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Autore: Delilah Phoinix Blair    09/04/2014    11 recensioni
12 febbraio 2014
Il pianeta deve prepararsi ad una Terza Guerra Mondiale.
Tutti sanno che non è pronto, ma che è necessario.
Sarà una lotta per la libertà contro l'oppressione dell'uguaglianza ridotta ai minimi termini: il comunismo, così come lo conosciamo, non è una soluzione accettabile.
In questo fiume di sangue, un soldato e una ragazza troveranno il loro angolo di paradiso in Abruzzo per tenersi a galla l'un l'altra.
Dal testo:
"《Ti amo, piccola Dea.》 Dopo aver pronunciato quelle parole, accostò la fronte a quella di lei. La sua voce era una carezza.《Non con la consapevolezza che questa potrebbe essere l'ultima volta che i miei occhi incontreranno i tuoi. Non potrei amarti come meriti sapendo che la guerra potrebbe strapparmi a te in qualunque momento.》 Lo disse scandendo le parole lentamente, come a volerle imprimere sul cuore di entrambi. Fece una pausa accarezzando dolcemente quella pelle di porcellana con entrambe le mani ruvide e grandi. 《No, ti amo come se potessi davvero farlo per sempre.》
C'era qualcosa che stonava nelle lacrime amare che le piovvero dagli occhi, simili a frammenti del cielo in estate.
La loro estate."
Genere: Guerra, Introspettivo, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Grazie a Elvass, Class of 13, Lady Angel 2002, Bijouttina, Sylvia Naberrie, Harryette, Gileky, Stephanie86 che hanno recensito.
Grazie a Class of 13, michyceli, Bijouttina, Lady Angel 2002 che hanno aggiunto la storia alle seguite.
 
 
 

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Così percossa, attonita la terra al nunzio sta.



Voi che per li occhi mi passaste 'l core.
 
6 Maggio 2014

  Non era riuscito a resistere, doveva vederla.
In realtà probabilmente non ci aveva nemmeno provato, semplicemente quel martedì, dopo una notte insonne passata con il viso di lei stampato nell'interno delle palpebre, all'una Ryan era salito in macchina e aveva guidato fino ad arrivare in via Venezia.
Non era stato difficile scoprire che liceo frequentasse, non c'erano molte ragazze con il suo stesso nome a Pescara quindi era bastata una breve ricerca su internet.
Una volta arrivato era sceso dall'auto e si era appoggiato a braccia conserte alla portiera. In attesa. Non era sicuro di sapere bene cosa stesse aspettando.
Non sapeva nemmeno cosa ci facesse li, davanti a quel liceo!
Voleva solo vederla senza essere visto, era piacevole guardarla. Osservarla sorridente, imbronciata, assorta, affascinata. Disgustata. Questo era leggermente meno piacevole. Non riuscì a trattenere la smorfia che si fece spazio sul suo viso.
Da quando aveva visto quell'ovale perfetto invaso dal disprezzo, era stato rapito dal desiderio di essere migliore di un soldato.
Da quando l'aveva vista ghermita dalla violenza, spaurita, inerme, aveva voluto dimostrarle che non tutti erano come Timothys, che lui era diverso, che l'avrebbe protetta.
Ed era completamente irrazionale, la conosceva appena. Tuttavia era bastato vederla, sentirla parlare di pace e di salvezza, di una vita diversa, per essere totalmente assuefatto alla sua presenza: ne voleva ancora.
Non sentì suonare la campanella, le pareti di quel vecchio edificio risalente al governo Mussolini erano troppo spesse per permetterlo, però vide le ragazze e qualche ragazzo dei primi anni iniziare ad uscire alla spicciolata.
L'edificio era rossastro e la sua facciata era divisa in due ordini: uno che comprendeva il piano terra, decorato da un bugnato dolce, ed un secondo che inglobava primo e secondo piano. Le finestre erano circondate da cornicioni bianchi. Vi si accedeva tramite una piccola scalinata semicircolare.
La vide all'inizio di quelle scale, come se fosse comparsa all'improvviso, con i capelli lisci come raggi di sole che le scivolavano sulle spalle, lambendole le braccia nude. Quel giorno indossava una maglietta in pizzo color crema che la rendeva adorabile, un paio di jeans chiari e delle ballerine turchesi. Così come i suoi occhi limpidi che scrutavano la folla mentre le sue esili braccia tentavano di farsi spazio. Le labbra rosa erano distese in un tenue sorriso mentre si voltava per cercare qualcuno e si ravvivava i crini biondi dopo aver individuato la sua amica. Scese le scale come se stesse fluttuando, con una grazia che non apparteneva a nessuno dei suoi coetanei.
Poi lo vide.
E lui rimase ad ammirare i suoi occhi farsi più grandi e le sue labbra dischiudersi appena, quasi per chiamarlo timidamente.
Ma Ryan l'avrebbe sentita, nonostante la distanza che li separava, lui avrebbe udito ugualmente la sua voce pronunciare teneramente il suo nome.
Lei distolse lo sguardo solo per dire qualcosa alla ragazza che le stava accanto, prima di avviarsi verso di lui sforzandosi di non perderlo di vista nella folla, di mantenere quegli occhi dorati incatenati ai suoi in quella maniera così indissolubile, che gli impediva ogni movimento.
Lui però ormai stava già girando attorno all'auto per riprendere il suo posto al volante.
Quando Afrodite riuscì a raggiungere la strada per attraversare, Ryan era già scomparso.
Si chiese quasi se non fosse stato tutto frutto della sua immaginazione: Afrodite aveva passato l'intera notte a ripassare nella mente il loro piccolo momento del giorno precedente, senza riuscire a chiudere occhio.
 
***

Yo no se, ni quiero, de las razones que dan derecho a matar.
 
Il primo funerale in memoria dei caduti in guerra si tenne il 18 maggio 2014 nella chiesa di San Cetteo, patrono della città.
I pescaresi che avevano perso la vita in quel mese e mezzo erano sette.
Paolo e Marco non erano tra questi.
Afrodite quella domenica mattina si alzò prima del solito per prepararsi in tutta calma ed avviarsi alla cattedrale a piedi. Iniziò la giornata con una doccia fresca che le servì per ricomporsi dopo la notte tipicamente umida della sua città nella quale, già da maggio, l'aria iniziava ad inspessirsi per il caldo. Non si preoccupò di asciugare i capelli nè di truccarsi, ma indossó subito un paio di jeans scuri con una maglietta in raso nero dalle maniche a tre quarti e delle ballerine lucide dello stesso colore.
Uscì quando i suoi genitori non si erano ancora alzati, lasciando loro un biglietto nel quale spiegava che era andata a fare una passeggiata e si sarebbero visti direttamente in chiesa. Decise di non passare per il lungomare, non voleva inquinare quel placido specchio con i suoi pensieri torbidi, così prese corso Umberto come per andare alla stazione, ma prima di arrivarvi svoltò a sinistra su corso Vittorio, avviandosi con tutta calma verso il fiume per raggiungere la zona sud della città che si trovava al di là e prendeva il nome di Portanuova. Sull'antico ponte Risorgimento non potè fare a meno di fermarsi e prendersi un momento appoggiata alla baluastra sul marciapiede est. Il sole era abbastanza alto ormai da permettere allo sguardo di spaziare scivolando sulla foce del fiume e sui pittoreschi pescherecci ormeggiati lungo il canale, al contrario delle barche più costose che trovavano invece posto nel porto turistico a sud, ma erano visibili anche il piccolo ponte Paolucci ed il più moderno ponte del mare, superiore al primo per altezza. Poteva notare i palazzi più alti alla sua sinistra, come l'hotel Duca d'Aosta o la rossiccia torre dell'orologio del comune, e quelli più bassi alla sua destra, parzialmente coperti dalla rampa dell'asse attrezzato. La vista della città era talmente splendida da riempire la mente di Afrodite di tristezza al pensiero di come i pescaresi passassero incuranti ogni giorno davanti a quello spettacolo, troppo impegnati con le loro irrequiete vite per prestarvi attenzione.
Quando riprese il cammino mancavano ormai dieci minuti all'inizio della funzione, tempo sufficiente per percorrere tutta via delle Caserme ed arrivare davanti alla cattedrale.
L'edificio, in stile tutto romanico com'era frequente in Abruzzo, aveva una rigorosa facciata rettangolare in pietra locale, suddivisa da lesene che ne preannunciavano la scansione interna in tre navate, ciascuna delle quali dotata di un portale sormontato da un arco a tutto sesto. Era interamente bianca, cosa che le garantiva una purezza che ben si accordava con la sua destinazione sacra.
La piazza che ne precedeva l'ingresso era ormai sgombra, così Afrodite si affrettò a raggiungere i suoi concittadini all'interno.
Le panche erano gremite di persone e l'ampio spazio del luminoso tempio era ricolmo del più assoluto silenzio. Nel punto di congiunzione tra la navata centrale ed il transetto riposavano le sette bare, sotto lo sguardo stanco del vescovo ancora immobile sul suo scranno dietro l'altare.
Prendendo docilmente posto al fianco dei suoi genitori, Afrodite si rese conto che di lato al presbiterio si trovavano alcuni dei soldati americani d'istanza a Pescara.
I suoi occhi affondarono nel miele che aveva invaso i suoi pensieri nei giorni precedenti, rendendoli stopposi, solo il tempo necessario per registrare il fatto che lui era presente.
A pochi passi da lei.
Percepì distintamente come sbagliato il brivido rovente che le corse lungo la schiena a quel pensiero.
Quando Afrodite distolse lo sguardo da Ryan, lo fece riproponendosi che non l'avrebbe più sollevato dalle sue mani aggrovigliate, per tutta la durata della cerimonia.
Il vescovo officiò la normale messa, prima di prendere la parola con voce vibrante, ma anche rotta dal dolore in alcuni punti, in onore dei soldati passati a miglior vita.
《Fratelli. Siamo qui riuniti oggi per raccoglierci in lutto attorno ai corpi esanimi dei nostri compagni, periti in guerra per una nobile causa. State certi che il nostro signore terrà con sè nella sua gloria questi martiri partiti dalle loro case per liberare i loro fratelli dall'oppressione dell'ingiustizia. Possiamo essere certi che trascorreranno la loro vita eterna tra le braccia sempiterne e misericordiose di Dio Nostro Padre. Io so, come lo sapete voi e come lo sanno i nostri fratelli statunitensi qui presenti, che non sono morti invano, che da troppo tempo la barbarie regnava sovrana in questo mondo ingiusto e che qualcuno doveva sovvertire questo caos per ristabilire l'ordine dettato dall'amore per il prossimo. Ebbene questi uomini, quasi fossero profeti del nostro signore al pari di suo figlio Gesù il Cristo, hanno contribuito a portare il suo messaggio di pace e libertà in una terra ormai vessata dal dio Denaro e da sua sorella Violenza. Per quanto la buona riuscita del nostro intento sia ancora lontana, Dio è vicino ai suoi figli, è dalla parte dell'Europa e dei nostri alleati statunitensi e continuerà ad esserlo. Quindi non disperate così che il loro sacrificio non sia vano, continuate ad avere fede e Dio pagherà i nostri sforzi.》
Afrodite sentì le gambe cederle e la testa farsi pesante a quelle parole, come se l'avessero riempita fino all'orlo, senza lasciare spazio a nessun altro pensiero.
《Salutiamo allora, augurando loro l'eterno riposo, il nostro fratello Giorgio Selva...》 Il vescovo prese ad elencare i nomi dei defunti, ma la mente di Afrodite si bloccò al primo, mentre quelle due parole iniziavano a rombarle nelle orecchie.
Era troppo.
Giorgio Selva.
L'eterno riposo dona a loro, o Signore.
L'intera cattedrale iniziò a risuonare di quella preghiera.
E splenda ad essi la luce perpetua.
Afrodite si portò una mano al petto.
Riposino in pace.
Le voci delle persone attorno a lei grondavano di lacrime, le stesse che le solcavano il viso. le mura della cattedrale trasudavano commemorazione.
Amen.
Così sia. No, non era giusto che così fosse.
L'eterno riposo dona a loro, o Signore.
Si appoggiò con le mani allo schienale della panca davanti a lei.
E splenda ad essi la luce perpetua.
《Afrodite, stai bene?》 Suo padre. Cosa gli sarebbe accaduto se le cose si fossero messe male?
Riposino in pace.
《Povera piccola.》 Il sussurro triste di sua madre.
Amen.
Così sia. La guerra era reale.
L'eterno riposo dona a loro, o Signore.
La morte era reale.
E splenda ad essi la luce perpetua.
《Sto bene, ho solo bisogno d'aria.》 Quasi non si accorse dei suoi piedi che si muovevano rapidi lungo il colonnato che divideva la navate centrale da quella laterale.
Riposino in pace.
La luce oltre il pesante portone della cattedrale le ferì gli occhi, l'aria fresca le invase i polmoni scossi dai singhiozzi, i suoni della città tornarono a riempire le sue orecchie, quasi a voler coprire tutto il dolore che avevano udito.
Amen.》 Un ospiro, il suo, che aveva il sapore di un "finalmente" più che di un "così sia".
D'un tratto sentì la porta della chiesa che si apriva e richiudeva dietro di lei. Decise di non controllare subito di chi si trattasse per avere il tempo di ricomporsi, certa che Silvia l'avesse seguita dopo averla vista fuggire in quel modo.
《Afrodite.》 La voce che si modellò attorno al suo nome non era però quella della sua migliore amica. Si voltò di scatto per trovarsi di fronte un corpo in perfetta uniforme. Quella fu la prima volta in cui la sua lingua accarezzò quella parola così nuova.
《Che succede?》 Ryan avanzò di un passo titubante, la fronte contratta e l'espressione contrita. 《Conoscevi qualcuno di loro?》
《Giorgio Selva era il mio insegnante di storia e filosofia.》 La voce le uscì più sicura di quanto avrebbe creduto.
《Mi dispiace.》 Ryan scandì quelle parole per fa sì che penetrassero fin nella parte più profonda di lei e si avvicinò ulteriormente, con calma. Ormai li separavano solo pochi passi.
《Quando è partito sua figlia aveva sette mesi.》
Nessuno dei due trovò qualcosa da dire, finchè Ryan non interruppe quel silenzio viscoso.
《Significa che quando sarà abbastanza grande, sua madre le racconterà che suo padre è morto in guerra per liberare un'intera popolazione dal peso della tirannide.》 Voleva convincerla, era evidente, aveva bisogno che lei gli credesse.
《Lo credi davvero?》 Il tono di Afrodite si fece più accondiscendente. 《Oppure le dirà che suo padre è morto in guerra per capriccio degli americani, perchè non sono mai sazi di quello che hanno.》 I suoi occhi si riempirono nuovamente di lacrime, che lei cercò stoicamente di trattenere.
《Non è così. Non è un capriccio. La gente lì muore.》 Il tono di lui si fece più duro.
《Me ne sono accorta.》 Afrodite alzò di poco la voce, indicando con rabbia la cattedrale alle spalle di lui.
《Quello che sto cercando di dirti è che vale la pena di mettere in pericolo la propria vita per salvare quella di persone indifese.》 Ryan sentì le spalle rilassarsi dopo aver pronunciato quelle parole, contemporaneamente il suo cuore venne stretto in una morsa alla vista delle lacrime che Afrodite non era più riuscita a trattenere e che ora le bagnavano le guance.
《Lo so.》 La sua voce ora aveva perso in volume ed asprezza ed era roca per il pianto. 《Ma è così difficile...》 Si passò una mano tra i capelli e distolse lo sguardo dal viso dell'uomo davanti a lei, in modo da lasciarlo libero di vagare per la piazza a destra della cattedrale, come se volesse permettere almeno ad esso di evadere da quella tensione. 《Tu sei abituato alla morte, io non l'avevo mai vista così da vicino.》 Continuava ad impedirsi di guardarlo. 《È talmente ingiusta...》 Fece una pausa come se stesse raccogliendo le idee e Ryan decise di non intromettersi per permetterle di sfogarsi.
Era perfettamente in grado di prendere su di se il dolore di Afrodite, di farlo suo per liberarla da quel sentimento di odio che non le apparteneva nè poteva appartenere ad una dea come lei, di assorbire quella disperazione che gli Stati Uniti avevano portato nella sua vita senza bussare, quasi come se fosse un piccolo pezzetto di lei da portare sempre con sè per ricordarsi che al mondo, nonostante tutto ciò che accadeva, c'era ancora qualcosa di puro, buono e innocente in grado di galleggiare, seppure a fatica, su tutto quel melmoso egoismo privo di scrupoli.
Afrodite era la sua Utopia.
《Come è possibile che esista un Dio?》 Il volto di Afrodite era assorto, i suoi occhi lontani. 《Com'è possibile che Dio voglia questo per i suoi figli? È la somma onnipotenza e la bontà assoluta, ma evidentemente non è entrambe le cose contemporaneamente, altrimenti il mondo sarebbe diverso. E non posso credere che tutto questo sia opera del libero arbitrio: siamo parte di lui, nati a sua immagine e somiglianza, dovremmo essere buoni, nel nostro cuore non dovrebbe esserci spazio per l'odio. Ma la realtà è ben diversa, allora io devo credere che ci abbiano mentito, da sempre. Devo credere che non esista nessun Dio, oppure semplicemente non devo credere a nulla. Ma ciò significa che siamo solo corpi invasi dalla disperata e sfrenata ricerca di qualcosa, sbocciati spontaneamente su questa terra che non meritiamo, perchè la stiamo distruggendo, esattamente come ci piace tanto distruggerci tra noi. Come si può fermare la macchina devastatrice che è diventata l'umanità senza rimanerne travolti? Come fermare questo processo di autodistruzione dettato dall'odio e dal desiderio insaziabile di avere? Non importa cosa si ha, l'importante in questo mondo è avere, ad ogni costo. Chi più ha, più ottiene. È un circolo vizioso, non se ne esce. Vite umane, denaro, potere, donne, cibo, case, beni di lusso, aziende. Non ha importanza. E non se ne esce: la malvagità ha posto radici così profonde nei cuori degli uomini da rendere difficile comprendere se non sia da sempre parte di loro. E se davvero lo fosse, quest'uomo così meschino e potente non può essere il frutto di qualcosa di tanto puro come Dio. Ma allora da dove viene? È possibile salvare un'umanità corrotta fino al punto da minacciare se stessa?》 La sua voce si spense lentamente, dopo quel discorso portato avanti con tanto ardore. I suoi occhi erano tornati gradualmente sul volto di Ryan mentre parlava.
《Non lo so. Ci stiamo provando, Afrodite.》 Eccolo il dolore di lei che si faceva spazio nel suo petto. Lo accolse. 《Stiamo provando a porre fine a quei soprusi, a quelle atrocitá.》
《Con altri soprusi, altre atrocità. La guerra non è la soluzione, è solo l'ennesimo problema che va ad aggiungersi alla catasta che il mondo tiene da parte.》 Il tono con cui lo disse non era accusatorio, ma rassegnato.
《Lo so, ma le parole non servono quando c'è di mezzo il potere. Qualcuno deve fermare l'uomo, anche a costo di danneggiarlo. Ognuno ha diritto a mangiare, lavorare, ricevere cure mediche, uscire di casa e passeggiare, avere qualcosa di suo senza il terrore che possano ammazzarlo pur di togliergliela, avere i soldi per fare un regalo alla propria moglie o fidanzata, portare la sua famiglia a fare una scampagnata, esprimere la propria idea, studiare, andare in vacanza, guadagnare in base ai propri sforzi, vedere le sue fatiche ricompensate, trovare al supermercato ciò di cui ha bisogno, comprare una casa dopo il matrimonio, progettare un futuro, dei figli. Altrimenti quella che viviamo non può essere definita vita.》 Fece una pausa per concentrarsi su quegli occhi limpidi e liquidi di sofferenza. 《È per questo che combatto: perchè le persone come te non dovrebbero conoscere alcuna ingiustizia, in nessuna parte del globo.》
Mentre parlava si era avvicinato abbastanza da riuscire a toccarla alzando una mano. E così fece.
Accarezzò per la prima volta quella pelle liscia, morbida, perfetta lasciando che le proprie dita si modellassero sul suo volto per imprimere in maniera indelebile quella consistenza nella memoria.
Passò qualche momento di impagabile abbandono, prima che Afrodite si ritraesse.
《È meglio che io vada ora, i miei genitori saranno preoccupati》 disse, senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi.
Lui annuì, seguendola con lo sguardo mentre passava al suo fianco per dirigersi verso la cattedrale. 《Ci vediamo presto, Afrodite》 le disse mentre le loro braccia si sfioravano al suo passaggio, riuscendo a malapena ad intravedere il sorriso timido di lei a quelle parole ed il rossore che le invase teneramente il volto.
Poi si allontanò a sua volta, diretto alla sua auto.
Tutto quello che Afrodite riuscì a pensare, mentre prendeva di nuovo posto accanto ai suoi genitori, era che quelle ultime parole avevano l'odore di una promessa.
Ryan la confondeva, mandava la sua razionalità in subbuglio.
E disarmandola la distraeva dal resto del mondo, con tutto ciò che esso portava con sé.
Quel breve contatto con le sue dita le aveva fatto dimenticare perfino dove si trovasse.
Era una cosa spregevole, ma Ryan la faceva sentire più leggera.
 
***
 
Silvia aveva visto Afrodite scappare dalla cattedrale.
Quando la funzione fu terminata e buona parte della città si riversò fuori dalla chiesa attraversi i tre portoni, cercò di individuarla in quel fiume di persone che sfociava a delta su viale Gabriele D'Annunzio. Alla fine si rassegnò e fu costretta a chiamarla al cellulare. Dovette attendere qualche istante prima che la sua migliore amica finalmente decidesse di rispondere.
《Afrodite, dove sei?》 le domandò subito, senza darle il tempo nemmeno di salutarla, ravvivandosi i ricci scuri.
《Sono in via Conte di Ruvo, sto tornando a casa.》 La sua voce era perplessa anche se conosceva benissimo il motivo della preoccupazione di Silvia.
《Mi aspetti lì così facciamo un pezzo di strada insieme?》 le chiese Silvia, avviandosi immediatamente verso il punto appena indicatole.
《Certo!》 La voce di Afrodite ora era squillante e allegra come al solito, come se non volesse farla preoccupare.
《Bene, arrivo subito.》
Quando la vide sola sul marciapiede le fu intimamente grata di aver chiesto ai suoi genitori di precederla, voleva parlare con lei.
Si avviarono una di fianco all'altra in silenzio, come indecise su cosa dire e soprattutto come dirlo. Ogni argomento in tempo di guerra era difficile.
Il cielo quel giorno non era dello stesso turchese dei giorni precedenti ma di una più mite tonalità di celeste, a causa della foschia e dell'umidità che addensavano l'aria senza portare però ancora al caldo afoso tipico delle estati pescaresi. Quella stessa foschia rendeva il panorama del Gran Sasso più nebuloso ed incerto al punto che, se non fosse stato per il suo profilo scuro, sarebbe stato difficile distinguere la montagna dallo sfondo. Di riflesso a quella tonalità così fresca, anche il fiume aveva assunto una colorazione insolita, sembrava più limpido.
Quando si trovavano ormai sul ponte Risorgimento, Silvia decise di prendere la parola.
Sollevò sul volto dell'amica le iridi di quello strano grigio che la caratterizzava, rese sottili dal sole di quella tarda domenica mattina.
《Cosa è successo durante il funerale?》 sbottò tutto d'un fiato.
Tra loro era sempre stato così: non avevano bisogno di frasi di circostanza o arrovellamenti, si erano ripromesse che, essendo sommerse da tutta quella cortesia di facciata che era la loro generazione, loro al contrario sarebbero state sincere e schiette l'una con l'altra.
《Mi ha fatto impressione sapere che Selva è morto. Questa guerra ci porterà via ogni cosa.》 La voce di Afrodite era atona, spenta.
《Lo so.》 Silvia tornò a guardare le sue scarpe e la pietra candida del marciapiede che scivolava sotto i suoi passi. 《Ma non devi essere preoccupata, Paolo e Marco torneranno sani e salvi quando tutta questa storia sarà finita, lo sai anche tu, Didi.》 Cercò di dare alla sua voce l'accezione più sicura che le fu possibile. Didi era il soprannome che Silvia le aveva trovato pochissimo tempo dopo che erano diventate amiche. Era un nomignolo piuttosto infantile che però ispirava dolcezza e tenerezza. Come lei.
Afrodite annuì per darsi coraggio, rispondendo al sorriso dell'amica con più convinzione di quanta realmente ne percepisse.
Una volta che furono arrivate davanti al portone del condominio di Afrodite, quest'ultima chiese all'amica di rimanere a pranzo con loro visto che ormai l'una era passata da un po' e casa sua si trovava nella zona di piazza Duca D'Aosta, che distava da lì circa venti minuti a piedi.
Pranzarono in allegria, nonostante i loro cuori fossero tutti un po' ammaccati o forse proprio per questo: avevano bisogno di nutrirsi di sorrisi e di riempire le loro menti con risate e chiacchiere.
Silvia aveva appena finito di raccontare di come sua madre avesse beccato suo padre a leggere il giornale del giorno precedente al contrario a causa degli occhi semi chiusi per la stanchezza, tra le risate generali, quando il telefono all'ingresso prese a squillare.
I tre padroni di casa si guardarono per un momento. Silvana si strinse nelle spalle e Ferdinando tornò quasi subito a chinare il capo sul suo piatto. A quel punto Afrodite non poté fare altro che sollevare gli occhi al cielo ed alzarsi da tavola.
《Non vi scomodate, tranquilli! Vado io!》 disse sorridendo, scuotendo il capo con rassegnazione mentre si avviava verso l'ingresso.
Mai si sarebbe aspettata di sentire quella voce.
《Marco?》 Il suo cuore era come impazzito, aveva aspettato di sentirlo per un mese e mezzo ed ora il suo desiderio era stato finalmente esaudito.
Si coprì con la mano l'orecchio che non era a contatto con la cornetta per assorbire meglio ogni sillaba di ciò che suo fratello intendeva dirle, per sentire solo lui e bearsi di quel suono tanto familiare.
La voce di Marco era esattamente come la ricordava, era la stessa che teneva serrata nel suo cuore e nella sua mente e che tirava fuori nei momenti in cui lui le mancava al punto da toglierle il fiato.
Eppure mai avrebbe pensato di udirla pronunciare quelle parole.
La cornetta le cadde di mano, atterrando sul pavimento con un tonfo sordo del quale non si curò minimamente, così come non si preoccupò della voce di Silvia che la chiamava, delle sue braccia che la scuotevano per sapere cosa fosse successo, di sua madre che raccoglieva il telefono per poi coprirsi le labbra con una mano una volta appresa la notizia, di suo padre che le accarezzava il capo con gli occhi parzialmente celati dietro le palpebre, quasi come se gli avvenimenti delle ultime settimane fossero tanti piccoli spilli pronti a trafiggere ogni punto debole e lui volesse tenerli al sicuro da quell'attacco.
Afrodite però tutti loro quasi non li vedeva.
La guerra era reale.
La morte era reale.
E quello era solo l'inizio.
 
 
 


NDA
Il liceo classico Gabriele D'Annunzio di Pescara è stato davvero costruito durante il governo Mussolini, tant'è che la pianta è a forma di M.
Le descrizioni di Pescara e della cattedrale sono come sempre fedeli alla realtà.
Per quanto riguarda la parte in chiesa, per chi non lo sapesse perchè è ateo o comunque non cattolico, l'eterno riposo è davvero la preghiera che si recita durante i funerali e la si ripete veramente tre volte. È una cosa che mi ha sempre fatto venire i brividi, non so perchè, quindi l'ho inserita in quella scena che doveva essere così agosciosa e cocitata.
All'inizio di questo capitolo mi sono concessa una piccola descrizione pseudo-stilnovistica di afrodite, non me ne vogliate hahaha però lui la vede così, ecco. Da qui anche la citazione all'inizio: celebre verso di una poesia di Cavalcanti, che è il mio stilnovista preferito, anche perchè contrariamente a quelle dei suoi contemporanei, le sue poesie sono sofferte, liriche.
Per quanto riguarda il titolo, si tratta di un verso della poesia Il cinque maggio di Manzoni.
La citazione che precede il funerale è tratta da una canzone dei Mecano (gruppo musicale spagnolo degli anni ottanta) che si intitola Otro muerto (un altro morto) e la traduzione è: Io non so, ne voglio sapere, le ragioni che danno il diritto di uccidere.
Ad un certo punto Ryan pensa ad Afrodite in termini di Utopia, non volevo intendere nel senso di "luogo inesistente" ma volevo alludere all'isola felice ideata da Thomas Moore nell'omonimo libro. Per chi non la conoscesse è un'isola sulla quale non vi è nè denaro nè proprietà privata, pertanto le persone vivono liberamente in pace, dedicandosi alla propria cultura ed al lavoro di ciascuno per il bene di tutti.
Giuro che questo sarà l'ultimo capitolo interamente triste per un bel po' di tempo, da ora il clima si distenderà molto, certo sempre per quanto concesso in tempo di guerra.
Il prossimo aggiornamento si terrà regolarmente giovedì prossimo!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate lasciarmi un parere, ne sarei immensamente felice!
Per chi volesse contattarmi sono a vostra disposizione su facebook: https://www.facebook.com/delilah.efp, aggiungetemi!
Vi abbraccio tutte (o magari tutti, chissà!)
A presto!
  
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