Per
continuare(?)
Non abituatevi a questi aggiornamenti lampo, non durerà
molto.
Comunque: bentrovati! :D
Oggi siamo in un "tutto al femminile". Sarà un capitolo solo per la protagonista femminile, con il Turco e uo uo uo Girolamo Riario! E c'è anche un pettirosso, ma su di lui tralasciamo :3
Nel prossimo capitolo, vi preannuncio un giovane Zoroastro!
Alla prossima,
Lechatvert
Saremi morte già dolce paruta
il pettirosso
https://www.youtube.com/watch?v=R4vKVNZAUyo
Sognerò il giorno
in cui tu mi raggiungerai
e potremo ricominciare da capo.
Adrisaurus – Iris
Imola, venti agosto 1475. Tre anni prima della congiura dei Pazzi
La calura di agosto la destò allo scoccare
dell’ottava, quando le voci delle comari al mercato divennero
troppo acute e insistenti per essere ignorate.
Porpora aprì piano gli occhi, stiracchiandosi con aria
svogliata nel covone di fieno dove si era addormentata qualche ora dopo
il tramonto. Sentiva la dita intorpidite affondare tra gli steli
d’erba secca e l’odore caldo della paglia
mischiarsi a quello acre del sangue secco sulla sua pelle.
Sospirò.
Si era data alla fuga la sera prima per un pezzo di pane rubato in una
taverna e aveva finito con l’inciampare sulle tegole di un
tetto e sbattere il naso contro un comignolo. Il segno del suo
inesorabile fallimento nella corsa sui tetti era ancora sul suo viso,
sgargiante nel rosso del sangue che le macchiava le guance.
Se lo tolse di dosso con uno sbuffo, sputando sul palmo e passandosi la
mano sulla faccia.
«Sveglia e risplendi», disse a se stessa, mentre
con le gambe si preparava a balzare fuori dal fieno che
l’aveva protetta per la notte.
Lo stomaco reclamava cibo ed era ora di mettersi al lavoro, per non
finire a pancia vuota.
Una volta uscita sulla piazza, recuperò la borsa che portava
a tracolla e fece un rapido inventario dei suoi averi: due patate lesse
rubate il giorno prima, un tozzo di pane e formaggio ottenuto dal
baratto del pelo di un coniglio morto, un coltello e un osso
dissotterrato al camposanto.
Con un sospiro, ingurgitò un boccone di pane.
Attendeva con impazienza l’arrivo del Conte.
Lo faceva sempre.
Ogni qualvolta Girolamo Riario tornava da Roma, portava con lui
qualcosa di interessante da vedere, qualcosa che valeva la pena di
stare per ore sul tetto di una vecchia casa, magari sotto la pioggia,
fermi ad aspettare.
La prima volta era stata una squadra di guardie svizzere che avevano
rimesso in riga la città, un’altra una
quantità spropositata di libri e manoscritti, poi una decina
di cavalli dall’oriente, tessuti … uno spettacolo
delizioso da vedere con il pranzo, quando Porpora aveva qualcosa con
cui banchettare.
Quel giorno, invece, il Conte non aveva portato niente.
Niente più di un barcollante se stesso, malfermo sulla sella
e anche parecchio trasandato, quasi tornasse da una battaglia
anziché dal Vaticano. Sembrava febbricitante, tanto era
pallido e tremante.
Colpita da quella visione, Porpora abbandonò momentaneamente
il suo pezzo di pane, facendolo sparire sul fondo della borsa, per
sporgersi verso la strada.
Era raro vedere il Conte in quello stato. In tutti gli anni in cui lei
aveva vissuto nei dintorni di Imola, non c’era mai stata una
volta in cui lo aveva trovato scomposto.
Curiosa, assottigliò lo sguardo, avvicinandosi al muro della
casa di fronte che aveva usato come scala per arrivare alla sua
postazione.
Un istante dopo camminava per le strade di Imola, cauta, con
l’orecchio sempre teso alla ricerca di un buon pretesto per
correre via, ma non pareva esservi motivo di tanta agitazione. La gente
si spostava silenziosa al passaggio del Conte, quasi avesse di che
pentirsi alla sua vista. Da quando aveva preso il possesso di Imola,
una strana paura aleggiava nell’aria, sebbene egli fosse ben
visto dalla maggior parte della gente, in città. Era un buon
governatore, un uomo di guerra e di fede, di scienza e di lettere.
Senza abbandonare la difensiva, Porpora gli si avvicinò con
attenzione, restando dietro le spalle di qualche passante e dietro i
banchi del mercato.
Tra una schiena e l’altra, però, lo guardava in
viso. Ed era un viso che aveva visto centinaia di volte, quello del
Conte Riario, eppure quel giorno c’era qualcosa di diverso,
qualcosa di più prudente.
Il riflesso di un gioiello alla luce del sole le accecò un
occhio, costringendola a fermarsi.
Nell’istante che passò a massaggiarsi la palpebra,
il Conte le sfilò accanto. E vide la stessa chiave
triangolare che aveva visto al collo di sua madre la notte in cui aveva
visto i suoi genitori per l’ultima volta. Piccola, del colore
del ferro, legata malamente a un cordoncino di canapa. Un colpo di
tosse l’aveva fatta spuntare fuori dallo stesso mantello in
cui si era rituffata un attimo dopo, quando il Conte l’aveva
prontamente afferrata per rimetterla al suo posto.
Ma a Porpora era bastato per accorgersene.
Rimase ferma tra la folla, lasciando che il breve corteo la superasse.
Immobile, cercò di ricordare, sebbene ogni memoria di quella
notte fosse stata accuratamente riposta lontano dalla sua mente.
«Ehi, ragazza.»
La voce di un uomo la riportò alla realtà,
aiutandola a rendersi conto di essersi letteralmente bloccata in mezzo
alla strada.
Ai suoi piedi, seduto accanto al muro della casa su cui si era
appostata, sedeva un uomo dalla carnagione scura. Vestiva in modo
eccentrico, con una giubba color del mare ricamata con dei bordini
dorati, e sorrideva alla giovane in modo enigmatico.
Porpora lo guardò inarcando un sopracciglio castano.
«Sì?», chiese, sbuffando.
«Ti senti male?»
Aveva un forte accento dell’est, farsi, probabilmente.
Ottomano, quindi. Forse turco.
«Che t’importa?», gli rispose, tirando su
col naso. «Fatti gli affari tuoi, vecchio.»
Fece per allontanarsi, ma l’uomo la fermò di
nuovo, stavolta ridendo.
«Sei quella che gironzola qui intorno come un cane
randagio?»
Porpora strinse le spalle.
«Può essere», ribatté,
accigliandosi. «A te cosa ne viene?»
«Ho visto come guardavi quella chiave. Le tue mani la
bramano.»
«Non sarebbe difficile prenderla.»
«Non saresti così rapida.»
Porpora guardò l’uomo con sguardo seccato.
Sapeva il fatto suo ed era molto più veloce di quanto ci si
potesse aspettare.
«Scommetto che riuscirei a prenderla ancor prima che il Conte
si accorga della mia ombra.»
L’uomo sorrise, allargando le braccia per invitarla ad
avvicinarsi.
«Scommetto che le tue mani verrebbero tagliate entro la
sera.»
Porpora scosse il capo.
Conosceva fin troppo bene quel tipo di persone: gli affamati, quelli
che per il tozzo di pane che portava nella borsa l’avrebbero
volentieri affogata in un secchio d’acqua piovana. E lei non
era certo tipo da farsi prendere in giro.
«Non impicciarti, turco», sentenziò
quindi, ficcando le mani in tasca. Gli voltò le spalle e
iniziò a camminare verso la piazza.
«Ani ohevet
otcha, yeled sheli», insistette
l’uomo, senza scomporsi. «Quella chiave ti ricorda
lei, vero?»
Porpora sbottò, senza fermarsi.
«Fatti i fatti tuoi!», ribadì,
scrollando le spalle. Non si voltò, sebbene ne avesse
davvero voglia.
La risposta le giunse così lontana da risultare quasi
impercettibile.
«Ci rivedremo, lo sai? A Roma.»
Quando si voltò, furibonda, per protestare, lo strano
individuo era già sparito dalla sua postazione. Come fosse
riuscito ad alzarsi e ad allontanarsi tanto velocemente era un vero
mistero.
Stizzita, Porpora rimase ferma un istante a contemplare la strada.
Aveva gli occhi grigi sgranati sulla folla del mercato, il respiro
pesante e il pugno alzato pronto a colpire
quell’importunatore nel caso si fosse avvicinato.
Scrutò la strada con attenzione, dopodiché si
mise composta e tornò a camminare verso la piazza,
sbuffando, di tanto in tanto, al ricordo dell’incontro appena
avvenuto.
Quell’uomo l’aveva infastidita talmente tanto che
le era passato l’appetito.
Decise di mangiare comunque, rannicchiata in un vicolo.
Perdere la borsa non era poi difficile e quello che aveva tra le mani
poteva essere l’unico pasto della settimana.
Assaporò a fondo il pane, ingoiando un boccone dopo
l’altro, dopodiché si diresse verso la fontana per
buttare giù il nodo allo stomaco con un sorso
d’acqua.
Bevve poco.
Di acqua se ne trovava in abbondanza e non era il caso di riempirsi la
pancia di liquidi, non se c’era il rischio di dover scappare
da chissà chi durante il sonno.
Lasciò che il getto della fontana le bagnasse la fronte,
pulendo un poco i capelli appiccicati alla pelle sporca del viso,
dopodiché si concesse qualche sorso.
Quando si rimise dritta sulle ginocchia, sul muretto della fontana
trovò un pettirosso.
Di primo acchito si ritrasse per non spaventarlo, timorosa di vederlo
volare via in preda al panico. Capì subito che
ciò non sarebbe accaduto.
L’animale era stecchito, imbalsamato nell’esatta
posizione i suoi compagni ancora in spiccavano il volo. Le piume
lucidissime e brillanti sotto i raggi del sole, il becco aperto, gli
occhi spalancati.
Dire che pareva vivo sarebbe stato sminuire la realisticità
di quel lavoro.
Sgomenta, Porpora allungò la mano verso
l’uccellino, accarezzandogli il petto con la punta delle dita.
Conosceva quel pettirosso imbalsamato: era stato il suo primo
giocattolo, il primo dono che suo padre aveva fatto a lei e a suo
fratello.
Lo pensava perso negli anni e invece eccolo lì,
più reale che mai, lucido e ben sistemato sul marmo della
fontana della piazza di Imola.
Porpora prese un grosso sospiro, dopodiché
afferrò l’uccellino e lo chiuse tra i palmi delle
mani, portandoselo al petto quasi fosse il più prezioso dei
tesori.
«Orso», sussurrò.
Improvvisamente, nella sua mente non vi fu altro che
l’immagine di suo fratello gemello trascinato lontano dalla
folla mentre cercavano di scampare alla morte.
Come quell’uccellino fosse giunto fin lì era
mistero, eppure significava una cosa: Orso era ancora vivo e, da
qualche parte, probabilmente la stava cercando.
Tra sé e sé, Porpora sorrise.
Avrebbe dato qualunque cosa per ritrovarlo.