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Autore: Aine Walsh    11/04/2014    5 recensioni
Ci sono Los Angeles e Nashville, la distanza e il fuso orario, un iPhone 5 nero e un Galaxy S III bianco, i giorni sprecati e le notti insonni, i biscotti con le gocce di cioccolato e le tazze di the fumante, ci sono le foto, le telefonate a mezza voce, i dubbi, la quotidianità e due persone che messe insieme non potrebbero essere più strane di così.
[Trailer by Kath Redford: https://www.youtube.com/watch?v=4NnNcRkQAe0&feature=youtu.be]
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. «Scusa, mi hai appena dato dello sciupafemmine?»
 
18 Ottobre 2013
Los Angeles, California

«Quindi ti ha dato buca?».
«Non mi ha dato buca, è semplicemente in ritardo» ribatto, anche se più che come una risposta solida e decisa la frase sembra suonare un atto di autoconvincimento. E forse è questo che sto facendo, mi sto autoconvincendo di non essere stato lasciato da solo in un angolo di strada. Sarebbe veramente molto triste.
«Quindi ti ha dato buca» afferma mio fratello all’altro capo del telefono. Ho l’impressione di cogliere un tono derisorio nella sua voce e chissà che non mi meriti davvero di essere preso in giro. Meglio non dargli modo di capire i miei dubbi, però, o continuerà a sfottermi molto più del dovuto.
«Senti, Jay, non mi ha…».
«A che ore era l’appuntamento?».
«Non è un appuntamento… non credo, almeno… non lo so».
«Okay, di qualsiasi cosa si tratti, qual era l’orario stabilito?».
Guardo l’orologio che porto al polso. Ahia. «Avrebbe dovuto essere qui quasi tre quarti d’ora fa» dico, cercando di non sembrare tanto addolorato. In realtà questa prospettiva mi deprime parecchio, erano anni che non mi succedeva una cosa simile. 
«Beh, spero proprio per te che sia una tipa ritardataria. Ritardataria e basta, intendo. Potrebbe soffrire di qualche strana malattia sconosciuta ed estremamente contagiosa per quanto ne sai, no? O peggio, potrebbe accadere di tutto, potrebbe essere…».
Sospiro. «La prossima volta telefonerò a Tomo, lui sa essere più ottimista».
«Secondo me non dovrà esserci una prossima volta. Non con questa… com’è che si chiama? Jennifer?».
«Jena. Ci sei andato vicino».
«Non con lei, comunque. – fa una breve pausa – Ascolta, capisco che tu possa trovarla carina, ma tre quarti d’ora di ritardo sono un segnale inequivocabile di disinteresse e nessuno si merita di aspettare tanto, men che meno tu».
«Okay» mi limito a rispondere. Jared potrebbe avere ragione, ma non è che condivida appieno. Vero è, però, che negli ultimi tempi il gentil sesso mi abbia viziato e abituato a non aspettare o a non farlo troppo a lungo… non lo dico per vantarmi, no. È una pura e semplice constatazione di fatto. 
La linea viene disturbata da un urlo quasi disumano che mi fa allontanare istintivamente il cellulare dall’orecchio. «Ma che era?!» sbotto quando quel baccano cessa.
«Oh… credo fosse per me. A quanto pare devo andare».
«A quanto pare».
«Ti chiamo dopo».
«No, non farlo» ordino, ma tanto ha già riattaccato e non può sentirmi.
Infilo le mani in tasca e mi guardo un po’ intorno nel tentativo di distrarmi, ma la vista di automobili e palme non sembra aiutarmi granché. Non hanno molto di interessante da essere osservato, ecco. Invece Jena…
Attraverso la strada e vado a sedermi sulla panca esattamente di fronte la fermata per autobus dove avevamo deciso di vederci. Sì, avevamo. Per questo mi sembra strano che non sia ancora arrivata o che non mi abbia contattato in alcun modo. L’ultimo suo accesso a Whatsapp risale a stamattina, quindi ritengo sia inutile provare a contattarla lì. Potrei mandarle un sms o azzardare una telefonata. O potrei semplicemente starmene qui seduto ad aspettare, non voglio passare davvero per uno stalker. Anche se dubito che telefonare ad una persona e chiedere spiegazioni per un ritardo di ben cinquantadue minuti abbia a che fare con lo stalking.
Accavallo le gambe e torno a concentrarmi sulla strada, contando le macchine che passano per ingannare il tempo. Ad occhio e croce posso dire che in questa zona il blu è il colore che va per la maggiore in fatto di auto, seguito dal nero e dal grigio. Nessuna traccia del rosso, invece. Beh, non si sono viste nemmeno auto bianche, ma non importa, le rosse sono migliori e dovrebbero essercene di più in giro.
Uno strano rombo in fondo alla strada mi distoglie e mi volto giusto in tempo per veder spuntare un autobus, unico elemento di novità in questa zona deserta. L’autobus non è esattamente un’automobile, quindi non credo di doverlo aggiungere al conteggio. Il veicolo si avvicina e si ferma quasi di fronte a me, sul lato opposto della strada; strabocca letteralmente di gente, ma nessuno sembra voler scendere qui. Forse, non ne sono sicuro. In effetti vedo i passeggeri ammassarsi contro i finestrini come per fare spazio e non avrebbe senso creare un corridoio se nessuno volesse uscire.
Un velocissimo pensiero fa per prendere forma nella mia mente, ma lo accantono subito. Tanto vale non illudersi ancora e ficcarsi bene in testa ora e subito di essere stato mollato senza preavviso e senza perché da una sconosciuta. Ogni tanto anche i migliori falliscono, si sa, e questa breve ed umiliante esperienza che mi porterò dietro a vita mi ha insegnato che…
Ah.
Momento momento momento, sviluppo interessante.
L’autobus riparte e si allontana, lasciando alla fermata una figura che si guarda ansiosamente intorno battendosi le dita della mano sinistra sulle labbra. Ha i capelli scuri raccolti in una treccia che le cade davanti alla spalla e indossa una lunga e non troppo sagomata camicia di jeans che le copre gran parte dei leggins neri, lasciando un po’ scoperte le caviglie. Abbasso ancora lo sguardo e con mia grande gioia noto che indossa un paio di Converse. Okay, d’accordo: ho il complesso dell’uomo basso, ma non mi sembra il caso di parlarne adesso.
Mi alzo non appena si volta dalla mia parte e le sorrido mentre attraversa la strada. Vederla qui, sapere che sia in ogni caso arrivata dopo quasi un’ora di ritardo, mi fa tirare un sospiro di sollievo. 
È ormai a due o tre passi da me quando mi rendo conto di una buffa e piccolissima coincidenza. Indico la sua camicia, ridendo. «Questo è…». 
«Altamente imbarazzante, sì. – annuisce con aria divertita – Avrei dovuto mandarti una foto del mio outfit, così magari avremmo evitato di vestirci alla stessa maniera».
«Avresti dovuto, già».
Piccola pausa. Prende a dondolare sui talloni. «Sei in anticipo, comunque» dice.
Che?!
«Come, scusa?».
Il mio tono di voce deve allarmala un po’, tanto che mi guarda ad occhi sgranati mentre farfuglia: «Non che dieci minuti siano un grande anticipo, ma… Oh. Aspetta. Da quanto sei qui?».
«Un’ora, più o meno».
Ora è visibilmente confusa, come me. «Perché sei qui da così tanto?».
«Perché tu sei arrivata solo ora?» domando all’unisono.
«Io non sono arrivata solo ora, lo dici come se fossi in ritardo. Avevi detto, anzi, scritto, di vederci per le cinque e trenta» ribatte subito sulla difensiva. Qui c’è davvero qualcosa che non va. 
Scuoto il capo perché sono assolutamente certo che non sia andata come sostiene lei: ricordo benissimo l’sms che le ho mandato. «No, io avevo scritto di vederci per le quattro e mezza». 
«Ho le prove, sei ancora in tempo per redimerti e non farti umiliare ulteriormente».
Un po’ mi divertono questi suoi atteggiamenti di sfida e il tono convinto, di solito apprezzo la gente che crede veramente in quello che fa o dice; ma non è questo il caso perché stavolta ho ragione io.
«Non è un problema, sul serio. Voglio dire, avevo pensato che non saresti più venuta, però…».
Per poco non mi ritrovo con la faccia incollata allo schermo del suo cellulare. La sensazione che provo dopo aver letto quella parte di conversazione sta a metà tra il disagio esistenziale e l’imbarazzo cosmico.
Improvvisamente non sembro più in grado di formulare un pensiero sensato e tutto quello che esce dalla mia bocca è solo un misero «Oh».
Jena ripone trionfalmente il cellulare in borsa. «Arrenditi all’evidenza» m’invita, con tono soddisfatto.
A questo punto tanto vale buttarla sulla simpatia. «Quindi sono appena passati tre minuti ed io ho già collezionato la prima figura di merda» constato, accompagnato dalla sua risata.
«No, ma cosa vai dicendo? Ci siamo solamente vestiti in modo uguale e abbiamo solamente battibeccato sulla tua presunta puntualità contro il mio presunto ritardo: c’è ancora tutta una partita da giocare».
«Ecco, a proposito di partite da giocare, sarà meglio andare o non riusciremo a concludere nulla. – le faccio notare, iniziando a muovere qualche passo in avanti – Hai mai giocato a minigolf?».
«No, nemmeno una volta. Ti sto servendo una vittoria facile ancor prima di cominciare».
Beh, diciamo che mi avrebbe offerto una vittoria facile se il parco non fosse stato chiuso. Mi sento così stupido (per non dire di peggio) ora, qui fermo in mezzo al parcheggio con gli occhi fissi sul cartello degli orari. Insomma, come si può invitare una ragazza ad uscire e pensare di fare colpo in una situazione del genere? Avrei dovuto controllare e accertarmi che fosse aperto prima di portarla qui. Idiota che non sono altro.
«Non ci sono scuse che possano tenere» esordisco.
«Vale a dire?».
Indico il cancello d’ingresso. «È serrato».
«Sì, questo lo vedo. Vedo anche che si sono alcune auto parcheggiate, magari c’è qualche custode là dentro che potrebbe aprire: nessuno dice di no ad una rockstar. – mi rivolge una breve occhiata, poi aggiunge più a se stessa che al sottoscritto – Okay, questa voleva essere una battuta allegra e divertente… nella mia testa non suonava tanto pessima, giuro. Hanno ragione a dirmi che ho più chance come astronauta che come cabarettista».
Sorrido, un po’ rincuorato e un po’ divertito da questo suo spirito autoironico. Potrebbe avere lontanamente ragione sul fatto che, vedendomi, ci permetterebbero di entrare, chissà, ma ho come l’impressione che non sarebbe esattamente la cosa giusta da fare e scarto immediatamente l’idea. 
«In realtà stavo aggiornando il programma che avevo in mente per questo pomeriggio».
«Stai elaborando un piano B?» domanda.
«Chi ti dice che non l’abbia già?».
Si porta l’indice al mento, come per riflettere. «Forse l’espressione di puro panico che ti si è dipinta in viso quando ti sei accorto che qui non ci sta anima viva? Credi che potrebbe essere?».
In un primo momento penso di alzare le mani in segno di resa ed ammettere di non aver pensato a nessun’alternativa, ma l’istante successivo mi rendo conto dell’importanza di difendere quella mia famosa dignità che sembra essere sul punto di darsi all’ippica.
«Stavo pensando ad una passeggiata nei dintorni di Santa Monica, che ne pensi?» butto lì su due piedi.
«Penso che qui vicino ci sia un fantastico Starbucks carino e poco affollato». 
Ero già deciso ad accettare qualunque sua proposta pur di non passare per l’imbecille con uno scarso senso dell’organizzazione, ma quel buffo sorrisetto spuntatole tra le labbra appena finito di parlare mi avrebbe convinto anche in caso contrario. Non ribatto ed iniziamo a incamminarci parlottando di cose senza senso, come spesso accade a due persone che escono insieme per la prima volta e non sanno esattamente come comportarsi. Il fatto che io sembri aver iniziato col piede sbagliato non mi pone certo in una situazione di vantaggio.
Afferro la maniglia e spingo in avanti, permettendole di entrare per prima e di scegliere anche il tavolo: ho come la sensazione che lei gradisca questo genere di galanterie, non so fino a che punto mi sbagli. Il locale è praticamente deserto, fatta eccezione per noi, un gruppetto di concitati liceali e un uomo con la faccia nascosta dietro il portatile con cui sta lavorando. Devo ammetterlo, non mi dispiace aver rinunciato alla spiaggia per venire qui: è un posticino isolato e tranquillo, intimo per farla breve.
Jena sfoglia velocemente il menù mentre una ragazzina dal naso spropositatamente grande si avvina al nostro tavolo e continua a fissarmi con insistenza; le faccio un cenno col capo e abbozzo un sorriso incerto, al che lei prende a farsi aria col blocchetto che regge in mano. Ahi ahi.
Alla fine decidiamo di ordinare un Eggnog Latte e un triplo espresso con biscotti e focaccina ai mirtilli e la cameriera schizza via per ripresentarsi pochi minuti dopo, fare una brevissima apparizione e sparire nuovamente.
«Secondo me ti ha riconosciuto» afferma la moretta seduta di fronte a me.
«Dici che l’ho messa in imbarazzo?».
«Quel mezzo sorriso da sciupafemmine non deve proprio averla aiutata, povera». 
Questa è bella. «Scusa, mi hai appena dato dello sciupafemmine?» cerco di mostrarmi sconvolto e sconcertato, ma in realtà mi esce pure una risata.
«Hey, mi sto documentando. Comincio a capire l’opinione che il mondo femminile abbia di te».
Mi avvicino e poggio il mento sul pugno chiuso. «Ed è un’opinione buona o cattiva?».
Ci pensa su. «Buona, nel complesso» risponde, poi addenta un biscotto e socchiude gli occhi, lasciandosi scappare un gemito estasiato. 
Non deviare, Shannon, non deviare, resta concentrato. Potrebbe essere ancora presto.
«Affamata, eh? Ci vai giù pesante con quello» le faccio osservare mentre indico la tazza rosso fiammante su cui troneggia il logo della caffetteria.
«Ho saltato il pranzo per motivi di tempo, posso permettermi di recuperare con seicentotrenta calorie. Domani avrò tutto il tempo di pentirmi della mia dieta andata a male».
Assaggio la focaccina. È buona, non ricordo di averla mai mangiata prima. «I pasti dovrebbero sempre andare rispettati».
«Lo so, ma vallo a dire a dei clienti che mandano inspiegabilmente in tilt la caldaia e pretendono di essere risarciti dell’intero pernottamento che, tanto per essere chiari, è di dodici giorni e undici notti. – si lascia cadere contro la poltroncina, incrocia le braccia al petto e borbotta – Teste di cazzo russe che non sanno nemmeno dire una parola in inglese. Compratevi un dizionario tascabile e infilatevelo in borsa, almeno!».
La guardo stupefatto per un attimo perché non la facevo capace di reazioni tanto profonde e la mia occhiata si riflette sul suo viso diventato paonazzo.
«Oh, mio Dio» mormora lentamente. Scoppio a ridere. «Oh, mio Dio» ripete con la stessa espressione sconvolta.
Agito la mano per minimizzare il tutto, mandando giù un mirtillo. «Non è un problema, tutti abbiamo le nostre giornate pesanti sul lavoro e tutti abbiamo bisogno di sfogarci in qualche modo».
«Okay, ma tu non lo fai al primo appuntamento con una persona che ti piacerebbe conoscere».
«Potrei farlo» rispondo semplicemente, troppo preso ad esaminare le sue ultime parole: con una persona che ti piacerebbe conoscere.
Jena abbassa il capo in evidente stato d’imbarazzo, stringendosi nelle spalle. «Non sono l’esatto prototipo di signorina beneducata, sono più una copia malriuscita. È bene che tu lo sappia».
«Beh, questo è ancora tutto da discutere».
Appoggia entrambe le mani sul tavolo e scuote ripetutamente la testa. «Ci tengo a farti sapere che non sono razzista o xenofoba e che non ho pregiudizi di alcun tipo su nessuno. O quasi, ma quello è un altro paio di maniche».
«Giuro che non l’avevo ancora neppure pensato».
Sospira appena e prende in mano la tazza, poi mugugna qualcosa e ricomincia a sorseggiare senza aggiungere altro. Restiamo in silenzio per una manciata di minuti, finisco di spiluccare la focaccia mentre Jena spolvera senza troppi problemi i biscotti, ma la cosa non disturba tanto me quanto lei. Eppure le si legge chiaramente in viso la voglia matta che ha di chiedere e sapere: effettivamente anche io mi farei qualche domanda se fossi al suo posto.
«Come hai risolto la faccenda coi russi?».
«Con Google Traduttore e una telefonata che costerà un occhio della testa al mio capo. Ben gli sta, così impara ad andarsene in vacanza alle Barbados e lasciarci in balia degli ospiti».
I sorrisi divertiti sembrano all’ordine del giorno, oggi. «Molto diplomatico».
«Non puoi sapere quanto. Ho provato anche a passare il testimone ad un mio collega, ma ovviamente si è rifiutato… Alla fine ho suggerito di offrire il servizio taxi per gli ultimi cinque giorni di vacanza e tutti hanno accolto l’idea con entusiasmo. – breve pausa per un ultimo sorso, si asciuga gli angoli della bocca e aggiunge con soddisfazione – Ho evitato il secondo atto della Guerra Fredda, sono molto fiera di me stessa».
«Faresti bene ad esserlo, io lo sarei. Quindi lavori in…?».
«Oh, in un hotel. No, non in un hotel, più che altro è piccolo bed&breakfast mezzo sepolto in uno dei palazzi di Downtown. Il proprietario è un mio amico e teoricamente avrei dovuto aiutarlo solo per pochi mesi, all’inizio, tre anni fa, ma per forza di cose sono rimasta lì e sono tipo diventata la sua vice».
«Carino» è l’unico commento che riesco a fare mentre mi auguro che lei non fraintenda e pensi che per me il suo lavoro sia una completa schifezza.
«Si fa quel che si può» risponde quasi automaticamente, concentrandosi su un punto indefinito oltre le mie spalle. Questa sua breve distrazione mi permette di sbirciare meglio i lineamenti del suo viso senza essere troppo insistente, almeno fino a quando lei non torna coi piedi per terra e mi sorprende ad cercare i suoi occhi coi miei. 
«Senti, posso farti una domanda?». Quest’improvviso cambio d’argomento e l’incrocio creatosi per un istante tra i nostri sguardi mi spiazzano, ma lei non sembra notarlo. «È che altrimenti continuerò a non essere del tutto a mio agio, ecco».
«Certo» rispondo con naturalezza, figurandomi già su cosa potrà andare a vertere la conversazione.
Quel cipiglio corrugato mi dà l’impressione che sia concentrata a racimolare le idee e scegliere i termini giusti prima di esporsi. «Tu fai sempre così? Cioè, vedi una ragazza al meet&greet, la fai accompagnare in prima fila e poi ti procuri il suo numero di cellulare? Cosa che, peraltro, dovrai spiegarmi».
Uhm, forse non mi sarebbe dispiaciuto qualche giro di parole. La domanda è indiscutibilmente lecita, anche se sono stato raramente invitato a rispondere; e non perché quella di far accompagnare ragazze in prima fila non sia una cosa che faccia più spesso di quanto ricordi, tutt’altro, ma semplicemente perché nessuna delle precedenti sembri essersene preoccupata troppo. In realtà mi allarma un po’ il fatto che Jena lo voglia sapere: la mia risposta potrebbe mandare tutto a puttane, ma questa non mi sembra una scusa valida per mentire. Non mi va neanche tanto di farlo, ad essere sincero.
Apro la bocca nel tentativo di iniziare un discorso, ma è lei la prima a parlare. «Lo sapevo. Si capisce, voglio dire, se io fossi una rockstar cercherei di sfruttare la maggior parte dei vantaggi che derivano dalla mia situazione… perciò il limonare usa-e-getta ci sta. Non sempre lo condivido, ma ci sta. Quasi come dire, in sintesi, che ti assolvo dai tuoi peccati di uomo dalla condotta deviata».
Adesso non se essere più sorpreso, allibito, meravigliato o che altro. Intrigato, forse, quello va per la maggiore.
«Sei sempre così diretta?» non posso fare a meno di domandare, ridacchiando.
Inclina il capo da un lato e arriccia le labbra. «Mi capita. Solo un’altra cosa: sei mai arrivato ad una seconda uscita insieme?».
In realtà con alcune non sono neanche andato oltre la mezza volta in camerino, ma questo preferisco tenerlo per me. «Con alcune sì, con altre no. Altre ancora le ho riviste per ben più di due volte». 
«Okay».
Incrocio le braccia sul tavolo e mi sporgo un po’ in avanti, intento a stuzzicarla. «Solo “okay”? Non vuoi sapere in quale categoria rientri tu al momento?».
«No, non sono interessata. Potrei essere sempre io la prima a bidonarti, non dimenticarlo» sghignazza divertita.
«Non te lo permetterei, ho il tuo numero».
«Lo cambierei».
«Ti troverei lo stesso» affermo, trattenendomi a stento dal farle l’occhiolino.
«E poi non devo pensare male di te, eh?».
«No che non devi, sono una brava persona».
«Internet non la pensa così».
Toh, e questa? «E da quando Internet ha ragione?» strepito a voce più alta di quanto volessi. «Hai qui davanti a te il vero e unico Shannon Leto ed hai il coraggio di sostenere che il web sia una fonte più affidabile». È una cosa troppo cogliona da dire? Boh, sarà, ma ormai l'ho detta.
«Sentilo, gli sto distruggendo l’orgoglio» ride, coprendosi la bocca con una mano. Mi sorprendo nell’accorgermi di osservarle spesso le labbra, ma, beh, credo sia naturale quando si hanno delle labbra rosee e piene come le sue. In un certo senso non posso fare a meno di osservarle, come quando da piccolo cercavo di impedirmi di guardare L’esorcista mettendomi una mano davanti agli occhi e finivo sempre per sbirciare le scene attraverso le dita. E poco importa che il labbro superiore sia più grande di quello inferiore, non è neanche lontanamente un difetto degno di nota.
Il fatto che Jena stia iniziando a comportarsi in questo modo mi fa sperare che si stia divertendo o, tanto per non esagerare, che non abbia almeno preso in considerazione l'idea di defenestrarsi. Mi fa piacere vederla più a suo agio, adesso sento di potermi rilassare un po'. Tanto vale cominciare a gettare le basi per qualcos'altro, no?
«Te lo dimostrerò. Che sono un in gamba, intendo. Dammene la possibilità».
Non risponde subito, per qualche attimo si limita a studiarmi con i grandi occhi nocciola ridotti a due fessure. «È una scommessa o una minaccia?».
«Scommessa. – rispondo subito – Non minaccio nessuno, solitamente».
Mi rivolge un’occhiata ancora più dubbiosa, sporgendosi verso di me. È abbastanza vicina da permettermi di sentire il suo profumo, un profumo buono, fresco, di fiori. «Ed io cosa ci guadagno?» mormora.
No, qualcosa mi dice che questa non sia una reale provocazione. Dovrei rimediare?
«L'occasione di aver conosciuto in maniera profonda uno dei batteristi più quotati al momento». 
«Ho la sensazione che questo non sia poco, sbaglio?».
«No, non sbagli».
Batte un pugno sul tavolo e si lascia andare contro lo schienale del divano. «Kat mi aveva esplicitamente fatto capire che fosse Jared quello presuntuoso, non tu. Tu sei quello che viaggia per altri pianeti durante le interviste».
«Mio fratello è logorroico, lascio che sia lui a parlare anche per me: a volte è difficile sopportare un Leto, immagina due. E poi quando ho qualcosa da dire, è Christine ad esprimersi al posto mio».
Segue un inaspettato silenzio che mi spiazza, facendomi tornare sui miei passi. Non ho detto niente di male, non ancora, ne sono sicuro.
Jena tiene gli occhi bassi sul tavolo mentre vi traccia sopra qualche figura con l’indice. «Chi è Christine?» domanda infine.
Sul serio? Chi è Christine? Davvero?! No, non è possibile. Eppure la sua espressione parla chiaro, non ne ha la minima idea.
«Tu non conosci Christine» ripeto l’ovvio, cercando di capacitarmene. Avevo più o meno intuito di non trovarmi davanti ad un’Echelon, ma non avevo affatto capito di dover cominciare da zero. Perché è da zero che devo partire. E non mi dispiace, potrebbe essere un’esperienza originale. Insolita, anche. Il fatto di essere alla pari, di essere due sconosciuti che non sanno niente l’una dell’altro se non qualche insignificante notizia appresa sul momento, mi alletta terribilmente. Sicuramente sarà divertente: lo è già adesso che lei ha frainteso il nome della mia batteria. 
«Non ho ancora studiato questa parte di programma, scusa» si giustifica imbarazzata.
«Non è un grosso problema, va bene che tu non lo sappia». Se mi diverto a stronzeggiare in questo modo? Sì, certo. Anche se, non so, al tempo stesso mi intenerisce vedere Jena messa così a disagio. Decido di giocarmela brevemente, giusto per il piacere di un piccolo scherzo che non offenda nessuno. «Christine, comunque, è solo… è fantastica, è unica. Non scherzo quando dico che è praticamente il centro del mio mondo».
«Quindi lei è…».
Annuisco con convinzione, sforzandomi di non ridere. «La mia batteria».
Pagherei oro per avere una foto della sua faccia in questo momento. «Ah. La tua batteria» sibila con un filo di voce.
Faccio schioccare la lingua al palato. «La migliore del mondo».
«La mia testa pullula di frasi che nemmeno riusciresti a sognarti. Te le direi, se avessimo più confidenza».
E non ho alcuna ragione per dubitare di ciò. «Non vedo l’ora di conoscerti meglio, allora. Motivo per cui torno al discorso di prima: cosa ci guadagno io?» chiedo con un sopracciglio sollevato.
«Non sono sicura di poterti offrire più della pura, semplice e disinteressata amicizia al momento».
Pura, semplice e disinteressata amicizia: c’è modo di sbagliarsi?
La situazione continua a divertirmi in un crescendo. «E ne vale la pena?».
«Questo non lo so. Fammi sapere alla fine, d'accordo?».
«D'accordo».
«Nashville contro Los Angeles. Andata?».
Oh, ecco perché l'accento aveva qualcosa che non mi suonava! «Sei di Nashville?».
«Ci puoi giurare, amico».
«Adesso capisco tutto quel tuo allungare consonanti e vocali» la imito, insistendo particolarmente sulle ultime parole.
«Sì, è un po’ una croce che mi porto dietro. L’accento del Sud non è una cosa che va via facilmente…».
«Beh, ma non ho mica detto che non mi piaccia. E sei venuta in California per…?».
«La cosa più classica che questo posto abbia da regalare: le spiagge e il clima caldo. Sono intollerante alla neve e alla bora, preferisco bruciarmi sotto il sole che accanto al camino».
«Non mi sembra un pensiero particolarmente brutto» convengo  e le tendo la mano per convalidare il nostro patto. Sulle prime sembra titubante nell'afferrarla, ma non ne sono sicuro perché il tutto dura una frazione di secondo e in un battito di ciglia mi ritrovo le sue dita a stringere le mie. Cerco di non dare troppo peso al fatto che questo sia il nostro primo contatto da quando ci siamo incontrati alla fermata del bus, ma non giurerei troppo sul fatto di riuscirci completamente.
«Andata».
«Non si torna indietro. Anche se sono appena venuta meno a un altro buon proposito» ammette in tono colpevole.
«Sarebbe?».
«Smettere di scommettere».
«Non hai la faccia della giocatrice d'azzardo, però».
«Oh, per fortuna! – esclama con un finto tono sollevato – Scherzi a parte, dopo lo scorso sabato avevo giurato a me stessa di non scommettere più… ed eccomi qui a infrangere tutto».
«Il sabato del concerto? Quel sabato?».
«Proprio quello».
La domanda mi sembra più che legittima. «Ha a che fare con la band?».
«Curioso?».
«Più di quanto vorrei ammettere, mi sa».
Si prolunga qualche istante a guardare le unghie smaltate di blu elettrico, riflettendo. Jared invidierebbe quel colore a morte se lo vedesse, mi ci gioco la testa. «Sì, riguarda la band. E non vedo perché dovrei starmene a bocca cucita, visto come sono stata trattata dalla mia migliore amica al meet&greet».
Ridacchio. «Sono tutto orecchie».
«Sarò breve, non voglio annoiarti con discussioni idiote. È cominciato tutto quasi due mesi fa, una sera in cui Katherine aveva alzato il gomito più del solito per dimenticare l’ultima malafatta del suo ex. Faceva paura, passava dal pianto isterico alle risate sguaiate e poi alle minacce di morte… Ad un certo punto ha iniziato a blaterare di voi e…». Sorrido a quel blaterare di voi e lei abbassa lo sguardo con un pizzico di vergogna. «Scusa, non voleva suonare come un’offesa».
«Non lo era. Continua».
«Beh, ha preso a parlare del concerto, dicendo che non vedeva l’ora e… altre cose non mi sembra opportuno dirti ora e mai. Poi se n’è uscita con questa storia di lanciare il reggiseno a Tomo, affermando che se ci fosse riuscita non si sarebbe occupata delle faccende per una settimana intera».
«Perciò la scommessa è partita da lei?»
«Non esattamente: sono stata io a sfidarla. Lei era troppo ubriaca per capire cosa stesse farneticando, motivo per cui ho registrato la conversazione col cellulare e gliel’ho fatta ascoltare il giorno dopo e quello successivo e pure quello seguente».
«Tanto per essere sicure di non dimenticare». 
«Esatto, sì. Tu non hai realmente idea di quante volte alla settimana siamo costrette ad usare la lavatrice, davvero. Mettiti nei miei panni, mi ha offerto l’occasione su un vassoio d’argento ed i biglietti erano per la tribuna in fondo, perciò non avrebbe potuto mai… poi sei arrivato tu…» lascia cadere la frase così, scrollando le spalle.
«E ti ho sconvolto i piani».
«Un po’ sì, non posso negarlo».
«Spero che almeno il mio intervento sia stato piacevole».
Jena rotea gli occhi, ma non sembra particolarmente scocciata. «Usciamo, ti va? La commessa sembra essere sul punto di saltarti addosso».
«La cosa ti dà fastidio?» la stuzzico, studiando l’espressione sul suo volto mentre tira il portafogli fuori dalla borsa. Perché tutte le donne si ostinano a voler pagare al primo appuntamento? O al secondo, al terzo e via dicendo? Anni di esperienza e centinaia di film visti e rivisti non hanno loro insegnato che, nel bene o nel male, sarà sempre noi maschi ad offrire? Anche perché non sia mai che l’uomo scenda a compromessi e metta i suoi contanti da parte: non sai come potrebbe prenderla la ragazza in questione.
«Potrebbe dare più fastidio a te, visto le occhiate assatanate che ti rivolge».
Sbircio appena da sopra la spalla, voltandomi con indifferenza verso la tipetta semi nascosta dietro il bancone. «Uhm, dici?».
«Dico».
Mi chino un in avanti, fingo di guardarmi attorno con circospezione e nascondo il lato destro della bocca con la mano. «Allora sarebbe meglio svignarsela alla svelta» bisbiglio.
«È quello che penso anch’io. – mi regge il gioco parlando con un filo di voce – Ora che ci penso, ho letto da qualche parte che questo fine settimana il Cabrillo Aquarium resta aperto fino a mezzanotte».
«Mi sembra perfetto». 
La vedo sorridere con gli occhi intanto che si alza e posa qualche banconota sul tavolo. «Qui ci sono i soldi: usali per pagare, lasciali in mancia, intascateli, dalli al primo barbone che vedi… Fa’ quello che vuoi, ma non tornarmeli per nessuna ragione al mondo. Io vado a fumare  una sigaretta».

 
But you don't get me, you don't get me!

Odio. Odio profondissimo. Vi giuro che odio questo capitolo.
Il motivo è semplice semplice: non è come lo vorrei.
E non è come lo vorrei perchè mi si è improvvisamente cancellato dopo che avevo finito di scriverlo e l'ho dovuto ricominciare praticamente da capo. *sob* Il bello è che la versione precedente mi piaceva di più. *sob* Non è venuto esattamente uguale a prima. *sob sob*
Quindi vi chiedo umilmente perdono per lo scempio.
Btw, miei complessi a parte, non so quanto effettivamente sia riuscita a comunicare quello che intendevo... boh. Lo scopo era quello di mostrare due impediti imbarazzati alle prime armi che non hanno proprio idea di come comportarsi e continuano a sparare cavolate per riempire i silenzi. Almeno per ora. E comunque l'avevo anche scritto nell'introduzione che 'sti due messi insieme sarebbero stati strani (affermazione da intendere come giustificazione per le cavolate galattiche scritte dalla stramba autrice) lol
Va bene, la smetto. Anche perchè potrei continuare a sproloquiare all'infinito (anche sul modo in cui ho reso Shannon), ma non mi sembra il caso...
La cosa importante che ho da dirvi oggi è... *rullo di tamburi* che molto probabilmente non pubblicherò la prossima settimana.
Il fatto è che per riscrivere questo capitolo ho dovuto un po' trascurare altre cose... e poi ho un botto di impegni che mi terranno abbastanza impegnata. Per non parlare di tutte quelle ore di sonno che devo decisamente recuperare.
Morale della favola: non aspettatevi aggiornamenti fino al 24. Aprile, spero. Anche perchè dal 25 al 28 sarò impegnata di nuovo... ommioddio.

Dopo tutto questo, vi autorizzo il linciaggio di gruppo.
Divertitevi,

A.

P.S.: che la vostra Pasqua sia estremamente cioccolatosa! *w*

 
  
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