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Autore: Nero inchiostro    19/04/2014    1 recensioni
Erano sicuri di loro stessi, erano coraggiosi nei loro fazzoletti azzurri da partigiani cattolici, erano pronti a morire per la libertà, combattere per la pace, soffrire per la gioia. Non era un tragico paradosso? Chi mai avrebbe pensato che per avere la pace avremmo dovuto versare il nostro sangue?
Genere: Malinconico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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ERAVAMO LIBERI E SCHIAVI DEL DOLORE

 

 

 

Era sera e il buio di quella stanza in cui solevamo riunirci quella sera pareva ancora più buio. Le imposte erano chiuse, le porte serrate e l’aereo, che faceva la ronda alle nove in punto di ogni sera, sorvolava tutta la città alla ricerca di qualche luce superstite. Li avrebbero mitragliati, ne ero sicura, ma Giovanni e il resto della brigata dovevano preparare le armi e serviva loro la luce, la guerra sarebbe presto terminata, ne erano sicuri loro e lo ripetevano ad alta voce per convincere ancora di più loro stessi e gli altri. Radio Londra trasmetteva le ultime notizie e noi, con le orecchie appiccicate le une alle altre, cercavamo di captarne di buone attraverso quel ronzio sommesso mentre sapevo, un presentimento innato, che presto avremmo sentito di nuovo le sirene.

Piazza Trento non era mai stata così buia e, sebbene ci avessero risparmiato dei bombardamenti, le strade parevano così piene di miseria che un bombardamento non avrebbe potuto aggiungere altro dolore al dolore già inflittoci. Dicevano che Milano invece non era stata risparmiata per niente, le vetrate del Duomo risentivano degli ultimi attacchi e Roma, oh la bella Roma dove passai le vacanze estive, non era da meno. Ma li avrebbero mitragliati, ne ero sicura e non avevo nemmeno avuto il tempo di dire addio a Giovanni che, impavido nel suo cappotto grigio, mi aveva lasciato con un arrivederci, senza sapere che presto avremmo dovuto rivederci in tre; io, lui e il bambino che portavo in grembo.

Il giorno dopo, di mattino presto, si sarebbero riuniti negli scantinati della chiesa di Sant’Edoardo ad organizzare l’attacco alle milizie nazi-fasciste, la chiesa dove tenevano le armi, la chiesa dove quella sera la radio clandestina dell’operazione Crysler comunicava agli alleati americani le informazioni strategiche necessarie. Busto Arsizio infine sarebbe insorta e la speranza nei nostri cuori urlava libertà con ancora la paura di una prigionia intrisa nelle nostre lacrime. Erano sicuri di loro stessi, erano coraggiosi nei loro fazzoletti azzurri da partigiani cattolici, erano pronti a morire per la libertà, combattere per la pace, soffrire per la gioia. Non era un tragico paradosso? Chi mai avrebbe pensato che per avere la pace avremmo dovuto versare il nostro sangue? Circa settanta preti erano stati uccisi negli ultimi mesi, coloro che la gente diceva protetti, protetti dalle loro toghe, protetti dalla loro fede, dalle loro chiese e invece furono le prime vittime delle rappresaglie, scovati all’interno dei loro rifugi, al fronte, deportati nei campi di concentramento che alcuni si ostinavano ancora a chiamare campi di lavoro. Ma i preti erano solo le vittime che suscitavano più scandalo, chi si ricordava dei padri di famiglia? Chi si ricordava del mio? Morto durante una fucilazione a causa della morte di un militare nazista. Per ogni nazista morto, dieci civili venivano uccisi senza pietà, senza distinzione di sesso, razza, religione o stato sociale. Erano equi quei nazisti, con la loro gloriosa voglia di uguaglianza fucilavano i vecchi assieme ai bambini, quegli occhi iniettati di odio mai li avrei dimenticati e se mio figlio avesse dovuto nascere ancora sotto quel regime, il regime di quegli occhi glaciali che non avrebbero risparmiato nessuno, per Dio, gli avrei tolto la vita con le mie stesse mani.

Mi si fermò il respiro.

Ma che cosa stavo dicendo?

Mi coprii il viso con le mani, punendomi mentalmente per ciò che avevo appena affermato. Le lacrime iniziarono a rigarmi le guancie, come ferite di guerra interiore.

 

“Anna, Dio mio, cos’hai?” La signora Carla mi mise le mani sulle spalle con fare materno, sentii il calore delle sue dita, il calore del suo affetto, attraverso i vestiti. Risollevai la testa lentamente, ne sentivo tutto il peso sulle spalle, come se il dolore si fosse stabilito tutto all’interno del mio cervello rendendone i pensieri così gravi che il peso mi avrebbe schiacciato il collo se non mi fossi distesa. In un attimo ero a terra, rannicchiata in posizione fetale chiusi gli occhi e pregai. Fui presa da leggeri spasmi e tutto il dolore mentale si stava trasformando in dolore fisico. La signora Carla, preoccupata accorreva a misurarmi la febbre ma io sapevo che l’unica mia febbre era nel cuore. Allora pregai ancora, più forte e in silenzio chiedendo a Dio di risparmiare Giovanni, così giovane e inesperto con le armi, di risparmiare il bimbo che avevo in grembo, di farlo vivere in un paese meno straziato da tutto quel dolore. Chiesi alla Madonna di proteggere le donne e di accogliere tra le braccia quelle che già avevano perso la vita.

La signora Carla mi mise un fazzoletto bagnato sulla fronte, al contatto con quel fresco mi sentii improvvisamente le labbra secche e le chiesi dell’acqua. Allora Damiano, mio fratello minore, mi illuminò il volto con un fiammifero di fortuna.

 

“Fattelo dire Anna, sei davvero orribile.”

 

“E spegni quel fiammifero, cretino! Vuoi che ci uccidano?”

 

Damiano spense il fiammifero con un soffio mentre dalla mia gola saliva presto una risata, e allora risi e poi Damiano si mise a ridere, e la signora Carla mise una mano davanti alla bocca perché le sembrava che di ridere non fosse il caso ma si vedeva anche in quel buio che sotto quella mano celava un sorriso, e il signor Alfonso scoppiò in una fragorosa risata mentre Radio Londra si spegneva augurando ai superstiti la buona notte e nel mio cuore si accendeva ancora un ultima preghiera dedicata a chi domani avrebbe combattuto.

Esausta chiusi gli occhi mentre sentivo le braccia di Damiano sollevarmi dal pavimento, non appena sotto di me sentii il rumore confortante del materasso, caddi in un sonno profondo, chiedendomi se da quell’angoscia mi sarei mai svegliata.

 

Era il venticinque Aprile e il sole sorgeva calmo mentre noi, ancora svegli dalla notte prima, fingevamo di svegliarci e riuscire a mantenere la calma mentre, lo sapevo, le nostre anime urlavano. Li guardai intensamente,ognuno di loro, giurerei di aver potuto vedere le loro auree. Damiano avrebbe avuto un’aura di colore timido e chiaro, nella sua ingenuità bastavano ancora quattro pistole per liberare la città dall’assedio ed il coraggio che dimostrava a parole, in realtà era una paura timida che ancora si annidava infondo al cuore. La signora Carla avrebbe avuto un’aura di un colore giallo brillante, con la sua speranza e la sua allegria avrebbe risollevato le macerie di Busto Arsizio semplicemente guardandole e sorridendo, una donna forte che, a dispetto della sua compostezza, sarebbe stata capace di uccidere un nazista o un fascista a mani nude. Il signor Alfonso era un uomo dalle mille sfaccettature, aveva perso un figlio in trincea e sapevo che metà della sua aura sarebbe sempre stata azzurra, come il fazzoletto che Andrea, suo figlio, portava al collo quando morì, l’altra metà bianca per rispecchiare la purezza di un animo che ancora, dopo tutto quel dolore, aveva la forza di alzarsi la mattina e avere voglia di combattere.

Erano appena le sei, ma sapevamo che, se nessuno fosse stato ucciso durante la notte, i partigiani si stavano riunendo tutti nella chiesa di Sant’Edoardo assieme a Don Ambrogio Gianotti. Dicevano che la colonna Stamm  stesse procedendo nella nostra direzione e se davvero fossero arrivati ci saremmo ritrovati con la città circondata dai nazisti, ma la signora Carla ci rassicurava tutti, suo figlio faceva parte della resistenza, di quel gruppo di giovani che, se davvero l’esercito tedesco fosse arrivato, avrebbero combattuto per fermarla.

“Sta tranquilla mia cara, li fermeranno a costo di morire con le loro pallottole in corpo, quelle SS, super stupide, super stronze, non arriveranno mai qui se a fermarli ci sarà il coraggio dei nostri uomini.” La signora Carla me lo diceva spesso, con il sorriso di chi cercava di deridere il nazismo e gli occhi di chi sapeva di dover perdere il suo unico figlio per un bene superiore. E allora a me ribolliva la rabbia nelle vene per tutte quelle madri costrette ad essere forti, con il cuore lacerato come fosse stretto dal filo spinato dei campi di concentramento dove molti dei loro mariti erano stati torturati. Mi venne in mente il signor Castiglioni, lo conoscevo di vista, forse era stato un vecchio amico di mio padre, dicevano fosse stato catturato un anno fa e Dio solo sapeva se era ancora vivo e se mai sarebbe tornato.

La liberazione dicevano fosse ormai vicina e in quei momenti di speranza i miei pensieri andavano a chi non avrebbe mai avuto la possibilità di sorridere di fronte ad un’Italia libera. Era così ingiusto, maledettamente ingiusto.

Il bussare alla porta ruppe i miei pensieri. Il signor Alfonso, spaventato, mi fece cenno di nascondermi mentre Damiano, con ancora il sonno sugli occhi, aiutava la signora Carla ad alzarsi dalla branda.

 

“Chi bussa?”

 

Persino da dove ero nascosta sentii la voce di Giovanni ed il cuore mi si riempì di gioia. Non fece in tempo a varcare di due passi la soglia che già le mie braccia erano intorno al suo collo.

“Amore!” La sua risata riempì dolcemente il vuoto che sentivo nel petto e le sue mani, le sue braccia, risollevarono le mie macerie. Impossibile da descrivere il potere risanante di un unico abbraccio, il calore diffuso di uno sguardo d’amore dopo giorni di terribile angoscia.

 

“Giovanni, non credi anche tu che il tuo amore abbia delle occhiaie paurose?”

 

“Taci Damiano!” Giovanni scoppiò in una fragorosa risata, allora mi voltai a guardare le espressioni della signora Carla e del signor Alfonso. I loro occhi mi invitavano, aiutati da cenni del capo, a rivelare l’unica bella notizia a Giovanni. La signora Carla sorrideva dolcemente facendomi l’occhiolino ed io, spinta da fiducia, mi voltai nuovamente verso il mio uomo sorridendo.

 

“Devo rivelarti una cosa.”

 

“Che cosa c’è, Anna?” Non sapevo come dirglielo, sembrava sciocco ma non trovavo le parole per esprimere l’immensa gioia che portavo dentro. Che cosa avrei potuto dirgli? Stavamo per diventare una famiglia e non mi capacitavo di quante parole banali esistessero per esprimere una felicità così grande.

 

“Amore, ricordi il lago? Ricordi quando, abbracciati nel fresco della sera, mi dicesti che un giorno i nostri bambini avrebbero giocato sulla sua riva ed io, da premurosa come sono, sarei impazzita al pensiero che si facessero male. Mi prendesti in giro per dei minuti ed io, con il broncio, ti dissi che non avremmo mai avuto dei bambini perché sarei stata una madre troppo apprensiva. – Intanto lui mi guardava sospetto, con un mezzo sorriso accennato sulla bocca, come se volesse allargarlo ma non sapesse davvero di doverlo fare. - E poi siamo giovani, non arriviamo entrambi ai venticinque anni, e poi c’è la guerra, un ammasso di ambienti ostili e riempiti d’odio, e svuotati di speranza. Ho sempre pensato che le situazioni difficili si combattono con il coraggio di chi sa sorridere sempre più forte e il destino ora sorride a noi perché tra qualche mese potrai prendermi ancora in giro in riva al lago … sono incinta!” Quel suo mezzo sorriso gli esplose sulle labbra, poi si tramutò in un grido di gioia. Mai mi aveva abbracciata tanto.

Mi sollevò da terra, poi i nostri visi si trovarono così vicini da sentire l’una il respiro dell’altro sulla pelle.

 

“Stai dicendo sul serio?”

 

“No, ti prendo in giro. Sciocco, certo che dico sul serio.”

 

“Saremo una famiglia!”

 

“Saremo una splendida famiglia”, sussurrai.

 

 

Sono passati sessantanove anni, ma le emozioni che provai quel giorno rivivono ancora in me, fresche come se fossero passate solo delle ore. Oggi è il mio novantesimo compleanno e a dispetto della mia vecchiaia ricordo ogni dettaglio, ogni momento, ogni minuto che occorse per far sì che la nostra bella città divenisse di nuovo libera. Libera per vivere, libera per sorridere, piangere, gioire e, un giorno, morire nella pace che avevamo guadagnato.

Oggi, quindi, è il mio novantesimo compleanno, ma quando mi hanno invitata in una scuola per testimoniare ciò che andava testimoniato, per far sì che eventi del genere non accadano più, non ho potuto rifiutare. I visi di quei giovani mi scrutano attenti, rapiti dal racconto che ho deciso di regalare loro. I loro occhi spesso mi guardano stupiti, talvolta con le sopracciglia aggrottate perché non riescono a comprendere fino in fondo come cose del genere possano accadere. Spesso mi fanno questa domanda: “com’è possibile che il fascismo ed il nazismo abbiano preso così tanti consensi fino a degenerare?”, ed io non so mai cosa rispondere quando all’epoca io avevo solo ventuno anni e la mia mente era presa dalle gite al lago, dagli scherzi e da tutte quelle cose lontane dalla politica che una ragazza di quell’età poteva fare.

Una mano alzata mi distoglie dai pensieri e vedo una ragazza che con fare timido si porta il microfono alle labbra.

 

“Cosa accadde quando Busto Arsizio fu liberata? Dal suo punto di vista intendo.”

 

Sorrido, bevo un sorso d’acqua e avvicino le labbra al mio microfono.

 

“Busto Arsizio annunciò la liberazione quasi dodici ora prima di Milano. La radio della città lo annunciò piena d’amore con la voce di Vanna Tongiorgi e Nino Miglierina. Dal mio punto di vista fu una giornata, abbastanza movimentata. – Risi e  i ragazzi delle prime file mi sorrisero esortandomi a continuare. – Quella mattina il mio fidanzato era venuto a farmi visita nella casa dove mi ero rifugiata con il mio fratellino minore e due amici di famiglia, ero felice come non lo ero stata mai perché fu quello il giorno in cui gli annunciai che ero incinta.” Bevvi un sorso d’acqua prima di continuare.

“Ragazzi, la fatalità è qualcosa di imprevedibile, qualcosa che sa trasformare le gioie immense in dolori che durano una vita. Non passò che qualche ora, forse era già primo pomeriggio, e la gente riversandosi nella piazza bramava la libertà come la migliore delle cure ai propri mali. Ed io ero lì con loro e con Giovanni, il mio fidanzato. Fu allora che un militare fuggiasco sparò tre colpi, scappando e facendosi largo tra la gente. Uno, due e tre. Vidi Giovanni accasciarsi sul terreno, una macchia rossa gli si allargava sul petto. Scorsi, per un attimo, lo sguardo di quel tedesco che per un istante, un solo effimero istante, si era voltato indietro e aveva incontrato il mio. Se solo ci penso adesso vedo la scena a rilento, quegli occhi, quegli occhi azzurri, pieni di terrore, non li scorderò mai.” 

Per un attimo mi sembra di tornare indietro, mi sembra di sentire ancora l’asfalto sotto le ginocchia dove ero caduta, l’urlo di rabbia e dolore che mi lacerava il petto. Se solo mi volto un attimo indietro mi sembra ancora di vedere l’espressione di Giovanni incisa su quel suo volto d’angelo e Damiano che, con le lacrime, gli chiude gli occhi con le dita.

Sono passati sessantanove anni, ma sento ancora nel petto quel piccolo peso che mai ha voluto lasciarmi. Giovanni non vide mai il suo bambino e il mio bambino non vide mai il coraggio di quell’uomo che gli aveva dato la vita.

Era il venticinque aprile e ricordo ancora con freschezza che le strade erano intrise di una gioia morbosa, agognata e conquistata mentre io, accasciata sul terreno affondavo il viso nel petto esanime di Giovanni. Eravamo liberi, eravamo liberi e schiavi del dolore. L’amaro in bocca di chi aveva quasi raggiunto la vetta sapeva di un dolce miele che impastava i sentimenti, mischiava la felicità con la terribile tragedia di chi non avrebbe mai ricordato con gioia quel venticinque aprile.

Ma non ho la forza di intristire, senza motivo, dei poveri ragazzi. Allora sorrido, bevo un altro sorso d’acqua e concludo con quello che tutti vorrebbero sentirsi dire: “quel giorno è stato un giorno pieno di gioia, finalmente eravamo liberi e pronti far divenire il nazi-fascismo solo un ricordo.”

Applaudono tutti, alcuni sorridendo, altri commossi, mentre una delle insegnanti mi aiuta ad alzarmi. E mentre gli studenti applaudono, mentre le insegnanti parlano tra loro a me sembra ancora di vedere il volto di Giovanni. La verità è che non fu per tutti un giorno di gioia, molti di loro avevano perso dei figli, altri i genitori, parenti, molti di loro erano dispersi. Le città permeavano ancora dell’odore forte della paura e la libertà ci dava solo la forza di rialzarci in piedi per ricostruire ciò che era stato distrutto. Ma molte cose dovettero rimanere frammentate com’erano, come me, il mio cuore e quella che avrei voluto diventasse la mia splendida famiglia. Liberi, liberi e schiavi del dolore.

 

 

 


Note:

Ho deciso di scrivere questa breve storia dopo un incontro, avuto a scuola, con un avvocato che ci ha raccontato gli avvenimenti che hanno portato Busto Arsizio, la città dove ha sede la mia scuola, alla liberazione. Non so perché, mentre parlava e raccontava di dati, di fatti, mi è venuto in mente questo breve racconto pensando a quante cose invece non sono mai state dette.

Inizialmente volevo mettere delle note con delle delucidazioni riguardo ai nomi e ai fatti storici che non mi sono inventata, ma stava diventando un lungo elenco. Credo che se qualcuno delle zone di Busto Arsizio leggesse troverebbe qualcosa di familiare, in caso contrario esiste sempre la curiosità di andare a cercare le cose che non si conoscono. Oppure no, a vostra discrezione.

Detto questo, grazie di essere passati.

A presto, Nero Inchiostro

   
 
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