sapendo più dove fossi e cominciai ad ansimare, in preda a un attacco di panico. Mi mancava l’aria. Che cosa avevo fatto? Crollai sul pavimento e finalmente mi uscii la voce. Poco alla volta, sempre più forte, iniziai a urlare. Provavo un dolore così lancinante. Misi le mani sugli occhi, chiedendomi come si potesse fare ad amare qualcuno senza soffrire, senza spappolarsi il cuore. Ero cresciuta sperando di incontrare qualcuno come lui, per riprodurre la favola dei miei genitori e, quando mi stavo appena convincendo di essere finalmente riuscita a essere all’altezza di quello che desideravo, mi veniva strappato via perché non ci credevo fino in fondo. Mi mancavano quei pezzettini di vita che l’avrebbero resa veritiera. 
Solo liberandomi dai residui del passato e chiudendo “i conti in sospeso” potevo ancora avere delle speranze.
Perchè senza debiti, si sa, si vive meglio.
 
  …il mio telefono squillò. Era mia madre.
«Tesoro devi venire subito in ospedale. Si tratta di Alessandro. Sono sorte alcune complicazioni».
  
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