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Autore: Francine    18/04/2014    3 recensioni
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Saori Kido, Sasha, Virgo Shaka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Death Mask
 
 
tutti qui, tutti qui 
i miei viaggi che vago 
per quel mare che ormai è un lago 
tutti qui i miei sogni 
di essere un mago 
e di correre il vento mai pago 
 
 


Quando è arrivato s’è guardato intorno. Spaesato. Confuso. Perché Andrea non c’era. Non c’erano i suoi occhi, il suo viso, i suoi capelli rossi e le sue mani bianche. Non c’era il suo accento tedesco e quel suo modo assassino di dire buongiorno.
«PuOn’ciOnnoh».
Non c’era un cazzo, laggiù, se non il vuoto ed il buio, prima, e quella dannatissima bara ardente, dopo.
Come sorrideva, quel bastardo di Minosse, mentre lui sciorinava tutte le sue colpe davanti al tribunale della Seconda Prigione. Tutte quante. Dalla prima, che nemmeno ricordava più – quando a tre anni aveva schiacciato quel grosso ragno con un libro e l’aveva mostrato a sua sorella Daniela che ancora agitava le zampette – all’ultima – quel piano scellerato ideato da Saga e da lui portato avanti con zelo indefesso. Tutte, tutte, tutte. Anche quelle che no, non avrebbe mai pensato fossero colpe. Sapeva che un giorno qualcuno, dall’altra parte, gli avrebbe chiesto conto e ragione dei ragazzini falciati nel corso delle varie missioni, liquidandoli come atti di estremo sadismo e gratuita violenza, anche se la vita è piena di sfumature che l’Aldilà sembra aver dimenticato.
Ma la guerra? Davvero rinfacci ad un soldato di aver combattuto?
«E allora, in nome del Cielo, mi dici perché gli dei si circondano di guerrieri?!»
La sua voce è rimbombata fino a perdersi nell’aria asfittica della Seconda Prigione. Ma nessuno gli ha risposto.
La verità, allora, qual è? Che la gente non vuole sporcarsi le mani per davvero, ecco qual è.
In guerra e in amore è tutto concesso, si dice. Col sorriso di chi la sa lunga. Ma in quel tutto, sbandierato così alla leggera, non c’è anche questo? Non c’è il sangue del nemico che ti cola sulle mani, gli stivali e la giacca? O quello lo abbuoniamo, per simpatia? E se uno spara nel mucchio, per colpire quanti più nemici possibile, non è logico ipotizzare che cadranno anche gli ostaggi a terra? In un lago di sangue, magari?
Magari sì. Perché la guerra non è un pic-nic tra i fiori. E chi afferma il contrario non ha imbracciato più di un’arma giocattolo. Due dita distese, due dita ripiegate, il pollice dritto a formare l’idea platonica di una pistola. Innocua.
«La guerra odora di sangue, polvere e merda», diceva Tonio. «E se non è del nemico, allora è roba tua.»
E lui, di restare stecchito a terra per un atto di generosità gratuita no, non se l’è mai sentita.
Ogni missione implica dolore. Ed è meglio che sia quello degli altri, piuttosto che il mio, si è detto e ripetuto. A partire dall’istante esatto in cui l’Armatura lo ha avvolto. E ad Athena è stato bene così. Altrimenti, perché concedergli le Sacre Vestigia del Cancro? Perché non fermarlo prima?

Perché c’è bisogno di qualcuno che non abbia paura di infilare le dita nel fango e rimestarlo per bene. C’è bisogno di chi non abbia timore di sporcarsi le mani. Di fare quello che va fatto.

Ne è sempre stato convinto. Anche quando Tonio giudicava che avesse esagerato. Anche quando Andrea gli chiedeva – lo pregava – di smetterla. Che non era necessario spargere tutto quel sangue. Tutto quel dolore. Tutte quelle teste.
«A te piace quello che fai», gli ha detto un giorno, gli occhi scintillanti di pianto. «Non si tratta di un male necessario. Tu lo cerchi. Lo desideri. Te lo leggo nello sguardo. Tu… Non hai alcun rimorso…»
E lui giù a spiegare a quella capa ‘nduruta che i rimorsi sono pericolosi. Sono dolore gratuito, bile fresca e morte sicura, che ti aspetta dietro l’angolo impaziente come la puttana che adesca i militari in cerca di guadagno facile.
Cambia qualcosa a struggersi e dolersi per le vite spezzate? Sempre avrebbe dovuto uccidere quelle persone. Giustiziarle, in nome di Athena. Perché il Sacerdote… perché Saga non lo mandava in giro a cogliere fiori da depositare ai piedi della statua della dea. Lo mandava a prendere teste.  A risolvere situazioni che erano diventate spinose e contorte come i rami di un ulivo saraceno. Dove, mettendoci le mani dentro, non era possibile non restare prigionieri di quei problemi che doveva risolvere. Sciogliere. Anche a costo di passarli da parte a parte. E allora tanto valeva riderci su. Far sembrare al nemico che quello, per lui, era un trastullo, un balocco, un modo di ammazzare il tempo.
Trovare il lato positivo in quello che faceva. Nel sangue che versava. Il sangue altrui, che scorreva sul campo di battaglia, era la prova della sua forza. Della sua potenza. E sì, collezionava le teste dei suoi nemici. Che differenza c’era tra lui e il cacciatore che espone sopra al caminetto la testa del cervo, colle sue belle corna ramificate?
Il nemico era la sua preda. L’ostacolo che si frapponeva alla realizzazione del suo sogno. Del sogno di Saga. E lui avrebbe percorso quella strada fino alla fine. Anche a costo di lastricarla di sangue e lacrime. Altrui.
«Amaru cu u porcu no 'mmazza, a li travi soi non ‘mpicca sarzizza», le diceva, il sorriso del demone. Ricorrendo alla meschina verità del suo dialetto di sale, sangue e roccia e aroma di cedro. Gustandosi lo spettacolo del suo viso strammato quando non lo seguiva più lungo le curve dell’italiano, perdendosi in quelle consonanti aspirate e in quelle parole ruvide.
«Non puoi fare una frittata, senza rompere le uova», le traduceva. E Andrea tornava a galleggiare. «Non c’è spazio, per la pietà, quando sei un Santo di Athena», le ripeteva fino allo sfinimento. Ma lei no. Lei, no. Lei non capiva. Lei non voleva capire che la pietà è un lusso carissimo. Un’esitazione che si paga con la vita.
«Anche un nemico può chiederti pietà. E allora, che fai? Lo accontenti? O ti prendi qualche minuto per rifletterci su? Per ponderare se, come e quando concedergli la grazia, al nemico che ti supplica in ginocchio e a mani giunte?»
Le ha insegnato che in battaglia non c’è tempo per la pietà. Provando a farle entrare in quella testa quadrata l’istinto di sopravvivenza. Il tempo della guerra. Quando hai a disposizione un rapido colpo d’occhio per capire quanto è forte il tuo avversario, quanto sono numerosi i nemici e quali vie di fuga ti potrebbero tornare utili. Un rapido colpo d’occhio. Un battito di ciglia e niente più. La lunghezza della vita umana. Che si accorcia drasticamente quando si indugia in sciocchezze come la pietà ed il rimorso.
È per un atto di pietà che Andrea è morta.
Sì, è lui che l’ha fatta cadere nella Bocca di Ade. L’ha spinta giù, mentre lei si teneva le mani sullo squarcio che aveva sull’addome. Addome che sarebbe rimasto un guscio sterile. Vuoto. Le ha pestato le mani che si aggrappavano a quella roccia grigia e fredda. Perché perdesse la presa. E scivolasse giù.
È stata pietà, la sua.
Pietà per un’anima lacerata che non avrebbe mai potuto tornare indietro, nel regno dei vivi. Andrea sarebbe rimasta per sempre in quel limbo. Non sarebbe mai morta. Non sarebbe mai rinata. Avrebbe vagato in eterno con l’anima squarciata. Ed era la giusta punizione per quello che aveva fatto. Perché era stata tanto stupida da concedere pietà a quella bestia. Da abbassare lo sguardo il tempo necessario perché lui, il mostro, le infilzasse lo stomaco con i suoi artigli. Le perforasse il busto, da parte a parte. E ne tirasse fuori le viscere.
E quando lui le ha chiesto perché, per quale motivo avesse fatto una cazzata così assurda, lei gli ha sussurrato che aveva visto qualcosa, in quegli occhi vitrei. Rosso sangue. Una richiesta di pietà.
È per un atto di pietà che è morta Andrea.
La propria. E la sua. Ma la sua no, non l’ha accettata tanto a cuor leggero. La sua no, non la voleva.
Sei impazzito?!, gridavano i suoi occhi. Smarginati di speranza, terrore e amore. Mentre lui le schiacciava coi piedi le dita lorde del suo stesso sangue e di quello del nemico. Ridendo. Perché capisse. Anche solo all’ultimo istante, ma capisse che il maestro – e il guerriero – l’avevano avuto vinta sull’amante. Che se l’amante l’avrebbe afferrata e stretta a sé, cullandola tra le braccia tamponandole le ferite e sussurrandole all’orecchio parole d’amore e di speranza, non così avrebbe fatto il guerriero, non così avrebbe fatto il maestro. Perché entrambi sapevano che la speranza era morta nell’istante stesso in cui gli artigli del mostro avevano lacerato l’anima di Andrea. Sarebbe stata una pietosa bugia.
E lui no, non poteva restare laggiù, con lei.
E lui no, non se la sentiva di lasciarla sola, in tutto quel grigio, per andarla a trovare, di volta in volta. Ed i mastini, i mostri che si aggirano nelle ombre e si nutrono di coloro che vagano lungo l'orlo della Bocca dell'Ade, sarebbero arrivati. Presto. Molto presto. Richiamati dall’anima lacerata. E lui non avrebbe mai permesso che pasteggiassero con la sua Andrea.
Così il maestro ed il guerriero hanno convinto l’amante, sussurrandogli all’orecchio la verità. E lui ha deciso di mostrarle cosa fosse davvero la pietà. Quanto pesasse, sul cuore e sulle braccia, sollevarla di peso, lasciarla cadere e spingerla giù. Nel buio.
È un peccato che Andrea non ci fosse ad aspettarlo, laggiù. Alla fine del buio. Perché lui avrebbe voluto chiederle se avesse sentito la sua voce quando, dopo che le ombre l’hanno inghiottita, ha urlato la sua rabbia e il suo dolore a quel cielo incolore. Se l’avesse sentito chiamare il suo nome, con la disperazione che filtrava da ogni sillaba. Se avesse sentito le sue lacrime. Le sue bestemmie.
Lui sa che lei l’ha percepito. Così come adesso lui sente gli occhi verdi di lei fissi sulla sua schiena. Ma vuole sentirlo dalla sua voce, con quel tono da fumetto che inciampa nella musicalità dell’italiano, e leggerlo nei suoi occhi. E sa che non succederà fino a quando lei non avrà deciso che basta così. Che l’ha perdonato. Che, dopotutto, ha ancora voglia di specchiare i suoi occhi di lago in quelli azzurro mare dei suoi. Anche solo per un fugace battito di ciglia.
Faranno pace, alla fine. Il guaio è che è lei a tenere il coltello dalla parte del manico, ora che sono tutte e due davanti all’eternità.
Le donne sono creature strane, Marco. Tanto belle quanto impossibili, diceva Tonio. E lui, Death Mask di Cancer, si trova costretto a dargli ragione, ora che risale verso la Bocca dell’Ade con l’espressione seria. Perché si riparte. Ricomincia la giostra, signori in carrozza! E lui va alla guerra senza che lei lo abbia salutato.

Andrea, sei una stupida. Testarda e orgogliosa e cocciuta anche da morta.

È strano tornare indietro. È strano compiere a ritroso lo stesso percorso che riservava alle sue vittime. Mentre cadeva, per buona grazia del Dragone, ha cercato di appigliarsi a qualsiasi cosa potesse appendersi: sporgenze delle rocce, rami, rientranze, anche il più piccolo appiglio sarebbe andato bene pur di non precipitare verso la morte come una palla di piombo che cade in uno stagno. Ma le pareti della bocca dell’Ade sono lisce, come ha scoperto urlando il nome della dea Athena, invano; lisce come la pelle di un neonato, senza appigli, sporgenze, nicchie, rami. È un volo a cadere, senza speranza. E adesso sta risalendo quello stesso percorso come farebbe un ragno o una formica. Sta semplicemente camminando. Perché ad Athena serve qualcuno che sia disposto ad immergersi nel fango. A sporcarsi le mani. Per amore suo. E della giustizia.

Guardami, Andrea. Guarda bene e impara. Athena mi chiama e io devo andare. Questa sarà l’ultima lezione come tuo maestro. Guarda e aspettami. Conosco me stesso. E niente in eccesso.

 
   
 
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