I’m
not a Murderer
09
Attimi
dilatati all’infinito
Tre
ore.
Il
periodo di tempo passato seduto – immobile –
su quella scomoda sedia di plastica del pronto soccorso.
Tre
fottutissime ore e ancora nessuno che si
azzardava ad uscire per dirgli come stesse andando lì dentro.
Damn Fuck!
Torturando quel poco di rimasto di non
stropicciato della maglia, Max volse l'ennesima occhiata astiosa ad
un'infermiera, che aveva avuto la sfortuna di passare in quel momento,
come ad
accusarla di essere stata lei a cercare di mandare all'altro mondo il
suo
migliore amico. E, ovviamente, di tenerlo all'oscuro di quanto stava
accadendo
in sala operatoria.
La
donna non sembrò prendersela, perché in
risposta gli sorrise incoraggiante, socchiudendo gli occhi in
un'espressione tra
l'affranto e lo speranzoso.
Doveva essere abituata.
Max
distolse immediatamente lo sguardo,
sentendosi peggio di prima. Non ebbe nemmeno la forza di spostare il
tocco
caldo che si sentiva sulla spalla.
Dal
momento stesso in cui era sceso
dall'ambulanza – non era sicuro esattamente come, ma era
riuscito a salire con
l'amico e i paramedici – Castor non lo aveva lasciato un
attimo da solo.
Gli
aveva preso la giacca e il cappello non
appena se li era tolti, era entrato nell'ala del pronto soccorso, lo
aveva seguito
come un ombra, rispondendo ti tanto in tanto alle domande dei
paramedici sulla
dinamica dell'incidente, dove Max non era sicuro di ricordare. Lo aveva
costretto a mangiare qualcosa e bere del the zuccherato e gli aveva
tenuto la
mano quando Bach era entrato in sala operatoria.
Poi
quando Max era andato al bagno, aveva
chiamato i suoi compagni di squadra – aveva trovato il
cellulare nella tasca
interna del giaccone – e gli era stato vicino per tutto il
resto del tempo.
Ed
ora, esausto, con gli occhi stranamente
asciutti ma allo stesso tempo gonfi, Max non riusciva a credere a
quanto quel
calore, emanato dall'uomo che si era doppiamente riproposto di odiare,
lo
facesse stare bene.
In
quel momento un medico uscì dalla Sala,
gettando un paio di guanti insanguinati nel cestino accanto e
togliendosi la
mascherina, guardandosi attorno alla ricerca di qualcuno.
Il
suo sguardo si posò su Max.
Il
ragazzo impallidì e, istintivamente, afferrò
la mano libera di Castor, posata mollemente in grembo.
Il
rosso non diede segno di sorpresa e ricambiò
prontamente la stretta.
Le
dita di Max erano gelate.
°°°
Se
doveva essere del tutto sincero, Castor non
sapeva dare un nome a quello strano impulso avuto ore prima, che lo
aveva
spinto a seguire Max e stargli accanto per tutto i tempo.
Non
lo conosceva così bene, nonostante le
premesse, e ancora meno provava attaccamento per l'altro –
Bach. Quello era
stato il primo giorno in cui avevano parlato, eppure, alla vista del
volto
pallido e sconvolto di Max, non aveva potuto fare a meno di pregare che
il
giovane dall'altra parte della porta sopravvivesse per insultarlo
ancora.
E in
quel momento, sulla porta di casa propria,
mentre lottava per sbrogliare la chiave dalla tasca sdrucita, non
poteva fare
altro se non essere consapevole del ragazzo alle proprie spalle.
Max
non aveva voluto saperne di tornare a casa
propria, insistendo per rimanere tutta la notte al capezzale di Bach,
ora in
coma farmacologico. Fortunatamente, anche grazie all'aiuto di una
esausta
infermiera, era riuscito a convincerlo ad andare via con lui.
Aveva una camera per gli ospiti, gli aveva
assicurato nel vederlo sussultare alla proposta. Non lo avrebbe nemmeno
sfiorato.
Gli
lanciò un'occhiata indagatoria e si fece da
parte, per farlo entrare. Casa sua era esattamente come al solito,
pulita,
ordinata e senza troppi soprammobili, ma sperò che a Max non
venisse l'impulso
di passare per il salotto e vedere lo scempio che era, dopo essere
stato usato
come rifugio per l'ultima settimana: libri per terra, cuscini lanciati
in tutte
le direzioni, abiti spiegazzati sulle lampade e cibo dimenticato nei
cartoni.
Unica prova tangibile del malessere che lo aveva
colto.
E
che sul momento sembrava essersi attenuato.
Evidentemente, averlo vicino portava solo
benefici e all'unica risposta che era riuscito a trovare, in
spiegazione a
tutto.
Cosa
vuoi da Max?,
gli aveva chiesto Bach – davvero erano state
soltanto poche ore prima?
Cosa
hai da offrirgli?
Con
il senno di poi, avrebbe tanto voluto
rispondere sinceramente, infischiandosene dei soliti freni inibitori
che gli
impedivano di dire quello
chiaramente. Era sempre stato un mago nello svicolare.
In
ogni caso, Max si fece guidare fino in cucina.
«Vuoi qualcosa da bere?»
Il
ragazzo scosse la testa, guardandosi attorno
spaesato, e Castor lo guardò a lungo prima di aprire
l’anta del frigorifero e
afferrare una bottiglia a casaccio. Non riusciva ad allontanare lo
sguardo
dall’espressione affranta di Max.
Non
riusciva a capire se a farlo stare peggio
fosse il fatto che la persona, a cui aveva appena scoperto di tenere
più di
chiunque altro, stesse tanto male da sorvolare su quanto lo stesso
Castor gli
aveva fatto e gli si fosse affidato, oppure che Max stesse in quelle
condizioni
per un altro uomo.
Nel
chiudere il frigorifero e prendere due
bicchieri, si accorse di aver tirato fuori del succo di frutta.
Rassegnandosi
ad abbandonare le recenti abitudini alcoliste, gli mise davanti il
tutto.
«Bevi» lo esortò pacato, evitando di
guardarlo «è
meglio».
Max
lo guardò storto – in fondo, pensò
Castor,
gli aveva espressamente detto di non voler niente – ma non
fece commenti e
prese un sorso, tossendo per quanto la bevanda fosse fredda.
«Attenzione» mormorò il rosso, con
qualche attimo
di ritardo, allungandogli un tovagliolo.
Max
non lo notò nemmeno passandosi il palmo della
mano sulla bocca, fino alla guancia, sfregando con forza.
«Non sarebbe dovuto succedere» mormorò a
voce
tanto bassa da risultare quasi inudibile «mai».
«I medici hanno detto che non è nulla di troppo
grave» tentò di consolarlo «non
è in pericolo di vita».
«I medici, certo…»
«Andrà tutto bene, Maximillian»
affermò
nuovamente, convinto, abbozzando un pallido sorriso «sono
certo che Bach non
finirà certo fuori gioco per così poco!»
Il
moro gli rivolse un’occhiata scettica, le
iridi appannate da stanchezza e preoccupazione.
«Lo conosco da poco» proseguì Castor,
incoraggiato dall’attenzione che l’altro gli stava
mostrando «ma sembra un tipo
determinato. Stai tranquillo e vedrai che domani ci saranno sicuramente
buone
notizie».
Gli
angoli delle labbra di Max fremettero
lievemente, non promettendo nulla di buono, ma nessuna lacrima o
risposta
penetrò da dietro le iridi azzurre mentre si abbassavano sul
tavolo.
«Ho sonno» disse solamente, alzandosi senza
guardarlo negli occhi «scusami».
«Certo!» Castor si alzò a propria volta,
togliendogli il bicchiere dalle mani e facendogli segno di non
preoccuparsi,
che ci avrebbe pensato lui, sentendosi incredibilmente logorroico
«La camera
degli ospiti è la seconda porta a destra.
Nell’armadio ci sono dei vestiti e
sono sicuro che sotto qualche pila troverai una tuta che possa andarti
bene.
Chiamami se hai bisogno di qualcosa, la mia stanza
è…»
S’interruppe nel vederlo trasalire e si morse un
labbro, rimproverandosi per essersi lasciato sfuggire così
poca delicatezza.
Era
dannatamente difficile, for Christ sake.
«Grazie».
E,
mentre Max lasciava la stanza, tutto quello
che fu in grado di fare fu osservarlo e lasciare scorrere il tempo.
°°°
A
svegliarlo non fu il cigolio della porta, e
nemmeno lo scrosciare insistente della pioggia sulle tapparelle. A
destarlo dal
sonno leggero in cui era caduto fu la netta sensazione di non essere
più solo
nella stanza.
Allungando cautamente una mano alla ricerca
dell'interruttore della lampada da tavolo, si voltò
istintivamente verso la
porta.
In
piedi, seminascosto nella penombra creata
dagli infissi, Max guardava verso di lui, i capelli completamente
arruffati, la
maglia di traverso e un cuscino stropicciato tra le braccia.
Gli
occhi rossi e spalancati.
L'immagine era un tale concentrato di dolcezza e
disperazione che Castor dovette abbassare le palpebre per calmarsi.
«Non riesci a dormire?» chiese il più
tranquillamente possibile, tirandosi sui gomiti per guardarlo meglio.
Max
non rispose, continuando a malmenare il cuscino.
Sembrava un bambino che, dopo un incubo, chiede di
poter dormire con mamma e papà.
E
Castor – si rese conto, in quel momento più che
in tutto il resto della giornata – sarebbe voluto essere
tutto quello per lui:
un genitore, un amico e una spalla su cui piangere. Sarebbe stato
esattamente
quello di cui Max avrebbe avuto bisogno.
Questa seconda realizzazione lo costrinse,
nuovamente, a chiudere gli occhi con forza.
Come
era possibile, si chiese, provare qualcosa
di tanto devastante per una persona appena conosciuta?
«Vieni qui» disse solamente, scostando il
lenzuolo e spostandosi di lato per lasciargli spazio.
Max
esitò meno di quanto avesse pensato – forse
troppo stanco per riflettere su chi e cosa gli stesse offrendo
conforto, oppure
semplicemente perché era certo che niente e nessuno potesse
farlo sentire
peggio di quanto già non stesse – e
strascicò i piedi, che Castor di accorse
essere nudi, fino al letto, raggomitolandosi istintivamente nello
spazio che
gli stava lasciando.
Con
un gesto più paterno che altro, Castor infilò
una mano sotto il piumone e gli afferrò le caviglie,
mettendosi i piedi gelidi
tra le cosce – cercando di non rabbrividire al contatto
– e gli infilò l’altra
mano nei capelli, arruffandoglieli gentilmente.
Max
lo lasciò fare senza un suono, pur rimanendo
più rigido del normale.
Castor sospirò, a disagio.
«Sei molto… affezionato a Bach» si
forzò a
lasciar uscire le parole nel modo più naturale possibile.
«Bach è stato il primo amico qui» forse
quella
era la prima frase completa che lo sentiva pronunciare da ore
«il mio compagno
di squadra e il mio confidente. Certo che ci tengo
lui…»
Il
silenzio, dopo quell’affermazione, si
protrasse più di quanto Castor sentisse di poter sopportare,
mentre il fruscio
agitato delle lenzuola faceva da unico spettatore al disagio sempre
più
crescente che quelle parole gli avevano aperto nel cuore.
Lui,
che nemmeno pensava di averlo, si era
ritrovato il petto sanguinante.
Max
era veramente una persona piena di sorprese.
Anche troppe.
Anche in quel momento, mentre sentiva il proprio
petto solo sfiorare la sua schiena, si sentiva meglio di quanto non gli
fosse
mai successo. E nello stesso tempo peggio che mai.
«Lo ami?» gli chiese di bruciapelo, stringendo a
pugno la mano nascosta sotto il cuscino. Non sapeva se voleva sentire
quella
risposta ad alta voce. Ma non poteva nemmeno far finta di nulla.
Era
palese, per lui.
Avrebbe dovuto accorgersene prima, molto prima.
Quando in piscina Bach gli aveva passato l’asciugamano, alla
fine della
competizione, e Max si era piegato per poterlo guardare negli occhi e
rispondere a chissà quale domanda. Quando,
nell’atelier, erano uno affianco
all’altro.
C’erano stati, in ogni occasione, momenti in cui
Max si rivolgeva a Bach prima di fare qualunque cosa. Prima di comprare
i
vestiti che lui aveva scelto, prima di allontanarsi con lui nel locale,
prima
di scappare per strada.
Lo
vide abbassare lo sguardo e irrigidirsi.
Sentendosi per la prima volta, completamente
gelare, cercò di non lasciar trasparire nulla mentre
aspettava che il ragazzo
finisse di realizzare il tutto.
Con
uno scatto repentino, Max si alzò a sedere,
facendo scivolare le coperte indietro, guardando finalmente Castor
negli occhi.
L’azzurro terso del secondo si scontrò con quello
sgranato e lucido del primo, in un cenno di comprensione che non si
sarebbe mai
aspettato.
Possibile che lui…? Che in tutto quel tempo non
se ne fosse mai accorto?
Una
lacrima, lenta, bollente e solitaria, scese
piano, prima sullo zigomo, restando poi impigliata nella piega delle
labbra.
Castor non riuscì a sopportare oltre
quell’immagine e afferrò il braccio di Max,
tirandoselo con forza addosso e
lasciando che gli affondasse il viso nell’incavo del collo.
«Oddio…» sembrava stesse tremando, Max,
mentre
chiudeva i pugni nella maglia del rosso.
In
tutta risposta Castor alzò una spalla, per
farlo cadere più comodamente tra le sue braccia, mormorando
qualcosa di inintelligibile,
chiudendosi su di lui.
«Tu stai facendo tutto questo per me… e io sono
solo capace di darti del bastardo» un singulto più
forte dei precedenti soffocò
il resto della frase «mi faccio schifo».
Nonostante il dolore e il disagio, Castor sentiva
di non dover appartenere più a nessun altro luogo, che non
si sarebbe dovuto
trovare da nessun’altra parte, in quel momento.
Quello era il suo posto, e lì sarebbe rimasto, ad
abbracciare la persona che sentiva di amare e che stava piangendo per
la
salvezza di un altro.
«Mi dispiace» aggiunse Max, come se ce ne fosse
davvero bisogno.
«Ssh» gli passò una mano sui capelli,
cullandolo «va
tutto bene…»
«Scusami» lo sentì mormorare ancora, tra
i
singhiozzi «scusami davvero. Per tutto quello che ti ho
detto. Mi dispiace.
Scusa…»
Inspirando a pieni polmoni quell'odore
particolare, che tanto lo aveva ossessionato, Castor lo strinse con
maggiore
forza, raccogliendo ogni singola lacrima che si sentiva scorrere sulla
pelle,
sentendosi di meritare ogni singola ferita che quelle stille gli
stavano
scavando dentro.
«Non sei tu a doverti scusare…»
…
Sì,
infatti… a
scusarsi dovrei essere io immagino…
Per il
ritardo e…
la novità da infarto. Immagino XD
Cmq tesori
miei,
ho una bella notizia e un brutta notizia. Quale volete sentire per
prima?
…
…
…
Va bene, mi
sottometto alla maggioranza:
Brutta
notizia!!!
La mia fida
Beta
è sotto esame e non può seguirmi per questo
periodo (I nostri cuori saranno con
lei in questo momento difficile), quindi mi toccherà
controllare da sola di non
aver fatto errori ahaha.
Perciò
perdonatemi eventuali imprecisioni (siete liberissimi di farmele notare
sapete?)
Quindi
veniamo
alla Bella notizia.
Manca poco
alla
fine (e questa sarebbe una bella notizia!??!?), all'incirca cinque o
sei
capitoli.
E quindi,
nel
bene o nel male le cose finiranno.
Per ora.
Infatti ho
appena
iniziato a scrivere una storia che ha Bach come protagonista!!! Lo amo.
Il titolo
è Subdolamente
Adorabile e
sarà prossimamente sui vostri schermi XD
E
aspettatevi che
ve lo ricordi ahah Sono curiosa di
sapere cosa ne pensate.
Alla
prossima
baci
NLH