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Autore: MaidOfOrleans    14/04/2014    1 recensioni
In un'altra città, in un'altra vita, un ragazzo e una ragazza si conoscevano.
Lui non era bravo a sopravvivere, lei non era così sicura di voler continuare a farlo.
Gli anni passano, i ricordi molto meno.
Una OS fluida, senza particolare senso e con poco contesto, più che altro il risultato di una giornata non proprio al massimo.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fino a trent'anni avevi gli occhi verdi; ora sono ancora più belli,
Adesso che hai conquistato l'Inghilterra e una piccola parte di te stessa. 
E niente dipende dall'allineamento dei pianeti,
adesso che voli nella neve, nell'aria sporca, come Macbeth,
e niente può salvarti, niente può raggiungerti, 
negli occhi ci sono degli incendi.
Qualcosa è riuscito a cambiarti.
(Le luci della centrale elettrica, Macbeth nella nebbia


Erano giorni in cui il cielo pesava come un asciugamano bagnato sulle ultime vertebre delle nostre schiene scoliotiche e sui nostri cuori.

Avevamo vent'anni e qualche settimana, alcuni e qualche mese, tu eri caduto da poco in quello spazio ondivago che definivi &post ventuno&. Amavamo sfotterti, dirti che volendo avresti potuto tentare la fortuna a Las Vegas. Tu nella fortuna non credevi. Sulle roulette avresti appena dischiuso i tuoi occhi colore dei rigagnoli che i tacchi della gente scavano nella neve.

Quando camminavamo di notte, per le strade di un quartiere in cui alle undici brancolavano solo più spaccini e vecchi insonni, il silenzio filtrava dalle pareti dei condomini di colori resi vaghi dalle piogge e dall'alcol che avevamo nelle vene. Ricordo il sapore del tuo tabacco sotto la lingua, sempre un po' acido, sempre diverso da quello che avrei voluto. Mi lamentavo, e anziché rispondere di comprarmi quello che mi pareva e lasciarti in pace ti stringevi nelle spalle, i brandelli di giubbotto appartenuto a tuo padre tuo cugino tuo fratello sobbalzavano attorno al tuo corpo, il tuo corpo che era sempre troppo poco. Ti preparavo da mangiare con un'ombra di ossessione che riuscivo a mascherare a stento. Ripetevo a chiunque avesse la sbatta di starmi a sentire che fare i dolci era la mia droga, anzi, prendi un altro pezzo di ciambellone, e intanto fissavo le tue pallide dita di poeta che cincischiavano con qualche avanzo in fondo a qualche piatto. Tu avvertivi il mio sguardo e sollevavi il tuo, grigio e fisso e in qualche modo inquietante e bello e desiderabile, poi sorridevi, una specie di sorriso, sollevavi un angolo di quella bocca tagliata un po' di sbieco. Io contavo le mezzalune azzurre alla base delle tue unghie. Adesso che ci penso, non mi ero soffermata a riflettere sul fatto che ti eri conservato in relativa buona salute per diciannove anni e svariati mesi prima di incontrarmi. Evidentemente, da solo eri in grado di provvedere se non altro ad alcuni dei bisogni elementari del tuo essere.

 

Quelle volte in cui mi accarezzavi la fronte e sussurravi parole che mi facevano pregare che si trattasse di MDMA, e non di una progressiva e irreversibile perdita della lucidità

 

Quando saliva il sole era comunque stretto tra stracci di nuvole, e il caldo che ci gocciolava addosso ci instillava una sorta di fiacchezza nelle cellule. Era un luglio cianotico e senza slanci di sorta. I tuoi capelli di un colore improponibile e la svampa dei tuoi vestiti sempre troppo pesanti. Il bagliore dorato dei peli sotto il tuo ombelico quando persino per te era troppo tenere addosso la maglietta da basket di chissà chi, avuta chissà come, non lo rammentavi, o se lo rammentavi non me lo dicevi. Stavo stesa sulla schiena con sotto la testa dispense rilegate del costo di quindici euro e zerozero, ché solo le copisterie che fanno tutto in nero hanno i prezzi semplici, niente scontrini con scritto novantanove centesimi. Ogni singolo filo d'erba si impregnava di sudore, uno su cento mi rimaneva incollato alla pianta del piede. A volte, ti chiedevo se volessi un caffè. Tu stavi in silenzio e ti accendevi un drum, fra l'altro, detto proprio inter nos, girato di merda.

Non è che parlassimo molto, allora. Alla small talk, come la chiamavi tu, ci pensava Veronica, con i suoi capelli rossotinto e le Vans senza lacci e l'aria sempre incazzata, probabilmente con me. Credo ti volesse scopare, Veronica. Per quanto comprendessi con una precisa profondità il suo desiderio, mi sfuggiva come facesse a sfuggirle che di certo tu non scopavi neanche me.

Non che mi dispiacesse, almeno non nel senso tradizionale del termine. Ti volevo. Ti volevo quando strappavi qualche lamento becero alla vecchia chitarra di mio fratello, quando cuocevo una crostata solo per te alle tre del mattino e fuori c'erano quaranta gradi, quando si spandeva sul terrazzo l'odore di cuoio dei tuoi braccialetti bagnati. Quando ti infilavi la mia penna tra i denti e  non la sputavi nemmeno se te lo chiedevo con gentilezza. Quando eri alticcio e mi leggevi poesie che nessun altro su questo cazzo di pianeta avrebbe mai ascoltato. Ti volevo, ma non ero disposta a pensare a te come avrei pensato a qualcuno che si divideva tra l'erba comprata dal suo amico con le piantine, quello che studiava giurisprudenza, e qualche chiavata occasionale. Che poi era quello che facevi, né più né meno. Solo che mi illudevo che non chiavassi me, e invece mi recitassi quintali di stronzate pseudo espressioniste, perché ero speciale.

Speciale come le tue occhiaie colore dell'asfalto fresco che odora di inevitabile e di infanzia in riviera, quando le macchine movimento terra spianavano ed egualizzavano gli sterrati in tempo per Ferragosto

Mi stupisce che a volte tu mi manchi. Ci sono dei momenti, in queste giornate che hanno un senso, un meraviglioso ricadere nei rapporti causa-effetto, in cui torno al luglio di quella che ormai mi sembra un'altra vita. So dove sei, come lo sanno tutti- per quanto tu tenti di dissolverti in città che brulicano di anime perse, è difficile perdere le tracce del tuo sorriso tagliato male e dei tuoi polsi fragili. Ti vedo biondo, dopo periodi variamente estesi di tinture orribili, nelle foto di giornali che nessuno compra più, perché comunque la si metta le versioni telematiche degli oggetti costano meno. Sembri felice, in quel modo tutto tuo di esserlo, con vaghi fantasmi di terrore al fondo di una faccia che fino a qualche anno fa trovavamo bella solo io e Veronica, alla quale comunque bastava che uno si fingesse musicista. Perché all'epoca, con rispetto parlando, era più che altro una finta.

Per quanto sarebbe una stronzata anche pregevole da mettere nero su bianco in una mattinata di dicembre, mentre dovrei correre a comprare qualche pensierino per le legioni di conoscenti che ho dimenticato, non ho nostalgia della nostra amicizia. Non so nemmeno se si possano chiamare tali due torce smezzate in una notte gravida del profumo dei glicini, i miei tentativi di ipernutrizione (negli scatti che ho visto ieri passando in edicola sei magro, troppo magro, ma abbastanza inequivocabilmente vivo), il tuo modo noncurante di appoggiare la testa sul mio grembo e le mie dita che giocavano con l'ombra che ti si raccoglieva sotto gli zigomi. Non mi manca quello che ero allora, la mia palese incapacità di passare un esame mascherata da depressione, le pastiglie per dormire e il caffé per stare sveglia, l'alcol nel circolo sistemico al posto di un minimo di senso, le illusioni di grandezza che di fatto facevano da centrino sui tavoli di noce lucidato della mia mediocrità così comune. Non mi manca avere vent'anni, per quanto allora non fossi neppure del tutto convinta che sarei arrivata ai trenta.

 

Quanto fa star bene da ragazzi

Credersi dei cazzo di artisti maledetti.

 

Un po', devo dirlo, mi manchi tu. Mi manca l'odore del tuo corpo, quando si sentiva sotto quello più pungente del fumo e più metallico del sangue che comunque un po' trovava il modo di macchiarti qualche parte del corpo, anche solo perché ti eri grattato una crosta o fatto la barba. Credo, a oggi, che il tuo sangue ti odiasse, e volesse uscire da te il più rapidamente possibile, come le tue possibilità di sopravvivere più o meno indenne a quella che chiamano giovinezza.

Sono, comunque, debolezze passeggere. Contro ogni previsione, tu hai preso un aereo, perché macchina e traghetto avrebbe fatto più scena ma la quarta volta che guidi sbronzo in un mese è abbastanza scontato che ti ritirino la patente, e sei andato a conquistare l'Inghilerra come quelli che avevamo studiato al liceo, quelli che hanno fatto un po' di casino in un anno che potrebbe essere il 1066. Non hai preso la chitarra di mio fratello, ma una che hai comprato al Balùn a sessanta euro, che comunque per il Balùn è un prezzo di un certo rispetto. Ti ho salutato di striscio, in una piazza affollata, perché pensavamo entrambi che dopo un paio di mesi saresti ritornato. Il mio bacio, senza ragionevoli dubbi diretto alle labbra, all'ultimo ti ha centrato in una regione poco canonica della guancia, al confine con l'orecchio. Posso affermare senza inutili capriole retoriche che è stata l'ultima volta che ti ho visto.

Dopo dieci anni, i Paesi stranieri si sovrappongono al nostro, le città si scolorano le une dentro le altre e le facce galleggiano in una nebbia che uno può non avere il desiderio di dissipare, è legittimo. Se qualche giornalista ti chiedesse del tuo primo amore (lo avranno fatto, non c'è ragione per cui non dovrebbero averlo fatto), temo proprio che non penseresti a una tizia con la frangia che ti ingozzava di cibo e accarezzava la tua nuca quasi contropelo, sempre che questo temine sia utilizzabile per gli umani. Sono quasi certa che non ti sarei venuta in mente io nemmeno se te lo avessero chiesto dieci anni fa. Un po' dispiace, perché sarebbe molto romantico e parecchio poco originale essere stata il primo amore di un musicista di successo. Di successo che nega di aver cercato, perché negare fa sempre figo, soprattutto quando si tratta di dire che si schifavano sia i soldi che la fama.

 

Inutile finto hipster senza ambizioni, potrebbe capitare anche a te! Sì, a te!

 

Credo che tu sia l'amante di una modella con le sopracciglia brune e la faccia sempre un po' triste. Tipo la mia dieci anni fa, se avessi avuto due visagiste e quattro parrucchieri. C'è gente che viene imbellita dalla tristezza, ma la maggioranza di noi diventa solo una versione più aspra di se stessa.

In questi dieci anni, mentre tu imparavi a strappare qualcosa di decente a chitarre sempre più care e ti facevi baciare da una socialite che ti ha lanciato in un mondo al quale da solo non avresti avuto accesso, io ho continuato a non passare gli esami. I miei si sono arresi, io mi sono arresa, e mi sono rifugiata in qualcosa che mi è sempre piaciuto, che mi piaceva anche molto più di te.

I libri.

Li vendo con una certa apprensione, perché staccarsene è appena meno brutto che non pagare le bollette. Mangio quando ho voglia, cioè non proprio spesso, non ho più la frangia e indugio sui balconi per lassi di tempo ragionevoli senza che mi venga il desiderio di scavalcarne le ringhiere di ferro battuto. Non tocco più le medicine, ho la fondata impressione di essere un caso pressapoco risolto.

Mi fosse rimasta almeno una fotografia, qualcuno crederebbe che un giorno lontano ti ho toccato la clavicola e forse anche un frammento minimo dell'anima. 


No, non so usare il tablet nuovo. Ecco perché l'impaginazione fa schifo.
Il motivo per cui fa schifo tutto il resto è che sono molto triste. Complimenti per essere arrivati a leggere queste righe, avete dimostrato un certo stoicismo. Nel caso in cui vi vada di lasciare una recensione, distruggetemi senza remore. Vado a rincantucciarmi e piango nel mio angolino, sono una tamblerggherl cupa e desperada, buonanotte, ciauciau. 

 

 

 

 

  
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