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Autore: Lechatvert    11/04/2014    3 recensioni
«Fareste bene a rammentarvi che la guerra la si deve vincere su fronti diversi», disse, rimettendo la spada nel fodero. «E che se voi siete disposto a calpestare i vostri principi, io sono disposto a calpestare i miei.»
Se ne andò così, senza aggiungere altro, arrancando tra i ciuffi d’erba alta del cimitero.
Riario lo guardò allontanarsi senza proferire parola, impietrito dinanzi a quelle parole taglienti come lame e a quell’andatura che tanto gli ricordava i passi leggeri di Celia.

Il Papa, il Capitano, il Conte e i Tombaroli.
Genere: Angst, Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Lupo Mercuri, Nuovo personaggio, Papa Sisto IV, Papa Sisto IV
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Per continuare(?)
Non abituatevi a questi aggiornamenti lampo, non durerà molto.

Comunque: bentrovati! :D

Oggi siamo in un "tutto al femminile". Sarà un capitolo solo per la protagonista femminile, con il Turco e uo uo uo Girolamo Riario! E c'è anche un pettirosso, ma su di lui tralasciamo :3

Nel prossimo capitolo, vi preannuncio un giovane Zoroastro!


Alla prossima,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Femore: parte prima – I Vallesanta
il pettirosso
https://www.youtube.com/watch?v=R4vKVNZAUyo









Sognerò il giorno
in cui tu mi raggiungerai
e potremo ricominciare da capo.

Adrisaurus – Iris








Imola, venti agosto 1475. Tre anni prima della congiura dei Pazzi



La calura di agosto la destò allo scoccare dell’ottava, quando le voci delle comari al mercato divennero troppo acute e insistenti per essere ignorate.
Porpora aprì piano gli occhi, stiracchiandosi con aria svogliata nel covone di fieno dove si era addormentata qualche ora dopo il tramonto. Sentiva la dita intorpidite affondare tra gli steli d’erba secca e l’odore caldo della paglia mischiarsi a quello acre del sangue secco sulla sua pelle.
Sospirò.
Si era data alla fuga la sera prima per un pezzo di pane rubato in una taverna e aveva finito con l’inciampare sulle tegole di un tetto e sbattere il naso contro un comignolo. Il segno del suo inesorabile fallimento nella corsa sui tetti era ancora sul suo viso, sgargiante nel rosso del sangue che le macchiava le guance.
Se lo tolse di dosso con uno sbuffo, sputando sul palmo e passandosi la mano sulla faccia.
«Sveglia e risplendi», disse a se stessa, mentre con le gambe si preparava a balzare fuori dal fieno che l’aveva protetta per la notte.
Lo stomaco reclamava cibo ed era ora di mettersi al lavoro, per non finire a pancia vuota.
Una volta uscita sulla piazza, recuperò la borsa che portava a tracolla e fece un rapido inventario dei suoi averi: due patate lesse rubate il giorno prima, un tozzo di pane e formaggio ottenuto dal baratto del pelo di un coniglio morto, un coltello e un osso dissotterrato al camposanto.
Con un sospiro, ingurgitò un boccone di pane.
Attendeva con impazienza l’arrivo del Conte.
Lo faceva sempre.
Ogni qualvolta Girolamo Riario tornava da Roma, portava con lui qualcosa di interessante da vedere, qualcosa che valeva la pena di stare per ore sul tetto di una vecchia casa, magari sotto la pioggia, fermi ad aspettare.
La prima volta era stata una squadra di guardie svizzere che avevano rimesso in riga la città, un’altra una quantità spropositata di libri e manoscritti, poi una decina di cavalli dall’oriente, tessuti … uno spettacolo delizioso da vedere con il pranzo, quando Porpora aveva qualcosa con cui banchettare.
Quel giorno, invece, il Conte non aveva portato niente.
Niente più di un barcollante se stesso, malfermo sulla sella e anche parecchio trasandato, quasi tornasse da una battaglia anziché dal Vaticano. Sembrava febbricitante, tanto era pallido e tremante.
Colpita da quella visione, Porpora abbandonò momentaneamente il suo pezzo di pane, facendolo sparire sul fondo della borsa, per sporgersi verso la strada.
Era raro vedere il Conte in quello stato. In tutti gli anni in cui lei aveva vissuto nei dintorni di Imola, non c’era mai stata una volta in cui lo aveva trovato scomposto.
Curiosa, assottigliò lo sguardo, avvicinandosi al muro della casa di fronte che aveva usato come scala per arrivare alla sua postazione.
Un istante dopo camminava per le strade di Imola, cauta, con l’orecchio sempre teso alla ricerca di un buon pretesto per correre via, ma non pareva esservi motivo di tanta agitazione. La gente si spostava silenziosa al passaggio del Conte, quasi avesse di che pentirsi alla sua vista. Da quando aveva preso il possesso di Imola, una strana paura aleggiava nell’aria, sebbene egli fosse ben visto dalla maggior parte della gente, in città. Era un buon governatore, un uomo di guerra e di fede, di scienza e di lettere.
Senza abbandonare la difensiva, Porpora gli si avvicinò con attenzione, restando dietro le spalle di qualche passante e dietro i banchi del mercato.
Tra una schiena e l’altra, però, lo guardava in viso. Ed era un viso che aveva visto centinaia di volte, quello del Conte Riario, eppure quel giorno c’era qualcosa di diverso, qualcosa di più prudente.
Il riflesso di un gioiello alla luce del sole le accecò un occhio, costringendola a fermarsi.
Nell’istante che passò a massaggiarsi la palpebra, il Conte le sfilò accanto. E vide la stessa chiave triangolare che aveva visto al collo di sua madre la notte in cui aveva visto i suoi genitori per l’ultima volta. Piccola, del colore del ferro, legata malamente a un cordoncino di canapa. Un colpo di tosse l’aveva fatta spuntare fuori dallo stesso mantello in cui si era rituffata un attimo dopo, quando il Conte l’aveva prontamente afferrata per rimetterla al suo posto.
Ma a Porpora era bastato per accorgersene.
Rimase ferma tra la folla, lasciando che il breve corteo la superasse. Immobile, cercò di ricordare, sebbene ogni memoria di quella notte fosse stata accuratamente riposta lontano dalla sua mente.
«Ehi, ragazza.»
La voce di un uomo la riportò alla realtà, aiutandola a rendersi conto di essersi letteralmente bloccata in mezzo alla strada.
Ai suoi piedi, seduto accanto al muro della casa su cui si era appostata, sedeva un uomo dalla carnagione scura. Vestiva in modo eccentrico, con una giubba color del mare ricamata con dei bordini dorati, e sorrideva alla giovane in modo enigmatico.
Porpora lo guardò inarcando un sopracciglio castano.
«Sì?», chiese, sbuffando.
«Ti senti male?»
Aveva un forte accento dell’est, farsi, probabilmente. Ottomano, quindi. Forse turco.
«Che t’importa?», gli rispose, tirando su col naso. «Fatti gli affari tuoi, vecchio.»
Fece per allontanarsi, ma l’uomo la fermò di nuovo, stavolta ridendo.
«Sei quella che gironzola qui intorno come un cane randagio?»
Porpora strinse le spalle.
«Può essere», ribatté, accigliandosi. «A te cosa ne viene?»
«Ho visto come guardavi quella chiave. Le tue mani la bramano.»
«Non sarebbe difficile prenderla.»
«Non saresti così rapida.»
Porpora guardò l’uomo con sguardo seccato.
Sapeva il fatto suo ed era molto più veloce di quanto ci si potesse aspettare.
«Scommetto che riuscirei a prenderla ancor prima che il Conte si accorga della mia ombra.»
L’uomo sorrise, allargando le braccia per invitarla ad avvicinarsi.
«Scommetto che le tue mani verrebbero tagliate entro la sera.»
Porpora scosse il capo.
Conosceva fin troppo bene quel tipo di persone: gli affamati, quelli che per il tozzo di pane che portava nella borsa l’avrebbero volentieri affogata in un secchio d’acqua piovana. E lei non era certo tipo da farsi prendere in giro.
«Non impicciarti, turco», sentenziò quindi, ficcando le mani in tasca. Gli voltò le spalle e iniziò a camminare verso la piazza.
«Ani ohevet otcha, yeled sheli», insistette l’uomo, senza scomporsi. «Quella chiave ti ricorda lei, vero?»
Porpora sbottò, senza fermarsi.
«Fatti i fatti tuoi!», ribadì, scrollando le spalle. Non si voltò, sebbene ne avesse davvero voglia.
La risposta le giunse così lontana da risultare quasi impercettibile.
«Ci rivedremo, lo sai? A Roma.»
Quando si voltò, furibonda, per protestare, lo strano individuo era già sparito dalla sua postazione. Come fosse riuscito ad alzarsi e ad allontanarsi tanto velocemente era un vero mistero.
Stizzita, Porpora rimase ferma un istante a contemplare la strada. Aveva gli occhi grigi sgranati sulla folla del mercato, il respiro pesante e il pugno alzato pronto a colpire quell’importunatore nel caso si fosse avvicinato.
Scrutò la strada con attenzione, dopodiché si mise composta e tornò a camminare verso la piazza, sbuffando, di tanto in tanto, al ricordo dell’incontro appena avvenuto.
Quell’uomo l’aveva infastidita talmente tanto che le era passato l’appetito.
Decise di mangiare comunque, rannicchiata in un vicolo.
Perdere la borsa non era poi difficile e quello che aveva tra le mani poteva essere l’unico pasto della settimana.
Assaporò a fondo il pane, ingoiando un boccone dopo l’altro, dopodiché si diresse verso la fontana per buttare giù il nodo allo stomaco con un sorso d’acqua.
Bevve poco.
Di acqua se ne trovava in abbondanza e non era il caso di riempirsi la pancia di liquidi, non se c’era il rischio di dover scappare da chissà chi durante il sonno.
Lasciò che il getto della fontana le bagnasse la fronte, pulendo un poco i capelli appiccicati alla pelle sporca del viso, dopodiché si concesse qualche sorso.
Quando si rimise dritta sulle ginocchia, sul muretto della fontana trovò un pettirosso.
Di primo acchito si ritrasse per non spaventarlo, timorosa di vederlo volare via in preda al panico. Capì subito che ciò non sarebbe accaduto.
L’animale era stecchito, imbalsamato nell’esatta posizione i suoi compagni ancora in spiccavano il volo. Le piume lucidissime e brillanti sotto i raggi del sole, il becco aperto, gli occhi spalancati.
Dire che pareva vivo sarebbe stato sminuire la realisticità di quel lavoro.
Sgomenta, Porpora allungò la mano verso l’uccellino, accarezzandogli il petto con la punta delle dita.
Conosceva quel pettirosso imbalsamato: era stato il suo primo giocattolo, il primo dono che suo padre aveva fatto a lei e a suo fratello.
Lo pensava perso negli anni e invece eccolo lì, più reale che mai, lucido e ben sistemato sul marmo della fontana della piazza di Imola.
Porpora prese un grosso sospiro, dopodiché afferrò l’uccellino e lo chiuse tra i palmi delle mani, portandoselo al petto quasi fosse il più prezioso dei tesori.
«Orso», sussurrò.
Improvvisamente, nella sua mente non vi fu altro che l’immagine di suo fratello gemello trascinato lontano dalla folla mentre cercavano di scampare alla morte.
Come quell’uccellino fosse giunto fin lì era mistero, eppure significava una cosa: Orso era ancora vivo e, da qualche parte, probabilmente la stava cercando.
Tra sé e sé, Porpora sorrise.
Avrebbe dato qualunque cosa per ritrovarlo.








   
 
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