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Meimi
La Coca Cola Zero scese
giù che era una meraviglia. La ragazza gettò la lattina vuota nel bidone della
spazzatura di fronte al distributore automatico lungo la strada, riaprì lo
smartphone, s’infilò di nuovo l’auricolare e balzò, ancora, nella notte.
Direzione: Asuka junior.
“Se qualcuno li
troverà”, ammise a se stessa, di nuovo, con sicurezza estrema, “quello sarà
Asuka”. Si accorse, finalmente, della direzione che stava prendendo l’auto con
a bordo il detective che, a rigor di logica, avrebbe dovuto darle la caccia.
Andavano verso l’oceano.
Non era una tipa
arrendevole, Meimi Haneoka, che in quel momento rivestiva i panni e impersonava
in tutto e per tutto l’eroina Saint Tail. Ma dire che quella sera ci sperasse
sul serio di riportare a casa, sana e salva, la contessa Silvana Silvani vedova
Serbelloni Mazzanti Viendalmare sarebbe uno sproposito. Il Vescovo Yusaku
Hibakari aveva versato il sangue per ribadire che ogni vita umana, anche quella
di una befana dall’alito fognante, era un miracolo da difendere. Però c’era da
essere concreti: nessuno ci avrebbe tirato fuori un ragno dal buco.
“Se qualcuno li
troverà”, ripeté a se stessa, superando con un balzo da olimpionica un
cartellone pubblicitario, “quello sarà Asuka”.
Quanto ci avrebbe
messo? L’auto stava sfrecciando ad alta velocità per la superstrada che
conduceva al mare. Continuò a saltellare, ma il distacco aumentava sempre più.
Per un momento ebbe il timore che l’auto avrebbe continuato la sua corsa per
ore e ore, magari arrivando dall’altra parte del paese. Fu persino tentata di
scendere dai tetti, cambiarsi e prendere un treno notturno, ma preferì svuotare
la mente dai pensieri per ascoltare con l’auricolare, in diretta dalla giacca
di Asuka junior, quello che in auto si stavano dicendo. Capì che erano in
quattro: delle diverse voci, ovviamente, riconosceva solo quella del suo
coetaneo e compagno di classe.
Non si stavano dicendo
molto, in verità: De Simone domandava al collega giapponese Yamaguchi se era
normale, nella polizia nipponica, che i superiori prendessero a coppini i loro
sottoposti, che gli morsicassero varie parti del corpo nei momenti d’ira o che
li inviassero giù per sette rampe di scale solo per risalire armati di
cappuccini e cornetti anche alle tre del pomeriggio. Asuka tamburellava sul
finestrino con la mano sinistra, mentre Esposito, fissando la luna,
fischiettava qualche melodia classica di Gigi D’Alessio, che Meimi non
conosceva e dunque non ebbe modo di disprezzare in maniera adeguata.
«È qui», udì la
ragazza. Asuka junior finalmente aveva parlato. Saint Tail saltò giù
dall’ennesimo palo della luce, raggiunse un vicino parchetto per bambini dalle
altalene colorate, ed estrasse lo smartphone come una rivoltella. Il Gps le
fece capire che erano praticamente lungo la baia. Con la metropolitana, dal
centro cittadino, si raggiungeva in un attimo, ma via auto, soprattutto nei
giorni feriali, era un casino da non augurare a nessuno.
«Non c’è un cane…». Era
una voce da un forte accento italiano. “Isolato, il posto è isolato”, confermò
dentro di sé Meimi Haneoka. «Il parcheggio è vuoto», continuò un altro uomo,
anch’egli italiano.
“Il parcheggio?”.
Un’altra occhiata alla mappa satellitare con il puntino rosso rappresentato
dalla giacca di Asuka. “L’acquario!”. Ci arrivò, finalmente, Meimi, che era sì
una ragazza meravigliosa ma – diciamocelo francamente – nessuno avrebbe mai
avuto il coraggio di candidare al premio Nobel.
Non ebbe mai modo di
sapere in quale maniera Asuka Daiki Junior fosse arrivato a concludere che la
Belva potesse essersi rifugiata proprio lì, ma improvvisamente si accorse che,
per un criminale con molto da nascondere, l’acquario era il posto ideale: posto
fuori mano, chiuso per lavori, un intero oceano da sfruttare come via di fuga.
“Già, l’acquario”. Ci era rimasta male, quando, pochi mesi addietro, ne avevano
annunciato la chiusura per imprecisati lavori di ristrutturazione. Ne
conservava, in effetti, un buon ricordo. Nessuno poteva vederla, mentre,
ripreso il fiato, scattò di nuovo per raggiungere l’oceano. Ma stava
arrossendo.
«Gli scantinati sono
sul retro», continuava Asuka dall’auricolare della microspia. «Confermo». Era
un adulto giapponese. «Dobbiamo controllare?», la voce del primo italiano
esprimeva sicuramente un pizzico di disappunto. «Meglio di sì», continuò il
giapponese, di nuovo: la sua voce non era per nulla entusiasta.
Saint Tail rallentò la
sua corsa. Era ormai notte, e, da quel che capiva, non avevano trovato nulla.
Il posto era sicuramente vuoto. Che fare? Ascoltò con scarso interesse i
poliziotti che invitavano Asuka a restarsene lì fermo mentre loro si facevano
un giretto per assicurarsi fosse davvero tutto a posto. Ma – fece lo stesso
errore Meimi – se non si erano trovati di fronte finestre accese o sicari
armati come Rambo ai cancelli, la Belva sicuramente non si trovava lì.
Calcolando la sua andatura, le mancavano ancora una quindicina di minuti per arrivare
all’acquario. Ma ci sarebbe andata per nulla.
Alzò i tacchi e tornò
indietro. L’unica cosa da fare, per la ragazza, era quella di ripartire dal
Minato Art Museum: lì – l’aveva capito benissimo – c’era la regia centrale di
quella vastissima operazione delle forze dell’ordine. Da lì avrebbe potuto
capirne di più e forse – ma era un forse grande quanto il Monte Fuji – fare
qualcosa.
Ormai era quasi l’una
di notte. Un profondo senso di malinconia l’avvolse. Malinconia. E fame.
È un dato di fatto.
Vero come la gravità, assodabile come la relatività e ovvio come il principio
di conservazione del moto. Ma affermatelo in una conversazione all’interno di
un consesso civile e vi impiccheranno al primo palo come retrogrado e traditore
della parità tra i sessi: le donne sono fottutamente complicate.
E no, non ci stiamo
riferendo alla canzoncina della Mannoia, che descrive le donne come simpatiche
frugolette dall’umore oscillante. No. Le donne sono delle bombe ambulanti, al
cui interno, come tritolo e nitroglicerina, gli ormoni si mescolano, si
confondono, bollono e precipitano, come intrugli nell’impresa familiare di
Walter White[1].
Dareste un pugno sulla lamiera di una testata nucleare nord-coreana? No? Allora
non scherzate con una donna in *quei*giorni*là*.
Meimi Haneoka, della
quale tutti ignoravano le immense doti atletiche che sfoggiava quando indossava
il tutù di Saint Tail, aveva in quella serata tutto il diritto di sentirsi
devastata. Ma le reazioni chimiche dentro di lei, in quel frangente, le gridavano
di mangiarsi qualcosa. Si sarebbe divorata persino il suo amico a quattro zampe
Little ancora vivo, senza nessuna salsetta coreana di accompagnamento. E
pensare che cinque ore prima, a quel tavolo dalle tovaglie lunghe fino a terra,
fu quasi un miracolo se riuscì ad aprire lo stomaco. Ma adesso era la fame a
guidarla.
A casa, con tutti i
sensi di colpa annessi e connessi, sarebbe scesa giù dalle scale e avrebbe
aperto il frigorifero. Le mancavano cinque minuti al Minato Art Museum: ma da
sopra il tetto di una villetta scorse in lontananza, di fronte alla fermata di
un autobus, un distributore automatico. Si guardò in ogni direzione, si
vergognò come una ladra – cosa che era, in fondo, nella realtà – piombò giù e
infilò una moneta nell’alto macchinario di latta. Pigiò un pulsante e una
barretta di biscotto ricoperto da cioccolato e nocciola cadde giù, con un tonfo
sordo. In un lampo, come se stesse derubando la casa imperiale, allungò il
braccio, raccolse lo snack e scomparve di nuovo nella notte.
Si ritrovò nel tetto
della villetta di prima. Doveva fare piano: una station wagon era parcheggiata
in giardino. Il seggiolino per poppanti e delle vistose etichette con scritto
“Bebé a bordo” attaccate alla carrozzeria dell’auto, fecero capire a Meimi che
sotto i coppi su cui poggiava i piedi, con tutta probabilità, stavano dormendo
pure dei bambini.
Aprì l’involucro e
iniziò ad aggredire il cioccolato, il più naturale degli antidepressivi in
commercio. Non era una barrettina di quelle dietetiche, ma un leviatano di
latte e cacao per cui ciascuna ragazza – Meimi compresa – si sarebbe pentita
per il mese a seguire. Chiuse gli occhi, alzò la testa verso il cielo e
sospirò, mentre un brivido di piacere, misto al frescume della serata, le
attraversava tutto il corpo. Aveva fatto bene a concedersi quel piccolo
peccatuccio. Riaprì gli occhi, abbassò il viso per dare il secondo morso,
quando, dall’auricolare, sentì la voce di Asuka: «Sì». “Diamine”, pensò, “l’ho
tenuto acceso. Chissà che la batteria non mi finisca…”.
«Sono proprio cotto.
Meimi, ti amo davvero». La bomba calorica gli cadde di mano, rimbalzò sul tetto
e si incastrò sulla boccuccia di una grondaia. Non stava succedendo davvero.
«Forse non avrò mai il coraggio di dirtelo, ma penso sempre a te». Incurante dei
poppanti che dormivano a un metro sotto di lei, Meimi Haneoka, ormai priva
anche con sé stessa della maschera di Saint Tail, cadde sulle ginocchia.
Per i primi istanti
provò un immenso moto di vergogna: non aveva il diritto di spiare così Asuka.
Era assolutamente scorretto e ingiusto. Odiò Saint Tail, che si intrometteva –
seppur per motivi di “lavoro” – con il suo Asuka. Era Saint Tail che stava
origliando, non Meimi. Ma poi, lo stomaco le si attorcigliò su sé stesso.
“Pensavo fosse innamorato di Saint Tail”. Era vero. Ma mai e poi mai Meimi
avrebbe pensato di che la goffa e cicciottella liceale sarebbe stata in grado
di far breccia nel cuore del giovane e brillante detective. Come Saint Tail,
era tutta un’altra cosa, sì. Come Saint Tail era alla pari, anzi, lo sapeva
benissimo di esercitare un immenso fascino nel suo inseguitore. Ma sebbene – e
quella sera se n’era accorta più che mai – fosse felice di incarnare con ogni
atomo del suo corpo gli ideali della ladra giustiziera, non poteva essere
sempre Saint Tail. Non poteva essere sempre pronta, decisa, scattante. Non
poteva essere sempre all’altezza del ragazzo che compariva ogni notte nei suoi
sogni, anche in modalità che non avrebbe confessato nemmeno al Papa.
E invece lo era. Perché
lì, Asuka, probabilmente seduto in macchina a farneticare da solo, non stava
invocando Saint Tail, stava parlando di lei. Di Meimi. La tipa piena di
difetti, la tipa pasticciona, la tipa sincera che non ci capisce nulla di
matematica. La tipa sui cui capelli si perdeva ad ogni lezione. La tipa il cui
profumo lo mandava in estasi. Dettagli, ovviamente, che non conosceva.
Era lì, ormai seduta
sul tetto. Una moto passò rombando lungo la strada vicina. Dalla casa
dall’altra parte del vialetto uscivano i dialoghi in lingua inglese di un
serial americano. Da qualche parte, a pochi chilometri di distanza, un ragazzo
stava pronunciando il suo nome come se fosse la parola più cara del pianeta.
“Meimi ti amo davvero”.
Le rimbombava in testa. Gliela scombussolava. Ma era un torpore dolce.
Ripensando a quegli istanti si stupì di non aver pensato a nulla di
“operativo”. Erano mesi, se non addirittura anni che sognava che Asuka junior
si accorgesse di lei. Ed era un sogno soffice, ma distante, lontano, percepito
persino come irrealizzabile. Ma ora che, come un fulmine a ciel sereno, come un
pacchetto dono dall’iperuranio, questo si realizzava, la testa della ragazza
non volò a progettare appuntamenti, uscite più meno amichevoli in cui
“approfondire” il legame, sacchetti di cioccolatini da regalare timidamente in
classe, a margine delle lezioni. Rimase semplicemente lì, seduta, a fissare la
luna. E a inondarle il cuore di un calore fortissimo, pure all’una di notte,
non erano né gli ormoni, né la serotonina, né la dopamina.
«Ragazzo», una strana
voce dall’altra parte dell’auricolare interruppe quel momento di coccole, «sei
impegnato qui a quest’ora? Gli studenti ai miei tempi tornavano a casa ben
prima». La testa di Meimi non fece in tempo ad accorgersi che qualcuno aveva
parlato che un’altra voce, che pareva provenire persino da un’altra persona,
tuonò decisa: «Sta’ zitto o sparo».
«Oddio». Saint Tail balzò in piedi. Non sapeva che
cos’era successo, non sapeva come, ma Asuka era in pericolo. Senza pensarci
lasciò il tetto della villetta e si mise a correre come una disperata. Erano
caduti in trappola? Forse no. Forse Asuka aveva a che fare con un banale
rapinatore, o con qualcuno che voleva fargli uno scherzo.
“Scherzi… A
quest’ora?”, si insultò da sola. Qualcuno, sicuramente, in quel momento stava
puntando una pistola addosso ad Asuka. I rumori di passi e di respiri affannosi
che seguirono contribuirono a gettarla ancor di più nello sconforto. Aumentò il
passo: il cuore le scoppiava, e, per quanto fosse allenata come una ginnasta
sovietica, i polmoni stavano iniziando a farle male.
«Hanno preso anche
lui». Un uomo dall’accento italiano pareva piangesse. Uno dei poliziotti?
L’avevano preso? Erano veramente lì. Asuka era riuscito a capire dove si
fossero nascosti i criminali.
Altre voci si ripetevano,
confuse, sovrastante dal respiro affannoso del giovane detective. Erano voci
affannose, di chi aveva appena passato un brutto quarto d’ora.
Meimi pensava solo a
correre. Non aveva alcun “piano operativo”. Nella borsa tutto il suo
armamentario, ma nella testa poco o nulla di pronto. Le voci tacquero
improvvisamente.
«Come hanno fatto?».
Era una voce serena, il tono di un commerciante che esamina la merce portatagli
in bottega dal grossista. Dall’auricolare udì il vociare acuto di un giapponese
che spiegava com’erano stati catturati. «Come hanno fatto a trovarci…»,
continuò il primo. Al balbettio della seconda voce, l’italiano urlò:
«KENZO!!!”». Saint Tail quasi inciampò da un lampione. Era quello che
comandava. Era la Belva. Ne era sicura. «Chi sono?», continuò il criminale.
Dopo un po’ di preamboli, Meimi comprese che con Asuka si trovavano un
carabiniere italiano, Giovanni Esposito, un poliziotto giapponese, Yuto
Yamaguchi e uno che pareva essere una vecchia conoscenza della Belva.
«Dimmi chi è il ragazzino»,
ordinò il volto peggiore del Bel Paese.
Un brivido attraversò
il corpo della ragazza. “Ti prego Signore… Fa’ che non gli facciano alcun
male”, supplicò la ragazza.
«Asuka Daiki Junior.
Per mandato del sindaco aiuta la polizia locale alle indagini sui furti di
Saint Tail…» la voce acuta. «Quella che si è presa il quadro dall’auto di quel
cretino di Fracchia?».
La Belva,
fortunatamente, non pareva interessata a quella sorta d’intruso in un affare da
grandi. «Ah», continuò il giapponese noto a tutti come l’Infame, «è figlio di
Tomoki Asuka, che qui è il capo della polizia». «Mi lasci andare», parlò anche
Asuka. E la Belva rise.
“No, ti prego, no!”.
Meimi, in quel momento, era arrivata al punto all’altezza del quale, poco
prima, aveva fatto dietro front. E non poté non maledirsi per aver gettato così
presto la spugna.
«Portatelo di là, nel
magazzino», continuò la Belva. E subito il segnale divenne disturbato, come
quando un microfono viene sbattuto contro qualcuno: evidentemente, lo stavano
prendendo per la giacca.
«Di loro che
facciamo?», domandò la vocina di prima.
«Prendete il cappellone
e portatelo di là… Ci faremo raccontare quali sorprese ha in serbo per me
Auricchio». «E gli altri?». «Uccideteli».
«NOOO!!!», urlò Asuka.
Al suo grido di unì anche quello di Meimi. Aveva sempre avuto a che fare con
ricettatori, ladruncoli, vecchie matrone che sottraevano gioielli di valore
alle loro cameriere. Quello era un altro livello. Era come se il Borgorosso
Football Club avesse deciso di sfidare il Barcellona al Camp Nou.
Meimi sentì altre
grida, confuse. Riconobbe alcune parole, come “pezzo di merda” e “sarai un
ottimo poliziotto”. Poi le voci diminuirono. Restavano solo le grida di Asuka.
Meimi pregò che fosse tutto uno scherzo, un bluff. Ma aveva l’orecchio fine. E
non poterono sfuggirgli quei colpi di pistola. Sordi, certamente, sparati con
il silenziatore. Ma inequivocabili.
La partita era
dannatamente seria. Seguiva la superstrada: in condizioni normali sarebbe
salita sopra il tetto di qualche camioncino e avrebbe così “chiesto un
passaggio”. Ora non ci pensava neppure. La perfezione atletica si unì alla
predisposizione genica dei suoi antenati ninja, e continuò a correre, correre
disperatamente. Doveva raggiungerlo immediatamente, prima che fosse troppo tardi.
Anche a costo che quel suo grande cuore le esplodesse in petto.
Non c’era muscolo del
corpo che non le dolesse. Due ore prima ci mancò poco che una bomba non la
facesse a pezzi. Il suo tutù, sebbene non fosse ancora da buttare, era rovinato
in più punti. Ma in quel momento, era la pancia a farle davvero male.
Terrorizzata è il termine giusto.
E se non fosse arrivata
in tempo? Il suo ultimo ricordo di Asuka junior sarebbe stato quel “Ti amo”
rubato dalla tecnologia di suor Seira? Correva e piangeva, piangeva e correva.
Fu davvero straordinario che qualche neurone del suo cervello, dopo una rissa
per accaparrarsi qualche molecola d’ossigeno con alcuni tirchissimi globuli
rossi, fece la proposta più intelligente della serata: “Non puoi farcela da
sola”. Non ci pensò neppure. Senza mai fermarsi, aiutata dall’auricolare,
armeggiò con il telefono.
Seira aveva pensato a
tutto: nessuno avrebbe potuto rintracciare la chiamata.
Ci vollero tre squilli.
«Chi parla?». Era Asuka
Tomoki. In sottofondo si poteva sentire un “chicazzéaquestachezzodiora?”.
«Detective Asuka, sono Saint Tail». Poco
ci mancò che la macchina andò a schiantarsi contro un convenience store aperto
anche di notte. Era il giapponese che guidava.
«Saint Tail?»,
bofonchiò lo sbirro baffuto. «Seriamente… Non ho tempo da perdere, stiamo…»
«SONO ALL’ACQUARIO!!!
HANNO GIA’ UCCISO QUALCUNO, SUO FIGLIO…» l’interruppe urlando la ragazza,
incurante di tutto.
«COME STA DAIKI?» urlò
a sua volta Asuka senior, che con una mano teneva il telefono e con l’altra,
manovrando il volante, costringeva l’auto a una brusca inversione a U.
«È vivo», lo rassicurò
Saint Tail, «vi prego, salvatelo! Temo gli faranno del male…»
«Metti il vivevoce!!! È
Santa Eustachia?», domandò Auricchio, in auto con Asuka senior e con il
commissario Rizzo. Alla risposta affermativa del detective giapponese, gli
strappò il telefono di mano. «SANTA EUTELIA, COME CHEZZO TI CHIEMI? DE SIMONE
DOV’è?»
«Non lo so», ansimava
la ragazza, continuando a correre, «chi è?».
«È IL MIO ASSISTENTE,
PORCA DI QUELLA PUTTENA…. SE LA BELVA GLI HA MESSO LE MENI ADDOSSO GLI SPEZZO
LA CHEROTIDE GLI SPEZZO».
Meimi comprese. «Lui è
vivo. Temo lo stiano torturando. Agli altri hanno sparato, ne sono sicura».
Un profondo senso di
gelo cadde nell’auto. «Yamaguchi…». «Esposito». «PEZZO DI MEEERDAAA!!!», gridò
Rizzo, solitamente calmo e pacato. Ora era Hulk.
«DETECTIVE», continuò
la ragazza, «AIUTATEMI!!!». Stava piangendo. «IO CORRO LI’… AIUTATEMI A
SALVARLO». Parlava al singolare.
«Grazie». Concluse la
conversazione Asuka Tomoki senior. Ed era un grazie sincero, di quelli che
valgono più di cento documenti firmati. «A TUTTE LE AUTO», udì Meimi la voce di
Asuka senior, «DIRIGERSI VERSO IL LUNGO MARE, L’ACQUARIO DELLA SAITOU. LA BELVA
SI TROVA LI’». Fu in quel momento che la ragazza si accorse che la polizia –
anzi, Asuka senior – le stava dando credito, affidandosi completamente a lei. A
lei, che era, non dimentichiamolo, una fuorilegge. Sebbene sulla carta la
giovanissima giustiziera giocasse per la squadra dei cattivi, la realtà dei
fatti era ben diversa. Si giocava la battaglia del bene contro il male.
La telefonata si
concluse: pochi minuti e sarebbe arrivata.
«…messaggio a tuo
padre, Asuka Tomoki senior». Era la voce della Belva che tornava
dall’auricolare.
“Che stupida!”, si
accusò la ragazza. Chiamando con lo stesso smartphone con cui tracciava le
microspie, aveva “mutato” ogni restante audio. Ora tornava in diretta dalla
giacca di Asuka Daiki.
Gridò anche lei. Un
tonfo e un rumore secco. Sputi e respiro affannoso. Gli stava facendo del male.
Il criminale aveva iniziato a ridurre in poltiglia il ragazzo che amava e dal
quale – se n’era accorta ancor di più quella sera stessa – era amata.
«Sai ragazzino», si
sarebbe ricordata per tutta la vita dell’atrocità di quelle poche parole, «come
si distingue un uomo forte da uno che non lo è? L’uomo forte non ha punti
deboli. Puoi cercare quanto vuoi ma non potrai mandarlo mai al tappeto. Tuo
padre, invece, un punto debole ce l’ha. Ce l’ho io qui di fronte».
Superò un altro camion.
In lontananza vedeva il mare. Quanto mancava? Tre minuti?
«Che fa?». Asuka
implorava. «Lascio il mio messaggio». «Avevi detto che non mi avresti ucciso!»,
il ragazzo urlava. Stava soffrendo, con tutta evidenza. «Non ho mai specificato
in che modo ti avrei lasciato in vita. Il mio messaggio per tuo padre sarai tu
stesso, ragazzino».
Meimi se la prese con
sé stessa. Qualche allenamento in più e un po’ di cioccolata di meno e forse
sarebbe potuta essere ancor più veloce. Eppure, erano quei pochi zuccheri
assimilati prima che le fornivano l’energia di quello sprint finale. Piangeva
come una disperata e avrebbe fatto di tutto per essere lei, al posto del
ragazzo, in quel momento.
«Da cosa cominciamo? Ah
sì». Meimi fece un patto con sé stessa. “Non ci devo pensare, non ci devo
pensare”. Nella sua testa doveva esserci un unico pensiero. Arrivare lì il
prima possibile. Scavalcò l’ennesima recinzione e se lo ripeté. “Se penso a
quello che gli stanno facendo crollerò subito”. Si fece forza, ma la
accompagnavano rumori non punto belli. «Fermo». Era la Belva. Sentì come se il
ragazzo si stesse soffocando. «ASUKA!!!», pianse ancor di più la ragazza. Che
diavolo stava combinando quel criminale senz’anima? Ma il giovane detective
proruppe ancor di più in grida di dolore, intervallate a sputi, colpi di tosse
e respiri fragorosi.
«Passiamo ad altro»,
riprese la Belva. «NOOOO!!! BASTA, TI PREGO, BASTAAA!!!». I lamenti di Asuka
avevano in Meimi l’effetto di una lama arroventata sulla carne. Nonostante
sapesse di dover essere forte per lui, non riusciva proprio a sopportare quelle
grida. Avrebbe dato la vita per non sentirle più. Per saperlo al sicuro. “Un
minuto e sono lì. Resisti Asuka-kun, resisti!”.
Cosa avrebbe fatto? Con
buona pace del Vescovo, aveva già in mente di lanciare nell’edificio uno dei
suoi trucchi preferiti: un bel fumo avvolgente e se ne sarebbe scappata immediatamente
con Asuka a bordo di uno dei suoi palloncini. Alla Contessa ci avrebbe pensato
la polizia.
Asuka prima di tutto.
Non ricordava benissimo come fosse fatto l’edificio. Non era abituata però ad
improvvisare: di solito, con suor Seira, pianificava nel dettaglio ogni colpo.
Questa sarebbe stata la prova della maturità. Meimi entrò nell’ultimo stradone
che congiungeva la superstrada cittadina all’acquario: i pochissimi ubriachi
dei chioschetti nemmeno la videro, tanto correva veloce.
«AAAAAHH». Un altro
lamento di Asuka. Non urlò fortissimo, ma Meimi comprese che si trattava di un
grido d’intensità minore non perché il colpo subito fosse meno violento dei
precedenti. Era la forza del ragazzo che scemava sempre più.
«L’ultimo tocco»,
aggiunse la Belva, con le parole e con il tono di voce di uno dei Chef della
Clerici.
Eccolo lì, l’acquario,
circondato da un trilione di impalcature. Ma nessuna luce proveniva dal suo
interno. “Il retro”. Si ricordò delle parole udite dagli ormai defunti
poliziotti, superò la recinzione senza passare dal cancello e attraversò il
parcheggio.
«Dicevo prima che non
avevi la stoffa per fare il poliziotto. Nemmeno tuo padre ce l’ha, ragazzo. E
non lo farà più, te l’assicuro. Soprattutto con un figlio disabile a cui
badare». Figlio disabile? Che voleva fare?
«Un colpo preciso, alla
giusta vertebra. Ormai ho perso il conto di tutte le volte che l’ho fatto.
Preferisco essere chiaro con chi riceve questo trattamento: è una benedizione.
Non sentirai più alcun male. In effetti, non sentirai nulla: in effetti, se il
colpo va a segno, dovresti diventare perfettamente tetraplegico».
Non poteva essere. Non
poteva esistere sulla faccia della terra un essere così perfido. E in quel
preciso istante, a pochi metri di distanza, stava per colpire scientemente
l’amore della sua vita per trasformarlo in un vegetale. Una punizione peggiore
della morte. Le mani iniziarono a tremargli nuovamente. Ma questa volta, non
era paura. Riafferrò lo smartphone. Il cursore lampeggiava con chiarezza. Alzò
gli occhi. Agli angoli, ben nascosti, alcuni teppistelli dominavano sulla
scena. In basso, però, le finestre dei seminterrati. “No… no… quella no…” Una
luce accesa. Corrispondeva al GPS. Erano lì.
«C’è chi ancora riesce
a regolare gli sfinteri». Parlava di escrementi. Di dignità perduta. Digrignò i
denti. Sbuffava. Con un balzo iniziò a correre, prima che qualcuno, in
quell’oscurità potesse notarla, nera come la notte.
Un salto. La vetrata
che andava in mille pezzi. Era dentro. Una marea di cianfrusaglie e, al centro,
tra alcuni tavoli gonfi di oggetti inutili, un uomo in piedi, con una mano
alzata sopra il capo di un ragazzino ridotto a una maschera di sangue,
vistosamente legato a una sedia di legno. Nemmeno se ne accorse. Puntò la gamba
sinistra al suolo, fece forza e partì, in volo, con il piede destro rigido
contro lo sterno dell’uomo vestito di bianco. Il criminale si ritrovò sbalzato,
mentre la giustiziera, con una graziosa piroetta, saltò indietro, ricadendo
subito in posizione di battaglia.
Non osò nemmeno
guardare verso il ragazzo seduto. L’angolo dell’occhio però gli rivelò che
c’era troppo rosso in quello scenario. Le mani le tremarono possibilmente con
più forza.
Asuka era vivo, non
c’erano dubbi a riguardo. E allora perché non voleva girare il volto verso di
lui?
Ormai era troppo tardi.
Era arrivata troppo tardi. Per colpa sua, infatti, il ragazzo che amava aveva
dovuto fare i conti con il mistero dell’iniquità più nera. Non lo aveva difeso.
Avevano posato le loro luride mani su di lui. Meimi se ne sbatté di avere di
fronte uno degli uomini più pericolosi del mondo, capace di squartare una
legione di carabinieri senza nemmeno essere armato. Tremava tutta. E non era
più angoscia, non era più paura. Non era nemmeno senso di colpa. Era istinto
omicida, l’odio più puro che può scaturire solo dall’amore più puro. Una
lacrima le rigò il viso. Batteva i denti.
«Meimi…». Asuka la
chiamava. L’aveva scoperta. Era lei. Era Meimi a provare la rabbia del giusto.
Perché Saint Tail era la personificazione dell’ideale di giustizia, ma Meimi
era la ragazza che viveva secondo giustizia. Una ragazza. Splendida come tutte
le ragazze, vera come tutte le ragazze. Il velo era crollato o era solo frutto
della confusione del momento? Non ci badò e non ci pensò nemmeno. Continuava a
tremare, chiudendo gli occhi e stringendo i pugni. «Io… io…», ripeteva,
respirando con affanno.
«Che vuoi?». La Belva
interruppe il filo dei tentativi che la ragazza faceva per recuperare se
stessa.
«VOGLIO UCCIDERTI!»,
ruggì. «VOGLIO UCCIDERTI!!!», gridò ancora. Nonostante tra le mani della Belva
luccicasse minacciosa una pistola, Meimi sapeva di non mentire. Voleva
ucciderlo davvero. Suo padre e la zia Rikka le avevano raccontato le tristi
vicende di uomini dello spettacolo mancati in modi davvero atroci: illusionisti
annegati della vasca trasparente di Houdini, maghi uccisi per i postumi di un
pugno (come Houdini), assistenti di lanciatori di coltelli infilzati come
Saltimbocca alla Romana, domatori del circo sbranati da tigri del Bengala.
Meimi conosceva ormai
tutte le regole di sicurezza che un mago che si rispetti dovrebbe poter
recitare a memoria. Sapeva quali trucchi erano innocui e quali, se utilizzati
da un profano o da un mago ubriaco, sarebbero potuti risultare mortali. Una
sola magia, voleva fare, quella sera. Far sparire per sempre la Belva Umana.