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Autore: La Setta Aster    10/04/2014    0 recensioni
[Tragedia ]
Orfeo il cantore, ritiratosi sul monte Rodope, narra per la prima volta ad un allievo la sua 'catabasi', la sua discesa nell'Ade, deciso a commuovere il dio dell'oltretomba con la musica della sua cetra per riavere l'anima della sua amata Euridice, uccisa dal morso di una serpe. attraverso un viaggio nel cuore della paura e della morte, Orfeo scoprirà il valore della vita e la mite attesa della fine, del dolce sonno eterno.
Genere: Horror, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ma ora basta cantare. Questa storia voglio narrarla con sole parole, prive di ritmo così come prive di allegrezza. Questa è una tragedia, ma non la racconterei mai per dilettare qualcuno: è la mia storia, non quella di qualcun altro, e ne soffrirei troppo, a ricordare; nessuno, inoltre, deve udire questa come una delle storie che raccontavo. Non ci pensavo, essendo cantore, ma se dovessi sentire un aedo cantare di me e la mia Euridice non potrei sopportarlo. Ma ora la racconterò a te, ragazzo, che sei venuto fin qui, in Tracia, sul collo del monte Rodope, per imparare da me.
Aristeo inseguiva la mia amata, costringendola a sfruttare le selve correndo per sfuggirgli. Gli alberi parevano volerla nascondere, ma l’occhio dell’uomo affamato del corpo di Euridice la seguiva come quello di un leone segue la sua preda. Gridava come un marito adirato, ma mai ebbe quella donna in moglie, ché ella volle solo me, così come io volli solo lei. Oltre la selva s’apriva una pianura. Euridice sperò di sfruttarla per correre più veloce. L’erba candida come piume le avrebbe carezzato i piedi, dando loro rapidità. Mentre la mia donna come una lepre in fuga si muoveva, l’inseguitore ruggiva il suo nome “Euridice” disperando di non poterla avere. Il fiato cominciava a farsi affannoso attraverso gli esili bronchi della lepre, quand’ecco che il suo piede calpestò la morte. Un’infida serpe, forse appostata, venne urtata dal piede scalzo della bella in fuga, e per ripicca il rettile si rivoltò su se stesso, fulmineo, e addentò le carni della sventurata Euridice. Dapprima sembrò inciampare, ma da quella caduta mai più si rialzò. O, mia Euridice! Cosa hai provato, quando quel morso t’ha uccisa? Il mio occhio tutto questo non l’ha visto, ma il mio cuore lo fece. Tutte le notti, in oscuri incubi vedo il momento in cui la mia vita ha smesso di esistere come vita, e ha cominciato ad essere solo un trascorrere insensato di mesti giorni che s’allungano su una strada, senza ormai alcuna via. Non è più, la mia vita, un sentiero illuminato dal sole che si conclude in una tenebrosa discesa verso l’Ade: è una buia caverna monotonamente dritta che proprio con la morte s’illumina come fosse l’uscita di quel delirio di ombre.
Ma torniamo a quella che è la funerea storia. Io trovai il suo corpo già ormai freddo, e come lei anche io mi sentii gelare. Il sangue delle mie vene non aveva più voglia di scorrere, e il mio cuore di pulsare. “sopporta, o cuore!” dovetti sussurrare con quel po’ di straziata voce mi restava. Eppure il giorno prima così tanto avevo amato cantare, ora non avevo che l’eco di un bisbiglio, a uscirmi dalla gola. Solo più tardi al dolore tormentoso prese il posto  una rabbia incontenibile, che crebbe in me. Il vulcano sconvolse i miei sensi. Esplose con un grido che raggiunse gli dèi. Urlai così forte e così a lungo che la mia voce invidiabile divenne muta. Rimasi accanto al corpo morto della mia amata, rovinato dalla morte e dal tempo, piangendo ininterrottamente finché non fui di nuovo in grado di poetare. A quel punto potei cantare la mia disperazione alle stelle. Sotto il chiarore innevato della luna commossa, vidi dinnanzi ai miei occhi come fiumi in tempesta il cadavere di Euridice tornare ad essere il meraviglioso corpo di un tempo. Il viso, dono degli dèi a questo mondo, riprese carne, ma non colore. Le era stata ridonata la bellezza, ma non la vita: ancora non potevo stringerla fra le mie braccia e avere dalle sue un nuovo abbraccio. Ma quella magia accese in me la via che avrei percorso: avrei commosso Ade in persona, e lui mi avrebbe ridato la mia Euridice. Con la foga di Achille che parte per vendicare Patroclo, mi apprestai ad abbandonare la splendida scorza di Euridice per raggiungere lei. Come Achille prese la spada, io la cetra; come si vestì delle sue armi, io delle mie vesti di cantore. A passo deciso mi feci seguire dagli occhi della strada per l’Ade.
Mi appariva, l’entrata, come le fauci di un mostro terrificante che mi accoglieva nella sua gola, cosciente di chi fossi e cosa cercassi. La forma della roccia, in effetti, era singolare: acuminati spuntoni pendevano dall’alto, e massi appuntiti mi avrebbero costretto a scavalcarli. Quando feci per entrare, incontrai la resistenza di una forte corrente d’aria, come un alito fetido di morte. I miei capelli furono scossi, lasciando la fronte preda del gelo che era portato da quel vento innaturale, che anche faceva stridere una voce demoniaca che risuonò nella testa, non nei timpani, e mi avvertì: “léipe elpìda!”. Lascia la speranza. No, non lo avrei fatto. Guardai la bestia gotica  negli occhi e accettai il suo invito, senza esitare. Le tenebre mi avvolsero appena varcai i denti acuti, come se la luna non potesse lasciar passare la sua fievole luce. Trovai coraggio nella mia musica. Vibrando le corde della mia cetra con armonia, questa prese ad emanare una forte luce aurea, che però non feriva le pupille oscurate. La nuova luce mi circondava, ma era come limitata a un’aureola attorno a me, oltre la quale ancora regnava l’ombra. Suonavo, suonavo, e mai mi fermavo. Suonavo ciò che conoscevo e anche nuove melodie dettate direttamente dalla mia psiche. I miei passi avanzavano cauti all’interno dell’alone di luce. Ero parte di una catabasi che mai prima d’allora mi sarei immaginato di compiere. E lo stavo facendo per Euridice. Già vedevo proiettata davanti agli occhi della mente l’immagine di Ade in lacrime che mi concedeva di tornare alla luce assieme alla mia amata. Di questo mi vergognai: il mio primo pensiero, nella fretta e nell’ira, non più nella disperazione, era il mio avversario ridotto a piangere, non la mia Euridice di nuovo felice. Più mi rendevo conto che non ero già dinnanzi ad Ade, ma perso fra le ombre, più il mio terrore si faceva vivo e palpabile. Cominciavo a vedere sagome indistinte, oltre l’alone di luce, rintanate nelle ombre. Vedevo figure disumane, esseri che incorporavano la natura stessa del terrore. Credevo anche di poterli sentire vociferare, ridere, a volte. Fuggivano la mia luce, ma percepivo i loro aliti gelidi sul mio collo, e i sussurri di un incubo senza fine. Dalla paura commisi un errore nel riprodurre la musica con la cetra, mancai una corda, e all’istante la luce scomparve, abbandonandomi alle tenebre. Preda dei battiti isterici del mio cuore, mi misi a correre, quando sentii una mano morta aggrapparsi con esigua forza ormai troppo debole al mio collo. Nella corsa non pensai di riprendere a suonare. Mi accorsi del mio errore solo dopo essere incespicato nelle mie gambe, che dallo sgomento prendevano diverse direzioni. Con dita tremanti sentii le corde della cetra sotto i polpastrelli, e da lì cercai la nota con la quale iniziare. Non ci riuscivo, e intanto qualcosa si avvicinava a me. Finalmente ripresero le prime note melodiche, e tornò la luce. Il mio cuore batteva così forte da potersi sentire nel silenzio. Cominciò a calmarsi, ma il terrore fu così grande da farmi quasi vomitare. Non era certo finita, la mia discesa nella follia della paura. La strada si apriva in un locale roccioso, illuminato appena da una nebbia che pareva sprigionare da ogni gocciolina vaporosa una sofferente luce ghiacciata. L’azzurro lugubre di quella stanza dissipava l’aura d’oro che avevo attorno. Stavolta furono le mie orecchie vere, che mi diedero madre, padre e dèi, a sentire, non più solo l’ingannevole psiche, insani rumori. Erano lamenti tormentosi, di chi era condannato a vagare per quegli antri senza mai rivedere la luce. Pian piano i miei occhi distinsero nuove sagome umanoidi. Erano scarni ammassi di pelle e ossa con la bocca decadente e senza più occhi. Con passo sofferto si ciondolavano senza meta emettendo raccapriccianti versi di lamento. Altri rumori: qualcosa stava sbattendo su un muro. Preso più da timore che da curiosità mi diressi verso quella direzione. Illuminai un cadavere ambulante che percuoteva la roccia dura e fredda di una parete con la testa; si piegava leggermente indietro, poi si lasciava ricadere in avanti, facendo sbattere il cranio contro il muro. Continuava così ininterrottamente. Tutt’un tratto, però, si bloccò, come un servo sorpreso dal padrone a mangiare di nascosto il suo cibo. Con lentezza angosciosa mosse il collo. Il corpo, lo giuro, era immobile, quando vidi il volto fracassata di quell’abominio. Aveva completamente rivoltato la testa! non potei che lasciarmi sfuggire un grido. Fu un errore imperdonabile: quel grido attirò gli altri avanzi d’uomo o di qualcos’altro. Quelli improvvisarono dei passi più rapidi, inciampando in loro stessi. Di nuovo il mio cuore pareva voler sfondare la cassa toracica ed uscire dal petto. Vidi un’uscita che si protendeva verso un’altra strada. Cominciai a correre, suonando con rapidità febbricitante. L’aura si faceva debole man mano che l’armonia si affievoliva, ma non potevo fermarmi: quegli esseri erano alle mie spalle. Alla fine smisi di suonare, ma la luce della nebbia era abbastanza luminosa da permettermi di vedere. Il rumore che udii in quel momento fu quasi confortante: lo scorrere dell’acqua. c’era una sorgente, da qualche parte. Infatti era dritta davanti a me. Una volta in riva al fiume sotterraneo, però, non seppi che fare. Guardai a destra e a manca, mentre ancora le grida dei dannati mi inseguivano e chi le urlava s’avvicinava sempre più. Lungo la sponda del fiume c’era un traghetto. Ripresi fiato e tornai a correre, deciso a raggiungerlo. Ero praticamente a bordo, quando una misteriosa forza mi trattenne.
“vai di fretta, mortale?” mi sentii dire da dietro le spalle. La voce era smorzata dagli anni, e si perdeva in un’eco.
Mi voltai. Davanti a me vedevo un losco figuro incappucciato con un lungo manto nero, sgualcito e lurido. Questi reggeva con una mano una lanterna, mentre nell’altra impugnava un nodoso bastone. Con un rapido movimento di quello verso gli inseguitori né vivi né morti, bloccò la loro avanzata. Ripresero a ciondolare come ebeti.
“scorze d’uomini. Derelitti sempre alla disperata ricerca dei propri fuochi fatui, andati ormai perduti nell’Ade” spiegò il vecchio.
Io notai con ribrezzo che più in basso della tunica nera che portava non v’erano piedi, a sorreggerlo: solo il nulla. Era sospeso nell’aria. Questo gli conferiva delle movenze senza sbalzi, rigide come nient’altro al mondo, che si muovesse. Si voltò verso me. Il suo volto era spento, d’un pallore cadaverico; occhi vuoti, come biglie di quarzo; rughe talmente profonde che se non fosse stato per qualche sortilegio la faccia si sarebbe sgretolata.
“chi sei?” chiesi.
“io” la sua bocca non si aprì, ma vidi muoversi come sospinti dal fiato dei lembi di pelle che penzolavano da un profondo squarcio nella gola. Da lì dovevano uscire i suoni. “io sono Caronte, traghettatore delle anime. Cosa combini qui, mortale?”
“sono in cerca della mia sposa. Senza di lei non voglio più continuare a vivere, ché troppa sarebbe la sofferenza”
“allora ucciditi e ci rincontreremo qui, così forse potrai rivedere la tua amata nella morte”
“io voglio tornare a vivere con lei!”
“credi di essere l’unico che soffre per una persona amata? Le anime che traghetto raramente piangono per il loro destino. Sono innumerevoli quelle che si rendono conto di essersi separate da tutte le bellezze della vita, come l’amore. Dunque credi di essere l’unico?”
“sono l’unico che ha sfidato l’Ade” risposi risoluto.
“mortale di dura cervice! Io traghetto i morti, non i vivi! Mai un vivente ha pigiato il mio traghetto! Cerbero, cane a tre teste, non saggia da eoni la carne d’un uomo. Tornatene alla vita, che ancora ti riserverà altre meraviglie”
“nemmeno poter diventare primo fra gli uomini sarebbe meraviglia più grande della mia Euridice! Nemmeno essere più grande del divino Achille, né più saggio di Odisseo dalle molteplici astuzie!”
“hai buona lingua, Orfeo il cantore” mi aveva riconosciuto “ma io che non ho cuore perché dovrei rimanere colpito dalla tua disperazione, per quanto grande questa sia?”
“di orecchie ne possiedi ancora un paio, mi pare”
“certo che le ho, stolto!”
“o, Caron, non t’arrabbiare . Tu traghettami e io ti allieterò con il mio canto per tutto il viaggio”.
Così dicendo presi a cantare ciò che di più allegro potevo: in tanta tristezza persino un essere senza cuore avrebbe apprezzato una melodia allegra. Infatti quello fu il mio pagamento per attraversare l’Acheronte. Il traghetto era di legno marcio. Quando salii a bordo mi resi conto che non stavamo galleggiando sull’acqua. L’Acheronte era un immenso fiume di sangue, nel quale i detriti anziché tronchi erano cadaveri putridi. Caronte spintonò la barca puntando il bastone sulla riva. Temetti di perdere l’equilibrio e cadere per sempre in quel fiume maledetto. La mia cetra mi infondeva coraggio, mentre il paesaggio tutt’intorno spariva. Ben presto mi ritrovai di nuovo immerso nell’oscurità più totale, protetto dal mio scudo dorato di luce emanata dalla musica. Lo spazio che si presentava tutt’intorno era immenso e disorientante. Nemmeno il soffitto si vedeva più. Mentre Caronte navigava capitava spesso di urtare corpi morti. In altri casi, i corpi, del tutto uguali a quelli che fino a poco prima mi erano alle spalle, tentavano di salire a bordo, aggrappandosi alla zattera; Caronte si apprestava ad allontanarli con violente percosse sferrate col bastone. In tutta quella staticità funerea il tempo scorreva a rilento. Persino il mio cuore batteva più normalmente. Mi abituai anche ai ‘detriti’. Ad un certo punto, però, vidi qualcosa nell’acqua, come una rana che si tuffa nello stagno al passaggio di qualcuno, così rapida da essere impercettibile.
“Caronte, ti prego, cos’era quella cosa?” domandai al mio traghettatore senza smettere di suonare.
“credi che io sia traghettatore per diletto? Ci sono molti pericoli, lungo le acque infernali, che sarebbero troppo mostruosi perché appartengano al mondo dei vivi, e solo chi compie con me la traversata ha la fortuna di non vederli”.
Io guardai le acque sanguinee e mi sentii percorrere da un brivido gelido, che non si sarebbe potuto scaldare che con il ricordo di Euridice. Rimembrandola, però, la disperazione mi attanagliava come la paura. La mia mente era tentata di cedere al delirio. Laggiù non c’è niente che possa far rendere conto di non essere in un incubo, di non essere nel tuo comodo letto, ad Atene, magari. Pregai gli dèi di farmi svegliare accanto alla mia Euridice, per svegliarla carezzandole la schiena nuda. Immaginavo quella scena ad occhi chiusi, immerso in un’alba dalle rosee dita. Mi resi conto di non essere in un incubo perché stavo sognando la mia amata solo socchiudendo gli occhi. Una nuova forza mi strinse come un fratello stringe la mano per aiutare il consanguineo a rialzarsi. Avrei trovato la donna che amo, pur dovendo attraversare quell’inferno.
La traversata fu lunga. O forse breve. Forse non durò affatto in un tempo terreno. Persi la cognizione del tempo. Giungemmo davanti alla tana di Cerbero. Sentendo la voce di Caronte, che parlava in una lingua a me sconosciuta, il cane a tre teste non si disturbò ad uscire dal suo antro. Dall’interno, però, una luce illuminò un’ombra immensa, che faticai a distinguere, ma doveva essere proprio lui, proprio Cerbero. Altro non vidi: solo la sua ombra. In compenso udii profondi ruggiti tonanti, che riecheggiavano sulle ali della ninfa Eco per tutta la caverna. Sorpassammo la bestia indisturbati.
Poco più tardi sbarcai, lasciandomi alle spalle il macabro fiume Acheronte. Dinnanzi ai miei occhi s’ergeva una titanica reggia con altissime torri che terminavano a punta, sfiorando il soffitto lontanissimo. L’intera struttura pareva innalzarsi verso l’alto. Era irregolare, irta di quelle torri appuntite da sembrare un istrice. Giganteschi archi si aprivano qua e là, lasciando fuoriuscire una luce bluastra, che era comunque il colore più deciso che avessi visto in quegli inferi, a parte forse la mia aura. Come battei ciglio, in una frazione di secondo, mi ritrovai inspiegabilmente ad una corte, quella del palazzo oscuro. Anche là regnava un senso di perdizione che continuava a stomacarmi. Mi girava la testa, per il cambio improvviso di luogo, e caddi a terra, disorientato. Quando mi rialzai, avevo davanti agli occhi un omone dalla pelle grigio scuro e con una barba folta ed incolta che dai suoi intricati nodi lasciava alzare fili di fumo.
“ho osservato la tua traversata dei miei domini, Orfeo” disse con una voce accogliente e amichevole, calda, ma con un cenno di mestizia.  
“sei Ade?”
“non quello che conosci tu. Non il crudele Ade, ma il malinconico Ade”
“sono qui per Euridice: lascia che torni con me, e potrai consolarti con questa buona azione, della tua malinconia”.
Non sembrava essere contrario,  ma dubbioso di me.
“sei un cantore, giusto? Allieta la mia dimora. Commuovimi, se puoi, e convincimi con il tuo dono, che mio fratello Zeus ti concesse”.
Emozionato, cantai la più triste melodia che le mie capacità mi consentirono di immaginare. Improvvisai, ma le mie dita scorrevano sulle corde come guidate da un dio. Le mie parole esprimevano tutto il mio dolore, tutta la mia ribellione all’idea di passare la vita come un sasso. Senza Euridice sarei stato sterco in un mondo di esseri viventi. Mi sarei sentito come quei cadaveri deambulanti che avevo sorpassato, come Caronte senza più cuore, e la mia psiche sarebbe stata come quel luogo. Quando una lacrima percorse il volto corrucciato di Ade e andò a nascondersi sotto la folta barba, io mi sentii soddisfatto.
“canta ancora! Avanti, mortale, ancora! Canta per me un giorno intero! E se ne avrò abbastanza potrai andare con la tua Euridice. Ma dovrà dilettarmi tutto ciò che canti”.
La mia speranza di rivedere Euridice si faceva più evanescente, si affievoliva. Fu a quel punto che una donna comparve accanto ad Ade. I capelli come fieno in estate, gli occhi come un lago d’inverno, la pelle come la primavera, e la voce come brezza autunnale.
“mio amato” disse con candide parole“ricordi quanto hai sofferto per amor mio? E ricordi che sono costretta a vivere per mezzo anno in superficie e per l’altro mezzo anno quaggiù, nel regno della dannazione, per amore? Ti scongiuro, lascia che questo mortale goda della sua vita quanto può. Senza amore non ha valore vivere una vita mortale”.
Le parole di quella voce soave convinsero Ade più del mio canto. Ad un nuovo battito di ciglio, mi ritrovai ai piedi di una ripida salita, in cima alla quale vedevo una luce. Euridice non c’era.
“Ade!” gridai, rivolto verso l’ombra, verso il palazzo dolente.
“voltati, mortale” la voce profonda del dio proveniva da ogni roccia della caverna.
Obbedii.
“la tua amata hai ora alle spalle. Ma ascolta questo avvertimento: non la potrai ammirare finché non sarete fuori dall’Ade, e nemmeno potrai udire la sua voce. E ora andate”.
Mossi i primi passi verso l’uscita. Suonavo per Euridice. Sentivo i suoi piedi camminare di seguito ai miei. Ben presto mi prese l’impulso di voltarmi, come facevo quando la guidavo attraverso una foresta per giungere poi a qualche luogo di straordinaria bellezza in cui baciarla. Lottai contro me stesso per resistere. Ora sto per narrare del momento in cui mi resi conto che mai avrei potuto riavere il mio amore perduto. Euridice non sarebbe mai più stata la donna che avevo amato e che mi amava, poiché aveva ormai saggiato l’amarezza della morte, che nemmeno la dolcezza dell’amore può dissipare. Il cordoglio della propria anima non sarebbe mai svanito dal suo cuore. Avrebbe portato con se quelle tenebre fin nel mio cuore. Peggio che sopportare la sua morte, sarebbe stato sopportare la sua vita avvolta dalla nebbia. Mi fermai, ed Euridice con me. Presi la mia decisione: mi voltai. Vidi per un’ultima volta i suoi occhi come il cielo terso, i suoi capelli come spicchi di mandarino attraversati dai raggi del sole quand’è alto. Il corpo era slanciato e ben proporzionato. E quante volte baciai il suo collo lungo ed eburneo, e le labbra rosee e carnose. E dal quel momento non avrei mai più potuto farlo, né avrei mai più sentito le sue risa, migliore cura a qualunque malanno, in grado di creare l’invidia anche delle ninfe, e delle muse. Da quel momento sto ancora aspettando di rivedere Caronte, poi Ade, e poi, forse, io spero con quanta forza mi resta, di rivedere la mia amata Euridice. Ma non mi sono mai pentito, e so che la mia catabasi non fu vana: il mio animo si mise finalmente pace dal pensiero di poterla riavere, anche se non dalla sofferenza.
A volte penso ancora di essermi smarrito in un incubo. Forse sono ancora laggiù nell’Ade, a vagare come i morti viventi, perduto nel ricordo di una vita.
        
 
  
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