Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: MadLucy    18/04/2014    3 recensioni
Sono passati ormai otto anni dalla prematura morte di re Joffrey; ora sul Trono di Spade siede Tommen Baratheon, bello quanto ignaro, manovrato con fine astuzia dall'intraprendente moglie, Margaery Tyrell. Al Nord regna Bran Stark: il suo improvviso ritorno è avvolto in una caligine di mistero, così come il sinistro e devastante potere grazie al quale ha conquistato il comando; al suo fianco c'è la moglie Meera, ma a corte tutti sanno che il re passa le notti nel letto del suo consigliere più fidato. Quando, per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia in passato, il principe barbaro Rickon Stark si sporca le mani di sangue Lannister e rapisce la principessa Myrcella, non si può più tornare indietro: è guerra. Che parte interpreteranno Sansa Stark, Yara Greyjoy e Gendry Waters in tutto questo? Tra amori conflittuali, alleanze strategiche e scandali a palazzo, i nuovi concorrenti possono schierare le pedine: e che il gioco del trono abbia inizio.
(Bran/Jojen; Rickon/Myrcella; Gendry/Arya)
Genere: Generale, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bran Stark, Myrcella Baratheon, Rickon Stark, Shireen Baratheon, Tommen Baratheon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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X. Livido fu il panico.








-Quello che ti sto proponendo,- annunciò Gendry Waters, con impeto, -è un cambio di programma.-
Allestita per un banchetto di ben cinquanta persone, fra cui gli alfieri del Nord e delle Terre dei Fiumi, gli Stark, Stannis ed i suoi fedeli, la tenda era la più vasta di cui l'esercito disponesse ed era stata preparata con una certa rustica raffinatezza. Per la prima volta, dopo mesi di guerra, veniva utilizzato il servizio di posate d'argento e di piatti di porcellana; benchè la tragedia di Delta delle Acque fosse ancora abbastanza recente e impressa nell'anima dei presenti, l'atmosfera era piuttosto allegra. Rickon Stark aveva preteso ad ogni costo che si festeggiasse, anche arrivando ad insultare il dolore che piegava ancora suo fratello.
-Non capita tutti i giorni di riunire la famiglia, insomma!- aveva esclamato, battendo le mani e pretendendo sfarzo, buon cibo, botti di vino. La verità era che il giorno delle scontro si avvicinava ed il giovane Stark aveva bisogno di mille distrazioni per tenere a bada l'ansia, che non soltanto s'impossessava di lui, ma ancora di più di Myrcella.
Per l'occasione, egli s'era adoperato in modo che una septa fornisse la fanciulla d'un bell'abito in raso di seta, d'un brioso e frivolo verde menta che metteva in risalto i suoi occhi, con un bustino trapuntato di piccoli quarzi rosa, e chiffon color salmone sia arricciato vistosamente sullo scollo rotondo sia a sboccare all'altezza delle maniche; nonostante fosse vestita con grande eleganza, Myrcella aveva un'espressione inquieta e per tutta la durata della cena non aveva fatto altro che stare accanto a Rickon e tacere, rigirando distrattamente il vino nel bicchiere, lanciando di tanto in tanto occhiate sospettose all'indirizzo di Arya e Sansa. Com'era accaduto che la famiglia si riunisse? Quel pomeriggio una guarnigione di uomini, guidati da Gendry e, al suo fianco, da Arya, aveva raggiunto il loro accampamento. Il riconoscimento non era stato particolarmente commovente, però, sotto due frangenti.
Il primo, e di sicuro il più deludente, era stato Bran. Egli stesso aveva spesso sognato un ricongiungimento con le sorelle, e nella sua immaginazione quello sarebbe stato l'apice della felicità; questo, prima di perdere Jojen. In quello specifico momento, invece, tutto gli scivolava addosso e lo lasciava indifferente in maniera spiazzante. Appena aveva scoperto la verità, aveva sperato d'essere travolto da un'ondata d'irresistibile gioia che vincesse la pressione della sofferenza nel suo petto. Inutile dire che nulla di tutto ciò era avvenuto. La scena era stata persino un po' patetica. Bran le aveva salutate con una regale, solenne freddezza tanto asettica da risultare ridicola, e le sorelle s'erano ritrovate così a disagio da non poter esprimere la felicità che, loro sì, provavano nel rivederlo dopo tanto tempo. Erano state avvertite della morte di un tale consigliere, ma di certo nessuno aveva ancora svelato loro la natura del rapporto che legava il re al defunto, quindi a buon diritto Sansa fu offesa dalla sua impassibilità, lei che tante peripezie aveva superato alla Fortezza Rossa e a Nido dell'Aquila, pur di avere il suo lieto fine! Arya s'era stupita del cambiamento che aveva visto in lui: certo, non era tanto più radicale di quello di Rickon, però Rickon aveva sei anni l'ultima volta che lei l'aveva visto, e dunque non aveva ancora quel che si definirebbe un carattere ben definito: era solo un moccioso molto vivace e un po' irascibile. Con Bran invece aveva condiviso allenamenti, giochi, passeggiate e in generale la vita a Grande Inverno, dato che erano vicini d'età, e lo ricordava come un ragazzino socievole, tranquillo, silenzioso, un po' malinconico ma entusiasta. Invece s'era trovata davanti un ragazzo smilzo, buio come l'abisso più recondito, con capelli lunghi e scompigliati, occhi di pietra e un viso dai lineamenti crudeli, come se l'avessero intagliato a colpi di lama, con le mani sporche di sangue. Non l'aveva messa in soggezione, perchè ci voleva ben altro per mettere in soggezione Arya Stark: però le aveva fatto molta impressione.
-Sei cambiato.- gli aveva detto, temendo di ricadere nella solita banalità.
-Chi di noi non lo è?- era stata la lapidaria risposta.
Il secondo frangente disastroso era stato Rickon, ovvio. S'era presentato per primo ad accoglierle ma, nella sua grande furbizia, la prima cosa che aveva fatto era stata provarci con Sansa. La sorella maggiore cavalcava un po' più indietro -non le era mai piaciuto, quindi manteneva una velocità limitata- e, quando Arya l'aveva aiutata a smontare, senza prima pensare per un secondo cosa potesse implicare il fatto che Arya glie la volesse far conoscere, senza nemmeno immaginare che potesse trattarsi di Sansa, aveva domandato:
-Non mi presenti questa gran sventola, Arya?-
Ma, a giudicare dalla direzione del suo sguardo, voleva più che altro fare una conoscenza ravvicinata con le sue tette.
-Sì: è tua sorella!- s'era indispettita Arya, pestandogli un piede con tutta l'indignazione di cui fu capace. Il momento di defaillance di Rickon non durò più di tre secondi, poi imprecò:
-Possibile che tutte quelle che me lo fanno venire duro siano mie sorelle? Che strazio... Comincio a comprendere il povero Jaime Lannister.-
Arya era rimasta senza parole dalla ripugnanza, Sansa era scoppiata a ridere, per poi abbracciare il fratello un po' rossa in viso, e Myrcella, finora silenziosa figura al suo fianco, s'irritò oltremodo.
-Questa notte dormi solo come un cane, Rickon Stark!- aveva dichiarato, con una smorfia di disappunto. Rickon s'era affrettato a rimediare, prodigandosi in complimenti ed apprezzamenti verso la sua deliziosa concubina, perchè di sfogare i propri bollenti spiriti da solo proprio non se ne parlava.
Insomma, Gendry aveva proposto di discutere su tutto ciò che c'era da discutere al banchetto e ad un certo punto annunciò che si trattava di fare un cambio di programma.
Bran Stark lo fissò ancora per qualche istante, prima di schioccare le dita ed ordinare al coppiere di colmare il boccale del suo ospite, per prendere tempo. Gendry scosse la testa sbrigativo, a far intendere che voleva rimanere concentrato su quel che stava accadendo. Per quando riguarda Stannis, non riusciva a credere alla piega che stavano assumendo gli eventi. Finora era rimasto zitto, a seguire soltanto ciò che veniva detto, ma si stava decisamente superando la misura. Quel suo nipote fuggito molti anni prima era vivo, e non solo -voleva rivendicare il trono. Il suo trono. Ma con che diritti un bastardo del genere si presentava lì, e soprattutto, come gli erano venute quelle idee in testa? Un figlio illegittimo non vale niente, figuriamoci se può andare lì a pretendere. Surclassando senza troppi ripensamenti il Baratheon legittimo della famiglia, poi!
-I cambi di programma non ci interessano.- rimbeccò infatti. -Tutto è già stato stabilito. Io e Stark ci siamo accordati di conseguenza.-
Gendry gli rivolse un'occhiata fredda: non aveva certo dimenticato il trattamento riservatogli in passato, nè aveva intenzione di farlo. Sapeva bene che, se fosse stato per Stannis, lui a quell'ora sarebbe stato morto e sepolto.
-Ti ricordo che i nostri piani ti includono, lord Stannis. Avresti una posizione di rilievo a corte, per non parlare del fatto che, se io morissi senza eredi, saliresti al trono.-
Stannis schioccò la lingua, irritato, chiedendosi come si permetteva quel ragazzetto di prendersi gioco di lui. -Quante probabilità ci sono che tu muoia prima di me?-
Arya Stark, fino ad ora intenta a saccheggiare la carne dal piatto di Rickon, perchè a lui cotta non piaceva, s'intromise.
-Quel che Gendry vuole dire,- intervenne a voce alta, irosa, -è che lui ha intenzione di sposare sua cugina Shireen, così da non privarla di un suo diritto di sangue.-
Una serie di brusii venne scatenata ed attraversò le file dei conviviali, mentre un chiacchiericcio generale s'intensificava, simile al ronzio di un formicaio.
-Hai intenzione di mantenere questo proposito?- domandò bruscamente Stannis, sorpreso. All'improvviso, quella precisazione gli faceva piacere l'idea già di più. Certo, lui non era più giovane e vigoroso come un tempo, ed i Sette Regni avevano bisogno di un sovrano nel pieno delle forze; e nemmeno immortale, perciò -a meno che, ipotesi poco probabile, non avesse avuto altri figli- tutto l'onere del regno sarebbe ricaduto sulle spalle di Shireen, di una povera fanciulla fragile ed innocente, che, nonostante fosse saggia ed assennata, di certo non sapeva nulla circa le faccende dello stato e gli intrighi di corte, e non sarebbe mai riuscita a prevalere in un mondo così spietato. Quel Gendry al trono, tra l'altro con sangue Baratheon nelle vene e coraggio da vendere, e Shireen come sua regina, a vivere alla Fortezza Rossa anzichè nel maniero freddo ed inospitale ch'era Grande Inverno, insieme ad un bruto selvaggio... Se così fosse stato, tutto cambiava di prospettiva.
Gendry incontrò lo sguardo di Arya, penetrante ed eloquente, che quasi lo sfidava a contraddire quanto aveva detto: tante volte ne avevano discusso, giungendo alla conclusione che non esisteva altro modo per ottenere l'approvazione di Stannis Baratheon e di legittimare ancora di più la pretesa al trono, per essere accettato dal popolo.
Gendry aveva cercato di ribellarsi diverse volte, spiegando che non era strettamente necessario e che Shireen era già promessa a Rickon, però Arya non aveva voluto sentire ragioni.
-Tu fai la proposta, poi si vedrà. Sono quasi certa che Stannis approverà ma, anche se così non fosse, almeno non avrai lasciato nulla di intentato.- aveva insistito.
La verità era che Gendry, quando si figurava re, si era sempre figurato Arya al suo fianco, semplicemente perchè non riusciva ad immaginare di sposare un'altra donna. Il sentimento che provava per lei andava oltre l'affetto, la solidarietà e la muta comprensione, fino a raggiungere un'ammirazione che diventava spesso e volentieri adorazione; pur scherzando e trattandola con molta ironia, Gendry la riteneva una delle persone migliori che avesse mai conosciuto. La combinazione di volitività, ostinazione, carisma e pragmatismo era vincente e la rendeva non soltanto un'eccellente comandante, ma la salvava anche in qualsiasi situazione. Gendry era assolutamente convinto di non voler sposare Shireen Baratheon: e non è che ci fosse qualcosa che non andava in Shireen in quanto tale, perchè lo stesso sarebbe stato per qualsiasi altra persona eccetto Arya. Però la sua opinione a quanto pareva era irrilevante. Il suo sangue, lo stesso che aveva imbrattato la scacchiera di Westeros e aveva generato tanti scompigli, stava diventando più potente di lui.
-Ci stavo per arrivare, se non fossi stato interrotto.- concluse, dopo una beve esitazione. -La mia proposta comprendeva appunto il mio matrimonio con Shireen, per rinsaldare il legame con l'altro ramo della famiglia Baratheon e fare giustizia. Sono al corrente del suo attuale fidanzamento con Rickon Stark, però avevo anche sentito dire che era stato siglato contro la volontà del principe e... pensavo che, quando la guerra sarà finita, un matrimonio fra Myrcella Lannister e lord Stark sarebbe un ottimo espediente per stipulare la pace fra il Nord e il Sud.-
Bran valutava la situazione in silenzio, seguendo lo scambio con occhi impassibili. Effettivamente, così l'accordo fra lui e Stannis sarebbe saltato e Rickon avrebbe potuto sposare chi voleva, e allo stesso tempo non sarebbe diventato re dei Sette Regni, cosa che chiunque avesse un po' di buonsenso si auspicava. Quel Gendry era sicuramente un temerario, però di certo non lo si poteva definire sconsiderato; era giunto lì ben armato, non di spada ma di argomenti. Inoltre, per quel poco che aveva potuto vedere, a Bran sembrava una persona a posto, e comunque non erano da mettere in dubbio le sue origini come figlio di re Robert, visto che pure Stannis l'aveva confermato; come aveva detto Rickon una volta, però, ormai il Trono di Spade non era di colui a cui spettava, ma di chi se lo sarebbe conquistato. Gendry ce l'avrebbe fatta? Se Arya si era schierata dalla sua parte e si era votata alla sua causa, Bran si fidava. Certo, se lì con lui ci fosse stato Jojen, l'avrebbe consigliato al meglio. Ma Jojen non c'era. Non aveva voluto esserci.
-Tu pensavi un po' troppe cose, Waters.- lo stuzzicò Rickon, sarcastico, scolando un lungo sorso di vino. -Mi propongono di sciogliere un matrimonio combinato per combinarmene un altro... Non sono neanche la tua fottuta figlia femmina, bastardo. Io non mi sposerò mai, e non perchè non ci tenga a prendermi legalmente questa bellezza, ma perchè non ci credo. Non penso che un rito sotto uno stupido albero in un arcimaledetto bosco possa decretare in qualche modo ciò che ho, o ciò che sono, e di certo non dev'essere un septon del cazzo a dirmi chi posso scoparmi e chi no.-
Gendry sorrise a denti stretti. Quel Rickon stava mettendo a dura prova la sua pazienza, ma probabilmente lo faceva apposta per provocarlo. Bisognava mantenere una compostezza regale ed ufficiosa: ne andava dei suoi stessi interessi.
-Era un'eventualità proposta con l'intento di farti un piacere, lord Stark, ma ovviamente era soltanto un'idea come un'altra. Quel che mi importa è recuperare il trono di mio padre.-
-Bene, ho preso la mia decisione.- Bran s'intromise, sospirando e leccandosi le labbra, dopo aver sorseggiato del vino. Lungo la tavola imperiale calò un silenzio carico d'aspettativa. Il re del Nord lasciò vagare gli occhi stanchi fra quei volti familiari, estranei, vecchi, nuovi, giovani, intristiti, sfregiati dalla guerra. Per un istante, provò un disgusto così nauseabondo, un ribrezzo così viscerale, un rifiuto così sdegnoso, che desiderò quasi trasfigurarsi nel vapore del proprio fiato. In quei brevi, deprecabili, indissolubili istanti comprese fino in fondo quanta sconcertante irrilevanza avesse assunto quell'arazzo dai colori troppo violenti, troppo vivaci, troppo fastidiosi; comprese fino in fondo la sua ormai completa estraneità a quel gorgo di inganni, strategie ed omicidi, e quanta indifferenza accompagnasse l'azzuffarsi di quegli eventi precipitosi e concitati. Si sentiva lo spettro di un morto, invisibile ed inafferrabile, che girovaga per il mondo dei vivi senza più appartenervisi. Jojen lo aveva provato di qualsiasi cosa fosse rimasta al terribile saccheggio a cui già il destino lo aveva sottoposto; lo aveva derubato di quell'ultima, intollerabile speranza, quell'ultimo fragile attaccamento alla vita, quell'ultimo interesse per le tribolazioni proprie ed altrui. 
Ma Bran non era invisibile, e tutti lo stavano guardando: quindi parlò.
-Questo è un momento molto delicato per la nostra guerra. Non possiamo permetterci passi falsi. Mi è stato riferito che Margaery Tyrell ha partorito non un solo bambino, ma due. Due maschi.- Un coro di fischi seguirono quelle parole; soltanto Myrcella nascose un piccolo sorriso dietro il tovagliolo di stoffa. Rickon ghignò, esponendo i canini triangolari. Il sovrano attese che tornasse il silenzio. -Ciò significa che ora Tommen ha una discendenza assicurata. Inutile dire che i recenti avvenimenti rendono ancora più fondamentale espugnare la Fortezza Rossa. Detto questo, avremo bisogno di tutto il contributo ed il sostegno possibile... anche da parte di alleati insospettati. Quindi il mio è un sì, Gendry Waters.- Bran incrociò lo sguardo del ragazzo. La sua voce calò secca come il rumore d'ossa spezzate. -Propongo un brindisi, alla nuova alleanza fra Baratheon e Stark.-
Tutti alzarono le coppe, cozzandole una contro l'altra in una risata di bronzo.
Nel frattempo, dopo aver prestato attenzione alle parole del fratello, Sansa si rivolgeva alla fanciulla seduta al suo fianco. Aveva le sembianze di Myrcella, ma l'espressione era febbrile e gli occhi avevano un'altra luce: evidentemente non era più così. Se prima, nonostante quella sua certa bellezza, in una sala piena di gente sarebbe parsa insignificante, ora era una fiamma. Come me, d'altronde, pensò la giovane Stark.
-Dopo tanto tempo, Myrcella... Chi l'avrebbe immaginato che ci saremmo incontrate di nuovo, vive, e che per di più che ti saresti innamorata di mio fratello.-
Lei tacque. Nel suo sguardo era sopito un dolore vago, lontano, inafferrabile, come un sospiro di cenere. Gli occhi verdi, talvolta, fuggivano in quelli di Rickon con la precipitosa inevitabilità delle emorragie, mentre il labbro inferiore cedeva sotto il peso di una notte insonne.
Sansa sorrise affabile del suo silenzio. Se ne sarebbe accorta presto, Myrcella Lannister, che non vale la pena di celebrare il dolore. Nel frattempo, la guerra scalpitava nel rumore degli zoccoli dei cavalli bardati e nei sibili di metallo delle armi ancora appese alla rastrelliera; la guerra viveva nel fervore con cui Rickon Stark squartava un pezzo di carne e urtava il proprio boccale con quello degli alfieri. La guerra, ormai, era permeata nella loro pelle come l'odore dei morti.
Gendry sorrideva, con audace e ponderata sapienza. Arya Stark serrava gli occhi alla luce delle candele. Il Nord banchettava insieme ai propri timori più orridi.
***
-Domani andrai.-
Non era una domanda. Era una constatazione, sfiancata come se avesse attraversato vallate, scalato burroni e guadato fiumi prima di affiorare a quelle labbra rosee. Rickon sospirò a bassa voce, affondando una mano fra i suoi capelli, sollevandoli e poi lasciandoli scivolare come sabbia fra le sue dita, in un prezioso sfavillio dorato dalla luce di una timida candela.
Per l'inenarrabile magia di quegli istanti, la sublime calma che lo pervadeva come un narcotico aromatico, quasi si commosse. Il viso di lei, simile ad un medaglione di madreperla anticato, con quei superbi zigomi che cesellavano morbidamente le linee preziose delle guance, pennellate di rosa dalla luce delle candele; la maestà della fronte ampia ed alabastrina, il ricamo flessuoso della chioma, arricciolata con la forza delicata della cresta dell'onda marina, che barbagliava d'oro nudo come sangue di stella. La potenza misteriosa e benevola dello sguardo... degli occhi verdi, verdi come giada di Norvos, verdi come quella genia demoniaca che aveva assediato sia i sogni che gli incubi di Rickon fin da prima ch'egli avesse memoria.
-Visto e considerato tutto quel che è successo, rimani ancora la ragazza più bella che io abbia mai visto.- fu tutto ciò che disse, contemplando il modo in cui le ciocche di capelli di Myrcella che le scivolavano sul petto, lambendole i seni, assumessero al tocco della luce la candida traslucenza della spuma di cristallo.
Le labbra di lei non si abbandonarono in un sorriso radioso, come avrebbe fatto in altre circostanze.
-Domani andrai.- ripetè atona.
-Domani andrò.- confermò Rickon, soffiando quelle parole sul suo viso. La fanciulla gli stava rannicchiata sul petto, soltanto il collo inarcato affinchè potesse guardarlo negli occhi. Una coperta avviluppava i loro fianchi: stava giungendo l'inverno anche per il Sud. Le stelle crepitavano a gran voce nel cielo notturno che sovrastava la loro tenda, disegnate sulla tela logora e sottile.
Myrcella aggrottò la fronte. L'unica cosa che portava indosso era un'ametista grossa come un pugno, appesa ad un laccio insignificante che le cingeva il collo esile e rotondo; il ragazzo cominciò a giocherellarci, distrattamente.
-Perchè?-
Rickon socchiuse gli occhi e godette del caldo peso della fanciulla sopra di lui, avvertendo la sua pelle liscia e tiepida contro il petto, la massa aurea e profumata dei capelli intrecciata alle braccia. Il giorno successivo l'esercito sarebbe entrato trionfalmente ad Approdo del Re, dove inaspettatamente i Lannister avevano ripiegato, per chissà quale motivo che di sicuro avrebbero inteso troppo tardi. La strinse a sè un po' più forte.
-Perchè amo la guerra da prima di quanto amassi te.- rivelò, con un pizzico d'ironia e molta più paura di quanto non volesse ammettere a se stesso.
Myrcella gli scoccò un'occhiata obliqua. -Più di me?-
Rickon sorrise della sua reazione e le baciò la bocca. -È... diverso.-
-Ma se dovessi scegliere? Perchè è quello che ti verrà chiesto di fare domani. Ed è una scelta letale.- insistette la ragazza, toccandogli una guancia. Detestava questa situazione d'impotenza, d'impraticabile inavvicinabilità. Non voleva supplicare, non l'avrebbe mai fatto, però non si era mai sentita così tentata di farlo.
-Anche tu sei letale.- osservò egli, con un ghigno. -Più di qualsiasi altra cosa.-
Myrcella si scosse via dal suo abbraccio, con sgarbo e fastidio, sgomitando e alzandosi seduta, rivolgendogli la schiena. Non la stava ancora prendendo sul serio, e questo la faceva andare in bestia. Rickon Stark non dava peso a nulla: nè alla vita delle persone, nè alla propria; nè all'angoscia delle persone, nè alla propria.
Quei giorni erano stati quanto di più angoscioso avesse mai dovuto sopportare, più delle segrete buie, più del freddo del Nord, più dei volti che si deterioravano nella sua memoria. Ogni mattina apriva gli occhi e cercava Rickon nell'ombra, con le mani e le labbra e l'olfatto, consapevole che magari ben presto l'avrebbe fatto inutilmente; ogni sera chiudeva gli occhi giacendo al suo fianco, il fiato a solleticarle il collo, e pensava che dovevano approfittare di ogni minuto delle ultime ore a loro concesse. Faceva l'amore con lui con l'affanno rappreso fra le labbra e la disperazione affissa nel cuore, chiedendosi fra quanto tempo le sarebbe stato dato modo soltanto di rievocare nella mente quegli istanti di tonda, elementare, nitida esattezza. Non riusciva a credere che Rickon, al contrario, fosse così indifferente a quel che stava per succedere, alla battaglia che forse li avrebbe divisi per sempre. Myrcella non si ingannava più, non da quando era stata rinchiusa in una cella per mesi: Rickon non soltanto ne aveva combinate troppe, non solo era l'ennesimo Stark scomodo ancora in vita, ma, essendo estremamente pericoloso, era il primo obiettivo di tutti i soldati, là fuori. Probabilmente chi l'avesse ucciso sarebbe stato ricompensato da Tommen molto profumatamente. Mentre menti ciniche stavano là fuori ad architettare indisturbate piani per uccidere Rickon, lei poteva solo stare lì, disarmata, inutile, femmina, e poi consegnarlo al sogghignante nemico come un agnello sacrificale... Quei pensieri le impedivano il sonno. Si rigirava inquieta, alla ricerca di un ordine perduto, di una serenità stracciata. Non esistevano appigli in grado di ostacolare la sua caduta, così come balsami per lenire le sue preoccupazioni. Il cuore doveva soffrire e il corpo doveva seguirlo in un lento ed inevitabile processo di degenerazione, fino alla fine. Così smise di trattenersi e vomitò tutte le tribolazioni della sua anima, di getto.
-Perchè accidenti non vuoi tenerti stretta quella vita che così duramente hai preservato?! Perchè la devi rischiare così, senza motivo?! Vuoi combattere per nulla, per... la gloria, che è inconsistente, che non la toccherai mai, poco più di un sogno e quattro parole. O cos'altro?!- sbraitò. -Rimani qui, come fa tuo fratello. Rimani nell'accampamento e non gettarti in quella mischia di spade, e soldati, e sangue, e... Quelli là ti odiano, Rickon, lo capisci? Ti vogliono fare del male.-
Rickon contrasse il viso in un'espressione accigliata, con fare indisponente.
-Questa è la guerra.- tagliò corto, come se stesse spiegando una banalità ad un bambino un po' tonto.
-Non cercare di menarmi per il naso!- sbottò Myrcella. -Tu potresti sottrarti, caro, e a maggior ragione dovresti farlo, visto quel che è successo di recente. La paura della morte non è sopraggiunta nemmeno un po'?-
Il dolore di Bran Stark l'aveva terrorizzata; pensava a cosa avrebbe fatto se si fosse trovata nella stessa condizione, e vedeva il vuoto d'una via così impervia che non viene nemmeno intrapresa, ma solo rinnegata con orrore. La scomparsa di Jojen Reed, tra l'altro, le aveva ricordato che tutti gli uomini sono odiosamente mortali -Rickon non faceva eccezione, anche se si comportava in maniera che lasciava intendere tutt'altro.
-Paura per qualcosa che giungerà comunque, adesso o fra due anni o fra cinquanta?- Rickon Stark scosse la testa. -No, Myrcella. Esistono almeno un'infinità di cose peggiori della morte, e potrei elencartele tutte, visto che le ho provate una ad una. Morire, e cosa vuoi che sia? Quando sei morto, non ti rendi mica più conto di esserlo.-
-Ma non adesso! Perchè mai dovresti accettare di morire adesso, con una vita davanti ancora da vivere? Bran è confuso, esasperato e soffre come una bestia moribonda, e tu hai intenzione di lasciarlo ad affrontare tutto questo da solo? Dovresti stargli accanto, aiutarlo ed evitare tranquillamente ogni pericolo. Però non lo vuoi fare, nemmeno per me... Cosa ne sarà, di me, se tu morirai? A questo almeno hai pensato? Se hai troppa vergogna per il tuo onore, a non presentarti sul campo di battaglia, pensa a me.- Myrcella si aggrappò al suo petto, come una supplice stretta all'altare del suo dio. -Pensa al modo in cui il tuo esercito mi venderà ai Lannister, oppure a come i vostri uomini mi stupreranno, o a come getteranno la mia testa ai piedi di Tommen...-
-Stai cercando di spaventarmi?- Rickon le immobilizzò i polsi con dolce fermezza, una severa rigidità in volto.
Myrcella sbuffò. -Sto cercando di farti ragionare, che non vuol dire la stessa cosa. Non vedo come tu possa essere tanto... caparbio, e... cieco, ecco. Perchè mai dovresti rischiare di morire, quando puoi rifiutarti senza problemi? Spiegamelo.-
-Questa è la mia guerra.- Il ragazzo precisò la sua affermazione precedente, mentre l'immensità di quelle parole lo sopraffaceva. -Nessun altro può combatterla per me.-
A quella, Myrcella non seppe cosa ribattere. Tacque, sconfitta e prostrata, mentre il vano tentativo delle sue parole si discioglieva senza fare breccia. Desistette, strofinandosi gli occhi arrossati, e si voltò dall'altra parte.
-Ho paura.- ammise piano.
Rickon inarcò un sopracciglio, interrogativo. Ammirò ancora quel volto tenero, plasmato dall'umana natura per essere ritratto con i colori ad olio, per adornare gli arazzi e le pagine dei libri riguardo le genealogie reali: quel volto che però egli sapeva capace di funeste passioni, di supremo dolore, di iracondia e violenza, di fragile umanità ed animalesca ferocia. Un viso sfregiato dalla realtà e fregiato d'onore, ormai. Myrcella Lannister non era più il grazioso gingillo di una reggia, non era più la principessa sorridente e silenziosa.
-Di me?-
La voce di Myrcella giunse lenta e musicale come la risacca. -Di noi.-
Rickon sorrise. Era una risposta saggia, ma giunta in ritardo, nel posto sbagliato, al momento sbagliato.
-Non serve. Ormai noi due siamo, e saremo fino alla fine.-
Era vero. Era tremendamente vero. Nella sua vita Myrcella c'era, aveva un posto ben preciso, un'importanza ben precisa, come quella della luna e della stella polare. Nella sua vita Myrcella doveva esserci.
Il silenzio calò di nuovo.
Rickon parve riscuotersi. -Quasi dimenticavo... voglio regalarti una cosa.-
Nonostante la malinconia ed il vago astio, lo sguardo di Myrcella non potè fare a meno d'accendersi di rapita curiosità. -Cosa?-
Lui frugò in una sacca e ne trasse un fodero di pelle nera e squamosa, presumibilmente di un rettile. Da esso, con un movimento abile da prestigiatore, sguainò una lama di notevole lunghezza: l'estremità che Rickon impugnava era circolare, ma lungo tutta la sua estensione andava assottigliandosi fino ad una punta affilatissima, a tal punto che Myrcella non riusciva a vedere esattamente fin dove proseguisse la punta, perchè pareva raggiungere una dimensione invisibile all'occhio umano. Aveva una sfumatura azzurrina, come un sogno, però alla luce della candela balenò di riflessi iridescenti e fulminei, che dardeggiavano a turno e ripetutamente la lama.
Myrcella era strabiliata: le pareva di non aver mai visto un prodigio simile. 
-E' stupendo! Ma cos'è?- cinguettò deliziata, sfiorandola cautamente con il polpastrello, quasi nel timore di mandarlo in frantumi. Al tatto, era liscio come vetro.
Rickon sorrise enigmatico. -Non hai mai sentito dire che a Skagos vivono gli unicorni?-
Gli occhi di Myrcella si spalancarono di meraviglia, subito però sostituita da un'ombra di timoroso sospetto.
-... ti prego, Rickon, non dirmi che hai ucciso un unicorno!- piagnucolò, scuotendo la testa con disapprovazione.
Il ragazzo s'imbronciò. -Figurati. Ovvio che non l'abbiamo fatto. Io e Osha l'abbiamo trovato già morto... probabilmente una ferita inferta in qualche scontro con le pantere-ombra. Poi è fuggito ed è stramazzato a terra lì. Era enorme, devono essere servite almeno cinque pantere-ombra per attaccarlo. Aveva zoccoli imponenti come macine di mulino e un muso più grosso di quello di un toro, ma era davvero bello. Aveva un manto bianco che più bianco non si può. Abbagliante. Sembrava diffondere luce propria, nella radura. Sotto la luna piena, con tutto il sangue attorno, era uno spettacolo da mozzare il fiato.-
Myrcella ascoltò, incantata. Quando Rickon narrava le sue avventure, si sentiva tornare bambina, con sua madre e la balia che raccontavano leggende, soprattutto riguardo le imprese dei Lannister... Adorava quelle storie. La voce di Rickon, poi, le speziava d'un sapore inimitabile.
-Il manto era così magnifico che Osha quasi quasi se lo voleva prendere, ma poi scuoiarlo le parve un oltraggio troppo ignominioso, e non l'ha fatto.- proseguì Rickon. -Poi ce ne siamo mangiato un po'.-
-Rickon!- gemette Myrcella, disgustata dall'idea e inorridita dal crimine al tempo stesso.
-Che c'è! Tanto era morto, la carne non gli serviva più.- si giustificò lui, laconico. -Però ascoltami, adesso ti dico perchè ti regalo questo corno. E' l'oggetto più prezioso che ho, perchè non soltanto è estremamente raro e quindi costoso in maniera esorbitante, ma è anche un'arma infallibile. La pietra di cui è fatto, a dispetto delle apparenze, non la distrugge nemmeno l'acciaio di Valyria. Inscalfibile, ti dico. Ci ho provato mille volte, e non si è fatto neanche un graffio. Penso che solo temperature pari al respiro di un drago potrebbero liquefarlo. Poi è lungo, perciò se lo affondi nello stomaco di qualcuno lo trapassi da parte a parte. Con un po' di fortuna, lo ammazzi sul colpo. Rompe qualsiasi osso, qualsiasi tessuto muscolare, qualsiasi corazza di metallo... se al colpo impartisci la necessaria forza fisica, s'intende. Allora, che te ne pare?-
Myrcella prese il corno fra le dita e lo rigirò sotto la luce, affascinata. -Sei tu quello che va in battaglia e ne avrebbe più bisogno.-
-Tu intanto sarai da sola con le guardie qui, e sei una preda piuttosto ambita. Girare armata, da queste parti, di questi tempi, non è una cattiva idea. Se poi è una buona arma, ancora meglio.-
-No, non hai capito. Hai detto che è la cosa più preziosa che hai. Perchè me la regali? E' tua.-
Rickon la fissò negli occhi. -La cosa più preziosa che ho, per difendere la persona più preziosa che ho.-
Non c'era un pizzico di stucchevolezza o di romanticismo nelle sue parole, eppure Myrcella avvertì un tuffo al cuore. Le tornarono in mente le sue fantasie di bambina, il suo ricco lord, il suo prode cavaliere, il suo bellissimo principe. Le parve che tutto all'improvviso coincidesse, si riconoscesse e concordasse in un ordine perfetto, simmetrico, alchemico. Le parve di essere di nuovo all'inizio della storia. Il cerchio si chiuse e completò.
Si adagiò sul cuore del ragazzo che amava, infiammata, inebriata, assordata da quella passione gravida di parole e silenzio. Si chiese perchè la vita non potesse essere solo questo, solo e soltanto questo, per sempre, fino alla fine dei tempi. Si sentì al sicuro. Si sentì a casa.
-Domani andrò,- ripetè Rickon, torvo, -ma non piangere, quando partirò. Altrimenti potresti riuscire a muovermi a compassione.-
Myrcella sorrise triste, scaldata dal lieve tepore di un ricordo. -Io non piangerò mai davanti a te, Rickon Stark. Non ho cambiato idea.-
Risero, ma fu breve. Quella notte durò un'eternità ed un istante, sofferta come una ferita da taglio, amata come una benedizione, e come tutte le cose -sofferte o benedette che siano- terminò.
All'alba, Myrcella Lannister non pianse.
***
-Cosa sarebbe a dire, che c'è in arrivo una flotta?!-
Ecco, ce l'hanno fatta, pensò Tommen. Mi hanno trasformato nel re che volevano. Aveva il fiato corto, gli occhi gonfi ed arrossati e la stanchezza sulle guance: non si era mai sentito meno piccolo di così, addirittura quasi invecchiato in quelle poche ore. All'improvviso, l'imperativo di gestire tutto quel che stava accadendo gli succhiava la vita fin nel midollo delle ossa, come se tutte le armi del mondo gli venissero gettate sulle spalle.
Era rimasto sbalordito, quando suo zio gli aveva riferito che sarebbero tornati ad Approdo del Re. Sarebbe stato come autorizzare gli Stark ad espugnarla! Non sembrava certo una strategia vincente. Avrebbero fatto la figura dei codardi. Solo a quel punto Tyrion gli aveva fatto leggere l'ultima lettera vergata dal pugno di Jojen Reed. Una vittoria già predestinata, il trionfo in tasca, il trono ancora suo. Un futuro limpido.
-Andremo ad Approdo del Re, per il semplice motivo che Brandon Stark morirà ad Approdo del Re.- aveva spiegato lo zio semplicemente. -Quindi è lì che dobbiamo essere. Diamo una mano al destino, insomma.-
Tommen non era assolutamente convinto di tutto ciò, ed una strana inquietudine proseguiva a perseguitarlo. Anche se si ripeteva senza sosta ch'era immotivata, non c'era modo di scacciarla. Si fidava ciecamente di suo zio Tyrion e, se lui credeva che questo l'avrebbe condotto alla vittoria, voleva crederci.
Stava gestendo tre conversazioni nello stesso momento: lo scudiero che gli stava domandando cosa ne avrebbe fatto delle Guardie Reali, un messaggero che gli riferiva l'avanzata dell'esercito del Nord ed una guardia che aveva un messaggio da parte della regina Margaery. Perciò, in quel momento non aveva nemmeno un secondo da concedere a suo zio; almeno, non lo aveva avuto finchè Tyrion non aveva preso fiato e urlato, per sovrastare il chiacchiericcio generale: c'è una flotta in arrivo al Golfo!
Tommen, ansante, si morse il labbro inferiore. Ti prego, fa' che abbia sentito male. Fa' che abbia detto lotta. Oppure... calotta. O magari...
-Comandata dai Greyjoy.- precisò Tyrion, cupamente. -A quanto pare, la regina del Nord si è data da fare... ha stretto alleanze a destra e a manca. Mi sono permesso di dare ordine di imbastire le navi, ma è comunque troppo tardi. L'attacco è imminente... Siamo incalzati sia per mare che per terra. Una fortuna, l'aver già provveduto ai viveri per i prossimi mesi, perchè altrimenti sarebbe un bel problema.-
Tommen agitò una mano con veemenza, per richiamare l'ordine. In mezzo a quel guazzabuglio, le voci si fondevano in un unico canto disarticolato che discorreva in una lingua senza senso.
-Vi prego, vi prego, non parlate tutti insieme! Non capisco nulla! Kurtis, prima tu.- sospirò infine.
Lo scudiero abbassò lo sguardo.
-Ser Jaime chiedeva di essere ricevuto, Vostra Grazia, e così ser Loras. L'ho impedito loro, dato che voi avete categoricamente ribadito di non voler vedere nessun altro. Cosa dovrei...-
-D'accordo, d'accordo, che entrino.-
Tommen non riusciva proprio a stare fermo sul trono. Scivolò giù da quell'irto sedile di lame e si liberò con stizza dallo scomodo abbraccio delle spade; scese i gradini del trono, per poi cominciare nervosamente a passeggiare avanti ed indietro, posseduto da un'irrequietezza tormentosa. Quella gente voleva che lui prendesse delle decisioni... ma non si rendevano conto, gli altri, di chi era il loro re? Un ragazzino privo di qualsiasi esperienza, di qualsiasi erudizione bellica? Perchè non si accorgevano di starsi affidando a mani incompetenti? Era Tommen stesso che avrebbe voluto strillare vi prego, fate qualcosa! e cedere ad un sonno centenario, lasciando tutto alla responsabilità altrui. Erano due adesso le notti che aveva passato in bianco, insieme a suo zio Tyrion, indicando alle guardie i punti dove rafforzare le mura, posizionare le macchine anti-assedio e le catapulte, schierare le file più esperte... Aveva potuto dormire soltanto per sporadiche ore pomeridiane, sullo scranno di legno del Concilio Ristretto, con il capo abbandonato sul tavolo. Il tempo gli era assolutamente mancato: sbraitare ufficialmente rassicurazioni ed esortazioni di fronte al popolo, apportando pure l'ulteriore impegno d'apparire convincente, quando lui per primo si sentiva smarrito e travolto dal corso degli eventi, lo aveva privato della lucidità e dell'ottimismo. Era ridotto ad un fascio di nervi e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Gli bastava distrarsi un attimo per mettere alla prova la propria eroica resistenza e vedere la realtà vorticare e confondersi ai suoi occhi. Mai aveva bramato il sonno, di solito così largamente dato per scontato, come in quel momento. Avrebbe ucciso pur di permettersi il lusso di chiudere gli occhi, solo per qualche minuto...
Jaime e Loras entrarono discutendo animatamente fra sè, fianco a fianco. Era evidente che stavano litigando.
-... è fuori discussione. Rischia troppo. Deve partire insieme ai suoi figli, subito.-
-Tommen non può permettersi la tua assenza. La sua incolumità è la prima cosa. Il resto viene dopo, soprattutto la mogliettina fedifraga.- tagliò corto Jaime, interrompendolo. Il Cavaliere di Fiori aggrottò il viso ed il rancore lo attraversò come uno spasmo. Trattenersi dal portare la mano alla spada fu più difficile del previsto.
-Cosa succede?- li apostrofò Tommen, impaziente.
Gli occhi azzurri di Loras lampeggiavano d'indignazione.
-Altezza, sono dell'opinione che i vostri figli debbano lasciare immediatamente la capitale, prima che sia troppo tardi... e con loro Margaery. Nonostante i suoi errori,- sbottò, stroncando sul nascere la battuta pugnace che Jaime stava per rivolgergli, -lei è ancora la regina dei Sette Regni e non possiamo permettere che le venga fatto del male. La Fortezza Rossa è l'obiettivo del nemico. Lei e i suoi figli non possono restare nell'occhio del ciclone... Concordate con me, non è vero, Maestà?- concluse ansiosamente, rivolgendogli uno sguardo così disperatamente affranto che per un istante Tommen percepì le proprie difese vacillare. 
-Lo ritengo sconsigliabile.- tossicchiò Jaime, affilando lo sguardo sarcastico. -La tua Fortezza è esattamente la meglio difesa di tutti i regni. Non per niente si trova nella capitale dei Sette Regni. In quale altro posto saranno più protetti, i tuoi figli, se non a portata di sguardo? Farli evadere dal tuo controllo potrebbe rivelarsi un passo falso. Ti ricordo inoltre che la regina Margaery è tutt'ora in arresto. Se la liberassi, potrebbe benissimo scappare e non farsi vedere mai più. Visto ciò che è successo, non mi sembra la persona adeguata in cui riporre fiducia...-
Tommen fece un cenno della testa, svogliato. -Credete che non ci abbia già pensato? Abbiate la cortesia di aspettare un attimo. Come procede l'esercito?-
Il messaggero si fece avanti. -Fra meno di un'ora saranno presso le mura, Maestà. I suoi alfieri chiedono se i piani sono stati cambiati o...-
-I piani non sono affatto cambiati.- Tommen misurò a lunghi passi il pavimento di marmo fulvo, nervoso. -Che gli schieramenti rimangano dentro la città e ne circondino le fortificazioni. La difesa di Approdo del Re è la nostra priorità... se la città cade nelle loro mani, è finita.-
Così lui e Tyrion avevano stabilito. O meglio, lo zio lo aveva stabilito ed il nipote aveva dato l'ordine.
-Quindi i nostri uomini devono provvedere soltanto alla difesa?-
-Ed anche a sterminare l'esercito del Nord, fino a che gli Stark non saranno costretti a ripiegare.- precisò Tommen. Però ci credeva sempre di meno. I suoi avversari avevano un numero sterminato di truppe, sia delle Terre dei Fiumi sia delle regioni settentrionali... per non parlare della flotta dei Greyjoy. Ma come avevano fatto ad impossessarsene?! Ci mancava solo questo.
Solo allora la guardia si fece avanti, timidamente, intuendo il cattivo umore del sovrano.
-Vostra Maestà... la regina vorrebbe parlarvi...-
-Quali sono le sue richieste?- sbuffò Tommen.
Egli esitò per un istante. -Chiede di poter fuggire con i principini ad Alto Giardino. E poi-
Tommen rise. Non gli rimaneva altro da fare. Lo trovava atrocemente spassoso. Fin a che punto avrebbe osato, Margaery? Davvero aveva una così bassa opinione di lui?
-Ad Alto Giardino. Prima progetta di ammazzarmi, di soffiarmi il trono, e poi vuole tornare ad Alto Giardino spensieratamente! Come se nulla fosse! Con i miei figli! Non può davvero sperare che accetterò. Se lo chiede ser Loras, lo capisco. Le vuole bene. E' sua sorella. Non si smette mai di amare le proprie sorelle.- La sua bocca si storse in una smorfia dolorosa. -Ma lei stessa! Implorare salvezza per sè, dopo tutto quello che ha fatto! Che sia la regina, ha ben poca importanza. Lei ha complottato alle mie spalle. Questo è alto tradimento. A quale prigioniero accusato di alto tradimento al mondo viene permesso di tornarsene a casa?! Di' alla regina Margaery che la sua volontà ha smesso d'importarmi. So prendermi cura dei miei bambini, e lo farò da solo. Quando tutto questo sarà finito, allora, e solo allora, glie li farò rivedere. Forse. Sono stato chiaro?!-
La guardia balbettò ch'era chiarissimo e schizzò via dalla sala in tutta fretta. Tommen, estenuato dalle troppe emozioni, fu costretto a sedersi di nuovo su quello stupido trono di spade. Proprio come Jaime aveva predetto, stava cominciando ad odiarlo. Congedò tutti, fuorchè i suoi zii e ser Loras.
Quando la porta sbattè alle spalle dell'ultimo uomo, Tommen si rivolse a Tyrion.
-Cosa possiamo fare per contrastare la flotta?- domandò, poggiando il peso della testa su una mano.
Tyrion scrollò le spalle. -Far sgozzare capretti dai septon, immagino. La nostra flotta è già schierata, ma non è abbastanza numerosa nè fornita di uomini o armi. Imbastita troppo alla svelta. Non perdere la speranza, Tommen... Approdo del Re ha resistito a molti assedi. Lo farà di nuovo.- cercò vagamente di confortarlo, a disagio. Il problema era che anche la sua fiducia nel futuro esitava. Bran Stark sarebbe presto morto: quell'unica certezza gli permetteva di intravedere la fine di quella guerra.
Loras fece un passo avanti. -Vostra Maestà, non vorrei sembrare insolente, ma vi prego di prendere una decisione circa mia sorella e i gemelli. Io sono disposto ad accompagnarli al sicuro, ovunque voi riteniate giusto. Vi supplico...-
Tommen arrestò il flusso delle sue preghiere con un gesto di salda fermezza. -Ho ascoltato la sua proposta, ser, e ho preso una decisione. La regina mia moglie resterà qui, nelle segrete del castello, come si confà ad una traditrice; ed allo stesso tempo, farò in modo che abbia a disposizione un passaggio segreto tramite il quale fuggire, in situazione d'emergenza. I miei figli invece non rimarranno qua. Devo soltanto decidere a chi affidarli. No, ser Loras, è fuori discussione. Ho bisogno delle mie guardie più fidate e valenti in questa guerra.- aggiunse precipitosamente.
Loras sospirò; evidentemente non era ciò che sperava di ottenere, non era soddisfatto del responso, ma tacque. Jaime sorrise.
-Mi proporrei io, ma ho un conto in sospeso con Rickon Stark che ci tengo a saldare.-
-No, anche tu mi servirai.- decretò il giovane re. -Ci penserò su...-
Tyrion alzò la mano. Sul viso attraversato dalla cicatrice, aveva uno dei suoi tipici ghigni furbeschi.
-Lascia che me ne occupi io. Ho già in mente tutto il piano bell'e predisposto.-
-Zio Tyrion? Credi davvero che riusciresti a portarli via, sani e salvi?-
Tommen non era molto convinto, ma suo zio dissentì con il capo. Sapeva benissimo che un nano come lui non sarebbe mai stato all'altezza del compito. Primo, era assai ben riconoscibile; secondo, non avrebbe potuto difenderli con la spada, in caso di necessità.
-Non io, nipote. Sarà Podrick Payne a farlo.-
Tommen inarcò le sopracciglia stupito. -Payne?-
La partenza fu stabilita per quello stesso pomeriggio. Era uggioso, umido, irritante a fior di pelle; con gli occhi invasi dalle lacrime, per colpa della luce d'un biancore pungente, Podrick Payne faticava a sostenere lo sguardo di Tyrion Lannister. Il Folletto lo attendeva nelle scuderie della Fortezza Rossa, sotto una tettoia, con uno sguardo imperscrutabile e, come sempre, assorto in qualche cupo e grave pensiero. Al suo fianco, due figure -una più alta, una simile a Tyrion- si stagliavano silenziose al suo fianco, il viso celato da un mantello.
Podrick esaminò i due sconosciuti, incuriosito. -Mio signore, posso chiederti che cosa...?-
-Ti voglio incaricare d'un compito della massima importanza.- annunciò il Folletto, senza distogliersi dalla sua strana apatia. Dopo tanti anni passati insieme, al suo servizio, Podrick aveva imparato che quando egli diceva così c'era da preoccuparsi.
-E... cioè?-
Sotto il suo sguardo trepidante, le due figure si scrollarono i cappucci dal volto. Quella più alta era una donna, di bellezza esotica, con allungati occhi umidi e scuri, i capelli neri acconciati frettolosamente in una treccia scompigliata; quella minuta era una bambina, dalla chioma chiara come il sole ed il sorriso furbo, acceso d'intelligenza, vestita di una tunica sbrindellata.
Podrick rimase senza parole. -Cosa...-
-Ti presento la mia donna e mia figlia.- esordì Tyrion, saltando i preamboli. -Belle, vero?-
Il ragazzo lanciò un'occhiata incredula alla piccola: si accorse con sconcerto che effettivamente l'espressione astuta era quella del Folletto, tale e quale.
-Ciao! Io mi chiamo Cailee. Tu come ti chiami?- chiese con una voce cristallina e melodiosa. Prima che potesse rispondere,
-E questi due giovanotti li conosci già.- aggiunse Tyrion, facendo un cenno verso la donna, che stringeva fra le braccia due fagotti: l'uno avvolgeva Nathaniel Lannister, l'altro il suo gemello Lionel, saporitamente ed appassionatamente addormentati. Podrick avvertì un brivido impalarlo dalla testa ai piedi. Merce pericolosa, quella.
Cercò vanamente una via di fuga. -Mio signore, io cosa mai potrei...-
Tyrion gli rubò la parola, indifferente. -Ti affido i due lattanti più importanti di Westeros e le due donne più importanti della mia vita. E lo faccio esattamente perchè sei l'unica persona di cui io mi fidi al mondo. Vedi? Sei l'unico ad avere un primato assoluto...-
-Io non penso di esserne in grado, signore. Dove le dovrei portare? Cosa accadrà se ci tendono un'imboscata strada facendo? Ci sono tanti altri cavalieri migliori di me che-
-Non voglio nessun fottuto cavaliere, Pod. Ti sbagli: tu sei proprio l'unico ad esserne in grado. In che posto le potresti mai portare, se non a Castel Granito? Una capatina a casa, in parole povere. Starete lì per tutta la durata della guerra, e... se la situazione non si evolverà come spero... ti contatterò e darò indicazioni in seguito. Per non correre il rischio di imbattersi in qualche carovana che vi fermi, vi ho portato mantelli con i colori degli Stark. Se fosse gente dei nostri a beccarvi, non dovete far altro che farvi riconoscere grazie a questo foglio, che ho siglato per te. Nel caso in cui qualcuno ti chieda qualcosa sui bambini, sono i figli tuoi e della tua, ehm, concubina, cioè Shae. Invece farete passare Cailee per una cugina nata nei bassifondi. E' tutto chiaro?-
Podrick capì che quella non era una semplice richiesta, bensì un ordine. Chinò il capo ed annuì solennemente.
-Come desideri, mio signore.-
Il tono di Tyrion si fece più allegro. -Non preoccuparti, Pod, Shae non è una sprovveduta. Usa la daga niente male.-
-Meglio di voi di sicuro.- ghignò lei.
Tyrion le dedicò una lunga occhiata di rimpianto. In effetti, quando lei si era presentata alla Fortezza Rossa chiedendo di lui, tutta scompigliata ed atterrita, con Cailee per mano, aveva provato davvero il sapore del panico in bocca. Shae era preoccupata per l'incolumità della loro figlioletta: se gli uomini del Nord fossero penetrati in città, cosa che non era purtroppo da escludere, magari avrebbero saccheggiato le case e fatto del male agli indifesi, come accadeva sempre durante gli assedi. Tyrion sapeva infatti che Bran e Rickon sarebbero morti, ma non sapeva quando, se prima o dopo aver procurato tutti quei guai. Non poteva permettere alla piccola di correre quel pericolo.
Come mantenere l'anonimato di loro due e metterle in salvo contemporaneamente? E così gli era venuta in mente l'idea di prendere due piccioni con una fava, e salvare sia i gemelli che Cailee.
Odiava l'idea di doversi staccare da Shae per molto tempo, però perlomeno sarebbe stata al sicuro. Una sola costante in quell'oceano di dubbi e forse. Sì, era necessario: a costo di rinnegare il primo dei desideri che aveva espresso riguardo la sua morte, ovvero, più precisamente, il modo in cui avrebbe voluto morire.
-Su, presto, andate. Fra poco sarà impossibile allontanarsi da qui.- Tyrion cercò di non drammatizzare; il sarcasmo era sempre stato il rimedio migliore a qualsiasi ferita il destino gli avesse mai imposto, e non l'avrebbe ripudiata nemmeno adesso.
Si voltò verso la figlia e la osservò con affetto. Sì, in effetti gli somigliava, per il brillio nei loro occhi e qualcosa d'indefinibile nel viso; per il resto, aveva preso ciò che c'era di meglio da sua madre. Era una bambina molto sveglia, e avrebbe imparato tutto quel ch'era di dovere per sopravvivere a questo mondo. Ce l'avrebbe fatta anche senza di lui, nel caso in cui... no, non voleva pensarci.
-Devi fare la brava, capito? Obbedisci alla mamma, e tutte quelle cose che si dicono di solito.- ordinò, passando una mano fra i suoi fini capelli biondi.
Cailee tirò su col naso. -Anche mangiare i broccoli?-
Tyrion la rassicurò. -No, i broccoli puoi anche lasciarli stare.-
La bimba si guardò i piedi, le sopracciglia aggrottate in un'espressione contrita. Al Folletto si spezzava il cuore, a vederla così.
-Perchè dobbiamo andare via, papà? E dove andiamo?- 
-Vai con questo signore, lo vedi?- Tyrion indicò Podrick, che sorrise ed accennò un saluto poco convinto con la mano. La bambina lo esaminò, riluttante ed ancora un po' angosciata. -Ha una faccia simpatica, vero? Ecco, lui è un mio amico, e ti porta in vacanza.- Il padre prese quelle piccole mani fra le sue e le strinse forte, guardandola negli occhi. -Tu scrivimi tante lettere, visto che hai imparato, e raccontami tutto quello che fai. Ne voglio due al giorno, capito?-
Cailee sorrise dietro un lieve velo di lacrime che le inumidiva gli occhi. -E io te ne scrivo tre.-
-Tre, bene.- Tyrion fece di tutto e di più per non cedere anch'egli all'emozione e si limitò a trarla a sè, percependo quanto mai prima il significato della propria impotenza. Ricordò quando Cersei, un tempo, gli diceva che non esisteva amore paragonabile a quello di un genitore per un figlio... ebbene, su questo doveva darle pienamente ragione. Schioccò un ultimo bacio sulla fronte della figlia, prima di rivolgersi a Shae.
Era giunto il momento di salutare anche lei. Non potè fare a meno di pensare a Joanna, a Tysha, a Sansa, a tutte le donne che in qualche modo avevano preso parte alla grottesca messa in scena ch'era la sua vita e che, in qualche altro modo, il destino aveva revocato con il suo potere insindacabile. Non potè fare a meno di pensare che quello, se tutto fosse andato storto, sarebbe stato l'ennesimo addio.
-Stai attenta a non innamorarti di Pod. Lui è mio, chiaro?-
-Farò quel che posso.- rispose Shae, con un sorriso.
-Finalmente ti sei liberata di me.- aggiunse Tyrion, mentre la madre caricava la figlia sul suo cavallo e Podrick assicurava la propria sella.
Shae salì in groppa a propria volta e raccomandò la figlia di starle aggrappata; poi, dall'alto, lanciò un'ultima occhiata staffilante all'uomo che amava. Ancora molte parole rimanevano fra di loro: stai attento, stai attenta, fa' che nostra figlia si ricordi di me, tornaci a prendere, mi dispiace. Rimasero lì, a mezz'aria, come spettri sgraditi.
-Non mi libererò mai di te, Folletto.- dichiarò Shae. Un alito di vento infido la ghermì la lunga treccia inframmezzata da un nastro, ed il velo prezioso del suo mantello blu s'inarcò voluttuoso nell'aria limpida di freddo.
Tyrion, scambiandosi uno sguardo penoso e preoccupato con Podrick, osservando scomparire progressivamente le sue donne dal proprio orizzonte, credeva di avere raggiunto il vertice dello sconforto. L'unica cosa che poteva sperare era l'arrivo d'un notizia, cioè che Rickon Stark era stato pugnalato nel suo letto da Myrcella, cioè il segnale che le profezie del veggente avevano cominciato a realizzarsi.
E infatti una notizia giunse, il giorno seguente, ma ben differente da quella che aspettava.
***
-È un cervo, quello?-
-Ci sono solo lupi e trote, Maestà. Quella che vedete dev'essere l'insegna di Stannis Baratheon... patetico.- commentò Jaime.
Tommen strizzò gli occhi, cercando di focalizzare lo sguardo sull'immensa massa di corpi umani che avanzavano là in basso. In realtà, non sembravano nemmeno persone. Le loro armature rispondevano ai raggi del sole con ammiccamenti abbacinanti, come se si trattasse d'un nugolo di grossi scarabei grigiastri, che camminavano con un ritmo imperterrito e sempre uguale a se stesso. Ta-ta-tam, ta-ta-tam, ta-ta-tam. Tommen si ritrovò quasi a fischiettarlo fra sè; poi, nel timore che qualcuno potesse sentirlo, tacque. Le dita fradice del vento correvano a carezzare la porzione di pelle scoperta, fra l'elmo e la cotta di maglia: un brivido raggiunse la fibra stessa dei suoi muscoli, ma lui non ci fece troppo caso. Era impegnato a prendere coscienza di tutto ciò che lo circondava.
Era tutto nuovo, per lui: i trombettieri di guerra, le schiere massicce e compatte, le urla che si levavano selvagge ad infrangere la tensione di cui l'aria era permeata. Il cielo, gravido di pioggia, palpitava un colore ibrido fra quello della rena e della noia. La natura stessa pareva in sospeso, lungimirante, in attesa del putiferio che di lì a poco si sarebbe scatenato, violando l'asettica atmosfera di schizzi rossi. Da lassù, fra i merli delle alte mura di Approdo del Re, spazzare via tutti quegli omuncoli pareva terribilmente facile.
Il respiro degli uomini che gli stavano al fianco vibrava impaziente. Suo zio Jaime aveva un'espressione torva, quasi che si immaginasse di veder spuntare Rickon Stark dalle prime file, con un sorriso malvagio; con indosso la fiammante corazza dei Lannister, adornata di leoni rampanti, sembrava personificare qualche demone della mitologia antica. La sua inquietudine per un attimo adombrò la fremente eccitazione di Tommen. Loras Tyrell era più tranquillo; sedeva comodamente sulla sella intarsiata d'uno stallone bianco ed aveva attorcigliato alle dita le redini di cuoio morbido, lo sguardo perso da qualche parte fra i suoi pensieri, a scivolare con serena competenza da una parte all'altra dell'esercito all'orizzonte. Le labbra erano schiuse in un'espressione assorta e un piede, calzato nello stivale, ondeggiava pigro fuori dalla staffa. Egli portava un'armatura d'argento, con scolpito lo stemma della rosa in lamine d'oro sul pettorale e un elmo riccamente decorato, non ancora calato sul volto. Altri valenti cavalieri della Guardia Reale, fra cui un Hightower ed un parente Lannister, rimanevano algidi e statuari nel loro silenzio ed immobilità.
Proprio perchè tutti loro non protestavano, Tommen non osò lamentarsi per il terribile carico che l'armatura gli gravava addosso. Faceva persino un po' fatica a muoversi, ed era contento che ci fosse il cavallo a correre per lui. Altrimenti mi ammazzerebbero in un istante, pensò. Adesso non aveva intenzione di fare i capricci e lamentarsi, non era il momento giusto, però per il giorno successivo promise che se ne sarebbe fatta forgiare una più adatta.
Lo stemma del matalupo avanzava in testa. Anche se ancora non riusciva a distinguere nemmeno un viso, Tommen sapeva già che il Re Metamorfo non c'era: la guerra non è di competenza degli storpi, dopotutto. In un certo senso, l'idea lo tranquillizzava; tante volte aveva cercato di visualizzare quegli occhi assassini, capaci di dare la morte con il solo sguardo, ed aveva sempre sperato di non poter constatare quanto la sua fantasia s'avvicinasse al vero. Per quanto riguarda Rickon, ancora gli bruciava l'infamia d'averlo avuto di fronte e di non essersi battuto con lui. In questo modo aveva dato corda a quelle dicerie che lo volevano inetto, codardo e spaventato, poco più che un bambinetto: ma lui era cresciuto, e i Sette Regni se ne sarebbero presto resi conto.
-Ecco Stannis. Lo vedo.- annunciò Loras, con voce funerea, digrignando i denti.
-Bello come sempre.- concordò Jaime, asciutto. Tommen rivolse un'occhiata circospetta alla figura ancora alta ed imponente di suo zio. Rammentava quando, ancora piccolo, aveva fin da subito notato la differenza fra quell'uomo austero e rispettabile e suo padre, che non avrebbe intimorito neanche un furetto; a quell'epoca, quando gli veniva chiesto di salutare Stannis, s'inciampava sempre nelle parole per l'emozione. Ma adesso era un uomo, maledizione, e aveva il diritto di guardare in faccia chi voleva.
-Chi c'è al suo fianco?- domandò Hightower. Jaime aguzzò lo sguardo.
-Non ne ho idea. Chiunque sia, ha una bella stazza. Magari una guardia personale?-
-Nessuna guardia indossa armature simili.- rimbeccò Loras, che aveva accostato una mano al viso per scorgere meglio i diretti interessati.
Tommen seguì il suo sguardo. Accanto al cavallo baio di Stannis, un giovane cavalcava uno stallone non meno maestoso; e il re capì l'insinuazione di Loras riguardo l'armatura, perchè in effetti il ragazzo indossava un elmo sontuoso, con scolpito lateralmente il muso del cervo dei Baratheon.
-Un parente Baratheon? Possibile?- si stupì a sua volta.
-No.- tagliò corto Jaime. -Mi sembra poco probabile. Se Stannis avesse avuto un figlio maschio, oltre che quella sventurata ragazzetta, lo avrebbe sfruttato a iosa per la sua rivendicazione al trono.-
-È pericoloso stare qui, Maestà.- lo interruppe Loras, lanciando un'occhiata truce agli arcieri che si avvicinavano. -Meglio ritirarsi al riparo.-
Tommen annuì svogliato e lo seguì, tornando così nell'accogliente ventre della città dov'era nato. Gli era sembrato di affacciarsi su un mondo completamente diverso, distante dal suo come quello terrestre lo è da quello marino. Il fragore delle armi, gli strepiti dei soldati, gli stendardi che tagliano l'aria, schiaffeggiati con veemenza dal vento... Tutto ciò risultava nuovo, ma non per questo inconciliabile. Questo avrebbe potuto essere anche il suo, di mondo -avrebbe dovuto esserlo, s'era ancora intenzionato a diventare re.
E poi, un silenzio quasi tragico calò con la rapida fretta d'un lampo fuori posto. Fu come istintivamente Tommen percepì a fior di pelle: cadde il tuono.
-Piegatevi a Gendry Baratheon, primo del suo nome, re degli Andali e dei Primi Uomini!-
Tommen irrigidì le spalle, come se la brezza di quella giornata fosse finalmente riuscito a penetrargli nella carne ed immobilizzarlo. Jaime Lannister tornò sui suoi passi, salendo rapido le scale della fortificazione, con il cuore in gola. Quel che vide, quando si affacciò nuovamente ai merli, lo atterrì.
Una donna si era fatta avanti, insieme al ragazzo dalle spalle larghe e i capelli neri; tutto l'esercito li circondava a diversi metri, quasi nell'intento di non sottrarre ai protagonisti l'attenzione che meritavano. Al fianco del cavallo su cui sedeva il giovane, lei s'ergeva con le tracce d'una febbrile esaltazione sul viso. Una massa di capelli scuri come l'ebano ricadeva riccia e gonfia sulle sue spalle esili, le guance leggermente erano un po' incavate ed il volto allungato; gli occhi, grigi ed affilati, erano affogati in peste ombre buie. Non indossava nemmeno un'armatura, ma solo una casacca di pelle e una grossa pelliccia d'animale drappeggiata sulle spalle come un trofeo.
-No.- biascicò Jaime. -Non può essere.-
Invece era proprio la piccola degli Stark; o meglio, quel che ne restava. Ma perchè accidenti questi Stark avevano l'abitudine di resuscitare dal mondo dei morti?! Era quasi un paradosso: Cersei un tempo l'aveva fatta cercare per mari e monti, nella convinzione che la bambina fosse miracolosamente sopravvissuta, senza successo; ed ora rieccola lì, con qualche anno in più e una spada alla cintura. 
Arya afferrò la mano del ragazzo che vestiva i colori dei Baratheon, molto più grande della sua, e la sollevò in alto. Scandì le parole con lapidaria chiarezza, rivolgendo un'occhiata quasi severa alla fortificazione della città.
-Arrendetevi all'erede al trono, oppure subite l'assedio e morite. Questo è il vostro legittimo sovrano. Spodestate il vostro ragazzino e deponete le armi. È la vostra ultima possibilità.-
La sua voce risuonò al di sopra delle teste, delle nuvole. Parve un grido di guerra. Il sorriso placido di quella ragazza dimostrava ch'ella sperava vivamente che non l'avrebbero fatto.
Il presunto principe le rivolse un'occhiata così dannatamente reverente che Jaime intuì all'istante. Ecco come se li trovano, gli alleati, gli Stark... Quando il ragazzo prese la parola, persino il vento parve trincerarsi in un silenzio rispettoso.
-Popolo di Approdo del re, il mio nome non è Baratheon: è Waters. Tristemente conosciuto, da queste parti. Ebbene, io non sono un principe. Non sono cresciuto in quella fortezza- allungò una mano ad indicare la Fortezza Rossa, le cui torri affilate si stagliavano contro il cielo, -e mio padre non mi ha mai chiamato figlio. Nonostante ciò, la mia pretesa al trono è attualmente la più valida. Tommen Lannister, dinnanzi al quale vi inchinate, è frutto dell'incesto fra Cersei Lannister e suo fratello. I complotti per portarlo dov'è ora hanno mietuto molte vittime, ma sto per mettere fine a tutto ciò.- Prese un respiro profondo. Era evidentemente allarmato, ma in lui non c'era agitazione o incertezza: era solamente posseduto da un furore acquiescente, dominato con destrezza. -Non voglio uccidere gli innocenti, nè distruggere la città, nè serbare rancore. Non sono venuto a portarvi la guerra, ma la pace, e non posso che augurare la prosperità del nostro regno. In nome del mio sangue, il sangue del vostro amato sovrano, sono venuto a reclamare ciò che è mio e che mi spetta, e che al momento è caduto in mani empie ed immeritevoli. Non chiedo vendetta: riconoscete i miei diritti e non verrà versata nemmeno una goccia di sangue. Il regno dei leoni è durato fin troppo a lungo!-
Quelle parole furono seguite da un boato di approvazione da parte dell'esercito del Nord. L'insegna del cervo, contrapposta a quella del cervo e del leone di Tommen, sventolò sollevata in alto. Viva re Gendry, lunga vita a re Gendry Baratheon.
Jaime avrebbe pure riso, se la situazione non si fosse fatta così drammatica. Un bastardo di Robert? Come aveva fatto a sopravvivere? Joffrey aveva ordinato di ucciderli tutti... possibile che quello fosse sfuggito al proprio destino? Eppure non c'erano dubbi: bastava guardarlo per capire quale fosse la sua origine. Era tutto un complotto degli Stark, appariva piuttosto evidente: per essere un bastardo cresciuto ad Approdo del Re, parlava come un lord. Lo aveva addestrato per benino. Quell'armatura, quel discorso... tutto molto toccante e commovente. Giusto per smuovere i cuori dei cittadini.
Cosa avrebbe potuto fare, a quel punto, il piccolo Tommen? In verità, Jaime cominciava a pensare che la fuga fosse la loro ultima soluzione.
Fu allora che una freccia corse a squarciare la gola di Arya Stark. Lei la strinse fra le dita, afferrandola a mezz'aria, e la spezzò con un movimento fluido ed un suono secco. Gendry contrasse la mascella ed aggrottò la fronte.
Fu l'inferno. L'esercito si scagliò contro le mura, come un predatore che fiuti il sangue; la pece bollente cominciò a colare rapida come inchiostro sulle mura, una pioggia di dardi e frecce precipitò fitta e le spade si scontrarono in uno stridio assordante. I cittadini, rintanati all'interno della fortificazione, assistevano sconvolti e sgomenti. Alcuni avevano abbandonato la città da diversi giorni, ma era difficile sia trovare una nuova sistemazione sia scappare con tutta la famiglia.
Jaime si affrettò a raggiungere Tommen. Suo figlio aveva lo sguardo fisso davanti a sè, con il braccio cercava qualcosa a cui appoggiarsi. Loras lo sorreggeva: negli occhi del Cavaliere di Fiori c'era solo il nero presentimento d'una fine funesta.
-Dobbiamo portarlo via.- tagliò corto Jaime, mentre un panico incalzante gli pungolava le ginocchia, gridandogli di correre e correre e correre.
Tommen d'un tratto contrasse le palpebre, smarrito, quasi che si destasse da una strana allucinazione. -Ma io devo combattere, devo dare l'esempio ai soldati...-
-I soldati si daranno l'esempio da soli.- bofonchiò lui. Il giovane re non ribattè; balzò sul suo destriero e schioccò le redini, seguendo ser Loras, che lo stava conducendo in salvo -non verso la battaglia, dove c'era bisogno di loro, ma dalla parte opposta. Tommen aveva voglia di urlare. Un pianto amaro, che nulla aveva a che fare con la paura dei vili o con la stizza dei bambini, minacciò le sue iridi smeraldine; dovette tormentare il labbro inferiore con i denti per trattenerlo.
Quello era il suo popolo, e Tommen in quel momento avrebbe dovuto essere là, a difendere la città, e pronunciare un discorso per stornare quelle calunnie... sempre le solite calunnie. Perchè quella gente non si stancava, una volta per tutte, di ingiuriare il ricordo della sua povera madre? Perchè tutti avevano compassione del povero Rickon Stark, quando Cersei Lannister era stata sgozzata come una cagna solo diversi mesi prima?! Tutto tramontava, lento ed inesorabile. Prima lo sterminio a Runestone, i funerali, l'espressione severa di Tywin Lannister, coricato nel feretro imbottito di velluto cremisi, i boccoli di Cersei baciati dal sole per l'ultima volta; l'assenza abissale di Myrcella, il suo tradimento, che era stata una fonte di dolore ancora peggiore; la scoperta del complotto di Margaery, delle sue bugie. Ormai la vita di Tommen era diventata un castello di carte, di cui il destino stava perfidamente sezionando i tasselli, per svelarne l'intima precarietà. Lo vedi, ragazzo? Nessuno ti ama e tu non sei felice, sei solo. Non te n'eri accorto, vero? E questo a partire dalla morte di Joffrey.
-Che se lo tenga, quel Gendry, il Trono di Spade. Io non lo voglio.-
Non si trattava del piagnisteo di un bambino. Tommen aveva sedici anni. I suoi occhi erano ormai freddi come quelli di sua madre, ed allo stesso tempo saggi come quelli di suo padre. Sulle sue labbra giaceva la disillusione. La corona sul suo capo non riluceva più. Che se lo tenga, quel Gendry, il Trono di Spade.
No, quella che aveva appena espresso era una rivelazione, dedusse Jaime. Era un peccato. Avrebbe preferito che la vita concedesse a suo figlio di scoprire la verità più avanti. Io non lo voglio.
-Temo che sia troppo tardi.- dichiarò con un sospiro.
-Troppo tardi per cosa?-
-Troppo tardi per qualsiasi cosa.-
La battaglia imperversò fino a che non sopravvenne il buio, quando le trombe annunciarono la ritirata dell'esercito del Nord ai propri accampamenti. Quello fu il primo giorno. Ce ne sarebbe stato un altro, e un altro; quello successivo, tutto sarebbe ricominciato da capo. Approdo del Re tratteneva il respiro, lorda di sangue, in attesa che il verdetto venisse proclamato ed il vincitore aggiungesse una spada alla collezione del Trono.
***
Quella sera, Tyrion aveva trovato Tommen nella sua stanza che, aiutato da un servo, stava levandosi di dosso un'armatura decisamente troppo pesante per il suo corpo. Eppure non aveva protestato per tutto il tempo, il giovane re, stando a quanto si raccontava: si era limitato a stringere i denti e sostenere le mole delle grosse piastre di ferro sulle spalle. Non aveva combattuto al pari degli altri guerrieri, era rimasto in disparte circondato dai suoi cavalieri, però s'era presentato sul campo di battaglia -ch'era più di quanto avesse fatto Brandon lo Storpio.
Ebbene sì, anche lui sta cambiando,
questo fu il pensiero che attraversò la mente di Tyrion. Cersei sarebbe forse stata orgogliosa di lui?
-Spiegatemi esattamente cos'è successo.- ordinò, ricordando di aver già vissuto un momento simile, quando il giovane re era tornato reduce dalla disfatta di Runestone.
Lo sguardo di Tommen aveva un'espressione vagamente vacua. Bucava il pavimento con una fissità un po' inquietante. -Significa che non hai saputo?-
-Non nei dettagli. Ho sentito parlare di un tale Gendry, ma non capisco cosa-
-Il veggente non parlava di bastardi reali in giro per Westeros, giusto?- domandò il ragazzo, senza rabbia nè livore. I suoi occhi erano lividi d'insonnia, le palpebre tremavano leggermente. Il Folletto era completamente disorientato.
-Parla chiaro.-
-Gli Stark si sono procurati un tale Gendry Waters chissà dove. Un figlio illegittimo di mio padre, che crede di avere più diritto al trono di me. Che vuole il trono.- Tommen allargò le braccia e le lasciò ricadere contro i fianchi. -Quando dovrebbe arrivare questa famosa disfatta degli Stark? Ogni ora che passa, trovano un nuovo alleato, a quanto sembra.-
Tyrion avvertì il cuore pulsargli fra le tempie.
-Un figlio bastardo di Robert Baratheon... E perchè mai qualcuno dovrebbe prestar fede a queste dicerie? Se fosse così facile reclamare diritti al trono...-
-A quanto pare, è identico a lui da giovane. In pratica, sto per essere ripudiato per una questione genetica: lui ha i capelli neri ed io no.- osservò lui. -L'unica cosa che mi rasserena, è che... i gemelli sono al sicuro. Che non capiterà nulla, almeno a loro.-
Fu a quel punto che Tyrion capì che, da quella guerra, nessuno ne sarebbe uscito vivo. La realtà si smascherò sotto i suoi occhi con un'evidenza strabiliante e spaventosa allo stesso tempo.
Come può un veggente arrivare in ritardo? Come può arrivare in ritardo per inviare una lettera? Come può scrivere che Tommen Lannister avrà un figlio quando era ormai evidente che ne aveva due?
Jojen Reed l'aveva mosso come una pedina. L'aveva condotto dove voleva condurlo, aveva manipolato i suoi pensieri e le sue strategie. L'aveva mandato dritto dritto nelle fauci dei lupi. Proprio lì dov'era per gli Stark più conveniente che finisse. Era proprio vero, che le guerre le vincono quelli che non impugnano le armi.
Il terreno gli mancò sotto i piedi. Per un attimo, fu la fine.
Quello successivo, il suo cuore scandì un battito. No, assolutamente no. Questo voleva il nemico, fargli perdere l'orientamento, farlo impazzire. Bisognava mantenere i nervi saldi... C'era ancora qualche speranza, in fondo. Fintanto che Tommen sarebbe sopravvissuto, nulla era perduto.
La mente di Tyrion, come faceva sempre nei casi più disperati, cominciò a lavorare, a comporre, a macchinare. Un piano prese forma, con l'inclemenza dei calcoli che devono salvare la vita. L'unica speranza del regno dei Lannister. L'unica speranza dell'intera famiglia...
-Rickon Stark ci truciderà come ha fatto con mia madre e mio nonno, vero?- La voce di Tommen era piatta, tagliente.
-Lo sai perchè Rickon Stark non sopravvivrà a questa guerra?- ribattè Tyrion, lentamente. -Perchè non ha paura di niente.-
-E quindi?-
Tyrion alzò gli occhi, fino ad incrociare gli occhi del nipote. -E quindi sta' a sentire. Forse possiamo rimediare a tutto questo scempio e a tutti i danni che il maledetto Baratheon è venuto ad arrecarci.-
Il tempo stringeva: il Folletto cominciò ad esporre, svelto ed affrettato, mentre la guerra taceva, in attesa di scatenarsi alle prime ore dell'alba.
***
-Ed ecco che è giunta al termine un'altra giornata da sballo, in questo posto da sballo.-
Lingue affilate di luce sfrigolavano sulle pareti buie di pietra consunta, asciugandone l'umidità; il sepolcrale silenzio che vigeva era disturbato soltanto dal mite borbottio delle posate e dal sospiro del vino che scorreva lungo il collo della brocca fino alla coppa.
Yara Greyjoy vuotò l'ennesimo boccale e poi continuò a giocherellarlo fra le dita, con le sopracciglia irosamente ravvicinate e lo sguardo d'ossidiana fisso da qualche parte fra le candele di un lampadario. Ella teneva la sedia molto discosta dal tavolo e le gambe distese accavallate con indolenza sulla superficie di legno grezzo. Nessuno aveva avuto voglia di rimproverarle quelle maniere, di prestare attenzione a cose simili. Tutte sembravano troppo intente a questioni più grandiose ed importanti.
Shireen, dopo una breve occhiata circospetta, s'era accorta d'essere l'unica a portare la gonna. Yara non sembrava conoscere il significato di quella parola, Osha aveva ripiegato su uno dei suoi vecchi abiti, "perchè erano più comodi", e persino Meera aveva preferito vestirsi in maniera da non essere impedita, casomai avesse dovuto combattere. La principessa dei Sette Regni non si sentiva intimorita o a disagio: tutt'altro, le sembrava d'avere il privilegio d'essere protetta costantemente dal più efficiente corpo di guardia del creato. Sorrideva a tutte e chiacchierava con una certa vivacità. L'unico dettaglio a rovinare l'atmosfera, ad inquietare le commensali, era il pensiero quasi imminente dell'arrivo di Ramsay Bolton.
-Quando arriverà, saremo pronti a riceverlo.- O almeno questo ripeteva Meera, ostentando una sicurezza che non provava. Onestamente, Shireen non si curava affatto di tutte quelle storie. Si fidava ciecamente delle sue coinquiline e sapeva che, qualunque nemico si fosse abbattuto su di loro, quelle donne impavide avrebbero saputo come respingerlo. Provava un grande rispetto nei loro confronti, però non era invidiosa della loro abilità con le armi: le era bastato un giorno soppesare una spada, per decidere che era un po' troppo faticoso per lei.
-Se l'alloggio non ti aggrada, puoi sempre tornare nel tuo idilliaco pezzo di paradiso.- ironizzò Meera, rimescolando la minestra senza appetito. Durante quelle due settimane, il ricordo di suo fratello aveva assunto un'esigenza pressante, insaziabile e faticosissima: la indignava l'idea che non avrebbe potuto rivederlo mai più. Provava una rabbia in corpo che non lasciava spazio alla paura; anzi, non vedeva l'ora che quel Bolton si facesse sotto e le permettesse di infilzargli la spada nelle budella, perchè una curiosa brama omicida s'era svelata al suo cuore e presentata in maniera chiara e comprensibile, senza inganni, tanto che Meera non riusciva a trovarlo strano. Era la prima volta che le accadeva, ed allo stesso tempo quell'emozione non aveva nulla di sconosciuto.
-Non ti scaldare, Reed, stavo solo scherzando. In compenso, il cibo è fantastico.- aggiunse Yara, agitando pigramente la punta di uno stivale.
-Vorrai dire che il vino è fantastico,- la corresse Osha, mugugnando, -visto che hai finito la riserva per i prossimi sei mesi.-
-Sono l'ospite, giusto?- E, per rimarcare il fatto che lei era l'ospite, la ragazza si versò un'altra abbondante coppa di vino.
-E sentiamo, cosa ti manca della tua isola, figlia del kraken?- la punzecchiò Meera. Lei prese tempo, strofinandosi le labbra con un tovagliolo.
-Il mare.- concluse. -A casa lo sentivo sempre. Ci nuotavo, anche. Mi ci immergevo spesso, persino d'inverno. L'acqua è sempre fredda uguale.-
Aveva il bacio imperituro del sale ancora impresso sulle labbra. Il suo sapore le avvinceva aspro e sublime la gola, annodandole la lingua, divorandole il cuore. E il silenzio, il silenzio che vigeva sotto quella superficie levigata ed arruffata al tempo stesso, il silenzio sospeso e beato degli abitanti del mare, in contrasto con le strida dei gabbiani e il tumulto dei cavalloni e i tuoni del vento...
Infine Yara puntò i grandi occhi scuri su Shireen, come un gatto che contempli un topo per decretare se vale la pena di divorarlo.
-E tu, principessa? Non ci allieti con qualche chiacchiera reale?-
Shireen non colse il suo sarcasmo. -Che significa chiacchiera reale?-
Yara alzò gli occhi al soffitto. -Pettegolezzi. Non è di questo che s'interessano le donne tutto il giorno? Te la faccio io, qualche domanda. Il tuo paparino ti scrive come procede l'assedio?-
Shireen si chiedeva che razza di pettegolezzo fosse, però cercò comunque di rispondere esaurientemente alla domanda.
-Dice che tutto sta andando come previsto. Che l'esercito dei Lannister è decimato, il popolo terrorizzato e gli alleati stremati dal prezzo di questa guerra... Spera di riuscire a conquistare la Fortezza Rossa, e di conseguenza di imprigionare la famiglia Lannister e mettere fine alla guerra.-
-E' una parola!- latrò Yara in una risata beffarda. -I Lannister non staranno là fermi, in cima alle torri, a far svolazzare i loro capelli di platino, in attesa che Rickon Stark venga a trucidarli. Comunque, sognare non costa niente.-
Shireen proseguì. -Sono rimasti molto impressionati dall'arrivo di Gendry. Non si aspettavano che un figlio illegittimo di zio Robert fosse rimasto in vita.-
-Non basta essere figli di Robert Baratheon per avere il diritto di regnare, soprattutto non ora.- s'accigliò Yara.
Meera rimaneva in silenzio. Ad aggiungersi al dolore per la morte di Jojen, v'era anche la preoccupazione per Bran; ormai -forse perchè non ne era in grado, o forse perchè non glie ne importava nulla- non le scriveva nemmeno più. Rickon riferiva che ormai il fratello s'era ridotto a giustiziare meramente i prigionieri, ad uccidere e basta, fino a ridursi allo stremo delle forze, all'annullamento dei pensieri ed alla perdita di coscienza, superando ogni limite. Non aveva suscitato in lui la minima reazione nemmeno l'incontro con le sue sorelle perdute, Arya e Sansa, per le quali tanto s'era disperato. Che Bran stesse impazzendo? Rickon scriveva inoltre di avergli chiesto come si sentisse, e di essersi udito rispondere: Il punto è questo. Io non sento. Non sento nostalgia, non sento il dolore. Non sento niente. Non vedo niente. Brancolo nel buio senza cercare più niente. Non voglio niente, Rickon. Niente. Sono stanco di fare, essere e soprattutto volere. Volere le cose è troppo impegnativo. Toglie tempo, toglie energia, toglie il respiro. Allora Rickon l'aveva esortato a resistere per Jojen, perchè era quello che lui avrebbe voluto. Non sento più nemmeno lui. E' perduto. E' tutto perduto. Non si può tornare indietro, era stata la confusa replica. Meera non sapeva davvero più cosa pensare.
In quel momento, la voce chiara e acuta del piccolo Kenned attirò la loro attenzione. La donna dei bruti mollò l'osso che stava spolpando con i denti e, dopo aver strofinato le mani su un canovaccio, s'affrettò a prenderlo in braccio dalla culla di legno in cui giaceva, in fondo alla sala. Il bambino era sano e forte proprio come il popolo del Nord si auspicava: cresceva sotto l'occhio vigile di chi lo amava e riceveva tutte le cure di cui aveva bisogno -e veniva persino viziato un po'. I suoi riccioli erano quelli della madre, castani, inanellati ed elastici, ma gli occhi, come ripeteva sempre Osha, erano inconfutabilmente di Bran, vellutati e purificati d'ogni tristezza, limpidi come dovevano essere stati quelli del padre ai tempi in cui si arrampicava sulle mura di Grande Inverno. Se il suo animo fosse Reed o Stark, invece, era ancora impossibile dirlo: ci sarebbero voluti degli anni. Quando il piccolo gorgogliò sonoramente ed allungò una manina per strattonarle una ciocca di capelli, Osha non potè trattenersi dal piegare le labbra in un sorriso; poi, con reverenziale cautela, lo lasciò fra le braccia di Meera. La regina del Nord indugiò con le labbra sulla fronte del figlio per diversi istanti, quasi sospendendo tutti i suoi dolori, i suoi dubbi e le sue sofferenze in quel solo gesto; intercettò lo sguardo di Shireen.
-Rubano tutto il tuo tempo e ti fanno diventare terribilmente sentimentale,- confessò sorridendo, -ma sono la cosa migliore che possa capitarti nella vita. Diventano... un punto di riferimento. Così come tu ti prendi cura di loro, loro si prendono cura di te. Ti impediscono di affondare.-
E, giusto per rovinare la commovente grazia di quel momento,
-Il matrimonio è una beffa, Altezza. Non lasciarti abbindolare, sii più furba.- sbuffò Yara, sgocciolando irritata la bottiglia vuota nella propria coppa. Meera le rivolse un'occhiata staffilante.
-Quasi dimenticavo che anche lady Greyjoy è stata una donna sposata. Chissà perchè, ma non riesco ad immaginarti come una brava massaia, circondata dai marmocchi...-
-Niente marmocchi.- La ragazza rabbuiò in volto. Quell'allusione le aveva fatto tornare in mente Tristifer e la sua vita troppo breve, troppo vuota. -Sono stanca, me ne vado a dormire. Passo a fare un saluto a Theon, giusto per controllare che non l'abbiate avvelenato di nascosto. Buonanotte.-
-Buonanotte.- le fece eco Meera, seguendola con gli occhi con un'espressione intensamente inquisitoria. Non appena sparì sulle scale a chiocciola,
-Non raccontiamo balle. Se ne è andata perchè è finito il vino.- brontolò Osha, allungando un piccolo pezzo di mollica di pane a Kenned.
Yara misurava i gradini consumati sotto i suoi stivali, contando quanti ancora la separavano dal fratello. Malgrado le grosse mura di Grande Inverno, malgrado il pugnale appeso alla cintura, continuava a provare l'irrequieta e fastidiosa sensazione d'essere nuda, disarmata ed impotente, una ragazzina inerme che chiunque poteva derubare indisturbato. Theon era diventato il suo bene più prezioso, da quando anche suo padre era morto. Non appena l'aveva conosciuto l'aveva considerato solamente come un presuntuoso buono a nulla, borioso ed incapace, e quasi s'era fatta beffe delle sue disfatte; ma il sangue è sangue, e quando Theon era stato rapito Yara se ne era resa conto fino in fondo. Si trattava di qualcosa di atavico, e molto più grande di lei. Un amore inesorabile, talvolta annientante, che la piegava ad azioni che la sua volontà non avrebbe mai potuto formulare.
Bussò alla porta. -Theon? Posso entrare?-
Non ebbe alcuna risposta. Yara sospirò; suo fratello, oltre che attraversare un periodo difficile, soffriva fra quelle mura che rievocavano tanti dolorosi ricordi. Lì riviveva con il pensiero la sua disfatta, la conquista del castello, il rimorso del tradimento. Quando non teneva gli occhi sbarrati nel buio, cedeva ad un sonno appestato e confusionario in cui annegava miseramente.
Yara spinse la porta ed entrò. Entrò e guardò la stanza.
Entrò e, per qualche secondo, mantenne un contegno rigido, immobile, quasi severo. Al gancio dove, in teoria, avrebbe dovuto essere legato Theon, v'era appeso il guinzaglio di un grosso cane nero dal muso feroce e le gengive scoperte. Yara e il cane si scambiarono un lungo sguardo; poi, sgranati gli occhi iniettati di sangue, l'animale spalancò le fauci e ringhiò.
Un grido ferino squarciò l'anima di Yara Greyjoy.
-Maledetto... maledetto... bastardo!-
Improvvisamente udì dei passi dietro di sè e sguainò il pugnale in fretta: e pur sempre troppo tardi. Tre uomini, con indosso un'armatura che recava lo stemma dei Bolton, l'uomo scuoiato, le puntarono delle lunghe spade alla gola. La ragazza imprecò con tutta la furia che le riuscì. I soldati si scostarono subito, per mettersi sull'attenti di fronte alla figura che stava sopraggiungendo, con la tranquillità d'un frequentatore di giardini.
Ramsay Bolton non sembrava affatto provato dagli avvenimenti; indossava un farsetto riccamente decorato di granati, sorrideva il sorriso pigro di chi si crogiola in una giornata d'ozio e i suoi occhi erano ancora chiarissimi, chiari come ghiaccio trafitto dalla luce.
-Finalmente possiamo conoscerci di persona, lady Yara. Per tutto questo tempo, ho avuto quasi la strana impressione che stessi cercando di evitarmi... ma non capisco il perchè. Ogni sorella di Reek è anche mia sorella.- Il suo tono amenamente beffardo la mandò in bestia. Come accidenti aveva fatto ad entrare?!
-Che tu possa crepare fottendo quella cagna di tua madre e maledicendo quel coglione di tuo padre!- sbraitò, cercando inutilmente di recuperare il proprio pugnale, mentre le spade dei soldati premevano sulla gola fino ad arrossarla.
Ramsay sorrise di nuovo, imperturbabile. -Però la tua sorellina non l'hai ammaestrata tanto bene, Reek. Dice un sacco di parole indegne nella bocca di una lady. Mi sa che le serve un corso accelerato di buone maniere... non lo pensi anche tu?-
Theon stava in piedi al suo fianco, inerte come un fascio di paglia. Teneva la testa bassa e gli occhi non riflettevano nulla. -Sì, mio lord.-
Yara lo fissò con disgusto. La verità si fece strada nella sua mente come una scimitarra fra la vegetazione incolta.
-Tu.- fu quel che riuscì a dire. Dopo tutto quel che aveva fatto per lui, dopo tutto quel che aveva dimenticato per amor suo, dopo tutto, lui...
Ramsay fece un cenno alle guardie. -Di lei mi occuperò più tardi. Incatenatela lì dentro, dov'era Reek... Claire sarà felice di avere un po' compagnia. Dopo ci sarà tutto il tempo per insegnarle le buone maniere.-
I soldati la afferrarono per le braccia e Yara tentò senza successo di slanciarsi contro Ramsay. -Se solo provi a toccarmi con quel cazzo di coltello, sarò l'ultima cosa che farai in tutta la tua miserabile vita!-
Lui la ignorò. -Adesso ho cose più importanti di cui occuparmi, come prendere il castello. Questi re del Nord non imparano mai... tutti abbandonano Grande Inverno alle cure amorevoli della mia famiglia. Andiamo, Reek. C'è ancora qualche signorina da rimettere al suo posto, al piano di sotto.-
Theon lanciò solo un'occhiata fugace alla sorella, prima di distogliere lo sguardo e avviarsi a testa bassa dietro il suo signore.
Nel frattempo, Shireen era scivolata fra le lenzuola per prendere sonno. Come ogni sera, rimuginava sul suo futuro. Le era giunta ormai da due settimane la lettera che annunciava un nuovo fidanzamento, quello fra lei e Gendry Baratheon. La lady sua madre ne era stata molto più felice: non aveva mai tollerato l'idea che Rickon diventasse il suo sposo. Lei invece non sapeva cosa pensare. Che tipo poteva essere, questo Gendry? Un ragazzo gentile, premuroso? Oppure un individuo scorbutico e scostante? D'altronde, lei aveva la grande capacità di stringere amicizia un po' con tutti. Si rivolgeva alle persone in maniera limpida, onesta, franca, e questo attirava la simpatia di tutti. Shireen non riusciva ancora ad immaginare lo sfarzo che l'avrebbe attesa alla Fortezza Rossa, il trono, i sudditi, le cerimonie... d'altronde, la guerra non era ancora vinta. Lei era bendisposta verso qualsiasi pretendente e qualsiasi destino, pur di rendere orgoglioso suo padre, che aveva fatto tanti sacrifici per lei. Avrebbe trovato la felicità in ogni caso, ne era sicura: eppure, nella sua vita il futuro era sempre stato una caverna buia, di cui era impossibile intuire l'interno o la fine, impervia proprio perchè poteva nascondere incredibili pericoli così come formidabili gioie- e quel momento non faceva eccezione.
Non si sarebbe mai innamorata, lo sapeva già. L'amore era arrivato e passato come una stagione peritura, come un sospiro di vento. Devan Seaworth, figlio del buon Davos, suo compagno di giochi fin dalla prima infanzia, le aveva dato un ultimo bacio quando ancora alloggiava presso la Barriera.
-So che sposerai un altro e che forse non ci vedremo mai più da soli,- aveva sussurrato, -ma giurami che non ti dimenticherai di me.-
Lei aveva giurato. Una promessa facile da mantenere: non avrebbe potuto dimenticarlo neanche se l'avesse voluto, in effetti. Era molto in pena per lui; Devan era lo scudiero di Stannis, partecipava alle battaglie, lottava e combatteva, ma era ancora molto giovane, soltanto di un anno più grande di lei. Avrebbe potuto perdere la vita in qualsiasi momento, però Shireen sapeva con certezza che ciò non era ancora successo: se fosse accaduto, suo padre o Davos l'avrebbero avvertita in una lettera. A volte, il ricordo del tocco esitante e delicato della mano del ragazzo sulla sua guancia -quella deturpata- era ancora capace di tenerla desta e malinconica per tutta la notte.
D'un tratto, un rumore di passi allarmò i suoi sensi. Si trattava di una vera e propria marcia, di stivali che picchiavano sul pavimento, e con sommo orrore ella udì persino il tintinnio del ferro. Lo conosceva molto bene: aveva vissuto alla Barriera per anni. Trattenne il respiro e si fece più piccola possibile fra le coperte, come se ciò contribuisse a renderla invisibile. Ad ogni modo, i passi sproseguirono fino a scemare e dissolversi nelle scale. Dopo qualche istante ancora, Shireen osò scostare le coperte e scendere a piedi nudi dal letto: avanzò di soppiatto fino alla porta, la socchiuse con gran cautela e sbirciò fuori. V'era un gran silenzio e il corridoio era deserto, come sospettava. Allora indossò velocemente una vestaglia color tortora e scivolò fuori, in punta di piedi. Procedendo con il palmo aperto premuto sul muro, affiancando la parete, camminò piano piano fino al termine del pianerottolo, con il cuore che martellava nel petto dall'emozione: ormai, anche sulle scale non v'era più nessuno. Indugiò lì ferma, riflettendo sul da farsi. Pensò se fosse il caso di scendere, di avvisare qualcuno di quel che aveva sentito; era assolutamente certa di non esserselo sognato. I rumori erano così distinti e nitidi, che ancora risuonavano nella sua mente, nella loro spaventosa evidenza...
Fu allora che sobbalzò: sentì quella che sembrava proprio una voce. Paralizzata dalla paura, il suo primo istinto fu quello di tornare in camera, sbarrare la porta e nascondersi sotto le coperte in trepidante attesa del mattino; poi, rimanendo in ascolto, scoprì ch'era una voce di donna... una donna che oltretutto conosceva. Si lasciò guidare fino ad una porta, che riconobbe come quella del prigioniero, e dopo qualche istante d'esitazione la spalancò.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi era piuttosto bizzarro: un cane, che dalle dimensioni avrebbe potuto essere un mastino, abbaiava furibondo, mentre Yara Greyjoy era intenta a tenerlo lontano da sè ed allo stesso tempo ad allungarsi verso il gancio che la legava. Appena la vide entrare, si distrasse al punto che il cane per un pelo non le staccò una mano.
-Cosa ci fai tu qui?- si meravigliò, ma non le lasciò nemmeno il tempo per rispondere. -Il Bastardo è nel castello.- aggiunse.
Shireen corrugò la fronte. -Ho sentito i soldati scendere al piano di sotto.-
Yara si preoccupò. -Ti hanno vista?-
Lei scosse la testa. -Da dove possono essere entrati?-
L'erede di Balon Greyjoy fece una smorfia, come se avvertisse una ferita dolere. -Dai sotterranei, naturalmente. Come hanno fatto a Pyke... Peraltro, quel lurido traditore di mio fratello li conosce benissimo. Non dev'essere difficile, per lui, condurli da qualsiasi parte del castello vogliano andare. Ma adesso non c'è tempo per le chiacchiere, dammi una mano. Dobbiamo andare a salvare il culo alla regina delle paludi.-
Shireen si affrettò a staccare dall'anello affisso alla parete la catena che assicurava la prigioniera al muro. -Le guardie li avranno visti, no?-
-Il problema non è se li hanno visti o meno.- replicò Yara, torva, -ma se sono riusciti a fermarli.-
A questo, la principessa dei Sette regni non seppe replicare.
***
Ciò che faceva sorridere Sansa, di indulgente tenerezza, era l'abitudine ormai consolidata di Myrcella, che, non appena vedeva Rickon fare ritorno all'accampamento dopo una giornata passata sul campo di battaglia, gli veniva incontro correndo e gli si appendeva al collo, abbracciandolo con fervida dedizione e baciandolo con una passione vorace di cui nessuno l'avrebbe creduta capace. Rickon l'accoglieva sempre con una risata ricca di gusto e colori, contemplando le sue concitate premure con un sorriso acuminato e un po' gretto, ma autentico -perchè, con il capo affondato nei riccioli profumati di lei, con la sua carne tenera sotto le dita, la sua voce nell'orecchio, sentiva di aver trovato il proprio equilibrio, di essere di nuovo parte di un tutto. Ogni giorno si presentava con nuovi squarci, che eruttavano fiotti di sangue annerito dalla polvere, che incidevano la pelle fino all'osso; una volta era una lacerazione sulla coscia, un'altra volta dalla spalla al fianco, poi a striargli la fronte. La fanciulla reagiva sempre cacciando un grido d'orrore, per poi cominciare a maneggiare catini d'acqua e bende improvvisate.
-Ma cosa combini! Ma cosa fai! Perchè ti fai ridurre in questo modo?- gemeva, calcolando i danni con crescente apprensione.
Rickon rasserenava l'ansia spropositata di Myrcella con una nenia ininterrotta di sbuffi e carezze, soffiando delicatamente sulle sue palpebre e morsicandole le labbra come gli era sempre piaciuto fare.
-Non è niente.- si scherniva con noncuranza, orgoglioso delle sue ferite come lo avrebbe potuto esserlo dei suoi figli, -robe da nulla...-
Quando poi Myrcella finiva per preoccuparsi davvero troppo ed eccedere, ridotta pallida e tremante come se avessero ferito lei stessa -ma quanto devi soffrire, povero amore mio, quanto devi soffrire ancora- il ragazzo le sollevava il mento con un dito, la fissava serio negli occhi e bofonchiava:
-Ascoltami, piccola bionda: è tutto a posto. E se dico che è tutto a posto, mi devi credere. Va bene?-
Lei annuiva timidamente, arrossendo. Poi Rickon s'avventurava a descrivere il modo in cui si era procurato tutti quegli sfregi; si trattava di storie mirabolanti, popolate di soldati armati fino ai denti e sciabole di Essos dalla lama letale e ricurva. Myrcella non sapeva quali fossero vere, quali inventate per divertirla e quali esasperate per nutrirsi di gloria.
-A quel punto mi avevano circondato in otto. Sì, proprio in otto!- esclamava, mentre la fanciulla estraeva frammenti di pietra dalle sue ferite con un paio di pinze.
-Otto?- rideva lei, attenta a non perdere la concentrazione su ciò che stava facendo.
-Non uno di meno! Cosa c'è, non mi credi, forse?!- sbraitava, e se gli veniva quel dubbio poi si offendeva a morte.
Sansa notava con stupore anche la fortissima empatia che intercorreva in ogni sguardo, che trapelava da ogni gesto; c'erano sempre poche parole fra loro, ma questo perchè parevano terribilmente superflue. Parevano cogliere intuitivamente qualsiasi emozione dominasse l'altro; e si davano reciprocamente conforto sfiorandosi con le dita, sussurrandosi qualche parola in un linguaggio sconosciuto, oppure limitandosi a starsi accanto senza fare nulla. I loro corpi, anche in seguito a quell'esordio conflittuale e doloroso, avevano raggiunto un'affinità alchemica, tanto che, denudati di tutti i segreti e le remore, potessero risolversi l'uno fra le braccia dell'altra in un abbandono di sguaiata, selvaggia bellezza.
Rickon trascorreva la notte conteso fra la brama incandescente di sfogare l'irruenta adrenalina delle battaglie e l'imperativo biologico di riservarsi qualche ora di sonno; Myrcella si divertiva ad irretirlo, ma alla fine gli prendeva il capo in grembo e gli passava le dita fra i capelli fino a che il sopore non aveva la meglio su di lui. La stanchezza avrebbe potuto essergli fatale, in uno scontro.
-Hanno uno strano modo di amarsi.- commentò Sansa, mentre Rickon, affondato in un cumulo di pellicce, si faceva medicare una ferita al braccio e chiacchierava speditamente circa la propria ultima prodezza.
Arya abbattè la scure sul pezzo di tronco che aveva di fronte, ricavandone due grossi ceppi ed alzando una nuvola di ghiaia. Si strofinò gli occhi irritati.
-Hanno avuto uno strano modo di innamorarsi.- ribattè a sua volta. -Sempre che di amore si possa parlare.-
-Mi piacerebbe credere che staranno insieme per tutta la vita.- La voce di Sansa era quasi divertita. -Che si sposeranno e saranno felici.-
Arya le lanciò un'occhiata quasi infastidita. Poi sospirò e la fissò. -No, non è vero. Non ti piacerebbe crederlo. Al contrario, sei contenta di poterlo non credere mai più. I paraocchi non piacciono a nessuno.-
-Soprattutto se ci si rende conto di averli sempre indossati soltanto quando non ci sono più.-
Sansa si rannicchiò nella coperta che le copriva le spalle e guardò il cielo notturno. La volta celeste offriva una dimensione immobile, prigioniera nel proprio silenzio e nell'immortalità, spettatrice sempiterna, ammantata della propria gloria. Pensò a ciò che era accaduto quel mattino: una schiera di truppe era giunta ad aggiungersi al già considerevole esercito del Nord. Proveniva da Nido dell'Aquila. In questo modo, gli Stark si trovavano nettamente in maggioranza.
-Ma cosa sta succedendo?- si era sbalordito Rickon. -Com'è possibile? Sembra quasi che per una volta ce ne vada una dritta.-
In questo modo, anche il lord della Valle si era inequivocabilmente schierato dalla loro parte, destinato a vincere con loro o morire con loro.
Grazie, Robin, aveva sorriso Sansa fra sè, commossa, ricordando di quanto il ragazzo fosse stato inizialmente terrorizzato all'idea di sbilanciarsi a favore dell'uno o dell'altro, e di come quindi avesse accantonato i propri indugi per aiutarla; e poi ci aveva riflettuto ancora un istante: grazie, Petyr, aveva precisato, intuendo che ci fosse anche lo zampino di qualcun altro dietro quell'inaspettata decisione. Si chiese se Baelish l'avesse fatto solo per sostenere Arya e Gendry, dei quali pianificava il ritorno da anni, oppure se anche il pensiero di Sansa avesse influenzato le sue scelte... Non sperare più in nulla, rimproverò se stessa, mai avanzare aspettative su nulla. L'idea di non potergli parlare dopo quell'ultimo, maledetto bacio la stava tormentando.
I Lannister non sapevano ancora che lei era viva, ma prima o poi l'avrebbero scoperto. E alla fine della guerra, quale sarebbe stato il suo destino? Dipendeva tutto dal vincitore, in fin dei conti. Se avessero vinto Gendry e suo fratello Bran, avrebbe potuto fare quello che voleva. Ma se avesse vinto Tommen? Sansa era ancora legalmente sposata a Tyrion Lannister. Avrebbe forse dovuto passare la vita al suo fianco, di nuovo schiava, di nuovo segregata nella Fortezza Rossa, di nuovo schernita, disprezzata ed odiata? Sarebbe ricominciato l'incubo che s'era lasciata alle spalle fuggendo da Approdo del Re, otto anni prima? No, non poteva permetterlo.
D'altro canto, Alayne Stone era sposa di Robin Arryn. Certo, ormai Alayne era morta, svanita, sepolta, però... come abbandonare per sempre una delle uniche persone che davvero le avevano voluto del bene, in quegli anni difficili, che l'aveva ospitata e trattata come una regina? Sapeva di dovere molto a Robin, e, anche se non lo amava, s'era affezionata a lui, così come se fosse un altro fratello minore.
Tanto era assorta nei suoi pensieri, che Sansa quasi non si era resa conto che Gendry s'era avvicinato a lunghi passi alla loro tenda. Non indossava più l'armatura; aveva indossato un paio di comodi pantaloni di iuta e una camicia di garza bianca. I capelli neri, lavati pochi minuti prima, gocciolavano fradici sulle sue spalle.
-Lady Sansa. Milady.- esclamò, con l'accenno d'un inchino, un sorriso allegro a fior di labbra. Sansa rispose con un regale cenno del capo -Arya non alzò lo sguardo dal fuoco che cercava di accendere.
-Come ci si sente ad essere re?- disse soltanto. Nell'accampamento, egli era già chiamato Maestà e gli venivano rivolti tutti gli onori, a cui certamente, dopo una vita spartana, non era abituato. Spesso gli capitava invece di scostarli con un cenno imbarazzato, di schermirsi con qualche parola brusca, prima di realizzare che avrebbe dovuto iniziare a considerare quel trattamento come dovuto, anzichè come una stravaganza.
Gendry inarcò le sopracciglia scure. -Non lo sono ancora. Non cantiamo vittoria troppo presto. Vorrei... parlarti, se hai un po' di tempo per me.-
Il giovane re avrebbe dovuto dire voglio anzichè vorrei, d'ora in poi, ma non con Arya. Con lei, queste formalità sarebbero suonate vili come menzogne. Avevano condiviso qualsiasi cosa, da un giaciglio di terriccio alle lepri selvatiche mezze crude, dalle tormente di grandine ai tramonti insanguinati, dalle lotte con i briganti di passaggio alle reminiscenze di nostalgie lontane davanti al fuoco.
-Tutti ne avranno, d'ora in poi.-
Arya si sfregò le mani sporche di cenere sui pantaloni e si alzò per seguirlo. Sansa li osservò allontanarsi, mentre il fuoco si specchiava vivido nei suoi capelli ramati, con un sorriso insinuante. Mi piacerebbe credere che staranno insieme per tutta la vita. Che si sposeranno e saranno felici... Scintille di legno scoccarono rumorose fra le fiamme, con impietosa eloquenza, quasi in risposta.
La notte era tiepida e confortevole come un mantello di velluto, nonostante il clima fosse diventato solitamente rigido. Arya abbassava gli occhi sull'erba che stava calpestando: piccoli fiori bianchi ergevano le loro fragili corolle fra gli steli, i grilli gracidavano da qualche parte nell'intreccio delle tenebre. Il mare, in lontananza, bisbigliava qualcosa nella sua lingua senza parole.
Gendry continuò a camminare in ostinato silenzio, almeno finchè il vocio ed i tramestii dell'accampamento non furono attutiti dalla distanza, dal vento e dal buio; un pensiero si dibatteva nel suo sguardo, azzurro e tenace ed incorrotto, pur dopo tutti quelli anni di stenti ed attesa. Il ragazzo pose un piede su un masso in rilievo dal terreno e liberò un sospiro dal torace possente.
-Bella battaglia, oggi.- commentò Arya, decisa a stornare l'esitazione di quella lunga pausa.
Gendry annuì, assestando il sasso sotto lo stivale. -Bella davvero. I Lannister non si sono fatti vedere... nè Jaime, nè Tommen. Tutto ciò che li rappresentava era lo stemma.-
-Jaime è tutto malandato e Tommen è un moccioso viziato. Non saprebbe uccidere nemmeno un uomo legato.- bofonchiò Arya.
-Come fai a dirlo? Sono molti anni che non lo vedi.-
-Le voci girano... Dimmi come regni e ti dirò chi sei, e io so perfettamente come combattono le persone come lui.-
-E come?-
-Non combattono.-
Gendry trattenne una risata. -Sempre la solita gentildonna.-
-La propria identità è l'unica costante che ognuno dovrebbe ricercare nella vita... l'unica costante che abbia un senso ricercare.- Arya si voltò a cercare gli occhi del ragazzo. -I Lannister non si sono presentati per un motivo ben preciso, Gendry. Hanno paura di te. Sono letteralmente terrorizzati. Hai mandato in fumo tutti i loro piani...-
-... abbiamo mandato in fumo. Noi. Io e te.- Il ragazzo trattenne il suo sguardo con un'intensità quasi impudente, come se avesse abbrancato la sua anima e intendesse stringerla fra le dita più a lungo possibile. -Non ci sarebbe stato nessun Gendry Baratheon senza di te. Solo un Gendry Waters...-
Arya si concesse un ghigno. -E quale sarebbe la differenza?-
-Gendry Waters era solo, ma... aspetta, non basta dire così. Era... scontroso. Non gli piacevano molto le persone. Non si fidava della vita. Non sognava, non vedeva nulla che fosse oltre le pareti della sua officina. Gendry Baratheon...- Gli scappò una risata. -... beh, è più coraggioso. A volte più stupido, ma immagino che si tratti di un effetto collaterale. Crede in se stesso, crede in una causa... crede in te.- Soffiò l'ultima parola come se desiderasse che solamente le lucciole la udissero. Arya si sporse nell'immensità dei suoi occhi ed avvertì un brivido percorrerle la nuca.
-Dimentichi la differenza più importante.- sussurrò. -Gendry Waters era un fabbro. Tu sei un re.-
-Un re che, come tanti altri, sarebbe facile scagliare giù dal trono.- La voce di Gendry era impassibile.
-Nessuno lo mette in dubbio.- rispose Arya, cupa. Non riusciva a capire dove il ragazzo volesse andare a parare. -Cosa mi volevi dire, Gendry?-
-Volevo ricordarti che l'uomo che hai davanti, che vorresti elevare alla guida di un regno, l'hai reso tu quello che è ora.- esordì Gendry con fermezza.
-Sì, svelandoti la verità riguardo le tue origini e donandoti la fede nella vita. Davvero divertente...- La ragazza affondò lo sguardo nella densa, liscia distesa dell'oscurità, come se volesse penetrarla. -A me è avvenuto esattamente il contrario. Approdo del Re mi ha insegnato che nulla nella vita è come l'hai sognato... nulla come l'hai sempre impunemente creduto, nella convinzione di avere tutto il diritto di farlo. Sono cresciuta pensando che la felicità fosse un mio diritto, che il destino me lo sarei scritto da sola. Disprezzavo le ballate di Sansa, mentre ero colpevole d'ingenuità tanto quanto lei. E ho smarrito me stessa... per molto, molto tempo.-
Fu presto assalita dai ricordi. Il giorno della decapitazione di suo padre, il sangue che precipitava ovunque, lo sguardo inorridito di Sansa... e tutto quel che ne conseguiva. Le notti in cui credeva che non ce l'avrebbe fatta e le mattine che le avevano fatto cambiare idea, i viaggi per mare durante i quali era costretta a lavorare come mozzo, il variopinto spettacolo del Continente Orientale, i suoi mercati fragorosi e maleodoranti, la folla di gente che urla e strepita e ti soffoca, ti spinge giù, ancora più giù... Aveva avuto paura di dimenticare, di dimenticarsi. Aveva ripetuto i nomi dell'odio fino a far sanguinare la lingua fra i denti. Aveva pronunciato il proprio nome e quello dei propri familiari ogni giorno, da qualsiasi parte si trovasse; l'avevano ascoltata i porti, le spiagge, le locande, le taverne, i fienili, le botteghe. L'aveva ascoltata il sole, la luna, la pioggia. Aveva imparato molte lingue e scordato la maggior parte. Era morta e rinata diverse volte. Aveva perso ed acquisito, non sempre in egual misura. Aveva riso e pianto e riso di nuovo. Era viva, però. Era lì, in quel momento, e le parve quasi buffo, quasi assurdo, inconcepibile. La sua morta era così prevedibile -lei, orfana, sola, povera, disarmata, afflitta, sperduta- che non era avvenuta.
Arya sospirò e sedette sul masso, accanto a Gendry. Le sue mani erano intrecciate sulle ginocchia, lì dove i pantaloni erano tutti strappati; il corpo pulsava, intento alla dolce, indolenzita sofferenza che seguiva la battaglia. Le ferite gemevano piano sotto la stoffa, lenite dalla freschezza della brezza. Gendry alzò lo sguardo, cercando la stella che Arya stava contemplando.
-Posso chiederti una cosa? Hai perso una casa, hai perso una famiglia, hai perso la vita che avevi.- La voce del ragazzo suonò distinta, forte, senza patetismi. -Che t'importa di chi sale al maledettissimo trono di questi maledettissimi Sette Regni, che sono la causa di tutto il tuo dolore? Che t'importa delle dinastie, del potere, degli inganni, delle alleanze?-
Che t'importa di me?
, stava per chiedere, ma si morse la lingua. Voleva sapere, Gendry, il perchè; il perchè di quel sostegno, di quell'abnegazione, di quell'amicizia gratuita offerta a piene mani nel bel mezzo dell'inferno. Arya aspirò un po' di quell'aria pregna di terra, di sali, di profumi silvestri.
-Perchè voglio che ci sia un po' di giustizia. Voglio tornare a sperare che al mondo possa esserci anche qualcosa di buono, Gendry. Da quando è morto mio padre, ne ho sempre dubitato.- Fece una smorfia. -Voglio ricredermi. Voglio vedere il bene che trionfa ed il male che decade. E capisco... che non è più facile capire chi è il bene e chi è il male.-
Specialmente da quando aveva scoperto che Rickon divorava i cadaveri e Bran dilaniava con lo sguardo. Gendry annuì con il capo, solennemente, per un paio di volte.
-Far trionfare la giustizia... Un altruismo ammirabile, davvero. Il mondo ti toglie tutto e tu rispondi con la giustizia...- Il tono di quell'affermazione aveva una sfumatura interrogativa.
Arya gli scoccò un'occhiata piccata. -Mi stai prendendo in giro, per caso? Voglio che ci sia giustizia per chi amo, non per gente qualunque.- Si preparò a ponderare le parole che da tempo insistevano sopite alle labbra. Fuggirono così com'erano, eludendo la sorveglianza, in tutta la pregnante gravità del loro significato. -Tu sei l'unica possibilità di riscatto che mi rimane. Non posso restituire le gambe a Bran, non posso restituire l'infanzia a Rickon, non posso restituire le ballate a Sansa. Però posso restituire il regno a te.-
Non si era mai ritenuta una bella ragazza: disprezzava intimamente la bellezza. Era bella Cersei, era bello Jaime Lannister, e avevano portato soltanto morte nelle loro vite. La bellezza è subdola, infida. Non perdona nè chi ne è ammorbato, nè chi ne è attratto. Non si era mai ritenuta una fanciulla graziosa, però... però, quando Gendry la guardava in quel modo, le pareva quasi di sì.
Il ragazzo si chinò verso di lei, scandendo le parole una per una. -Io ti amo, Arya Stark. Non voglio sposare nessun altra.-
Arya voltò la testa, punta sul vivo. -Non vuoi, ma lo farai lo stesso.-
Egli scosse il capo, sconsolato, e si rivolse alle stelle come se si appellasse agli dei, antichi o nuovi che fossero.
-Perchè il destino è così detestabilmente severo, così estremista? O questo o questo, senza compromessi, senza vie di mezzo?-
-Non lo so, Gendry.- Lei cominciò a torturare i polsini della sua casacca. -Ho sentito parlare in maniera molto lusinghiera di Shireen Baratheon. Sarà una buona moglie.-
-Non sarà mai te.- ribattè Gendry, freddo.
-Meno male, che non lo sarà.- Arya tirò un sorriso stentato. -Sarei la moglie più pessima del mondo. Io non mi sposerò mai: per me le cose non funzionano come per tutte le altre. Non avrò un marito a cui obbedire, nè figli da accudire. Tu meriti tutto ciò che non potrei mai darti.-
Gendry, per un attimo, fu tentato di alzarsi in piedi e gridare. Gridare che in realtà lei poteva, poteva benissimo, ma non voleva; non voleva rinunciare a se stessa, a quel che le era rimasto, a quella sopravvivenza bruciata che ormai era diventata vita, all'irruenza del proprio carattere indomito, alla libertà che l'esenzione dalle responsabilità comporta. Gridare che lui, Gendry, l'amava alla follia, e lei, Arya, non riusciva nemmeno ad immaginare quanto. Gridare che si stava opponendo al suo, al loro sogno, che gli stava facendo un dono sottraendogli qualcosa di ancora più importante, che stava realizzando un sogno distruggendone un altro.
Invece l'abbracciò. La avvolse e strinse al suo petto prima che lei potesse escogitare di scappare. Non avrebbe urlato tutto questo perchè capiva. La capiva. Sapeva. Sapeva tutto quanto.
Sapeva che Arya pensava anche a lui, compiendo questa scelta. Shireen era la persona sbagliata, nel bel mezzo della scelta giusta.
Gendry avrebbe sposato Shireen Baratheon, ma in quel momento, nell'aria notturna intrisa del canto dei grilli e delle lacrime delle stelle, non aveva la benchè minima importanza. Affondò una mano nei capelli di lei, li carezzò. La sentì irrigidirsi e poi fremere piano sotto le sue mani, come un gatto riottoso.
-Sono troppo lunghi. Devo tagliarli.- mormorò Arya, riferendosi alla propria capigliatura.
Gendry sospirò sulla pelle delicata del suo collo. -Perchè? Io li trovo belli.-
-Altrimenti mi scambiano per Rickon.- spiegò la ragazza, abbozzando un sorriso.
Per qualche lungo istante, davanti all'onnipotenza del destino, furono inermi; poi non furono altro che insieme, insieme in quel gran dolore, insieme in quella grande gioia.
-Arya?-
Lei deglutì a vuoto. -Cosa?-
-Guardami.-
Nel loro bacio non vi fu futuro, nè passato; persino il presente mancava. Fu quasi un inno alla disperazione, un'eco di terrore, una supplica che sfociò nella pazzia.
Poi il tempo tornò. Arya gli sfuggì dalle dita, come un fantasma alle prime luci dell'aurora; e scappò quasi, da quella speranza a metà, da quel sussulto interiore, mentre lo spauracchio della debolezza si profilava come l'ombra d'un estraneo dietro l'angolo. Gendry non sapeva se avesse dovuto lamentare una sconfitta o celebrare una vittoria; solo, non gli sembrava possibile desiderare altro, se non questo, questo che sfuggiva, questo che scappava.
E il giorno dopo, la guerra tornò.
***
Nonostante le tristi circostanze che l'avevano condotta lì, Myrcella non poteva fare a meno d'amare quelle terre gentili. Sì, gentili: oltre i miasmi di Approdo del Re, con il suo delirio infinito, le terre della corona avevano una grazia speciale, a dispetto dei sanguinosi conflitti a cui erano costrette ad assistere. Myrcella passeggiava nei dintorni dell'accampamento, sollevando i lembi della gonna per non sporcarli, contemplando la natura intirizzita al freddo di quell'inverno fugace; passava il tempo a pagare in sospiri il fio dell'assenza di Rickon, annegando nelle pozze d'acqua a cui si affacciava ogni volta che udiva un urlo d'agonia, inaridendo nella siccità ogni volta che versava una lacrima, ammorbata di freddo ogni volta che si levava il vento. Di tanto in tanto, fantasticava circa il suo avvenire, il loro avvenire: se solo avessero vinto la guerra, allora cosa sarebbe accaduto? Rickon l'avrebbe forse... sposata? A lui non piacevano, però, queste cerimonie, questi riti inutili. Ad ogni modo, loro due avrebbero vissuto ugualmente come se fossero sposati? Oppure Rickon le avrebbe preferito un'altra donna, che non avesse vile sangue Lannister nelle vene? Un tempo, egli aveva giurato che a termine di tutto questo l'avrebbe uccisa, però non riusciva più a crederci. Ormai -ne era certa- lui l'amava. E lei amava lui, quindi Myrcella non sapeva cos'altro avrebbe potuto impedire la loro felicità. Sarebbero tornati a Grande Inverno, per restarci tutta la vita? Sarebbe ricominciato quell'idillio, quello precedente alla guerra, quei giorni di turbolenta ed illegittima voluttà? Avrebbero potuto giacere nell'ozio per ore, senza essere disturbati dalle interferenze del mondo esterno, senza più essere guardati con disapprovazione? E dopo ancora, avrebbero avuto dei figli? Myrcella se lo augurava di cuore. Potergli dare un erede che ne avrebbe ereditato la forza, il coraggio, la spavalderia, potersi concedere a lui fino a questo punto, poter eternare a loro unione in tal modo, sarebbe stato quanto di più l'avrebbe resa felice. Ma si trattava di meri vagheggiamenti di un'anima fatua e romantica: poi cadeva un corpo, s'udiva un grido, echeggiavano le armi, e allora tutte quelle storielle si disgregavano nella tragicità dell'inascoltato, diventavano futili e sciocche, e tutto ciò che Myrcella implorava con tutta se stessa era che non fosse lui, quello appena morto, non lui, ma chiunque, chiunque altro.
Quel mattino, il timore vinse su ogni altra cosa. Rickon s'era svegliato all'alba, accanto a lei; aveva indossato l'armatura, aveva preso tutto quel che doveva prendere, aveva consumato una frugale colazione che consistenza in latte acido e pane secco. Aveva grandi speranze, per quella giornata: visto che ormai erano riusciti ad entrare nella città, prendere la Fortezza Rossa sarebbe stato relativamente facile. Myrcella a quel punto s'era destata, forse a causa d'un movimento troppo rumoroso della spada infilata nel fodero.
Rickon l'aveva udita invocare il proprio nome, farfugliato nel sopore del sonno, e le aveva sorriso, le aveva baciato le palpebre calate.
-Dormi, piccola bionda.-
Lei, nel suo stato di semincoscienza, aveva preteso che rimanesse, appendendosi al suo collo. Rickon aveva riso e si era liberato dalla sua presa.
-Ci rivedremo stasera, e stasera faremo tutto quello che vorrai.- le aveva promesso, rimboccandole le coperte e uscendo dalla tenda il più silenziosamente possibile.
Però, appena pochi istanti dopo la sua partenza, Myrcella s'era sentita completamente desta e lucida, al punto che aveva sollevato il busto dal giaciglio e si era chiesta che fare. Tornare a dormire era la scelta più saggia, ma era fuori discussione. Non ce l'avrebbe più fatta. Il pensiero d'una giornata di spasmodica attesa, d'altro canto, era praticamente invalicabile, faticoso come un digiuno di venti giorni, di spasmodica sopportazione. Così si rifiutò eroicamente di piegarsi a quel destino.
Indossò una veste fra le più umili ch'aveva, e non si recò alla tenda in cui solitamente consumava la colazione insieme a Sansa: eludendo la sorveglianza delle guardie, salì su un carro che faceva la spola fra l'accampamento ed Approdo del Re, e viceversa, con rifornimenti, armi, infermiere da campo pronte a prestare soccorso ai feriti. Myrcella smontò poco lontano dal trambusto della battaglia; invece prese una viuzza secondaria, memore del fatto che l'avrebbe condotta nei pressi del Grande tempio di Baelor, così da poter assistere alla battaglia da una postazione sicura. Cosa sperava di fare? Nulla, in realtà: voleva soltanto vedere Rickon, vederlo vivo, sapere che stava bene, che nessuno era in grado di fargli del male. Era allo stesso tempo decisa a non farsi scorgere da nessuno che l'avrebbe potuta riconoscere: se fosse venuto a saperlo, Rickon si sarebbe arrabbiato moltissimo con lei.
E lo stava ancora cercando con lo sguardo, da qualche parte, nel pandemonio delle spade e della miriade di soldati che combattevano -come aveva mai potuto sperare di distinguerlo in quell'inferno?- quando un pezzo di stoffa le scivolò in bocca e le morse il capo in una tenaglia. Myrcella cercò di gridare, ma il fazzoletto soffocava la sua voce. Immediatamente, il suo aggressore le immobilizzò le mani dietro la schiena. Pazza di terrore, non riuscì a pensare a nulla finchè, sorprendentemente, non si ritrovò faccia a faccia con l'uomo.
-Shhh.- mormorò Jaime Lannister. -Sono io. Sono io. Non avere paura. E non urlare, per favore: promettimi che non urli.-
Avrebbe voluto abbracciarla, chiamarla bambina mia, dirle quanto s'era dato pena per lei, quanto amore le donava ancora quella famiglia che lei aveva ripudiato così spietatamente... ma non era il momento giusto. Lui non era la persona giusta per farlo.
Myrcella lo fissò, piena di stupore; d'un tratto, le mandibole indolenzite percepirono l'assenza dal bavaglio e potè tirare un lungo respiro.
-Ma cosa... cosa... zio Jaime?- Poi rivolse un'occhiata attonita agli altri due uomini armati che la stavano immobilizzando. -...perchè?-
-Perchè ti riportiamo a casa.- tagliò corto Jaime, facendo segno di caricarla su un cavallo.
La figlia lo fissò sgomenta, poi lentamente comprese. -No.- disse subito. -Oh, no. No, zio Jaime, non puoi farmi questo...-
-Prima o poi capirai che lo faccio per il tuo bene.- precisò lui, voltandole le spalle per salire sul suo cavallo.
-No! Ti prego... non voglio tornare a casa! Io voglio stare con lui, stare con lui per sempre... Io lo amo!- gridò Myrcella, percependo un principio di mal di testa pulsare nelle tempie. Tutto era troppo assurdo, troppo incredibile, non poteva stare succedendo sul serio...
Jaime sospirò. Era un tormento sentirla urlare così, ma non si poteva fare altrimenti. Oh, no, lei non lo amava, e le sarebbe bastato stargli lontano per qualche giorno, per tornare in sè e realizzare l'incubo ad occhi aperti in cui era vissuta, in uno stato di shock confusionale. Un giorno l'avrebbe ringraziato, per quel che stava facendo: ma quel giorno, Myrcella l'avrebbe soltanto maledetto.
E, senza nemmeno il tempo di rendersene conto, Myrcella fu prigioniera per la seconda volta.
***
-Andata.-
Quella parola si formò sulle labbra di Bran in maniera curiosa, ed egli quasi ne rise. Quella stessa maledetta parola che l'aveva atterrito, perseguitato, schiaffeggiato, inorridito per giorni, quell'andato che s'era detto di Jojen, ripetuto un'altra volta -per tormentare suo fratello, anzichè lui.
Sapeva quanto male facesse. Sapeva quanto si provasse la tentazione di ripeterla e ripeterla, andata, andata, andata, andata, quasi nel tentativo di annullarsi nell'eco delle sue sillabe, oppure di venire trascinati in quell'andata e venire contagiati, miracolosamente trasportati in quell'andare.
Così lo disse semplicemente com'era, senza agghindarlo di parole inutili, sovraccaricarlo di scuse poco plausibili, addolcirlo con il miele della retorica, senza pizzi e merletti, solo così, incisivo, tonante, autentico:
-Andata.-
Rickon gli rivolse un'occhiata minacciosa. -Andata dove?-
Questa è la domanda che si pongono tutti, fratello mio, pensò Bran. Gli venne di nuovo da ridere, ancora più di prima, e l'istinto fu quasi pruriginoso, non poteva trattenere quella risata copiosa: ma pensò che se avesse continuato così sarebbe diventato matto, perciò si contenne.
-Stamattina ha lasciato l'accampamento subito dopo l'esercito. Non l'abbiamo più vista da allora. Sansa ha detto ch'era strano che non si fosse presentata a colazione, così l'ha cercata nella sua tenda... e non c'era. Non c'è da nessuna parte. E questo perchè, molto probabilmente, è partita a cercare te ad Approdo del Re-
-Che cosa?!- Rickon era basito. -Ma è inconcepibile. E' una cosa troppo stupida. Perchè mai avrebbe dovuto farlo?-
-e i Lannister hanno approfittato per rapirla.- concluse Bran, con una calma piatta che si sarebbe potuta definire solo che vacua.
Rickon rimase immobile dov'era per almeno un minuto buono, lo sguardo fisso in qualche esatto punto sul terreno, pietrificato in un terrificante silenzio; e Bran ipotizzò che l'avesse presa abbastanza bene, almeno finchè il ragazzo non si alzò in piedi e si avviò verso l'uscita.
-Dove stai andando?- domandò il fratello maggiore, lentamente, intento a sfogliare con distrazione i risultati della giornata di battaglia, trascritti dai generali.
-A riprendermela.- tagliò corto Rickon, in un ringhio.
Bran chiuse gli occhi. -Fermatelo.-
Le guardie all'ingresso sbarrarono il passaggio con le spade.
-Fatemi passare, se non volete che questo sia il vostro ultimo minuto di vita!- sbottò Rickon.
-Tu_ non puoi _andare_ da nessuna parte.- scandì Bran, con granitica pazienza, senza alterare la voce nemmeno di un filo.
-Io devo andare a salvare Myrcella! Lei è mia, e quelli non hanno nessun diritto di prendersi ciò che è mio.- Rickon era rosso in viso come se avesse appena compiuto una carneficina.
Bran scartò i suoi messaggi con un gesto della mano, spingendoli sul tavolo, per poi rivolgere al fratello l'attenzione.
-E va bene, tu vai a salvare Myrcella. E come fai, me lo spieghi?-
Rickon lo guardò, e nei suoi occhi era riflessa l'ostinazione del ghiaccio del Nord. -Noi abbiamo un piano...-
-Un piano che va realizzato più tardi. Fra una settimana, o due, magari.- gli ricordò Bran, inflessibile.
-Il piano dev'essere anticipato.-
-Il piano non può rischiare di andare a monte a causa della tua stupida ragazzina Lannister!-
Lo sguardo di Rickon non s'intaccò nemmeno di un soffio.
Bran si accorse di stare progressivamente cambiando tono, quindi respirò a fondo. Sapeva quanto poteva essere fatalmente pericolosa, la sua rabbia, in quel periodo. Si dominò come riuscì, anche se con Rickon non era sempre facile.
-Il piano dev'essere anticipato.- ripetè Rickon. -Io voglio Myrcella qui, e se la voglio qui ora, me la andrò a prendere ora.-
Non fa una piega,
pensò Bran, sarcastico.
-Ma così rischia di fallire. Hai bisogno di un certo numero di uomini...-
-Bene, allora li prenderò con me.- Rickon non capiva dove stesse il problema.
-Anche Arya deve prenderne parte.-
-Sì, esatto, e allora?- s'infastidì il fratello minore.
Bran contò fino a dieci mentalmente prima di rispondergli. -E allora, se per colpa della tua impazienza il piano fallisce, non solo metti in pericolo te stesso, ma anche tutti gli altri e la tua stessa sorella. Sei pronto ad assumerti una responsabilità simile?-
Rickon non esitò nemmeno un istante. -Se il piano avesse funzionato fra una settimana, non vedo perchè non dovrebbe funzionare adesso.-
Il re del Nord mantenne gli occhi fissi nei suoi ancora per qualche momento, infine annuì gravemente con il capo. Se questa era la scelta di suo fratello, che vi andasse incontro e la portasse avanti fino in fondo, allora. Non aveva nessun diritto di impedirgli di compiere i suoi errori, o di dimostrargli quanto avesse ragione. Però volle essere sincero, così da non doversene pentire in futuro, così da poter dire di aver fatto tutto il possibile per trattenerlo.
-Vuoi sapere come la penso, a questo riguardo?- chiese retoricamente.
Rickon ghignò. -Credo di averlo già capito, ma sospetto anche che tu me lo stia per ripetere.-
-La Fortezza Rossa non è così facile da espugnare come pensi. Se ti presenti là, ti uccideranno.-
In realtà, Bran non aveva quasi dubbi a proposito. Magari sarebbe riuscito davvero ad abbattere le porte e far affluire una miriade di soldati dentro la Fortezza, però non sarebbe sopravvissuto.
Rickon parlò con impeto. -Me ne frego del futuro. Che ne so io, che ne sai tu, del futuro? Potrebbe cascarci in testa un fulmine in questo preciso istante, ma non è lo stesso un buon motivo per non vivere. Avrei potuto morire di freddo a Skagos, essere divorato da una pantera ombra, essere strangolato nel mio letto da una spia. Lo sapevo, l'ho sempre saputo, ma se sono ancora qui l'unico motivo è che non me ne è importato niente. So soltanto che andare là è quello che voglio, adesso. Quando sarò morto, avrò tutto il tempo per procrastinare e piangere e perdere tempo come fai tu. Quel che voglio fare adesso è agire.-
Bran questa volta si lasciò travolgere da una risata tragica, quasi empia. Contagiò le labbra e si diffuse fino allo sterno. Egli rise e rise e rise finchè non gli mancò il fiato.
Poi gli si rivolse con amarezza. Lo sapeva già. Il destino non avrebbe potuto più coglierlo impreparato.
-Morirai, Rickon.- pronunciò con voce dura ed indulgente al tempo stesso, come se dovesse spiegare una cosa molto facile ad un bambino.
Rickon gli lanciò un ultimo sguardo, che trasmise nuovamente l'artico vento del Nord, come se i suoi occhi l'avessero imparato a memoria.
-No, invece non morirò. Nessuno morirà più.-
Dopo che fu uscito di lì, furioso quanto il metalupo accanto a lui, Bran si limitò a fare un cenno ai suoi servitori.
-Adesso portatemi la cena ed andate via. Non voglio vedere nessuno. Cacciate via chiunque chieda di me. Ho sonno.- mentì seccamente.
Gli uomini annuirono con un umile cenno del capo e si dileguarono. Bran si sforzò di non pensare più a niente: la realtà era diventata davvero troppo pressante, cercava di infiltrarsi nella sua testa in ogni modo, di gravare la sua anima di mille dolori altrui. Era stanco di tutto questo.
Ma nonostante quell'esaurimento delle forze e dell'energia, non sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Non appena chiudeva gli occhi, la sua mente si colmava del rumore della lama che apre la pelle, che spalanca la gola, che svela il sangue e le ossa, e poi del tonfo del corpo esanime che crolla a terra. La morte di Jojen lo destabilizzava come un cancro, giorno per giorno, mentre ormai le chiacchiere sibilavano crudeli le peggiori menzogne, nient'altro che deturpate verità: a loro parere, a parere del mondo, il re avrebbe dovuto smettere di disperarsi da un pezzo. Questo lutto infinito era visto di pessimo occhio. E a Bran non importava più niente: nè della guerra, nè del trono, nè delle chiacchiere. Ora c'era solo silenzio. Non so quando esattamente tutto ha cominciato a morire, pensò, nè quando io ho cominciato a uccidere. Ma sembra che da allora non sia rimasto altro.
Una serva entrò con una brocca di vino e un pezzo di carne arrostita. Mangiò senza appetito qualche boccone e sorseggiò mezza coppa, poi lasciò il resto sul tavolo.
A quest'ora, probabilmente, Rickon stava già radunando le truppe, Arya stava indossando la sua armatura... e poi, avrebbero dato inizio al piano.
Se avesse funzionato, la guerra sarebbe stata vinta.
Se avessero fallito, la guerra sarebbe stata persa.
In entrambi i casi, Bran non avrebbe battuto ciglio. Era oltre la vittoria, oltre la gioia, oltre l'ebbrezza. Oltre l'estate.
D'un tratto, inaspettatamente, la serva parlò.
-Ci sono accorgimenti che un re non dovrebbe mai trascurare.-
Bran si voltò verso di lei, allibito. Era balzano che una schiava aprisse bocca senza che fosse stata interpellata.
-Prego?-
-Per esempio, avere sempre con sè un coppiere personale.- Le labbra della donna s'incurvarono sotto il cappuccio. -Non si sa mai cosa possa celarsi, dentro una coppa di vino.-
Il re del Nord le rivolse un'occhiata smarrita, prima di irrigidirsi, tentare di sorreggersi al tavolo e perdere i sensi, cadendo sul pavimento. Melisandre scostò il cappuccio, permettendo alla chioma cremisi di scivolarle sulle spalle come un manto.
-Finalmente l'ho trovato, Mio Signore.- rivelò a mezza voce, con un lieve sorriso, esaminando il corpo inerte di Brandon Stark con serafica serenità.








 























Note dell'Autrice: Ed eccomi, dopo mesi e mesi di assenza. Ormai vi sarete dimenticati della mia esistenza! Credevate che non mi sarei più fatta sentire, vero? Ebbene, mai perdere la speranza! XD Quel che leggete l'ho scritto praticamente tutto in una settimana. La quarta stagione mi ha fatto tornare l'ispirazione giusta per continuare. Tanto per informazione, il prossimo capitolo sarà l'ultimo, e poi ci sarà un epilogo.
E' un capitolo infinito, ma volevo ripagarvi dell'attesa! Grazie mille a tutti quelli che hanno letto...
...nella speranza che qualcuno lo abbia fatto. XD Grazie a tutti, davvero! Chi volesse lasciarmi una recensione... *strofina un piede per terra e poi si dilegua*
Lucy
  
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