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Autore: Noal_Writer    14/04/2014    0 recensioni
Questa storia è una storia che ho scritto in primo superiore e che ho trovato adesso a distanza di due anni. Parla di una ragazza che accecata dall'amore per un compagno di scuola, quando capisce che quell'amore non fa più per lei, è ormai troppo tardi e si ritrova vittima della violenza di quel ragazzo. Durante la narrazione sono presenti delle riflessioni introspettive, tipiche del carattere adolescenziale, e se siete adolescenti anche voi, tormentati da una relazione, probabilmente questa storia vi coinvolgerà emotivamente.
Vi prego recensite, mi interessa molto il vostro parere :)
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sulla mia pelle erano rimasti i segni delle fasce che mi attorcigliavano le ferite che ora si erano rimarginate. Della garze mi coprivano quelle ancora aperte. Quel che era restato era anche il dolore dei lividi che ormai, però, iniziavano ad assumere il colore della mia carnagione. Mi muovevo a stento confortata dall’appoggio di stampelle che sostituivano le mie gambe dilaniate e con miseria mi aggrappai a Giulia che mi sostenne a lasciare quelle sbarre che celavano sofferenza, e quel brutto odore di spirito e medicine. Finalmente respiravo vero ossigeno.
A casa tutti mi accolsero felici, ma io ancora pativo di memorie. Mia madre, mio padre, Giulia e Charly, il mio cane, perfino lui si mescolava ai loro sorrisi mostrandomi la lingua che colava saliva e quella coda che scodinzolava. Ma tutta quest’aria mi opprimeva. Mi ridussi a fingere qualche sorriso, ma la mia finta verità, nascosta dietro ognuno di essi, si svelò in un urlo che appariva doloso ma era dolente. Un urlo talmente acuto che mi infiammò la gola. Nato da una forte emissione di voce, svanito nella nullità, confuso dall’aria che tirava e da quella che io tiravo dai miei polmoni e che si traeva, penetrava in essi.
“ Voglio restare sola, lasciatemi in pace!”
Cacciai Giulia fuori di casa e mi chiusi in camera. Buttai le stampelle a terra. I miei sorrisi si erano trasformati in lacrime. Ero gelosa di tutta quella felicità ed io, consapevole del mio dolore, volevo inviarlo a chiunque perché capisse la mia situazione, e non essendoci riuscita, rimasi delusa. Non seppi togliere positività a chi ne aveva troppa, a chi con la vista captava solo quella .
Gli occhi mi pizzicavano per il troppo pianto, ma in qualche modo avrei dovuto sfogarmi. Me li grattavo e me li strofinavo a pugni chiusi. Adesso volevo vedere il mio volto, il mio corpo, riconoscerlo. Blandivo la mia sagoma che non era lineare, ma traforata da quelle schifose ferite che mi sfiguravano. Mi facevo ribrezzo, terrore, ma allo stesso tempo quell’immagine riflessa, mi dava certezza. Ero strana, forse sì lo ero, o lo sembravo. Ancora non lo avevo capito, ma più mi guardavo e più mi facevo paura. Forse lo specchio rifletteva l’altra parte di me, la metà, quella di cui ero sicura. La parte che mostravo agli altri era ancora da scoprire. E poi ho capito che in ogni mio pensiero c’è sempre un ancora. L’àncora è anche quella che si attracca al suolo per restare fermi, un confine fra terra e mare dove quel che puoi fare è solo tenerti in equilibrio su ciò che li separa perché non sei sicura della meta da raggiungere, ma hai solo una scelta. Per il momento, siccome sei in bilico e rischi di cadere, il punto su cui stai barcollando ti ordina di non muoverti… Io non mi muovevo.

  
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