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Autore: Lechatvert    15/04/2014    2 recensioni
«Fareste bene a rammentarvi che la guerra la si deve vincere su fronti diversi», disse, rimettendo la spada nel fodero. «E che se voi siete disposto a calpestare i vostri principi, io sono disposto a calpestare i miei.»
Se ne andò così, senza aggiungere altro, arrancando tra i ciuffi d’erba alta del cimitero.
Riario lo guardò allontanarsi senza proferire parola, impietrito dinanzi a quelle parole taglienti come lame e a quell’andatura che tanto gli ricordava i passi leggeri di Celia.

Il Papa, il Capitano, il Conte e i Tombaroli.
Genere: Angst, Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Lupo Mercuri, Nuovo personaggio, Papa Sisto IV, Papa Sisto IV
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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polverenera

Per continuare(?)
Ce l'ho fatta! :D Temevo di non riuscire ad aggiornare prima di tornare a casa dai genitori e invece ...

D'accordo, d'accordo, ho benevolmente abbandonato il manuale di storia contemporanea per un pomeriggio e mi sono dedicata esclusivamente alla scrittura per finire le bozze che mi mancavano. And I regret nothing.

Comunque sia, oggi ho le idee un po' più chiare delle volte passate e voglio fare qualche conteggio. La prima parte, quella dedicata ai Vallesanta, sarà composta più o meno di altri 3-4 capitoli (cinque al massimo), dopodiché ci sarà una parte tutta dedicata a Firenze :D In cui, per la felicità delle mie amate fangirl (vi amo, donneh<3), presenzierà un pomposissimo Levi.

Concludo queste note ringraziando la mia multitaskingissima betareader Chemical Lady, che anche con 38 di febbre legge e corregge. Ti amo di beneh<3


Un bacio a tutti,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Femore: parte prima – I Vallesanta
la scommessa
https://www.youtube.com/watch?v=Rm3-bUMPcT4









Il prete, il prete è in crisi.
È combattuto tra amore e Gesù.
Chi vincerà la guerra?

The Lumineers –Big Parade








Roma, ventisei agosto 1475. Sedicesimo compleanno dei fratelli di Vallesanta



«E invece, caro amico, ti dico che quella testa calda me l’ha chiesto davvero.»
Sospirando, Orso si coprì la fronte con la mano, schermando così i raggi del sole che gli offuscavano la vista.
Quella mattina era particolarmente corrucciato, nonostante portasse sulle spalle la consapevolezza di essere un anno più vecchio, un anno più vicino alla morte.
Guardò il suo amico, tutto preso a raccontargli dell’ultima missiva ricevuta da Firenze, saltellare sui gradoni del Pantheon quasi il foglio che stringeva tra le mani fosse la più bollente delle braci.
«Quindi ti unirai a Leonardo da Vinci?», azzardò, assai perplesso da tutta quell’agitazione.
L’uomo alzò le spalle.
«Per rimetterci la vita in uno dei suoi esperimenti da pazzo?», ironizzò. «Vallesanta, sarò anche coraggioso, sì, ma non fino a questo punto!»
Orso ridacchiò, estraendo dalla borsa una pagnotta comprata con gli ultimi denari che il nonno gli aveva lasciato.
«Zoroastro il codardo», commentò, spezzandone una parte e portarla alla bocca.
Zoroastro si chinò su di lui per pizzicargli una guancia con fare scherzoso.
«Vorrai dire: Zoroastro il saggio!»
Risero assieme, accomodati lungo i gradoni di Piazza della Rotonda.
Era una bella giornata d’agosto, tutto sommato neanche troppo calda, e Orso compiva sedici anni. In più, avevano una pagnotta con cui festeggiare e riempirsi lo stomaco, avvenimento non così comune viste le condizioni di estrema povertà in cui il ghetto si trovava.
Molto probabilmente, metà della gente che abitava in quelle casupole li avrebbe volentieri uccisi per assicurarsi anche un morso di quel ben di Dio.
Pensava a questo, Orso, quando spezzò la pagnotta in due si alzò per consegnarla a un vecchio vestito di stracci che gridava la misericordia divina sotto le colonne.
Ignorò volutamente l’occhiata sconvolta che Zoroastro gli lanciò quando tornò al suo posto, consegnandoli il resto del cibo e prendendo a lanciare sassolini nella piazza, improvvisamente sovrappensiero.
«Sto cercando una persona», confessò, guardando vergognosamente il terreno sotto ai suoi piedi.
Sentì Zoroastro schioccare la lingua contro il palato.
«Una delle tue giovani conquiste?», ironizzò il suo amico, prendendogli la spalla per scuoterlo da quel vuoto in cui era caduto.
Sospirando pesantemente, Orso scosse il capo.
«Ma no», rispose. «Mia sorella. È scappata anni fa dal convento in cui l’avevano rinchiusa e da allora non se ne sa più nulla. Mi stavo solo chiedendo dove stesse festeggiando il compleanno.»
Zoroastro fece spallucce.
«In un bordello, se è stata fortunata», commentò.
Orso aggrottò la fronte.
«Non credo», rispose. «Da bambina mordeva.»
«A molti uomini piace essere morsi.»
Silenzio.
Con le braccia incrociate sul petto, Orso si fece improvvisamente pensieroso. Era plausibile, l’idea di sua sorella in un bordello di Roma? Dopotutto, di lei non ricordava che il viso colmo di lacrime nel momento in cui si erano detti addio. Di lei, il fato poteva aver fatto qualunque cosa.
«Dici che dovrei cercare nei bordelli?», chiese, allora, guardando Zoroastro come se fosse la prima volta che sentiva nominare quel genere di luogo.
Il suo amico alzò le spalle, ovvio.
«Non l’hai già fatto?», si informò.
Orso scosse il capo.
«A dire il vero no.»
«Allora l’hai cercata nei conventi?»
«No.»
«Negli ospedali? A volte gli orfani vengono presi per lavare gli appestati.»
«Nemmeno.»
«Nei cimiteri?»
«Non ci avevo pensato.»
«Hai almeno chiesto ai becchini delle fosse comuni?»
«No, direi di no.»
Zoroastro schioccò la lingua contro il palato, alzando le braccia verso il cielo con un’espressione rassegnata.
«Buon Dio, ma dove l’hai cercata?», sbottò.
Orso strabuzzò gli occhi, offeso.
«In giro!», esclamò. «Per strada, così, al mercato … poi sono tornato qui, in caso qualcuno l’avesse indirizzata al Pantheon, e sono rimasto ad aspettarla per tre giorni. E poi sei arrivato tu.»
Ora che l’aveva detto ad alta voce, il suo piano di accorata ricerca sembrava molto meno ben studiato di quanto lo fosse nella sua testa.
In fondo, chi gli assicurava che Porpora fosse a Roma?
Anche se, a dirla tutta, non c’erano poi molti altri posti dove andare a cercarla. Di certo non si era messa in cammino per andare a esplorare la penisola. Forse.
«Zoroastro, credi che la troverò?», mugugnò, affondando le dita nei capelli castano chiaro.
Affranto, si accarezzò le orecchie, seguendo con accuratezza il contorno del loro destro, tagliato durante una lite in osteria e ingegnosamente coperto da un cordoncino di piume colorate che lui stesso si era preso la briga di tingere in verde e rosso.
Il suo amico ridacchiò, prendendogli una spalla per scrollarla con vitalità.
«Se tu la troverai stando qui al Pantheon a poltrire, io me ne andrò a far da assistente a quel matto di da Vinci!», esclamò, sornione, caricandosi in spalla il sacco che si portava appresso. Mosse qualche passo verso la piazza, dopodiché si voltò a salutare Orso. «Ci vediamo, mio buon amico!»
Orso sospirò.
«Non sei divertente», borbottò, guardandolo andare via.
Stava perdendo ogni speranza e, man mano che osservava la folla passare accanto all’enorme costruzione senza degnarla però di uno sguardo, la fiducia che qualche giorno prima aveva riposto nella sua buona stella andava via via affievolendosi, lasciando sempre più spazio alla consapevolezza che non c’era alcuna possibilità di ritrovare una ragazza nell’immensità della Città Eterna, non senza uno straccio di indizio.
Forse, era stato tutto un vagheggiamento dall’inizio, quando aveva creduto di potersi salvare la pelle.
Che sciocco, era stato! Sarebbe dovuto scappare quel giorno stesso, quando ne aveva la possibilità!
«Orso?»
La voce scocciata di una ragazza lo colse alla sprovvista, costringendolo ad alzare il capo verso la piazza.
Davanti a lui, una giovane dagli occhi color della sabbia lo fissava con le braccia conserte sul petto, le labbra storte in una smorfia perplessa, il mento affondato nei lembi morbidi di una camicia sporca di fango.
Orso balzò in piedi.
«Porpora», mormorò.
Lei roteò gli occhi.
«Grazie a Dio ti ho trovato», commentò. «Sei il terzo vagabondo che fermo, oggi, e pensavo di dover cercare ancora per –»
Non arrivò a finire la frase.
Orso le balzò al collo, abbracciandola così stretta che quasi la sentì spezzarsi sotto le sue braccia.
«Un vecchio mi ha detto che mi cercavi», disse lei, una volta libera da quelle effusioni. Frugò nella tasca e mostrò un uccellino imbalsamato avvolto in un fazzoletto di raso.
Orso sgranò gli occhi.
«Quello lo avevo venduto due mesi fa!», esclamò, sbigottito. «Dove l’hai trovato?» Fece una pausa, cercando di rimettere ordine nella sua mente. C’erano faccende più urgenti, di un pettirosso. «Il nonno è morto», confessò, muovendo appena le labbra.
Porpora corrugò la fronte.
«Era ora che il Signore se lo prendesse», rispose, tirando su col naso. «Tanto meglio. Un aguzzino in meno da cui guardarmi le spalle.»
Orso annuì distrattamente.
«Che hai fatto per tutto questo tempo?», chiese.
Porpora lo fulminò con lo sguardo.
«Ho dormito sotto un portico con un coltello tra le mani per evitare che mi tagliassero la gola», rispose, guardando il fratello dritto negli occhi. «E tu?»
Lui sorrise appena, deglutendo.
«Andato a messa, lavorato nei campi, seppellito il nonno … niente di che.» Dondolò il capo, accarezzandosi le piume che portava legate attorno al capo. Come parlare di ciò che gli era successo qualche giorno prima? «Uno dei tirapiedi di Sisto è venuto a trovarmi al Pantheon, due giorni fa.» Buttò lì, abbassando il tono. «Era alla ricerca di uno scheletro, quelli che papà nascondeva nella cripta.  Non sembrava molto intenzionato a lasciar perdere, quando gli ho spiegato che non esiste più nessun modo di scendere laggiù, non senza le chiavi, ma non si è dimostrato troppo incline al dialogo.» Fece una pausa per riprendere fiato. Le sue dita scivolavano così velocemente sulle piume colorate che per poco non se le strappò via dalla testa. «Ora che il nonno è morto sei rimasta solo tu.»
Porpora si portò la mano destra al petto.
Orso sospirò.
«Hai ancora la croce d’osso della mamma?»
Lei annuì lentamente.
«È l’unica cosa che mi è rimasta di casa.»
Orso sorrise.
Una croce per pregare negli inverni più freddi, nelle giornate più piovose, che terminava negli intagli di una piccola chiave della giusta misura per aprire la botola nascosta sotto i tavoli del ghetto di Roma.
Suo padre ne aveva costruite tre, all’epoca.
Una per lui, una per il nonno, e una per sua moglie.
Dopo sette anni, evidentemente, quella che Porpora aveva al collo doveva essere l’ultima rimasta.
«Non c’è altro modo?», chiese sottovoce la ragazza. «Non puoi scassinare la serratura?»
Lui strinse le spalle.
«È fatta in modo che tutto crolli nei canali sotto al ghetto, nel caso si sfondi la botola», rispose, pacato. «Non ti sto chiedendo di venirci con me, Porpora. Solo di cedermi la chiave.» Fece una pausa, mettendo le mani sotto la giacca. «Posso pagartela, se vuoi. Non ho molti soldi, ma non ci sono scudi che valgano la mia vita. Per favore.»
Porpora sospirò, abbassando nuovamente il capo sulla sua croce.
«Quanti soldi hai?», chiese, scrollando il capo e strizzando gli occhi per impedire a un paio di lacrime di stizza di rigarle le guance.
Orso ci pensò un istante.
«Dodici», rispose, serio. «Dodici scudi per la tua croce.»
Porpora non perse neanche un secondo.
«D’accordo, affare fatto», disse, tutto d’un fiato.
Orso le porse allora il taccuino, ma lei scosse il capo, prendendogli il polso per impedirgli di consegnarle le monete.
«Tienili tu, me li darai dopo il lavoro», borbottò, incamminandosi verso le porte della città. «Finito con quella botola non voglio più rivederla.»
Fece qualche passo senza aspettare il fratello, ma la voce di Orso parve bloccarla.
«Quindi vieni anche tu? », le chiese lui, senza nascondere un tono di sorpreso sollievo.
Porpora alzò le spalle.
«Bé, ormai sono a Roma. E poi, non ho un posto dove andare a dormire», disse, voltandosi verso il fratello. «Andiamo?»
Lui le sorrise, sistemandosi la borsa a tracolla e affrettandosi a raggiungerla.
Orso e Porpora di Vallesanta compivano sedici anni proprio quel giorno e, dopo quattro anni passati in solitudine, erano finalmente tornati assieme.









   
 
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