Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: SAranel    17/04/2014    4 recensioni
«Da molto tempo il mio assioma è che le piccole cose sono di gran lunga le più importanti.»
-Le avventure di Sherlock Holmes, Un caso di identità.
§
"Toccami" John mi esorta, seduto sulla sua poltrona di pelle scura.
Non ha mosso un muscolo a parte le labbra sottili, solcate da segni profondi, schiusesi soltanto il necessario per permettere a quell'imperativo, mascherato da gentile imposizione, di trovar voce per essere udito, recepito, compreso senza trascinarsi dietro nemmeno l'ombra di un possibile dubbio.
"No" io rispondo, senza neanche pensarci, conscio che per un tale ordine non esista nemmeno la possibilità di una diversa risposta.
John non chiede perché. Rimane lì dov'è, immerso della scomoda comodità di una poltrona divenuta confortevole soltanto dopo essere diventata, per colpa (o merito) dell’ abitudine, di sua proprietà.
Tutto sembra migliore, quando ne si diventa gli assoluti proprietari.[...]"
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Buonasera meraviglioso fandom del mio cuore!
Stavolta ci ho messo di meno, visto? Che soddisfazione!
Ringrazio con tutto il cuore il blocco note del cellulare, senza il quale, vista la frequenza scarsissima con cui ultimamente ho potuto utilizzare il pc, questa storia non avrebbe mai visto la luce.
Se ne sia valsa la pena o meno, sta a voi giudicarlo!


S.

 

 

A Cristina,
creatrice di mondi, scrittrice di storie.

 

 

Per Aspera ad Astra*
*


"Toccami" John mi esorta, seduto sulla sua poltrona di pelle scura.

Non ha mosso un muscolo a parte le labbra sottili, solcate da segni profondi, schiusesi soltanto il necessario per permettere a quell'imperativo, mascherato da gentile imposizione, di trovar voce per essere udito, recepito, compreso senza trascinarsi dietro nemmeno l'ombra di un possibile dubbio.
"No" io rispondo, senza neanche pensarci, conscio che per un tale ordine non esista nemmeno la possibilità di una diversa risposta.
John non chiede perché. Rimane lì dov'è, immerso della scomoda comodità di una poltrona divenuta confortevole soltanto dopo essere diventata, per colpa (o merito) dell’ abitudine, di sua proprietà.
Tutto sembra migliore, quando ne si diventa gli assoluti proprietari.
Si solleva appena un po', accompagnato dallo scricchiolio sommesso delle molle sotto il cuscino.
Non mi mostro affatto attratto da quel rumore. Faccio pressione su me stesso per non guardarlo, per non dargli neppure la remota soddisfazione di intuire che m'importi di carpire la delusione dal suo volto, scelgliendo di fissare lo sguardo sul fuoco che sfrigola nel camino e consuma i tizzoni, consapevole di sembrare assorto nella contemplazione di qualcosa, nascosto nelle schegge che lentamente mutano in cenere, invisibile a chiunque altro. So che si sta chiedendo cosa io stia guardando, o se mai tornerò a parlargli, o se non volgerò nemmeno gli occhi nella sua direzione, quando andrà via, dimentico di lui e della sua presenza. Le mie dita danzano, non realmente controllate dalla mia volontà, sulla mia coscia, tirando il tessuto dei pantaloni scuri, tormentandolo senza averne coscienza.
Una volante della polizia, o forse un'ambulanza, sfreccia in Baker Street a sirene spiegate. Torno bruscamente alla realtà ma non mi mostro interessato, frenando un'impazienza frutto di un'abitudine passata. Non mi sollevo trafelato dalla poltrona, né sorrido a John complice, così com'era un tempo, immutabile preludio a un'avventura. La mano si blocca, e mette fine alla danza. Anche nella stanza qualcosa sembra fermarsi, quasi quella carezza di pelle sulla stoffa fosse stata accompagnata fino a questo momento dalla musica di uno strumento inesistente.
Credo che John abbia comunque compreso, leggendolo nella mia inerzia, di essere, nonostante tutto, più importante di qualunque altra cosa, in questo momento.
È più forte di me.
È il momento di fare un altro passo. Lo capisco dal modo in cui tossisce, sistemandosi meglio, forte di un potere che non avrei dovuto concedergli. Prende fiato. Nel silenzio che segue, posso quasi udire il rumore della paura che prende piano possesso del suo corpo, quasi fosse liquida, simile a un'acquazzone che ti coglie all'improvviso, costringendoti a correre per sfuggirgli. Ed è questo, che John fa. Corre, senza pensare alla possibilità di inciampare, sul terreno fradicio.
"Baciami" John prova ancora.
S'illude che una fasulla sicurezza possa sortire l’effetto desiderato, osando, come è conscio a me piaccia, mettendosi in gioco, chiedendo ancor più di quanto gli è stato negato.

Io sorrido, incapace di fare altro, chiedendomi quando sia diventato così scaltro, così insolente, così incapace di comprendere qualcosa di chiaro, lampante, rimasto tanto a lungo davanti ai suoi occhi, sotto le sue mani, dentro la sua pelle.
Non sento mio il ghigno che mi deforma il volto in una smorfia grottesca, sconosciuta.
Non vederebbe Sherlock, su questa faccia. Neanche un'ombra, nemmeno una traccia. Se avesse il coraggio di guardarmi, tornerebbe immediatamente a fissare le proprie mani, incapace di alzar nuovamente gli occhi su un viso che non conosce e che lo spaventa.

"No" rispondo ancora. "Non lo farò."
Un respiro si mozza, e non è il mio. Mi sento soffocare al suo posto e prendo fiato per lui, lasciando che l'aria chiusa del salotto penetri nei miei polmoni, bruciandoli, spingendo la mia mente a distogliere l’attenzione dal reale motivo per cui mi trovo a dover fronteggiare una situazione come questa, quello per cui sto deliberatamente rinunciando a ciò che voglio di più al mondo.
Non è quello che si sarebbe aspettato. È deluso, nuovamente. Lo percepisco nell'aria, nel suo silenzio, nell'incertezza tra perseverare e rinunciare.

So che non è ancora al limite, nonostante stia contemplando l'idea di andare, di lasciarsi alle spalle le parole aride di uomo ostinato, il bocciolo mai fiorito di un amore sbagliato. È combattuto su quanto ancora potrà osare, John Watson, soldato coraggioso, disarmato e sconfitto dal più inerme tra gli uomini.
Rumore di unghie sulla pelle consunta della poltrona. È un grattare sordo, che posso carpire in ogni singola sfumatura, immaginando ogni sottile filo di stoffa spezzarsi sotto quel tocco inclemente, lasciando indelebile traccia del passaggio di una mano rozza, mossa dalla rabbia, dalla voglia di sferrare un pugno sedata un attimo prima che l'inevitabile accadesse.
"Bene" John dice, anche se non va bene, men che meno per lui. "È okay."
È sempre stato così. Me lo urlò in faccia il primo giorno, continua a gridarlo adesso, anche se in faccia ci guardiamo a malapena. È tutto okay anche quando non lo è, quando non lo è mai stato, per quanto so, per quanto dice, per quanto poco sorride, ormai.
Demorde. Forse no.
Non so cosa aspettarmi. La lingua scorre sulle sue labbra. È indeciso. I piedi si muovono, sta per alzarsi o forse per mettersi più comodo, rigido sul cuscino, dolorante ma impassibile, incapace di rompere l'incanto, di rinunciare una volta per tutte.

Sento le sue parole schiaffeggiarmi, ma la mano è ritratta un secondo dopo, senza lasciarmi la possibilità di assaporare l'idea delle sue dita sul mio viso, sulla pelle arrossata, abrasa, cosparsa di barba leggera, segno di sfrontata svogliatezza.
Le parole che seguono quella carezza violenta, sono le peggiori, le più belle, le più disgustose, per la semplice, pura derisione che si cela dietro ognuna.
"Fai l'amore con me" mi chiede, e la sua voce tentenna meno che mai, come non fosse la prima volta, come se la sua bocca l'avesse pronunciato tante di quelle volte da averci fatto l'abitudine. Il sapore di una simile richiesta è all'apparenza così consueto al suo palato da non serbare alcuna amarezza, alcuna incertezza.
Non so cosa sia, il sesso. Non so e non ho mai voluto sapere, prima di John, quali piaceri serbasse il frenetico, irrazionale, contorcersi di corpi, membra e labbra, e men che meno conosco l'amore e la dolcezza che accompagnano quell'intima connessione, segno di fiducia profonda o riprovevole irresponsabilità.
Un tizzone colpisce il tappeto, e sento qualcosa bruciare nel mio petto alla stregua di quel truciolo di legno e cenere. Penso a quel desiderio a lungo celato, nascosto lì dove sono solito rinchiudere vergogna e rimpianto, che John ha, con pochissime parole, riportato a immeritata libertà.
Chiudere gli occhi, stavolta, ha il solo effetto di scalfire un altro mattone di quella barriera creduta impenetrabile tra me e il pensiero di lui, di noi, intenti in un atto a lungo deplorato. Chiudere gli occhi, riporta inevitabilmente all'immagine di un me stesso scoperto, senza difese, vulnerabile e conscio d'esserlo, felice di mostrare a qualcuno qualcosa sempre stato mio soltanto. Felice di poter permettere a lui, lui su ogni altro, di conoscere il mio corpo, d'impararne a memoria ogni minuscola lentiggine, segno, cicatrice.
Non lo incoraggio, stavolta. Non mostro alcun'emozione, nemmeno la più bassa, eloquente, espressione di scherno. Non rispondo, sperando che interpreti il mio silenzio come una tacita esortazione a smettere di lottare.
A smettere di credere.
Non mi chiede niente, comunque. Aspetta, forte di quella pazienza che non riesco più a sopportare.
Non ho alcun diritto su di lui, nonostante mi azzardi a chiamarlo 'mio', come quel primo giorno, come ogni singolo minuto da quando lo conosco.
È sempre stato mio, qualunque cosa facesse, qualunque ruolo ricoprisse, al mio fianco.
Il mio John. Il mio dottore, il mio assistente, il mio amico, la mia coscienza.
Nonostante non lo sia davvero, non riesco ancora a tollerare il pensiero di altre mani su quel che adesso, generoso quanto ingenuo, mi sta offrendo. Mani sottili. Mani di qualcuno che non esiste più ma la cui presenza ancora mi disgusta.
Le parole graffiano la gola, aggrappandosi alle pareti come implorandomi di dar loro voce. Una sensazione spiacevole, come di acqua ghiacciata che scorre nelle vene, mi coglie impreparato. Gemo.
"Sai, ho sempre creduto che lo avremmo fatto davvero, prima o poi" mi costringo a dire, anche se è il mio segreto, anche se mai avrei contemplato, prima, la possibilità di confessare, "che di ritorno da un caso, dal lavoro, da qualunque cosa stessimo facendo prima, tu ti saresti semplicemente avvicinato, pretendendo da me qualcosa che ti avrei dato."
Lui è sconvolto. Lo capisco dal respiro irregolare. Spero in cuor mio che non stia credendo in qualcosa che probabilmente non accadrà.
Mi piace pensare, con un pizzico di insano orgoglio, che stia pensando all'occasione persa. Alle scelte sbagliate, di certo più numerose, troppo, di quelle compiute con giudizio.
"Prima, sai. Prima, quando eravamo solo io e te" Sto sussurrando, me ne accorgo solo adesso. "Quando la gente indicandoci per strada parlava di due metà perfette. Non di una metà che cercava disperatamente di congiungersi con quella di qualcun altro."
La sensazione di malcelata onnipotenza non mi abbandona. Voglio che sia la colpa, a tenerlo sveglio stanotte. Non il mio corpo, come vorrebbe. Non le sue mani su di me.
Non adesso.

Ha osato, John, sperando e sbagliando.
Continua ad accumularne, giorno dopo giorno, di sbagli.
"È questo, che sono?" John, inaspettatamente, risponde. "Un giocattolo che non vuoi più, dopo che qualcun altro ha osato giocarci?"
Oh, il mio John. Investito di barlumi d'ingegno, nei momenti più inaspettati.
"Hai deciso tu a chi appartenere" dico, e non c'è pentimento nella mia voce, "io ti avrei ripreso. Rotto, danneggiato, distrutto. Tu hai deciso di restare con chi ha fatto di te un ammasso di rottami."
Una risata segue, ed è l'ennesima sorpresa in una serata che ne sembra stranamente colma.
"Cazzo" dice, con voce cenciosa, quasi non riuscisse a scandir bene le parole, "come se io ci fossi nato, rotto."
So a cosa si riferisce. Serbo, di quel giorno, il ricordo di ogni istante.
"Io ti ho spezzato" è tutto quel che posso concedergli, "il colpo di grazia lo hai inferto con le tue stesse mani."
Nessuna risata sprezzante, nessun improvviso grattare di unghie sul divano o tendersi di nocche. Sembra quasi stia meditando, nel suo cuore, nella sua testa, ovunque egli nasconda quel briciolo di coscienza che gli è rimasta, sulle mie accuse.
Forse non dovrei dire ciò che sto per dire. Forse dovrei solo rimanere zitto e trattenermi, ma non graffiano più, le parole, nella gola. La dilaniano. Fanno un rumore di ossa spezzate, se le si ascolta con attenzione. Il rumore è secco, tristemente familiare.
"Quanto hai lasciato passare, John?"  chiedo, nonostante io sappia, nonostante possa contare ogni giorno, ogni singola ora, ogni secondo. "Quanto tempo è passato, prima che fosse una foto al telegiornale a ricordarti di che colore fossero i miei occhi?"
Il gemito che segue la mia domanda sembra colmo di rammarico, o forse dolore, magari soltanto rabbia. Oppure, tutte e tre le cose insieme.
Non mi dispiacerebbe se mi colpisse. Gli darei occasione di toccarmi, almeno, mostrando una misericordiosa pietà.
"Non hai mai pensato, Sherlock" John sussurra, la voce gonfia di qualcosa che trascende la rabbia e sfiora il pianto, "che possa essere stata la mia incapacità di dimenticarmi dei tuoi cazzo di occhi, a spingermi a cercare una distrazione?"
Oh, il caro, dolce, sentimentale dottor Watson. L'uomo che raccoglie, che serba in sé, che rende i propri sentimenti impenetrabili per poi potersene avvalere in sua difesa. L'uomo che ha poche pretese, in amore, per timore di non poter soddisfare quelle di chi dice di amare.
La persona che soffre, che chiede indietro e non riprende con sé, quando gliene si offre la possibilità.
"Commovente, John. Sul serio" non posso fare a meno di prendermi gioco del suo tono melodrammatico. "Io ti ho teso una mano. Non l'hai stretta. Ho tentato, in ogni modo, di spingerti a capire cosa realmente volessi. Non hai reagito."
È strana, questa conversazione faccia a faccia in cui nessuno dei due conosce l'espressione sul viso dell'altro. È un gioco di deduzione, di quelli che amo, in cui però ogni indizio non fa che deviarmi, riportandomi al punto di partenza, impedendomi di andare avanti.
"Io non ho più la forza, Sherlock" John ammette, con un sospiro trattenuto che urla sconfitta, resa, mani alzate. "Non ho più la forza di leggere tra righe."
L'esasperazione riempie gli spazi vuoti nella frase. È un punto. Una virgola.
"Avrei dovuto aspettarti, Sherlock?" trascina le parole, insostenibili macigni che gravano sul suo petto. "Adeguare la mia vita alla decisione dell'uomo che amavo di metter fine alla propria?"
Qualcosa scatta. Non c'è realmente un rumore, ma é simile a un sibilo quello che percepisco, della durata di un istante. Il rumore degli ingranaggi di un orologio maneggiati dalle mani sapienti di mio padre. Il sommesso fruscio di seta che scivola sulle corde del mio violino. Il rumore di un respiro mozzato al momento di un bacio.
"Sì" mi ritrovo a dire, senza indugio. "Avrei voluto che tu lo facessi."
Non colgo egoismo nella mia scelta.
Neanche un po'.
È sempre stata l'unica possibile. Il solo sentiero da intraprendere, in un labirinto di strade senza uscita. Non è mai esistita altra possibilità, per noi due, che adeguarci a questa schietta, sincera verità. Arrivata come uno schiaffo in pieno viso, come un fulmine a ciel sereno, senza belle parole a mitigarne gli effetti devastanti.
Per chi uccide il primo giorno, per chi uccide l'ultimo, per chi accetta senza fiatare, per chi sopporta per la felicità dell'altro, non c'è via di uscita.
Anche per chi ama senza dirlo.
Anche per chi, come noi, non ha mai scambiato con l'altro una carezza, un bacio. Una parola d'amore.
Non mi pento di ciò che ho detto.
Credo stia piangendo. Sento gli spasmi leggeri del suo petto scalfire l'aria, coprire il crepitio del fuoco.
"Già" il suo è un leggero bisbiglio, esitante, "è questo, quel che avrei dovuto fare sin dall'inizio."
Si è arreso. In modo diverso da come mi sarei aspettato. Non va via. Non abbandona il mio, nostro, salotto. Non trascina via le sue membra stanche e quel che rimane della sua dignità. Ride, questo fa. Ride, ma non di quella risata colma di amarezza di cui ormai conosco fin troppo bene il suono. È sconosciuta, in qualche modo. Non ne riconosco una sola, singola nota.
"Ammetterlo" dice, ed è un passo nella giusta direzione, "Venire a patti con la realtà che il futuro non sarebbe stato possibile con nessun altro."
Fa uno strano effetto, sentire quell'ultima parola abbandonare le sue labbra. Un brivido freddo, poi caldo, poi tutti e due insieme, rinvigorisce il mio corpo teso, stanco.
Altro. È una bella parola. La mia preferita.
È una dichiarazione d'amore, di profonda tenerezza, di totale abbandono. Più eloquente di un bacio, più di un abbraccio, più di un intimo, profondo, sfiorarsi di corpi nudi. Più del mostrare, l'uno all'altro, i reciproci difetti, molto più numerosi dei pregi, accettando. Amandone il disequilibrio.
"È tardi, allora" parla nuovamente, senza aver bisogno della mia risposta, probabilmente già conscio, in cuor suo, del mio pensiero, della mia visione di questa storia mai nata che ci sta distruggendo.
 "Ho osato provarci. Ho osato andare avanti, quindi è finita. Nessuna possibilità in più per chi infrange le regole."
Forse dovrei dirgli che è vero. Che ogni via è chiusa. Che ogni speranza è bruciata, arsa in una brace di sogni rimasti tali. Per incoscienza. Per codardia.
Eppure.
"Fondamenta, John" mi ritrovo a dirgli, senza nemmeno sapere perché io abbia scelto queste esatte parole. "Le fondamenta, sono sempre state la chiave."
Un ambulanza sfreccia lungo Baker Street, per la seconda volta. Mi vengono in mente immagini su vecchi libri di scuola, volte a esplicare a studenti svogliati il concetto di Effetto Doppler. Non mi alzo nemmeno stavolta. Incomprensibilmente, non vorrei essere in altro luogo che questo.
"Fondamenta" lui ripete, quasi abbia bisogno di imprimerne bene il suono in mente, certo di poterne comprendere il significato solo dopo averlo fatto proprio. "Abbiamo mai avuto fondamenta a sostenerci, io e te?" domanda.
Rispondo, senza esitare. Non ho bisogno di pensarci, stavolta. Le parole giacciono in attesa sulle mie labbra, avide di trovare libertà.
"Mai" dico, e volgo lentamente lo sguardo nella sua direzione, senza però saziare la mia voglia di guardarlo, di strappare violentemente l'immaginario drappo di stoffa che mi impedisce di scorgere il suo volto, di alleviare i morsi di una fame che distrugge, dilania, spezza. È come un quadro, infinitamente bello, infinitamente raro, tenuto celato per mantenerne intatto lo splendore.
"Sono crollate ancor prima di sorgere."
È la fine.
Lo sento nell'aria. Nelle parole in sospeso. Nel modo in cui la poltrona sembra avergli mostrato, improvvisamente, quella scomodità di cui non si è mai accorto prima. È inequivocabile. È in piedi, e muove un passo. Uno, poi due, poi tre, poi altri fino a perdere il conto. Il parquet sconnesso li accoglie, custodendone il suono familiare, caldo.
"Ho capito, Sherlock" sussurra, a voce talmente bassa da risultare impercettibile, "è chiaro."
Andrà via. Entrerà in un pub, affogherà questa serata in una pinta, o forse due, probabilmente troppe. Poi tornerà a casa. Si sdraierà sul letto, penserà a noi, e forse piangerà. Non so dirlo con esattezza. Percorrerà i diciassette gradini fino alla soglia del 221B, e scaccerà via le immagini, le istantanee della nostra vita insieme, per l'ennesima volta. Fuori di qui, cercherà invano di relegarle in quel posto dove finiscono le cose perdute.
Quello dove vanno a finire i mozziconi di matita delle scuole elementari, i libri prestati, i vecchi palloni da calcio finiti nel cortile sbagliato. Dove trovano asilo le lacrime non versate e le occasioni perse. Gli amori appassiti ancor prima di fiorire.
Cianfrusaglie.
Afferra la maniglia, ma non l'abbassa. Sta pensando, troppo forte.
A me. A nessun altro. Io solo, perché non esiste niente, al di fuori di me. Me con lui, me senza di lui.
Verità, ancora una volta. Solo questa.
Onestà.
Mi chiedo, per un attimo soltanto, cosa sarebbe successo, se avessi acconsentito a soddisfare il suo desiderio, questa notte.
Se lo avessi toccato, quando me lo aveva chiesto.
Se lo avessi baciato.
Se avessi assecondato, senza indugio, il bisogno fisico del mio corpo di abbandonarsi al calore del suo.
Non è bello pensarci. Sembra quasi che un pugno mi stia torcendo le viscere in una morsa di ferro.
Mi accorgo che John non ha ancora varcato la soglia d'ingresso. Credo sia fermo, la mano ancora tesa sulla maniglia d'ottone. Forse aspetta un congedo che non gli concederò mai. Un arrivederci non lo ingannerebbe. Non al momento di un addio.
Le note di una canzone, urlate a tutto volume dalle casse di un'auto di passaggio, riempiono il silenzio nella stanza.
Non riesco a distinguere una parola.
Sembra quasi che il mondo voglia intromettersi tra noi con la forza, senza però riuscire a trovare un passaggio, un qualunque modo per irrompere tra le quattro mura del mio appartamento. Freme, impaziente di renderci nuovamente partecipi della sua esistenza. Impaziente di riportarci a una realtà di cui sia io che John non sembriamo più essere consapevoli.
"Io ho provato, Sherlock" John esclama e la sua voce respinge quel mondo una volta ancora, lasciandolo fuori, chiedendogli di aspettare. "Ho calpestato la mia stessa dignità affinché comprendessi fino a che punto io ti ami."
È la rabbia, che segue l'immediata amarezza. La rabbia che s'insinua nel midollo dell'incomprensione, nel nucleo stesso dell'incertezza, della frustrazione.
"Ti ho aperto il mio cuore" poi aggiunge, e odio, detesto il suo tono implorante, "non ho avuto segreti, con te. Non oggi."
Maschera tutto con l'amore, John Watson. Non è capace di fare altro.
Parliamo due lingue differenti, io e lui, senza neanche accorgercene.
"Il cuore non c'entra, John" lo rendo edotto su questa triste, necessaria verità, "l'unica tua colpa, questa notte, è quella di non aver preteso nulla da me, nulla John, che anche lei non ti abbia concesso senza indugio."
C'è un brusio sommesso, una presa allentata. Il cigolio della maniglia che torna al suo posto, risparmiata, quest’oggi, da una torsione deleteria per l'arrugginita carcassa di ottone opaco.
Quella che segue è attesa. Di quelle lunghe, silenziose. Di quelle che dilatano i secondi e li mutano in minuti troppo brevi, in attimi troppo lunghi.
"È questo, quindi" finalmente comprende. "È lei."
Mi irrita, corrode come fossi acciaio sfiorato da una goccia d'acido, che ci abbia messo così tanto. Che abbia faticato ad attribuire la colpa all'unica, sola, responsabile di quanto accaduto tra noi.
È gelosia. Non conosco altra emozione, io che ne sono scevro, che possa meglio equipararsi a quel che provo. È morbosa. Totalizzante. Rabbiosa nella violenza con cui mi trascina nel suo vortice.
"Non c'è mai stato nessun altro, John" la mia voce è affilata, colma di un sarcasmo che brucia, che colpisce, acuminato come la punta di una lama, "non c'è mai stato qualcuno, nella mia intera, penosa, esistenza, cui io abbia desiderato strappare via la vita a mani nude più della donna, la bugiarda, che tu chiamavi moglie."
Non m'importa di sconvolgerlo.
Non m'interessa se mi guarderà con ribrezzo, d'ora in poi, o se sarà l'orrore ad adombrare i suoi occhi ogni qual volta si degnerà di porre il suo sguardo sul mio volto.
M'importa parlare.
Portare alla luce quel che ho nascosto per troppo tempo.
Confessare i miei crimini. Espormi alla pubblica gogna, incurante delle conseguenze.
Arrendermi.
In alto le mani, Sherlock. È stato facile, in fin dei conti. Il peso è andato. Stai meglio, così.
Anche se adesso è consapevole dei mille modi in cui l'hai uccisa, nella tua testa.
Forse sta pensando che sia stato tu a farlo per davvero. Il pensiero ti lusinga.
Avresti voluto.
Indietro non si torna.
Sembra una vecchia filastrocca, come quelle che recitava tua madre.

"Who killed Cock Robin?
I, said the Sparrow,
with my bow and arrow,
I killed Cock Robin."
(1)

Io, disse Sherlock.
Io, con le mie mani.
Io l'ho uccisa.

La sua reazione mi sorprende. Non grida. Non emette un suono. Non accusa.
Sto parlando del tempo, per lui. Delle nuvole che sfumano il blu. Del vento gelido che entra nelle ossa, sotto la pelle.
"Dannazione, Sherlock" la voce non graffia ma accarezza. "Perché è tutto così complicato?"
Non pronuncia quel nome nemmeno una volta. È solo il mio, solo quello, a sfiorare le sue labbra, accarezzato dal suo respiro. Qualcosa nel mio petto batte, dotato di mani, dita, nocche, chiedendo di uscire.
"Non sei il primo. Non lo sarai mai" poi aggiunge, ed è un'accusa stavolta, tagliente ma smussata, agli angoli, dal tono placido della sua voce. "Lo sai, Sherlock."
È stupido, anche per lui, sottoscrivere un fatto tanto ovvio. Non me l'ha mai nascosto.
"Non avrei mai nemmeno preteso il diritto di essere l'ultimo" è la mia risposta, "mi sarebbe bastato essere uno."
Penso alle crepe nel soffitto, al fuoco che brucia l'ultimo ceppo, all'ennesima sirena dal suono distorto giù in strada. Penso a una sigaretta, all'odore del tabacco compresso nella sua cartina. Penso a due anni fa. Ai pugni in pieno volto. Ai denti rotti, al braccio spezzato. Al ghiaccio sui lividi. Alla sensazione che si prova quando hai una canna di pistola puntata alla tempia. Che scava. Che imprime un segno.
Penso a una dose. Allo stantuffo che affonda. All'ago che accoglie.
Ho nostalgia della vertigine.
Del vuoto al petto, subito dopo il salto. Come sull'altalena. Più in alto di tutti.
Una voce mi parla. Assomiglia a quella di mio fratello. Non mi piace.
Mi chiede se voglio una spinta. Può farlo. Non ha da studiare, può scendere in giardino.
Mi chiede se la voglio forte. Mi chiede quanto.
Non so rispondergli. Il volto di John aleggia davanti ai miei occhi come fosse la mia coscienza, personificatasi per indurmi a non accettare.
Quello che vorrei, è rispondere a Mycroft di farlo. Forte, più che può.
Tanto da poter sfiorare le nuvole con le punte dei piedi.
"Cosa vuoi, allora, Sherlock?" esclama, domanda, grida, "di quale ulteriore prova hai ancora bisogno?"
È la domanda che avrei meritato sin dall'inizio. È la domanda corretta in un mare di possibilità sbagliate. Non è una mano tesa che sfiora, né un bacio, né la promessa di un piacere sconosciuto. C'è lui che parla. Che ha bisogno di sapere. Che aspetta.
Ci sono io che rispondo. Io che sazio il bisogno. Io che soddisfo la pressante, estraniante, necessità.
Non ho dubbi. Le parole vengono fuori lente, premeditate, imparate a memoria.
"Fondamenta, John" ripeto, "Fondamenta."
È in quest'esatto momento, che qualcosa accade. Che il pollice preme sulla molla della biro, con uno scatto secco. Che la mano trema, tentenna, si stringe a pugno.
Esito, ma non ho tempo.
Non più.
"Non un bacio. Non l'amore" John sussurra, ed è più vicino, "non un solo, impercettibile, tocco."
Sfiora la manica della mia camicia, nell'esatto momento in cui pronuncia l'ultima parola. Un dito sfiora il mio polso, scoperto dal bottone slacciato.
È il suo modo per dirmi che accetta, ma che non è d'accordo. Non del tutto. La minuscola frazione di pelle nuda sfiorata dalle sue dita, brucia come fosse in fiamme.
"Tutto, John" poi io dico, senza nessuna intenzione di giungere a un compromesso, "ho bisogno di tutto quel che non hai dato a lei. Di ogni dono di cui l'hai ritenuta immeritevole."
Mi sento nudo. In qualche modo lo sono, anche se non nelle vesti. Ho freddo, quasi ne fossi realmente privo. Il fuoco, sulla pelle, è appena una fiammella, adesso.
"Non mi sarà mai concesso, quindi, dimostrarti il mio amore in altro modo che a parole?" John mi dice, e c'è dolore nella voce, quasi quanto ne contengono le sue parole, "sarò per sempre macchiato dalla colpa di aver tentato di amare qualcun altro?"
Di nuovo mani, grandi, delicate, rispettose, nella mia testa. Le sue, su un corpo sconosciuto. Su un corpo che non è il mio.
Non ne posso più. Sono così stanco che quasi non percepisco più le mie stesse membra, la mia stessa voce. Mi sento quasi un esasperato precettore, intento a spiegare una nozione elementare a un allievo svogliato. Mi sembra di guardare la mia immagine da un punto indefinito della stanza. Come un film. Uno che non conosco ma di cui saprei ripetere ogni battuta a memoria.
È ora che finisca. È ora che io smetta di tormentarmi. È tempo che io abbandoni le fila alleate per consegnarmi al nemico. A uno che, in fondo, ha i miei stessi ideali ma diversa divisa.
"Non ho bisogno di labbra sulle mie, per quanto io le desideri. Per quanto faccia male rendermi conto di non poter in alcun modo rifuggire a un bisogno tanto degradante" parlo, o forse grido, o forse entrambe le cose, "vorrei solo che tu tornassi a guardarmi."
Non ho bisogno di uno sguardo, per insinuarmi nei suoi pensieri. Rivanga, scava, soffia via la polvere. Apre finestre, spalanca porte, sfila via teli bianchi da mobili immaginari.
Riporta una dimora abbandonata a uno sfarzo antico, dimenticato, quasi a voler dire 'sono qui, sono tornato.'
Quasi sussurrando, silenzioso come il battito d'ali di una mosca, 'sono sempre stato qui'.
Lui lo è stato. Sono stato io, ad essere andato via. Fiducioso. Colmo dell'infondata sicurezza che ogni cosa sarebbe cambiata, al mio ritorno, tranne la certezza di me e John.
La certezza incontrovertibile del noi.
Ha capito nell'esatto istante in cui l'ultima parola ha sfiorato le mie labbra, perdendosi nell'aria afosa della stanza, che odora di bruciato e di legno secco.
Pensa a lei.
Si sofferma, di certo, sull'unica immagine che di lei conserva. È una piccola foto, racchiusa in una cornice ammaccata agli angoli.
È finita così spesso sul pavimento, e contro il muro, che John nemmeno ricorda quale fosse il suo aspetto, prima.
Non la tiene con sé. È nella sua stanza. Nascosta nello scrittoio in legno da due soldi che a lui tanto piace.
Quella camera che è stata sua e che ora torna ad esserlo all'occasione. Per un giorno, una settimana, qualche ora.
Non gli ho mai detto di no. Nonostante la sua fugace presenza fosse solo un doloroso promemoria della sua assenza.
La gelosia corrode, ma non lascio che prevalga sul buonsenso. Credo abbia chiuso gli occhi, riportando alla mente quel viso, i cui tratti sono impressi su carta dai colori sbiaditi ma non nel suo cuore. Non sul suo corpo, né altrove.
Tossisce, e corruga le labbra, e non ho bisogno di guardare, perché lo so. Perché lo conosco.
Avvalora, col suo silenzio, la mia teoria. La mia certezza.
Un'ipotesi sulla cui veridicità non è mai esistito dubbio.
Senza quel piccolo ritaglio di carta lucida, liscia, dai contorni tagliati alla bell'e meglio con forbici poco affilate, John non serberebbe di lei alcun ricordo.
La verità, adesso, è chiara anche a lui.
L'ha toccata. Baciata. Ha fatto con lei quello che io non ho mai fatto con nessuno.
Eppure, non l'ha mai guardata. Non ha mai, neanche una sola, singola volta, indugiato sul suo volto più del minimo necessario.
È un sottile fil-rouge ad unirli ancora.
Impalpabile. Distruttibile.
Un secondo passa. Un altro lo segue, ma è lungo un'era. Un re viene ucciso. Un assassino impiccato. Un altro sovrano sale al trono.
E io sono ancora qui. E lui, è ancora con me.
Lo sento, quando il suo sguardo incontra lo scorcio del mio volto illuminato dal fuoco.
Le fiamme tremolano, instabili. Resistono.
Riflettendosi nei miei occhi, mi dipingono sull'orlo del pianto.
Percepisco ogni esitazione, ogni timido soffermarsi dei suoi occhi sulla curva della mia guancia.
Carpisco, senza margine d'errore, la mano che sfiora il proprio, di viso, immaginando.
Ha compreso l'errore commesso. Lo so.
Hic et nunc(2), ha detto qualcuno.
Sarà qui. Sarà ora.
Mi basta un attimo. Un istante, e i miei occhi incontrano i suoi.
Ci veniamo incontro a vicenda, come bisognosi d'aiuto, di sostegno.
Due persone che hanno camminato da sole per tutta la vita e che comprendono, improvvisamente, quanto sia infinitamente più bello, in due.
Fondamenta, gli ho chiesto.
Prima dell'amore.
Prima di ogni possibile dimostrazione dell'amore stesso.
Respira. Sembra tornare a farlo dopo ore. Nonostante tutto, non ha dimenticato come si fa.
"Non ne ho mai sentito il bisogno, prima" poi dice, "perché non esiste un singolo dettaglio di te che io possa dimenticare."
La sua voce è suono puro, assoluto. È la rapsodia di un'orchestra che suona soltanto per me.
Ho più colpe di quante ne abbia lui. Ne ho adesso più di quante lui potrà mai averne in una vita intera.
Ha saldato ogni debito, questa notte.
Io, sono sulla buona strada.
Si avvicina. Non ha più timore di varcare una soglia oltre il quale non sarà desiderato. Il fuoco si spegne, lasciandoci al buio. La luna, sopperisce come può.
Le assi del parquet cigolano, sotto il suo peso, mentre si ferma a un passo dalla mia poltrona.
Trovo la sua mano senza nemmeno cercarla. Sollevo le dita a sfiorare le sue senza averlo neanche premeditato. È un gesto istintivo.
Primordiale.
La stretta non è esitante. Non tentenno e non lo fa nemmeno lui. Sta accadendo.
È come svegliarsi, appena dopo un bel sogno, accorgendosi che la realtà non si discosta poi molto da quella delle tue fantasie.
È una sensazione totalizzante.
La assaporo senza ingordigia, mentre porto la sua mano a sfiorare la pelle scoperta del mio petto, guidandolo alla scoperta di un territorio straniero.
Quasi del tutto sconosciuto anche al tocco delle mie stesse mani.
Sta guardando, con l'ausilio delle dita. Scopre, accarezzando. Accennando a tocchi più audaci, seguiti da riverente timidezza.
Sta accertandosi, nell'unico modo che conosce, che tutto sia davvero rimasto com'era. O meglio, come aveva sempre creduto che fosse.
Ritrae la mano, poi, invertendo i ruoli e accogliendo la mia nella sua.

Appena le sue labbra sfiorano leggere la pelle morbida del mio polso, non c'è più modo di tornare indietro.
La consapevolezza di ciò che questo bacio porta con sé, mi sconvolge. Rimango immobile, la mano stretta nella sua. La sua bocca si sposta, lenta, sulla mia fronte.
Nessuno mi conosce meglio di John Watson.
Sa di me più di quanto sappia io stesso, e mi va bene. Non avrei mai potuto desiderare mani migliori, nel cui rifugio porre la mia intera esistenza.
Il mio ieri. Il mio oggi. Il mio domani.
Sono stato derubato di me stesso, ma non mi sento mancante, né vittima di un'indicibile ingiustizia.
L'abbraccio in cui egli mi custodisce, é colmo di un calore che guarisce. Che riempie i vuoti. Che cicatrizza le ferite.
John mi arricchisce, invece di privarmi.
John mi completa, facendo della mia vita parte indispensabile della propria.
"Perdonami" egli infine sussurra, quasi temendo di disturbarmi, "sono soltanto un'inguaribile distratto."
Sorrido, mentre nella mente riassaporo ogni parola. È un gioco tutto nostro, che simboleggia qualcosa appena tornata in vita. Rinata dalle sue stesse ceneri.
"Va bene" io rispondo, e la mia voce è inevitabilmente mitigata dal sollievo, "dopotutto, è diretta conseguenza del tuo essere un'inguaribile idiota."
E’ il nostro linguaggio. Un codice.
Ne abbiamo sempre avuto uno, soltanto per noi, senza averlo nemmeno mai concordato. Ci bastava un'occhiata per arrivare alla medesima, corretta, soluzione. Uno sguardo sfuggevole. Un cenno del capo.
Una sola parola.
Lei va via. La sento allontanarsi, come una brezza fredda che lentamente lascia spazio al calore del sole.
Non esiste più. Non è più un nome. Non è più umana, né reale.
È qualcosa che è successo, e poi passato.
È un'estate troppo calda. Un inverno troppo rigido.
La piena del Tamigi, i lavori in corso, lo sciopero della metro.
I giorni.
"E adesso?" John mi desta, senza irruenza, dai miei pensieri, "Cosa succede adesso, Sherlock?"
Non mento.
Non posso che rispondergli che non si va da nessuna parte, da qui.
Che si è arrivati per restare. Per non muoversi. Per rimanere così per sempre.
Resto vago. Distaccato. Innamorato e freddo. Pieno di passione e distante.
Rimango Sherlock.
A lui va bene. Lui ama quel che sono più di quello che potrei essere ma non sarò mai.
"Sinceramente, John" sussurro, sfiorando il suo viso col mio sguardo, "non m'importa granché."
So che è sorpreso. I suoi occhi non sono mai riusciti a mentirmi, a differenza delle sue labbra.
"Una volta qualcuno ha detto che chi ben comincia, è a metà dell'opera" io spiego, e lui sorride, finalmente giunto al bandolo di questa piccola matassa.
"È vero" lui mi da corda, posando un altro bacio sulla mia fronte, "ma non per noi. Non è stato granché piacevole, l'inizio di questa storia."
Non oso dargli torto. Ha ragione su ogni fronte. È una storia al contrario, la nostra. Che sfida ogni canone. Che ha principio nella fine.
"Infatti, non ho mai dato tanto peso a quelle parole. L'inizio non conta" io dico, credendoci, "quel che rende immortale le belle storie, è un degno finale."
Silenzio. Poi un suono.
È John che ride. Che è felice.
John che non ride mai allo stesso modo.
John che non oltrepassa confini. Che resta lì, come se il mio viso si limitasse alla mia fronte, alle palpebre socchiuse, alla punta del naso.
"E nel mezzo, Sherlock?" egli sussurra, trovando coraggio, muovendo le labbra sulle mie guance, appena appena. "Cosa è accaduto, tra l'inizio e la fine?"
Non è difficile, rispondere. È la domanda più semplice, ovvia, che mi abbia rivolto questa notte. Le sue labbra sono poco distanti dalle mie. La sua pelle profuma di tè, di sapone e un residuo di dopobarba.
"Sono successe promesse fatte e non mantenute. Telefonate perse. Fiori appassiti su un pezzo di marmo" Parlo a bassa voce, certo che potrà sentire le mie parole sulla sua pelle ancor prima di udirle. "Sono successe occasioni mancate tra uomini distratti."
Non esiste altro modo, per definire quel che siamo. Due rette parallele incontratesi oltre ogni legge matematica.
Lui prende il mio viso tra le mani. Non stringe. È delicato, quasi timoroso di potermi ledere in qualche modo. Mi guarda come non mi ha mai guardato. Mi conosce meglio di chiunque altro, eppure non è stanco. È ancora interessato, attratto, affascinato dal mio volto come il primo giorno.
La mente viaggia. Mi chiedo se mi guarderà ancora così, quando gli anni cominceranno ad appesantire i miei tratti. A segnare la mia pelle.
I suoi occhi rispondono per lui, anche se non ha neppure udito la mia domanda.
Questa notte non faremo altro. Non vuole più baciarmi. Forse, non lo voglio neppure io. Ricorderebbe a entrambi, inevitabilmente, passi compiuti troppo in fretta. Tappe bruciate. Sensazioni provate per inerzia. Imposte.
Forse mi bacerà domattina. È un buon compromesso. Sta pensando a come succederà. Al modo in cui dolcemente mi cingerà i fianchi, esitando. Chiedendo il permesso. Annullando le distanze.
È strano, pensare a come è cominciata. Al rumore di passi mai proseguito oltre la porta.
Al coraggio. Al nonostante tutto.
"È una bella storia" John dice, senza mai abbandonare i miei occhi, "mi piace, il lieto fine."
Sorrido. Piace anche a me. A un uomo che sopravvive grazie a chi un lieto fine non sa nemmeno cosa sia.
È una sensazione che non so descrivere, né mostrare appieno. Quel poco che riesco, lascio che sia lui a coglierlo.
Una saracinesca, al piano di sotto, si solleva, con un lento, stonato fruscio meccanico. È colonna sonora di un risveglio.
C'è una pagina vuota, alla fine della storia. Le ultime righe del capitolo precedente sono ancora visibili, controluce, sulla pagina accanto a quella bianca. Non voglio leggerle. Non ancora.
Sarà da lì, che ricominceremo, quando sarà il momento.
Che a decretarlo sia un bacio, o qualsiasi altro gesto, o sguardo, o parola.
Nel frattempo, ricomincio a vivere una vita rimasta troppo a lungo in stand-by.
È facile. Forse, perché sono con lui. È tutto più semplice, con lui accanto. Un peso, portato in due, è sempre meno gravoso. A volte, con la persona giusta, è addirittura impercettibile.
Vivere è naturale, come non lo era più da tempo.
Nonostante tutto, non ho dimenticato come si fa.
John, semplicemente, non me lo ha permesso.

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*. Frase latina, il cui significato è: “Attraverso le asperità, alle stelle.”

 1.‘Who Killed Cock Robin’  è una filastrocca inglese, un tempo utilizzata come archetipo dell’assassinio.

 2.“Qui e ora” in latino.

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: SAranel