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Autore: Smaugslayer    12/04/2014    2 recensioni
Sono passati due anni da quando Sherlock ha lasciato la scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts tra urla di dolore.
Di lui, John Watson conserva solo tre libri e un ricordo che si sbiadisce ogni giorno che passa. Non ha più notizie del suo migliore amico da quando è stato rinchiuso all'Ospedale di San Mungo.
Finché non se lo ritrova davanti alla prima partita di Quidditch della stagione.
Genere: Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1.
 
 


“Allora, Watson” disse Clarisse Weasley, capitano della squadra di Quidditch di Grifondoro “Ti voglio carico per la partita contro Corvonero. E voglio un bel bolide in testa a ogni singolo Cacciatore, intesi?” La ragazza dai capelli rossi gesticolava animatamente, con una piuma nella mano destra e una Burrobirra ancora tappata nella sinistra.
 
Era una piacevole serata di fine novembre, e la Sala Comune di Grifondoro era gremita di studenti che chiacchieravano o si affrettavano a terminare i compiti. Nessuno di loro si azzardava a disturbare la squadra, in ritiro spirituale pre-partita.
 
“Non m’interessa se spacchi la testa a Molly Hooper, se ci serve a vincere la Coppa.”
 
“Delicata.”
 
Clarisse era fatta così: andava sempre dritta al punto. Non diceva cose tipo “sarebbe decisamente meglio se il Capitano di Corvonero non giocasse, avremmo più probabilità di vincere”, lei ordinava semplicemente di spaccarle la testa e sbatterla fuori dal campo. Facile, veloce, indolore. Be’, magari con un po’ di dolore da parte di Molly.
 
Il cugino di Clarisse, nonché Cercatore di Grifondoro, si unì alla conversazione. “Non credere che vincere sarà così facile, pare che i Corvonero abbiano un nuovo Cercatore, e non si sa nulla di lui. Sono andato a controllare, una volta, ma Vitious impedisce a chiunque di avvicinarsi al campo quando si allenano; dicono che abbia chiesto il permesso a Silente di prepararlo in segreto…”
 
“Vitious che si espone così tanto per un solo giocatore? È assurdo!”
 
“A quanto pare Molly Hooper ci tiene a tenerlo segreto fino alla partita contro di noi, visto che è la prima, e Vitious è d’accordo. Sono Corvonero, cazzo, evidentemente hanno fatto un paio di calcoli e hanno raggiunto il risultato sperato.”
 
“Sai che è assurdo, vero, Charlie?” disse Clarisse inarcando le sopracciglia.
 
“La mia ragazza, Cecilie, è Corvonero” Charlie abbassò la voce, riducendola quasi a un sussurro “E secondo lei è stato lo stesso Cercatore a chiedere di essere mantenuto nell’anonimato. Non vuole che la sua identità venga rivelata… sembra che –insomma, sempre da ciò che mi ha riferito lei, e cioè voci di corridoio che circolano per la sua Casa- sembra che la sua presenza impedirà di giocare a due di noi. Lei dice così. Se il tipo ha detto questo, dev’essere proprio ben informato su di noi… però mi sembra una cosa un po’ presuntuosa.”
 
“Suppongo che questa informazione sia nuova.”
 
“Lo so da un po’, ma non volevo allarmarvi” si giustificò Charlie.
 
Clarisse stappò la Burrobirra e ne bevve un sorso, abbandonandosi allo schienale di velluto della propria poltrona. “Bah. Noi siamo pronti da settimane.”
 
Anche John Watson si rilassò chiudendo gli occhi.
 
Non era eccessivamente preoccupato per l’incontro, né per la superbia di questo Corvonero.  Non si considerava vanitoso, nell’affermare di essere uno dei migliori Battitori che la sua Casa avesse mai avuto: sapeva di esserlo. John si riteneva una persona pratica: non si sprecava in falsa modestia, né peraltro si sopravvalutava.
 
Certo, ora che frequentava il settimo anno si era lasciato sfuggire l’ultima occasione di diventare capitano della squadra, ma non gli dispiaceva che il titolo fosse stato assegnato a Clarisse Weasley: la sua migliore amica era una vera fuoriclasse e, in più, tutti i tifosi lo adoravano, e a lui andava bene così.
 
Quell’anno, in effetti, Grifondoro aveva dei Battitori decisamente fuori dalla norma: una ragazza –cosa che non accadeva quasi mai- e un diciassettenne piuttosto basso, snello e asciutto, per nulla intimorente. A John piaceva dire che bastava la loro bravura a terrorizzare gli avversari.
 
Ricordava ancora la sua prima partita, al terzo anno… il Capitano di Serpeverde l’aveva preso in giro per tutto il tempo, finché non si era beccato un Bolide sul naso.
 
“Insomma, vedremo cosa ci riserverà il domani… domani” concluse Clarisse dopo qualche minuto di silenzio.
 
“Da quando ti dedichi alla filosofia?” scherzò Charlie.
 
“Zitto, cugino, o ti appendo a testa in giù al lampadario… Watson, hai fatto Pozioni?”
 
“Sì, sono nella mia borsa” borbottò lui. In quel momento era distratto dalla voce nella sua testa che gli diceva: “Sei sempre troppo disponibile”.
 
“Ah, già, Pozioni!” esclamò Charlie. “Grazie di avermelo ricordato! Abernathy era in punizione da Piton questa sera, devo andare a vedere se hanno finito!” Detto questo, scappò via attraverso il buco del ritratto.
 
“Tipico di Piton” si lamentò Clarisse. “Chiaramente i giocatori di Grifondoro non possono starsene un po’ a riposo prima della partita. Lo farà lavorare così tanto che domani avrà le dita così intorpidite che si lascerà sfuggire la Pluffa.”
 
“Oh, lascia perdere Piton, con un nome come Severus che ti aspettavi? Sai che ci odia, soprattutto noi giocatori… certo, sapere il perché…”
 
“Non mi interrogo sulle motivazioni di un nas… ah, di un professore.”
 
John scoppiò a ridere.
 
“Insomma, non hai visto quanto è aquilino? Secondo me qualcuno gliel’ha ingrandito e lui non è stato abbastanza bravo da rimpicciolirselo… sì, non mi stupirei se gli avessero fatto una fattura, chissà quanto doveva essere seccante da giovane… Senti, no, io questo lo copio domani” disse
Clarisse scostando la pergamena dell’amico. “Voglio solo andare a fare una doccia, o domani mattina i miei capelli sembreranno più unti di quelli di… be’, Piton.”
 
Il ragazzo sorrise e si ridistese sulla poltrona, lieto di essere lasciato solo.
 
Non che non apprezzasse la compagnia di Clarisse, o di Charlie, ma da due anni a quella parte… non avere più il suo migliore amico gli pesava come mai avrebbe ritenuto possibile.
 
Sherlock era in isolamento all’ospedale di San Mungo da quasi due anni, ormai. Gli unici con cui poteva avere contatti erano i medici curanti, che gli si affollavano intorno per tutto il giorno da quando gli avevano diagnosticato la malattia. Una volta, John era riuscito a bloccare Vitious in corridoio per chiedergli notizie: a quanto pareva, Sherlock era stato inserito in un programma sperimentale che tentava di individuare una cura –magica, ovviamente- al suo problema.
 
Quanto avrebbe dato per riaverlo con sé… la loro amicizia non era mai stata superficiale o effimera, era una vera amicizia, quel genere unico e insostituibile che pochi hanno la fortuna di sperimentare.
 
No, no, non poteva abbandonarsi a quei sentimentalismi. Non conoscendo la morsa allo stomaco che lo coglieva al solo pensiero, quella sensazione di incompletezza che lo pervadeva e lo faceva rabbrividire come un ghiacciolo lasciato scorrere lungo la spina dorsale.
 
La sua paura più grande era di scordare il volto di Sherlock, di aver bisogno di una foto per ricordare la curva delle sue sopracciglia o il colore dei suoi occhi; cercava disperatamente di non permetterlo, ma ogni giorno che passava il ricordo si faceva sempre più vago, ed era una vera e propria tortura. Ogni sera andava a letto pensando che quella poteva essere l’unica volta in cui avrebbe rammentato qualcosa del suo migliore amico, e ogni mattina sospirava di sollievo constatando che un'altra giornata gli era stata concessa.
 
Il pensiero di Sherlock non lo aveva mai abbandonato. Dopo un periodo tanto lungo, altri si sarebbero arresi all’evidenza. Lui no. Semplicemente, non poteva permetterlo. Aveva già commesso troppi errori, e non avrebbe ceduto per nulla al mondo, avrebbe continuato a scrutare il cielo, sperando di veder comparire un gufo con una lettera da parte sua.
 
            Il giorno seguente sostenne regolarmente tutte le lezioni, sopportò le angherie di Piton e i commenti acidi di Vitious. Nulla di ciò lo toccava, si era abituato ad ignorare le parole dei suoi professori, ripassando piuttosto mentalmente tutte le tattiche e le azioni di gioco.
 
La partita era alle quattro del pomeriggio, ma lui arrivò in spogliatoio con una buona mezz’ora di anticipo. Gli piaceva sedersi sulla panca, raccogliere le ginocchia al petto e chiudere gli occhi, finché la voce tonante di Clarisse Weasley non lo scuoteva dal suo torpore.
 
“In piedi, pelandrone! Abbiamo una vittoria da conquistare!” esclamò lei, entrando nello stanzino insieme a due Cacciatori: un ragazzo del sesto anno, Damon, e una del quinto, Rachel.
 
“Ciao, ragazzi.”
 
“Ciao John” lo salutò allegramente Rachel. “Pronto?”
 
“Pronto, credo. Ah, ciao Denis.”
 
Il loro Portiere fece il suo ingresso nello spogliatoio seguito da Charlie Weasley e Abernathy, l’ultimo Cacciatore.
 
John infilò la veste e i guantoni, si calò gli occhialini protettivi e impugnò la mazza da Battitore, il tutto mentre Clarisse li incitava e dava gli ultimi consigli.
 
“A parte Molly Hooper e i battitori, non conosco i giocatori. Non so quanto sarà tosta, ma possiamo vincere” ripeté per l’ennesima volta. “Damon, voglio il pieno controllo sulla Pluffa da parte tua: non osare fartela portar via dal nemico. Rachel, è comunque meglio non rischiare troppo: resta a centrocampo, e passa la palla a Damon solo vicino all’area di tiro, se puoi. Tutti gli altri, fate del vostro meglio. Non lasciatevi intimorire dai Serpeverde nelle tribune, sapete che sono solo gelosi perché l’anno scorso abbiamo vinto noi e perché –insomma, diciamocelo- siamo molto più fighi di loro.”
 
“Eddai, Clarisse” la prese in giro Abernathy “Siamo Grifondoro, non abbiamo paura di quegli idioti dei Serpeverde.”
 
“Per quanto riguarda, il Cappello Parlante poteva essere ubriaco quando vi ha smistati. E ora andiamo, muoversi!”
 
L’aria era umida, il cielo plumbeo minacciava pioggia.
 
In quanto vice-capitano, John uscì subito dopo Clarisse. Un boato li accolse in campo. John vide la curva rosso e oro dei Grifondoro, particolarmente agguerriti. Tutti i Serpeverde avevano preso le parti di Corvonero, più per avversione a Grifondoro, che altro. Gli insegnanti erano sparsi tra gli studenti, pronti in caso di necessità. Sul podio del cronista c’era Mary Morstan, una Corvonero del settimo anno. John sorrise mestamente nel vederla: non conservava un bel ricordo dell’ultima volta che si erano parlati, un capodanno di due anni prima.
 
Dall’altra parte del campo iniziava ad avanzare la squadra avversaria, ma John non riusciva a scorgere i loro volti con chiarezza a quella distanza.
 
Il mormorio della folla diminuì simultaneamente d’intensità. Perplesso, John si guardò intorno e vide che tutti i ragazzi borbottavano fra loro, indicando la squadra di Corvonero.
 
John continuò ad avanzare verso l’area centrale, dove Madama Bumb aspettava per dare il via ai giochi. Distratto dal comportamento della folla, comprese il motivo di tanto sconcerto solo quando se lo trovò davanti, quasi faccia a faccia: ricci corvini, occhi chiari, viso da volpe.
 
Sherlock Holmes.
 
John Watson ebbe un tuffo al cuore.
 
Sherlock… di nuovo a Hogwarts? Come Cercatore?
 
Impossibile!
 
Possibile, disse una vocina nella sua testa. Credevi che fosse malato? Non hai più contatti con lui da due anni: è più che plausibile che sia guarito; per di più, è svelto, agile, e ha una buona vista: come Cercatore va a meraviglia.
 
Sherlock Holmes era lì. E allora perché non veniva avanti a salutarlo, non dava segno di averlo riconosciuto?
 
“Sherlock…”
 
Il Cercatore scandagliava la squadra avversaria con lo sguardo, ma i suoi occhi passarono oltre John senza vederlo, senza mostrare alcuna emozione.
 
Perché? Che cosa era cambiato? Che diavolo stava facendo?
 
Sherlock Holmes? Ma non eri al San Mungo? Puoi giocare?” esclamò Madama Bumb, anche lei un filino scioccata.
 
“Mi sono allenato mentre ero in riabilitazione” spiegò Sherlock.
 
La sua voce era proprio come John la ricordava: grave, tonante, melodiosa.
 
L’arbitro si strinse nelle spalle prima di ordinare ai Capitai di darsi la mano. Clarisse strinse quella di Molly Hooper con ferocia.
 
“Sherlock…” provò a chiamare John.
 
“Sulle scope…”
 
“Ehi, Sherlock…”
 
Madama Bumb liberò le palle e il gioco cominciò.
 
Sherlock!” sibilò John.
 
Il suo migliore amico non diede segno di averlo sentito.
 
Diamine, perché? Perché si comportava così? John si chiese se finalmente l’avrebbe notato, se gli avesse spedito un Bolide in faccia.
 
“Sherlock!”
 
Sì, probabilmente un Bolide sarebbe andato bene. Per questo suo assurdo comportamento e per non averlo informato della sua guarigione, dopo due anni che non dava segni di vita.
 
Non per niente John era tifoso dei Falmouth Falcons(*) il cui motto è “Vinceremo, ma se non vinciamo almeno spacchiamo un po’ di teste”.








(*) da Il Quidditch attraverso i secoli







Spazio autrice
E così, dopo una settimana infernale (avevo una mega-interrogazione sull'Inferno di Dante, oggi), ce l'ho fatta. Il primo capitolo è stato completato.
Mi sento come Jon Snow dopo una spedizione al di là della Barriera, e cioè molto ma molto spossata. Ma ce l'ho fatta *tono solenne*. Spero vi sia piaciuto.
  
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