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Autore: Astrid Romanova    13/04/2014    2 recensioni
«Il segreto per non subire la mancanza di controllo è desiderare di non averlo. Se non hai aspettative non hai delusioni, se scegli di non scegliere non puoi mai sbagliarti» [...]
«Lancia una moneta» [...] «Aspetta che ti dica cosa il caso ha scelto per te» [...] «non tirarti indietro».
Io mi tiravo sempre indietro. [...] Mi sembrava tutto vano. E anche se avevo sempre saputo che ogni cosa non viene creata per esistere per sempre, che prima o poi, in un modo o nell'altro, tutto finisce in niente, non mi ero mai resa conto di quanto la parola “effimero” potesse fare paura. Non era solo qualcosa che spariva. Era qualcosa che spariva e ti lasciava con un pugno di mosche. Ma persino le mosche volavano via quando aprivi la mano. [...]
«Credo che dovresti provarci» disse lui all'improvviso, ridestandomi dai miei pensieri.
[...] In fondo aveva ragione. Alla peggio avrei scoperto di non essere pronta, di non essere in grado di vivere in quel modo. Il termine provarci era già di per sé sintomatico di qualcosa da cui non ti aspetti necessariamente una vittoria. Provare non è obiettivo.
«Se non hai obiettivi, qualsiasi meta è un traguardo»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Prologo

Qual è il parassita più resistente? Un'idea. Una singola idea della mente umana può costruire città.
Un'idea può trasformare il mondo e riscrivere tutte le regole.
-D. Cobb, Inception

   Girava rapida, leggera, puntando verso l'alto.
   Come fanno i programmi. Decidi che le cose debbano andare in un certo modo, predisponi una strategia e parti con un solo obiettivo: l'alto. Raggiungere un piano superiore, un livello superiore, o anche solo il primo gradino della scala. Fai programmi per arrivare da qualche parte e quei programmi hanno un solo limite: il cielo.
Il cielo, o l'altezza massima raggiungibile prima che la forza di gravità superi l'accelerazione del corpo verso l'alto, facendolo precipitare. E, si sa, per quanta forza tu imprima nella spinta, maggiore è il peso delle tue speranze minore è il tempo entro il quale ti ricadranno tutte addosso.
    Persino la moneta più leggera, prima o poi, smetterà di salire e ricomincerà a scendere. Ma, almeno questa volta, l'obiettivo è la caduta, non l'ascesa. Perché la risposta arriverà alla fine dell'ultimo giro, che è più facile dell'aspettare che tutti i tuoi programmi vadano in pezzi. La gravità è molto più veloce di una persona nel rovinare tutto. C'è quel momento, quando la moneta si ferma alla massima altezza e prima che cominci la sua discesa, in cui rimane aperta un'infinita serie di possibilità. Possibilità che tu hai ridotto a due: testa o croce. Farlo o non farlo. Il peso leggero che senti sulla pelle è il peso enorme di una scelta che non hai fatto tu, che hai lasciato al caso. Lo sposti da una mano all'altra, voltando la moneta e appoggiandola sul dorso dell'altra mano.
    E ti chiedi, a quel punto, se ci vuole più coraggio a prendere una decisione o ad accettarne una, facendoti trovare pronta a qualsiasi cosa possa capitarti.

 
•●•

   Se pretendi di fumare una sigaretta al buio, hai il cinquanta per cento di probabilità di accenderla dalla parte sbagliata. Che è come dire che hai il cinquanta percento di probabilità di accenderla dalla parte giusta, ed è quello che ti importa di più, è quello ciò a cui pensi. Inserisci il pilota automatico, giri la rotella dell'accendino, schiacci il bottone e, mentre la fiamma illumina la parte a cui stai per dare fuoco, potresti notare se stai per mandare a puttane il filtro. Ma non guardi attentamente, e se lo fai non hai comunque il tempo di fermarti. Ormai ha preso fuoco e tu stai già imprecando prima ancora di aver spento la fiamma.
   È così che vanno le cose. Ti accorgi sempre di quando stai per fare una stronzata, ma non è che ci pensi. Chiamatela testardaggine o stupidità, ma ormai ci sei dentro e non ti fermi, ignorando il fatto che ti ritroverai a buttare la sigaretta per terra e schiacciarla sotto il piede incazzato come una iena. Non c'è mai abbastanza tempo per evitare l'evitabile. Le tragedie non avvengono lentamente, e se lo fanno non sono tragedie. Sono drammi calcolati, e i drammi calcolati hanno il non insignificante pregio di suonare il campanello. Le tragedie no, quelle ti sfondano la porta e hanno anche il cattivo gusto di chiederti: “è permesso?”.
   Accendersi una sigaretta al contrario non è una disgrazia, puoi sempre prenderne un'altra. Ma non tutto viene fatto in serie. Se perdi un padre non hai altri diciannove padri infilati in un pacchetto. Se perdi una madre non c'è nessuna tabaccheria che te ne rivenda altre venti perfettamente confezionate. Certe cose sono in edizione limitata. Certe cose sono pezzi unici. Se spendi tempo e fatica dietro ad un sogno, se fai dei progetti, se ti organizzi l'intera esistenza per raggiungere quello e quel solo obiettivo, ne fai inevitabilmente un pezzo unico.
    Non potevo costruirmi una nuova strada come se si trattasse solo di accendere un'altra sigaretta, esattamente come nessuno sarebbe venuto ad indicarmi una nuova direzione come Darcey mi stava offrendo una delle sue sigarette dopo che avevo calpestato violentemente la mia.
    Quindi, per il momento, mi limitavo ad aspirare.
    «Abbiamo un nuovo vicino di casa, te l'ho detto?» esordì Darcey dopo aver preso una boccata.
    «Perché, avresti dovuto?» le chiesi a mia volta.
    Il motivo per cui Darcey era la mia migliore amica era che non mi chiamava per informarmi di ogni cambiamento nello status quo, non aveva l'impellente bisogno di mettermi a parte di qualsiasi avvenimento di importanza inferiore alla caduta di un meteorite sulla terra, a meno che non glielo chiedessi, e se mi raccontava qualcosa era solo per passare il tempo.
    «Credo di sì. Due giorni fa è venuto a presentarsi e Chase lo ha invitato alla festa. Ciò significache se scoprirà che non gli sta simpatico come credeva farà di tutto per scaricarlo, e a chi credi che si rivolgerà?»
    Bene, questo era un validissimo motivo per dirmelo. Il maledetto gemello di Darcey, Chase, faceva amicizie con la stessa facilità con cui io perdevo accendini, invitava chiunque poteva alle sue amate feste ma, se qualcuno iniziava a stargli antipatico, io e sua sorella diventavamo come i cestini del computer: lo scaricava a noi e, a fine serata, svuotava la cartella.
    Della serie parli del diavolo e spuntano le corna, Chase fu tanto premuroso da venirci ad avvertire dell'inizio del pezzo forte della serata: il Random Kiss. Era un'idea tutt'altro che originale e a dirla tutta anche un po' superata, ma era anche vero che fosse l'attrattiva principale delle sue feste. A quanto pareva c'era gente che davvero si divertiva a baciare altra gente al buio, ed io non ero nessuno per giudicare i gusti degli altri.
    Io e Darcey spegnemmo la sigaretta e rientrammo in casa Kidman, tornando nel salone dove si stava svolgendo la festa. Chase si era già piazzato, munito di microfono, sul fondo della sala, dietro la consolle del dj, e non aveva perso tempo nell'iniziare a spiegare in cosa consisteva il Random Kiss. Per niente interessata, visto che ormai avevo partecipato ad almeno venti di quelle sceneggiate, fissavo il bordo inferiore del mio bellissimo vestito blu scuro che, ovviamente, non era mio. Darcey aveva ragione a dire che faceva risaltare gli occhi azzurri, peccato che io non avessi gli occhi azzurri. Ma se stavo vicino a lei i suoi risaltavano davvero tanto.
    «Ci sono solo due regole: silenzio e baci appassionati!» concluse Chase.
   Non sapevo chi avrebbe spento le luci quella volta. Di solito ero io perché non volevo prendere parte attiva all'avvenimento, ma quell'anno mi avevano soffiato il posto. La verità era che ero sempre stata molto più brava sulla carta che nella vita reale nel “buttarmi”. Potevo scrivere di persone capaci di prendere e partire per un viaggio senza un soldo, rendendolo credibile, ma io non avevo le palle per baciare uno sconosciuto al buio. Negli ultimi tempi la mia inibizione aveva iniziato a cadere in pezzi e le delusioni che avevo ricevuto mi avevano resa molto meno prudente e misurata, ma solo perché la metà delle volte non sapevo proprio cosa stesse succedendo.
    Le luci si spensero. Sulle note di una canzone che non conoscevo sentivo le persone muoversi intorno a me, sfiorarmi e continuare la loro avanzata fino a perdersi le une tra le altre. Nessuno voleva sapere dove fosse o vicino a chi si trovasse. Tutti speravano solo di ricevere un bacio, un bel bacio, solo per il gusto di sentire le labbra di qualcun altro sulle proprie. Per il gusto di toccare qualcuno sapendo di non essere respinti, per il gusto di provare un po' di intimità senza impegno.
    Provai a fare i primi passi, sfiorando o scontrandomi con gli altri, senza sapere dove fossi andata. Sentivo i mormorii di chi si lamentava di qualcuno che gli aveva pestato un piede, di chi rideva eccitato, di chi muovendosi alla cieca finiva contro il muro. Tutto si interruppe quando la musica finì e un'altra prese il suo posto, annunciando l'inizio di quei tre minuti di casuale passione. Una canzone di tempo per perdersi, una per baciarsi, un'altra per perdersi di nuovo. Girai su me stessa senza il coraggio di allungare la mano e fare una scelta, anche se inconsapevole, chiedendomi se fosse possibile ritrovarsi soli in quel momento. Se, mentre tutti intorno si davano lunghi baci sconosciuti, qualcuno potesse rimanere isolato nel buio, ad attendere il suo cavaliere o la sua principessa. Mi resi conto che non era impossibile e che forse stava capitando a me. Ma su quell'ultima considerazione mi sbagliavo: potevo non aver cercato nessuno, ma qualcuno aveva trovato me. La mano mi sfiorò la schiena e, senza staccarsi, risalì fino alla mia spalla. Se da un lato ero felice di non ritrovarmi sola, dall'altro il disagio bussava insistentemente alle porte della mia mente. Complice l'oscurità trovai il coraggio di voltarmi, afferrando la mano che mi toccava per evitare che scappasse: sarebbe stato ancora più imbarazzante voltarsi e, nel cercare chi aveva cercato me, scoprire di aver perso il treno, di essere riuscita ad allontanare qualcuno, uno sconosciuto, in meno di quattro secondi. Avrei potuto non baciare proprio nessuno e non si sarebbe mai scoperto, ma non era tanto una brutta figura quella che temevo. Era attendere la riaccensione delle luci maledicendomi per essere stata la solita imbranata. Feci scivolare il mio palmo per tutta la lunghezza di quel braccio inequivocabilmente maschile fino a raggiungere la sua spalla. Le sue dita erano già arrivate al mio collo e ora mi solleticavano la nuca, affondate nei miei capelli. Sentii il suo corpo farsi più vicino fino ad entrare in contatto col mio, il suo respiro iniziare a solleticarmi la fronte. Era più alto di me.
    Una seconda mano si appoggiò sulla mia guancia, come se lui volesse essere sicuro di trovare il mio viso. Non potendoci vedere dovevamo toccarci per capire dove fossimo rispetto all'altro, ed era questo probabilmente che rendeva il Random Kiss non solo misterioso, ma anche più intimo e appassionante dei normali baci agli sconosciuti in una discoteca. Col pollice mi sfiorò il mento e giunse alle labbra. Il suo respiro si abbassò lungo il mio naso, che poco dopo ne accarezzò un altro, subito prima che potessi sentire il fiato caldo sulle labbra e accorgermi di non avere più tempo, di non avere più spazio. La lentezza dei nostri movimenti venne sostituita dalla rapidità con cui il nostro bacio divenne più veloce e intenso, attimo dopo attimo. Perché anche se le mie dita erano annodate tra i suoi capelli, anche se le sue erano lentamente scese lungo la mia gola fino alla spalla e più giù, lungo la schiena, fino a che tutto il suo braccio non mi cinse con più forza di quella che mi sarei aspettata, il centro di tutto non erano le mani, non era il mio cuore che batteva confuso, non era il mio stomaco stretto o la mia mente vuota e silenziosa. Era quel bacio.
    E finché la canzone non fosse finita, finché le luci non si fossero accese e sarei stata lontana da chiunque fosse coinvolto con me in quei tre minuti di trasporto, mi sarei sentita desiderata. Desiderata e libera di esserlo.
    Mentre i secondi di tempo venivano meno anche la nostra ebbrezza scemava, in modo incostante ma inesorabile. Poi tutto rallentò fin quasi a fermarsi, ogni contatto tornò alla leggerezza insicura dell'inizio e la pressione sulle mie labbra si allentò nel momento in cui l'ultima nota vibrò dalle casse. Decisi di voler conservare il ricordo di una mia iniziativa, per quanto insignificante, e per questo mi sporsi in avanti prima che il suo viso si allontanasse troppo dal mio. Non lo avrei considerato un bacio, quanto piuttosto una stretta prossimità di labbra. Forse nemmeno se ne accorse, eppure la risposta delle sue dita e il modo con cui blandirono il contorno del mio viso sembrava dire il contrario.
    Ma la canzone era finita e la mia libertà con essa, mentre un'altra iniziava riportandomi quell'incomodo imbarazzo che non potevo evitare. La mia mano destra fece il percorso inverso lungo il suo braccio, fino alla mano, e fu l'ultima cosa che toccai prima di perdere completamente il contatto con la sua pelle e tornare a muovermi tra chi aveva baciato e chi era stato baciato, tra chi avrebbe voluto dimenticarsi quell'esperienza e chi se la sarebbe ricordata a vita. O, almeno, fino al prossimo bacio. Uno alla luce, uno che, quando ti stacchi, guardi negli occhi chi hai di fronte, uno che hai aspettato o che ti sei guadagnato, che hai voluto per lungo tempo o che speri sia seguito da molti altri. Ma non per questo uno più vero. Perché io avevo avuto un bacio più vero di molti altri in cui ero stata coinvolta. Perché l'avevo sentito. E forse iniziavo a capire perché tutti fossero sempre così trepidanti al pensiero del Random Kiss.
    Le luci vennero riaccese e tutti impiegammo diversi istanti a riabituarci alla se pur tenue luminosità della stanza. Dopo un Random Kiss sentivo sempre Darcey e Jaena parlare cercando di capire chi avessero baciato, basandosi sulla lunghezza dei capelli, sull'altezza, sugli abiti indossati. Il mio cavaliere nel buio aveva una giacca morbida, i capelli corti ed era più alto di me, ma avevo ristretto il campo a più o meno metà degli invitati maschili. Non che ci tenessi particolarmente a ritrovarlo, ma avere la sicurezza che il mio partner dei tre minuti fosse irrintracciabile mi dava sollievo.
    Jaena mi raggiunse lamentandosi di aver sicuramente baciato una ragazza e, dopo una teatrale tanto quanto finta lavata di lingua, iniziò a bombardarmi di domande.
   Jaena era quel genere di ragazza che, anche con dei fari puntati addosso, nessun ragazzo avrebbe rifiutato tanto alla leggera. Qualsiasi gradazione luminosa la investisse la faceva sempre sembrare bella, probabilmente perché era bella davvero. Di una bellezza semplice, innocente in un certo senso. Non fosse stato per quella massa di capelli ricci e rossi che riuscivano a renderla sexy anche se indossava una tuta da militare.
    Fui salvata – il che mi fece capire quanto quella situazione mi avesse messa in crisi – dall'arrivo per una volta provvidenziale di Chase.
    «Allora, vi è andata bene?» esordì con un largo sorriso.
   «Io ho baciato una ragazza. Cameron è restia a dare dettagli, ma nel suo caso non significa néche sia andata bene né che sia andata male, ma solo che è andata» rispose Jaena anche per me.
    Meglio, mi risparmiava l'incomodo di dover trovare una risposta.
   «Che è comunque più di quello che può dire di solito» commentò lui. Non gli davo tutti i tortiin quel caso. «Credo che anche Darcey abbia baciato una ragazza» ci informò allegro, come se ci interessasse. Be', in effetti a Jaena interessava.
    Non avevo mai visto Chase Kidman non allegro, ma avevo sempre sospettato che un ben assestato calcio nei bassifondi avrebbe intaccato il suo primato.
    «A proposito di Darcey, dove si è cacciata?» domandò Jaena voltandosi da una parte e dall'altra.
    Sia lei che Chase iniziarono a guardarsi intorno, ignorando momentaneamente la mia presenza. Era il momento per una sigaretta. Mi defilai silenziosamente.
    Era una tipica nottata di fine aprile. Non soffiava un filo di vento, ma l'aria dell'una di notte era fredda sulla pelle. La ignorai. C'era qualcuno che rideva, lì fuori, qualcuno che faceva una telefonata, qualcuno che cercava gli amici dispersi e qualcuno che non sembrava sapere esattamente dove si trovasse. Mi appostai in un angolo libero e feci bene attenzione a mettere la sigaretta tra le labbra per il verso giusto. Non ricordavo quando fossi divenuta una fumatrice regolare, ma supponevo che nessuno si rendesse mai conto di essere diventato dipendente da qualcosa. Di certo non programmi una dipendenza. Ti arriva e basta. Come d'altro canto qualsiasi altra cosa negativa nella vita. Non pensi “domani cadrò dalle scale” o “tra un'ora esatta litigherò con la mia migliore amica”. I progetti si fanno sulle speranze positive, non sui pessimi presagi, anche perché dire “il mio sogno è cadere dalle scale” è decisamente un cattivo segno riguardo la propria saluta mentale. Tutti mettono in conto che qualcosa possa andare male, ma nessuno è onestamente capace di pensare: e se va tutto in fumo? Ho un piano di riserva?
    Certo che no. Già inseguire un obiettivo alla volta è sfiancante, figuriamoci due o tre contemporaneamente. Quindi non resta che riprendere a guardarsi in giro, come quando hai diciassette anni e non sai dove sarai di lì a dieci anni. Ma non sei più un diciassettenne, la tua fiducia nel futuro è andata a puttane e ormai hai la profonda, radicata convinzione che alla fine, inevitabilmente, è tutta questione di fortuna. Puoi fare tutte le scelte che vuoi, puoi fare tutti i programmi che vuoi, ma giunto ad un certo punto non dipende più da te. Chiunque dica il contrario è idealista, è troppo giovane o ha un culo sfondato. Addirittura gli scienziati erano arrivati a dire che la vita stessa è nata per puro caso, quindi perché ogni singola esistenza dovrebbe procedere in modo diverso? Dopotutto quando avviene il concepimento è pura fortuna – o sfortuna – che dal casino salti fuori proprio tu. Per quanta autonomia si possa raggiungere nessuno può essere libero dal caso. Quindi perché fare progetti che potrebbero crollare con la stessa facilità di una catasta di paglia investita da una bufera? Qualcuno direbbe perché, altrimenti, l'alternativa sarebbe rimanere impassibili e non combinare proprio niente di niente. Valida obiezione. Ma nessuno ha mai detto che si debba smettere di pensare o di provare qualcosa, solo... non contarci mai troppo. Fare tutto e niente, in modo casuale. Quello che capita capita. E rispondere, alla domanda “come ti vedi tra dieci anni”, semplicemente “mi vedo”. In pratica, contare sul fatto di essere ancora vivi, ma fregarsene di dove, del come e del perché.
    Non sembrava una brutta filosofia di vita se eri abbastanza coraggioso da scenderci a patti, ma la mia era solo un'idea.
    «Ehi» disse improvvisamente una voce alla mia sinistra.
   Istintivamente mi voltai, nonostante non potessi sapere chi quella voce stesse chiamando. Un “ehi” non era molto esemplificativo. Ma visto che alla mia sinistra, oltre ad una ragazza che stava ridendo talmente tanto da sembrare sul punto di vomitare, c'era solo un ragazzo voltato nella mia direzione, presupposi con una certa sicurezza che si stesse rivolgendo a me.
    «Ehi» fu la mia brillante risposta.
    D'altronde, dire “ciao persona sconosciuta e mai vista prima d'ora” non era molto meglio.
    «Tu sei Cameron, vero?» mi domandò, avvicinandosi di qualche passo. Poi, visto che il mio “sì”era stato sostituito da uno sguardo solo più sconcertato di prima, aggiunse: «la migliore amica della sorella di Chase».
    Le cose non mi erano più chiare, ma almeno ora sapevo che lo erano per lui.
    «Ti conosco?» fu tutto quello che trovai da chiedere. Magari non mi era familiare perché non gli avevo mai prestato attenzione e in realtà lo conoscevo da anni. Avevo fatto una figuraccia simile con Richard, un'amico del college di Chase.
    «Non direi» disse con un sorriso.
    Avrei preferito un “mi chiamo Pinco Pallo e sono il qualcosa di Chase”.
   Dovetti aspettare qualche secondo prima che lui – che fosse un po' ritardato? - si decidesse ad allungare una mano e dirmi finalmente qualcosa che potesse fare un po' di chiarimento.
    «Nathaniel» si presentò, «abito qui di fronte da un paio di giorni».
    Ma bene, il famoso nuovo vicino di casa. Speravo solo che non l'avesse mandato lì Chase per levarselo di torno.
    La sua stretta era salda e decisa, in netto contrasto con la calma serafica con cui si era fatto avanti. Nella sua giacca grigia, nei jeans scuri e nella camicia bianca leggermente sbottonata, sembrava disinvolto. Il classico tipo: aria sbarazzina, sguardo vivace, a suo agio tra la gente e aperto alle nuove amicizie. Se fosse stato biondo sarebbe potuto essere lo stereotipo dello stereotipo del ragazzo americano. Invece aveva i capelli scuri del ragazzo cattivo, che lo aiutavano solo a prendere le sembianze del ventenne complessato apparentemente scellerato ma fondamentalemnte insicuro, legato da un rapporto controverso alla ragazza angelica e ingenua che rappresentava la sua unica speranza di redenzione.
    Non potendo dar voce alla mia riflessione, mi limitai a sorridere di rimando e tornare alla mia occupazione, prendendo una boccata di fumo. Dal canto suo, lui tirò fuori una moneta dalla tasca e iniziò a lanciarla in aria. Per le prime tre volte mi limitai a guardarlo con sconcerto, pensando che non fossero affari miei, ma se l'alternativa starcene lì in silenzio tanto valeva fare una domanda che, di certo, avrebbe solo distolto entrambi dall'evidente stato di noia in cui eravamo cascati.
    «Che stai facendo?».
    C'erano un milione di modi per porre quella stessa domanda in modo più cordiale, ma non credevo avrebbe fatto differenza se fossi stata cortese e affettata piuttosto che diretta e affabile.
    Lui sorrise – di nuovo – e si voltò verso di me con l'espressione di chi sta per fare qualcosa di divertente.
    «Testa o croce?» mi chiese.
    La mia reazione fu del tutto comprensibile: lo guardai come si guarda un cane che rincorre la propria coda da mezz'ora buona, chiesi a me stessa quale diavolo fosse il problema di quel tizio e subito dopo quale fosse il mio per farmi tante preoccupazioni.
    «Croce» risposi, anche se suonò più come una domanda.
    «Se vinci, ti spiego cosa sto facendo» mi sfidò gioviale.
    La moneta girò rapida davanti ai nostri volti quando le diede un colpo secco col dito, quindi ricadde sulla sua mano. Nathaniel la rigirò sul dorso della mano sinistra, tenendola coperta, e attese qualche secondo per far crescere una tensione che non sentivo. Nel momento in cui tolse la mano e croce fu il chiaro rovescio vincente, mi sentii stranamente soddisfatta. Il caso mi aveva fatto vincere, forse dovevo davvero interessarmi alla risposta che ora Nathaniel avrebbe dovuto darmi. Dopotutto avevo appena passato più di metà sigaretta a ragionare su come affidarsi al caso fosse meglio che creare cataste di paglia.
    «Dillo con parole tue» lo invitai, con un pizzico di inutile sarcasmo.
    Neanche a dirlo, eccolo sorridere per l'ennesima volta. Non è che non apprezzassi le persone sorridenti, è solo che prima o poi la faccia ti si può fossilizzare in quel modo.
    «In realtà non c'è granché da spiegare. Hai mai provato la sensazione di non avere più ilcontrollo di niente, di aver fatto qualcosa inutilmente?».
    Non era affatto divertente. Mi aveva appena letto nella testa. E probabilmente era chiaro anche dal mio viso, visto che non gli servì ricevere alcuna risposta perché continuasse col suo discorso.
   «Non è una cosa di cui vergognarsi. Tutti si sentono così almeno una volta. Qualcuno di più e qualcuno di meno» fece una pausa, chissà che se per darmi il tempo di ricompormi o se perché voleva dare più enfasi alle sue parole. «Il segreto per non subire la mancanza di controllo è desiderare di non averlo. Se non hai aspettative non hai delusioni, se scegli di non scegliere non puoi mai sbagliarti».
   Se quel discorso non aveva un senso, io ce lo vedevo lo stesso. Era un riassunto perfetto di quello che la mia testa aveva provato a formulare, era un modo pratico per vedere la mia ideale sfiducia nei progetti a lungo termine e il bisogno di qualcosa di più rapido e incerto. Se non hai obiettivi, qualsiasi meta raggiungi è un traguardo.
   «Lancia una moneta» proseguì, eseguendo quello stesso gesto. La riprese al volo. «Aspettache ti dica cosa il caso ha scelto per te», tolse la mano per svelare il lato vincente, «non tirarti indietro».
   Io mi tiravo sempre indietro. Non prima, prima non lo facevo. Dopo. Dopo ho iniziato a dire “no, questo non posso farlo”. Fondamentalmente ero sempre stata sulle mie, perennemente indecisa tra il fare e il non fare, ma ero capace di buttarmi in qualcosa, ero capace di dire “perché no”. Prima. Ora era tutto “perché sì?”. Mi sembrava tutto vano. E anche se avevo sempre saputo che ogni cosa non viene creata per esistere per sempre, che prima o poi, in un modo o nell'altro, tutto finisce in niente, non mi ero mai resa conto di quanto la parola “effimero” potesse fare paura. Non era solo qualcosa che spariva. Era qualcosa che spariva e ti lasciava con un pugno di mosche. Ma persino le mosche volavano via quando aprivi la mano.
    «È questo che stavo facendo» concluse Nathaniel, stringendo la sua preziosa monetina nelpugno.
    «E quale scelta avresti affidato al caso?» gli chiesi.
   In fondo era quello lo scopo della mia precedente domanda. Che tirava una moneta l'avevo capito da sola, e non gli avevo mai chiesto perché lo stesse facendo. Gli avevo chiesto cosa, ed era l'unico punto che non aveva chiarito.
    «Credo di avere il diritto di tenerlo per me» mi rispose in tono cortese, come se non mi avesse appena fatto una lezione accelerata di vita.
   Una lezione inquietante, visto che arrivava al termine di una riflessione sullo stesso, identico argomento. E arrivava come una soluzione, come il punto esclamativo alla fine di un'affermazione. Chiudeva il mio ragionamento, gli dava un tono e uno scopo. Gli dava una forma reale. Una forma tonda, a quanto sembrava.
   Sinceramente, poteva anche tenersi per se i suoi dilemmi. Riuscivo a pensare solo se sarei stata davvero capace di farlo, di desiderare di non avere il controllo, di scegliere di non scegliere. Di lasciare tutto al caso.
    «Non so se potrei farlo» dissi sovrappensiero.
    Lui non mancò di sentirmi e sembrò sollevato dal fatto che non avessi insistito con la mia domanda. Non ero mai stata una persona insistente. Di solito, se qualcuno non vuole dirti una cosa, ha un buon motivo per farlo, e tu stessa stai probabilmente meglio senza saperla.
    «Sei una che ha bisogno di obiettivi, vero?» mi domandò con triste curiosità. Sembrava quasidispiaciuto, come se aver bisogno di obiettivi fosse come essere in prigione.
    Ma a dire il vero no, non ne avevo bisogno.
    «No. Tutt'altro».
    Ora la sua espressione esprimeva sconcerto. In effetti sembrava paradossale non avere affatto bisogno di obiettivi ma ritenersi incapaci di non averne affidandosi alla casualità.
    «Allora cosa ti frena?».
    Per come la vedevo, dire “perché sono una cacasotto” suonava terribilmente male in quella conversazione. Meglio non dire proprio niente e tirare fuori l'arma del “sono affari miei”.
    Feci spallucce.
    «Ho capito, non vuoi dirmelo» intuì lui. Che incredibile perspicacia.
   Non ebbi premura di rispondere. Ero già tornata a riflettere su come la teoria della moneta sembrasse così dannatamente perfetta per me, ma anche su come io fossi dannatamente inadatta a lei. Potevo trovare il coraggio per fare qualsiasi cosa avrei messo sulla bilancia? Certo, avrei potuto mettere in lizza due diverse possibilità, entrambe rientranti della categorie di cose che sarei stata in grado di affrontare. Ma avrebbe avuto lo stesso significato? Se avessi scelto cosa mettere a confronto avrei ancora potuto dire di aver affidato tutto al caso?
    Se mai avessi deciso di provarci non avrei dovuto trovare scuse o scorciatoie. Sarebbe sempre stata una questione di “farlo o non farlo”.
    «Credo che dovresti provarci» disse lui all'improvviso, ridestandomi dai miei pensieri.
    Stava cercando adepti per la sua personale dottrina? O ero io ad avere l'aria di una che non sapeva che diavolo combinare della sua vita?
    «Mal che vada, ti aiuterà a capire se preferisci una strada sterrata o una perfettamenteasfaltata».
    Però, metafora interessante. E calzante, estremamente calzante.
   Dovevo ammettere che lo stereotipo dello stereotipo del ragazzo americano sapeva il fatto suo. Il suo aspetto traeva in inganno dando l'idea del banale, dello scontato, del prevedibile. La sua mente era molto più originale. Forse perché il suo modo di pensare era simile al mio, con la differenza che era molto più diretto e non era pateticamente sconclusionato.
    Con l'ennesimo scatto del dito mi lanciò la moneta, che presi per un soffio. Il mio fu praticamente uno stop di petto, ma fortunatamente riuscii a bloccare il centesimo prima che mi scivolasse dove sarebbe stato imbarazzante se fosse scivolato.
   In fondo aveva ragione. Alla peggio avrei scoperto di non essere pronta, di non essere in grado di vivere in quel modo. Il termine provarci era già di per sé sintomatico di qualcosa da cui non ti aspetti necessariamente una vittoria. Provare non è obiettivo.
    «Se non hai obiettivi, qualsiasi meta è un traguardo» ripetei, questa volta ad alta voce,rigirandomi la moneta tra le dita.
    Quando poco prima l'avevo pensata non mi ero accorta che fosse così vera.
    Nathaniel sorrise, come se lui stesso avesse appena raggiunto un traguardo. Dopotutto mi aveva convinta, anche se forse non ci sarebbe mai riuscito se non fossi già stata con un piede sulla strada sterrata.
    «Allora in bocca al lupo, Cameron».
    E questa volta la conversazione era davvero finita. Lui mi voltò le spalle e si incamminò.
    La mia sigaretta era spenta da tempo, la mia decisione era presa. Già, avevo preso una decisione. Avevo iniziato col piede sbagliato.
    «Testa lo faccio, croce non lo faccio» mormorai.
    Notai solo con la coda dell'occhio che Nathaniel si era fermato e aveva leggermente voltato il viso verso di me, mentre osservavo la moneta roteare un'altra volta.
La fermai, la rigirai sul dorso della mano sinistra. Tolsi la destra per scoprire il risultato.
    Non avevo mai creduto nel destino. Ma se una volta nella vita pensai che potesse esistere, fu nel momento esatto in cui osservai una moneta dirmi, silenziosamente, testa.

Due parole veloci:
dal momento che questo è solo il prologo non c'è molto da dire, vi do solo qualche piccola anticipazione su cose dovete aspettarvi se procederete con la lettura di questa storia.
Tutte le scelte importanti di Cameron saranno guidate dal caso, dal semplice lancio di una moneta. L'unica costante della storia è il suo disperato tentativo di andare avanti: non per arrivare da qualche parte, ma solo per evitare di fermarsi. Almeno finché non andarà a sbattere contro la realtà dei fatti, che la costringerà a rivedere di nuovo il suo modo di agire e a ritrovare una volta di più qualcosa che la spinga a riprendere la marcia. Ma forse, a quel punto, sarà pronta a farlo. Nel frattempo passerà attraverso attrazioni sbagliate, risate insensate, momenti di panico e di passione, conoscendo forse più odio che amore.

Se voleste spendere cinque minuti del vostro tempo per lasciarmi un commento ve ne sarei immensamente riconoscente, ma direi che vi meritate già un grosso grazie per aver buttato l'ultimo quarto d'ora della vostra vita a leggere quello che ho scritto. Quindi, grazie :D

State sempre in piedi,
Astrid
   
 
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