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Autore: tonks87    11/04/2014    4 recensioni
Poi il ragazzo del pane si volta verso di me e mi sorride. Come fa ad essere così felice? Sembra illumini da solo tutto, ogni parte del suo corpo inonda di gioia questa stanza.
“Sei in ritardo” dice, ma non riesce ad essere arrabbiato e scocciato, anzi sorride come a dirmi che ha capito. Che sa quanto per me è difficile venire ma soprattutto restare in questa stanza. Poi si volta, cerca qualcosa con lentezza per poi porgermela. È piccola, molto piccola. Non pensavo potesse essere così fragile.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiudo la porta dietro di me, facendola sbattere rumorosamente. La voglia di alzarmi dal divano oggi era praticamente pari a zero, ma poi la voce martellante mi ha detto che non potevo non andare, che avrei fatto una pessima figura, che la mia presenza era importante. Importante un corno. C’entravo come i cavoli a merenda, io. E invece eccomi, nel vestito buono, pulito e stirato, mentre cammino per il Villaggio dei Vincitori, trascinando i piedi che sollevano un po’ di terra. Fantastico, le scarpe si sono sporcate. E ora chi la sente, quella.
Ti avevo pregato di essere presentabile. Già immagino. Ma d’altronde io avevo specificato più volte, urlando anche, che non avevo nessuna intenzione di presentarmi. Non era importante per me. Era una cosa che non mi riguardava, e più lo dicevo, più mi faceva male. Tutto quello che stava accadendo era lontano dal mio mondo. Era un fatto estraneo, che il mio cervello non riusciva ad assimilare, comprendere, accettare. Solo una persona capiva quello che stavo passando. Glielo leggevo negli occhi, quando i nostri sguardi si incrociavano e io fingevo un sorriso di incoraggiamento: perché sapevo che lei aveva bisogno di questo. Ma comprendevo il suo disagio, la sua estraneità mentre gli altri due parlavano, ridevano e non vedevano il grosso elefante rosa nella stanza. Più che grosso era enorme (ma questo aggettivo era stato bandito per qualche tempo).
Continuo a camminare con lentezza, cercando di procrastinare il momento in cui dovrò affrontare tutto. In cui dovrò vedere con i miei occhi che qualcosa è cambiato e accettare che esiste qualcosa d’altro, qualcosa di nuovo, qualcosa di…ma quella parola proprio non riesco a dirla, soprattutto ora, mentre passo davanti al prato. Ed eccolo quel pensiero fisso, che scaccia tutti gli altri; un pensiero che oggi non dovrei avere: invece, eccolo martellante, nella mia testa. Morti. Ecco cosa siamo. Morti. Morti. Sono tutti morti. Morto è il ragazzo che ho ucciso per sopravvivere, morti sono i membri della mia famiglia, morto è il ragazzo del quattro. Morti siamo noi, che siamo sopravvissuti a qualcosa a cui nessuno dovrebbe sopravvivere: guerra, distruzione e torture. C’è solo morte nei miei pensieri. E per questo che vorrei tornare indietro, a casa. Chiudere la porta, serrare le finestre e cercare di dimenticare. Perché questo pensiero, rimbomba nella mia testa, che inizia a farmi male, tanto male. La prendo tra le mie mani, sperando che finisca, che tutto finisca il prima possibile.
E poi la sento, sotto tutte quelle urla di dolore, una vocina squillante mi ricorda il perché sono fuori e cosa devo fare. Prima è una vocina leggera, quasi impercettibile in tutto quel casino che è la mia testa, le urla, i pianti, il dolore. Poi si fa più prepotente e mi ricorda che siamo vivi, sopravvissuti. E il distretto 12 è rinato, dalla cenere sono nate primule e denti di leone, non bisogna guardare indietro. Mai. Avanti. Avanti. Avanti. Avanti. Lo ripeto all’infinito, finché i miei piedi non recepiscono il messaggio e iniziano a muoversi allontanandosi da questo cimitero. Avanti. Devo andare avanti. Qualcuno mi aspetta. Anche se non voglio vedere. Non voglio vedere quello che c’è alla fine. Perché sarà nuovo, diverso e io non sarò mai in grado, non sarò mai quel tipo di persona. Ma lo devo fare, anche solo per quella piccola vocina. Avanti. Avanti. Avanti. Avanti. E non so come sono arrivato. Le porte si aprono da sole, entro nella grande hall e mi dirigono verso una signorina con un sorriso fin troppo sgargiante per i miei gusti. Sto per aprire bocca, ma lei mi interrompe, dicendomi di seguirla. Già… sa chi sono, chi non lo sa, e sa per quale motivo mi trovo in questo posto, chi non lo sa… percorriamo questi corridoi fino ad arrivare ad una piccola porta.
“Può entrare. La stava aspettando” mi dice gentilmente, aprendola. Entro ed una strana luce mi stordisce. Poi il ragazzo del pane si volta verso di me e mi sorride. Come fa ad essere così felice? Sembra illumini da solo tutto, ogni parte del suo corpo inonda di gioia questa stanza.
“Sei in ritardo” dice, ma non riesce ad essere arrabbiato e scocciato, anzi sorride come a dirmi che ha capito. Che sa quanto per me è difficile venire ma soprattutto restare in questa stanza. Poi si volta, cerca qualcosa con lentezza per poi porgermela. È piccola, molto piccola. Non pensavo potesse essere così fragile.
“Dandelion Mellark, ti presento nonno Haymitch…” aggiunge con un sussurro mentre me la porge. Io lo guardo stranito, non so come prenderla, non so che fare. Poi le mie mani si muovono da soli e Peeta mi mette la piccina tra le braccia. E piccola, ha gli occhi chiusi, come se la luce le desse fastidio. Muove le manine, e io non posso fare a meno di guardare il suo visino.
“Le avete dato il nome di uno stupido fiore…” sono le uniche parole che riesco a dire, perché quelle vere rimangono bloccate in un punto indefinito del mio petto. Mellark mi sorride, perché lui capisce sempre tutto, non ha bisogno di grandi spiegazioni.
“Vi lascio da soli un momento…” mi sussurra mentre si allontana. Lo sento chiudere la porta leggermente, così io e la piccina rimaniamo da soli. La guardo e non riesco a smettere: i suoi pochi capelli scuri, le sue piccole manine, il suo viso. Piccola e indifesa. La avvicino leggermente al mio viso e le do un leggero bacio in fronte.
“Nonno Haymitch ti proteggerà sempre…” le sussurrò. Ma più che una promessa a lei, la sto facendo a me stesso. Perché so che niente sarà più come prima. E lei sembra sentire queste parole, perché cerca di aprire gli occhi e di guardarmi: sono azzurri, tanto azzurri. E la verità mi colpisce in pieno viso: siamo sopravvissuti, siamo andati avanti. E tutto il dolore è dietro di noi. Ed è giunto il momento di perdonarsi, perché i due ragazzi sono vivi, li hai salvati, due volte, stanno bene, un po’ rotti ma va bene. Va tutto bene. Loro sono vivi e hanno generato la vita. Vita. Vita. Vita. Vita. Questa parola rimbomba nella mia testa e non mi provoca dolore, come prima, come l’altra parola. No, questo rimbombo mi provoca un sorriso. Il primo da tempo. Ed è rivolto a lei, Dandelion, la mia Dandelion. Anche se nella mia testa lei avrà un solo nome: Redenzione.
 
  
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