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Autore: allegretto    20/04/2014    7 recensioni
Ci vuole un incidente per far sì che tutti si rendano conto di quanto seriamente Jensen stia male. Ma come possono Jared, la famiglia Ackles e i suoi amici aiutarlo, quando lo stesso Jensen rifiuta ogni tipo di aiuto esterno? L'unico modo che essi conoscano, anche a costo di perdere per sempre la stima e l'affetto di questa persona!
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Jared Padalecki, Jensen Ackles, Misha Collins
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Tredici

 

 

 

Jensen era seduto sul sedile posteriore di una Dodge Colt bianca con le insegne della polizia di Dallas. In quel momento il suo mal di testa era lancinante e la luce del sole gli faceva lacrimare gli occhi, ma almeno non aveva ammorbato l'aria con la puzza del suo vomito.

I due agenti non avevano parlato molto. Erano entrambi corpulenti e questo era bastato a Jensen a togliergli ogni velleità di resistenza. Docilmente si era lasciato spingere nell'auto senza tante cerimonie. L'unico dolore percepibile era quello delle sue costole doloranti.

L'edificio che ospitava il comando della polizia era una costruzione a due piani di mattoni rossi abbastanza anonima, se non fosse stato per la scritta a lettere cubitali posta sopra la porta d'ingresso. Jensen aveva provato a dire che non era lui quello che aveva compiuto le aggressioni e che se avessero fatto una semplice ricerca su Google si sarebbero resi conto dell'errore commesso.

Uno degli agenti, ridacchiando, gli aveva detto che la sua identità l'avrebbero trovata nell'archivio della polizia perché sicuramente quello non era il primo crimine compiuto. Dopo un po' aveva rinunciato. Tanto era ricercato comunque e sicuramente la loro delusione sarebbe durata poco quando si fossero accorti chi era realmente quell'uomo incappucciato.

L'auto aggirò l'edificio e imboccò una rampa che li portò a un parcheggio sopraelevato pieno di veicoli e utilitarie simili alla Colt. Scese un po' barcollante e ansimando per l'improvviso sbalzo di temperatura tra l'aria condizionata dell'auto e la calura texana all'esterno, si appoggiò al cofano dell'auto. I due agenti, per nulla spaventati dal suo mancamento, lo strattonarono affinché si rimettesse in piedi al più presto.

Attraverso un ascensore, giunse al secondo piano della palazzina. Lo fecero accomodare in una stanza dalle pareti dipinte di verde e senza finestre. Gli spostarono le braccia, ormai intorpidite, da dietro la schiena sul davanti e lo agganciarono a un anello posto sotto il tavolo, in modo che potesse alzarsi in piedi ma non spostarsi in alcuna direzione. Gli chiesero se volesse una tazza di caffè e lui annuì elargendo un sorriso tirato. In quel momento avrebbe voluto un'aspirina, un gabinetto e un letto. Lasciato solo, si guardò un po' intorno. L'arredamento era assai scarno: un tavolo, due sedie di plastica e null'altro, fatta eccezione per un blocco di fogli bianchi e una matita posti sulla superficie liscia del ripiano davanti a lui.

Per far passare il tempo, tentò di ricordarsi tutti i vari particolari sull'arresto e sui suoi diritti costituzionali facendo riferimento ai copioni imparati durante le riprese di Supernatural o degli altri film o telefilm in cui aveva recitato. Cercò di consolarsi vedendo il lato positivo della situazione: aveva l'opportunità di osservare da vicino il funzionamento del sistema giudiziario americano. Magari gli sarebbe stato utile se avesse avuto la fortuna di recitare in un ruolo drammatico, sempre se fosse uscito indenne da quella situazione.

Aveva già avuto l'occasione di visitare una stazione di polizia anni addietro, ma quella volta era stato molto diverso. Aveva solo sedici anni e vi era stato accompagnato da suo fratello, quando aveva scoperto nel suo armadio una racchetta da tennis in fibra di vetro, rubata qualche giorno prima in un negozio di articoli sportivi assieme ad alcuni suoi compagni di scuola. Era stata una bravata e comunque compiuta nella proprietà di uno di loro ma aveva dovuto ammettere il proprio 'crimine' e a quanto pare aveva avuto fortuna, visto che il furto era stato denunciato e le telecamere avevano immortalato lui e i suoi complici. Inoltre stava per essere emesso un mandato di arresto a suo nome. Se non fosse stato per le insistenze e minacce di suo fratello, lo avrebbero incriminato.

Si ricordava ancora l'umiliazione di aspettare i suoi genitori per essere rilasciato e non aveva provato mai tanta vergogna quando aveva scorto l'aria mortificata sul viso di suo padre e l'espressione ferita della madre. In quel momento aveva faticato molto per non scoppiare a piangere e ogni volta che ci ripensava gli tornava il magone.

Fu distratto dai suoi ricordi dall'apertura della porta, attraverso la quale entrò un uomo vestito con un completo di cotone bluette e una camicia bianca aperta senza cravatta. Aveva la pistola agganciata alla cintura e un cartellino appeso al taschino della giacca che riportava il nome di K. Pinker e la qualifica di Detective della polizia di Dallas. Costui si sedette al tavolo, aprendo una cartellina piena di fogli e iniziò a sfogliarli, come se stesse cercando qualcosa.

“Grazie al cielo”, esclamò Jensen, sollevato.

“Per cosa?”

“Finalmente si muove qualcuno. Ho bisogno di andare in bagno e non voglio stare tutto il giorno qui dentro!”, rispose il giovane, alzandosi in piedi per sgranchirsi le gambe.

“Ti dispiace sederti, per favore?”, ordinò l'agente, brusco.

Jensen obbedì, a malincuore.

“Sono il detective Kim Pinker”, si presentò l'uomo. Poi prese un foglio dal fascicolo e lo mise davanti a Jensen. “Nome completo, data di nascita, residenza e professione”, ordinò, poi, passando una penna a Jensen.

“Non sono quello che credete di aver arrestato!”, esclamò Jensen, guardando il modulo davanti a sé, il quale recava l'intestazione della Contea di Dallas.

“Tu riempi gli spazi con i dati che pensi siano i tuoi. Poi vedremo chi ha ragione o meno”, replicò calmo l'agente, non prima di intimargli di scrivere.

Jensen sospirò e iniziò a compilare il foglio con i suoi dati:

Jensen Ackles

nato a Dallas il 01/03/1978

residente a Los Angeles

Professione: attore presso la Warner Bros, Los Angeles

Il detective lesse con disgusto quei dati. “Divertente. Davvero esilarante”, esclamò, alzandosi in piedi.

“Oh si, davvero. Mi farò anche io quattro risate quando capirete il grosso abbaglio che avete preso”, replicò Jensen, sicuro di sé.

L'atteggiamento spavaldo dell'accusato spiazzò un poco l'investigatore, il quale aveva notato alcuni particolari non proprio consoni a un delinquente di quella specie. Uscito in corridoio, notò un certo trambusto. Non ci fece caso più di tanto e si diresse alla sua scrivania per vedere a chi corrispondessero quei dati, quando si imbatté in una sua collega.

“Ahaha, ma pensa... All'entrata c'è uno stuolo di avvocati che affermano che abbiamo arrestato l'attore che fa quella serie sui fenomeni soprannaturali”, gli disse lei, con espressione divertita. “Quanto vorrei che fosse vero!”, aggiunse poi, sospirando. “Mia figlia ha la stanza tappezzata dai suoi posters”

“Come si chiama?”, chiese il detective, roso dal sospetto.

“Jensen Ackles”, rispose lei, sicura. “Perché”', chiese, poi.

“Lo conosci bene?”, chiese lui, con una certa urgenza.

“Si, certo. Lo guardo anche io il telefilm”, rispose lei. “Ma cosa ti prende?”, chiese poi lei, confusa.

“Per favore, porteresti una tazza di caffè caldo nella stanza degli interrogatori numero 5?”, domandò Pinker, senza aggiungere altro. Se quello era realmente chi diceva di essere, la collega lo avrebbe riconosciuto subito. Lui, purtroppo, non aveva tempo per seguire le serie televisive, pensò amaramente, seguendo la collega con lo sguardo mentre rovesciava del caffè caldo da una brocca in una tazza di plastica e si dirigeva verso le stanze degli interrogatori.

L'agente che uscì subito dopo sembrava stesse avendo un infarto. Il suo viso arrossato, la fronte imperlata di sudore, il respiro affannoso e l'espressione sofferente faceva propendere per questa soluzione per chi se la fosse trovata di fronte. Ma per Pinker fu la risposta al suo dilemma. Fu immediatamente circondata da un crocicchio di persone preoccupate e quando la cortina divenne impraticabile, il detective Pinker fendette la folla con un bicchiere d'acqua per rianimare la povera donna, reduce dall'incontro più importante della sua vita.

“Se avessi un minimo di forza, ti strangolerei con le mie mani!”, esclamò la poliziotta, con un filo di voce, prendendo il bicchiere dalle mani del collega. “Anche se te ne sarò grata per l'eternità!”

“Avevo un dubbio e tu lo hai risolto!”, ribatté lui, serafico. “Ma ti ha fatto così tanto effetto, vederlo?”, domandò poi lui, stupito dalla reazione della donna.

“Tu non sai cosa vuol dire vedere in carne ed ossa Jensen Ackles! E poi se ti bacia....”, rispose lei, avvampando al solo pensiero. “Oggi ho avuto la conferma che il mio cuore è forte e sano”, ridacchiò la detective, ancora ansante per l'emozione.

Accertata la vera identità dell'arrestato, l'investigatore contattò il suo superiore per spiegargli l'accaduto e iniziare le pratiche di rilascio al più presto, soprattutto per limitare al massimo l'entità della querela che sicuramente i suoi costosi avvocati avrebbero emesso subito dopo aver lasciato il distretto di polizia.

Mentre attendeva di essere messo in comunicazione con il capitano Greyson, cercò qualche informazione su questa serie di cui le aveva parlato la sua collega ed entrò in Internet. Un avviso di ricerca federale campeggiava sul suo desktop e per abitudine, cliccò là, prima di avviare una ricerca.

Lo lesse con febbrile attenzione man mano che scorreva le parole e un largo sorriso gli incorniciò il viso. Non era un pericoloso criminale alla ricerca di refurtiva, non con una manicure professionale, capi di vestiario firmati e non usurati a tal punto dal pensare che li avesse presi in un negozio di seconda mano e un atteggiamento spavaldo di chi sa di essere in una botte di ferro. No, non lo era. Piuttosto un alcolizzato e un pericolo pubblico al volante della sua macchina! E ciò lo rese molto felice!

“Abbiamo accertato la sua identità. Ci scusiamo per il disagio, Mr Ackles”, esclamò il capitano Greyson, entrando nella stanza degli interrogatori, seguito dal detective Pinker, offrendo una tazza di caffè bollente a un sonnacchioso Jensen.

“Alleluia!”, replicò quello, rianimatosi immediatamente. Si stiracchiò poi, facendo tintinnare le catene che lo tenevano legato al tavolo. “Eh, allora, slegatemi subito!”

“No, direi proprio di no”, ribatté il detective, sedendosi calmo e aprendo la solita cartellina.

“E perché mai? Non sono l'uomo che cercavate, pertanto me ne posso anche andare!”, urlò di rimando Jensen, dando un violento strattone alle manette.

“Certo, lei non è accusato di aggressione e rapina, ma è comunque ricercato per un reato federale, perciò non cambia nulla. Anzi, per certi versi, la situazione si è complicata”, spiegò il capitano, cancellando la prima imputazione e scrivendo la seconda su un foglio.

“Voglio il mio avvocato!”, gridò l'imputato.

“Si, certamente. Sono qui fuori e presto li potrà vedere”, disse il detective, passando dei fogli a Jensen e una penna. “Per favore, li compili e l'ultimo lo legga ad alta voce”, sentenziò Pinker.

“Non firmo nulla se non me lo dice il mio legale”, ribatté quello, lanciando in terra la penna.

“Va bene. Nessun problema”, replicò l'agente, calmo.

“Jensen Ackles, lei è accusato di guida in stato di ebbrezza, danneggiamento di proprietà della contea e di terzi, evasione dai domiciliari e guida senza patente”, lesse l'investigatore, scandendo bene le parole. Poi vedendo l'altro che stava per replicare, si affrettò a leggere i diritti costituzionali dell'accusato. Dopo di ciò, chiese: “Ha capito tutto?”

Jensen, che nel frattempo si era seduto, annuì, sconfitto.

“Ottimo. Tra poco, potrà parlare con il suo avvocato. Beva il caffè, finché è caldo e poi un agente la accompagnerà al bagno”, disse il capitano, scambiando un'occhiata di complicità con il proprio sottoposto, prima di uscire.

Non dovette aspettare molto. Dopo aver potuto espletare i suoi bisogni fisiologici, fu accompagnato lungo un corridoio tinteggiato allo stesso modo della sala interrogatori e alquanto lugubre fino a una porta. Jensen, rassegnato a sorbirsi un sermone infarcito di termini legali e consigli più o meno condivisibili, entrò nella stanza con un espressione da condannato a morte. Sempre non ritenendo che il suo caso non fosse così complesso, si stupì alquanto quando si trovò davanti tre persone in luogo di uno solo. Due li conosceva e uno no. Rimase fermo e immobile, non appena la guardia lo spinse dentro, prima di chiudere la porta.

I tre rimasero seduti a un tavolo e lo guardarono fisso. Tom, il suo avvocato, si alzò in piedi e gli andò incontro. “Jensen, ti senti bene? Ti hanno trattato bene?”, chiese preoccupato, vedendo l'espressione confusa del giovane.

“Si, tutto a posto”, rispose lui.

“Bene. Allora vieni a sederti cosa ti spieghiamo la situazione”, aggiunse poi, facendogli segno di accostarsi al tavolo.

Sempre senza proferire parola, Jensen si sedette di fronte all'altra persona che conosceva bene. Il suo sguardo, colmo di disapprovazione e rabbia repressa, era torvo. Jensen si sentì nuovamente un sedicenne appena colto in fallo e ciò non lo rassicurò per niente.

“Jensen, lui è Jack Tomphson”, disse Pierce, presentando un uomo brizzolato e dal viso rubicondo che era seduto dal lato più corto del tavolo. “E' l'esperto di diritto penale che ti seguirà in aula durante l'udienza del giudice”, spiegò poi, mentre Jensen e l'altro avvocato si stringevano la mano.

“Perché un penalista?”, chiese Jensen, sorpreso.

“Perché le cazzate che hai fatto sono reati penali!”, urlò Josh, dando una manata sul tavolo e facendo sussultare tutti quanti per lo spavento.

“Josh, per favore, mi avevi assicurato che non avresti urlato o fatto gesti inconsulti!”, lo redarguì Tom.

“Si, scusami, ma vedo che costui”, ribatté il giovane, indicando il fratello minore “ha di nuovo lasciato il senno sulla Luna”

“Martedì prossimo c'è l'udienza. Jack è riuscito a fare un accordo con il procuratore. Mi sembra ottimo e anche la tua famiglia è di questa opinione”, spiegò il civilista, dopo aver fatto un gesto di calma a Josh. “Adesso te lo illustrerà e tu potrai fare tutte le domande che vuoi. Va bene?”, aggiunse poi.

Jensen annuì, ma la sua espressione diffidente era il preludio al suo diniego. Sapeva già quali erano i termini di quell'accordo.

Josh si era alzato in piedi e stava controllando messaggi ed email sul suo cellulare, appoggiato alla parete da dove sbirciava verso suo fratello. Jensen era seduto rigido sulla sedia, un po' per le costole doloranti e un po' per la tensione del momento. Avvertì il bisogno impellente di bere un goccio di whisky ma si sarebbe accontentato dell'ennesimo caffè.

“Sapete, per caso, se posso bere del caffè?”, chiese, poi, cercando poi di trovare una posizione comoda, elargendo alcune smorfie.

“Si, certo. Lo vado a prendere per tutti, mentre voi due parlate”, esclamò Pierce, andando dalla porta. Bussò sullo stipite, attirando l'attenzione della guardia, la quale lo fece uscire.

Dopo di ciò, Tomphson prese la parola. Aveva una parlata cantilenante, tipica della Georgia, quasi ipnotizzante e Jensen faticò molto a rimanere concentrato, mentre questo spiegava il caos madornale in cui si era ficcato. Però non appena pronunciò un numero, Jensen fu subito attento.

“Tre mesi?”, sbottò all'improvviso. “Scordatevelo!”, aggiunse, nello stesso tono irato.

“Allora farai trenta giorni di cella nel carcere della contea e ti rimarrà la fedina penale sporca!”, replicò Josh, avvicinandosi, minacciosamente, al fratello.

“Neanche morto! Non potete costringermi!”, ribatté l'altro, senza scomporsi.

“Ahaha, poi voglio proprio vedere come farai ad andare in Canada....”, sentenziò ironico Josh.

“E allora mi ritirerò dalle scene e andrò a studiare all'università!”, urlò, di rimando, Jensen.

“Ti rendi conto delle stronzate che stai dicendo?”

“Non puoi giudicare la mia vita, senza sapere quali siano le mie priorità e le mie esperienze. Io, in clinica, non ci vado. Punto. So cosa avviene là dentro. Alcuni miei amici ci sono andati e non serve a nulla. Quando sono usciti, sono tornati a drogarsi un'altra volta!”, disse Jensen, alzandosi in piedi.

“E poi sarò intontito tutto il giorno. Tante chiacchiere e tanti psicofarmaci. Almeno in carcere sarò lucido e in grado di difendermi da solo....”, aggiunse, poi.

“Difenderti? Certo, quando ne avrai quattro addosso! Voglio proprio vedere come farai”, replicò, furente, Josh.

“Signori!”, esclamò, perentorio, l'avvocato Pierce, aprendo la porta. “Vi si sente dal corridoio”

“IO.NON.ANDRÒ.IN.CLINICA.PUNTO!”, sentenziò Jensen, scandendo ogni singola parola con la voce e con l'indice puntato sul tavolo, rivolto a suo fratello.

“E allora arrangiati!”, replicò Josh, dando uno spintone a Jensen e subito allontanandosi da lui.

Pierce riuscì a impedire a Jensen di rispondere fisicamente al fratello e lo costrinse a sedersi.

“Bevi il tuo caffè e prendi queste pillole. Hai saltato la tua terapia farmacologica!” aggiunse poi, mettendo nel palmo della mano del giovane una selezione di pastiglie di diversi colori e forme.

Per cinque minuti regnò la calma. Jensen inghiottì i suoi farmaci e gli altri sorseggiarono il loro ennesimo intruglio liquido.

“Jensen, prenditi qualche giorno per decidere. Tanto fino a martedì dovrai stare in cella. Vedi come è l'ambiente e se puoi reggere a un mese là dentro”, disse, pacato, l'avvocato penalista. “Tieni presente che il giudice potrebbe cambiare i termini dell'accordo e aumentare i giorni di carcerazione. Potresti ritrovarti a dover scontare tutti i centottanta giorni previsti dal codice penale texano”, continuò, poi.

“Va bene. Vedremo martedì mattina. Se sarà così, mi adeguerò”, rispose Jensen, alzandosi in piedi e andando verso la porta.

“Ti abbiamo portato una borsa con i tuoi effetti personali, un po' di biancheria pulita per cambiarti, i tuoi farmaci. Se hai bisogno di qualcosa, ricordarti che puoi richiedere la presenza del tuo avvocato a qualsiasi ora del giorno e della notte e lo puoi dire a ogni guardia che incontri, mentre sei là dentro”, disse Pierce, guardando negli occhi Jensen. Vide un misto di paura, esaltazione e incoscienza. “Mi raccomando, questa è vita vera e quelli saranno criminali veri. Se sarai in difficoltà, cerca i secondini. Il direttore è stato avvisato ma non può essere ovunque; inoltre se ci saranno guai peggiori, l'unica arma a loro disposizione è quella di metterti in isolamento. Di certo, non possono isolare cinquecento detenuti solo per te...”

Detto questo uscirono tutti e tre, lasciando Jensen da solo a rimurginare su tutto quello che era successo nelle ultime ventiquattro ore. Poco dopo un agente lo scortò a un ascensore per andare di sotto. Effettuato il rituale delle impronte attraverso uno scanner digitale, assai veloce e impersonale, fu scortato lungo un corridoio fiancheggiato da celle su entrambi i lati. Erano cubicoli più o meno quadrati: la parete che dava sul corridoio era costituita solo da sbarre, in modo che ogni angolo del locale fosse chiaramente visibile all'esterno. Attraverso le inferriate Jensen vide che ogni cella aveva una cuccetta di metallo fissata al muro, un gabinetto e un lavandino d'acciaio. Le pareti e le cuccette erano dipinte dallo stesso insulso colore che si poteva ammirare al piano superiore. Il wc non aveva né coperchio né asse.

La guardia si fermò davanti a una cella e la aprì, facendo segno a Jensen di entrare. Non obbedì subito. Rimase immobile a guardare la desolazione di quel luogo. Non c'era la minima privacy. Neanche per espletare un semplice bisogno corporale. Avrebbe dovuto farlo davanti a tutti. Pensò che quello sarebbe stato lo scoglio più duro di tutta la detenzione. Lui, così schivo, si ritrovava alla mercé di tutti. Jensen ingoiò a vuoto e poi lentamente entrò dentro, sentendo il clangore del cancello di ferro, chiuso con violenza, e, il tintinnio delle chiavi, una contro l'altra, mentre la guardia assicurava la porta a doppia mandata.

La notte Jensen non chiuse occhio. In preda a forte nausea e a conati di vomito che gli squassavano il petto passò quelle ore nella miseria più nera. Le celle si erano riempite man mano che la sera cedeva il posto alla notte. In parte erano ubriachi molesti e alcune prostitute che, dapprima inveivano contro tutto e tutti e poi, accortesi della sua presenza, benedicevano il fato per essere capitate in quel luogo. Un paio erano brutti ceffi di cui uno tutto lordato di sangue, il quale non aveva fatto altro che urlare bestemmie e parolacce per tutta la notte. Per fortuna nella sua cella non era stato messo nessuno. Sicuramente il suo avvocato aveva elargito qualche mazzetta per evitare tale eventualità.

Al mattino era riuscito a trangugiare solo un pezzo di pane tostato, mentre il solo olezzo di uova fritte, gli aveva innescato una nausea terribile. Appena salito sul pullman che lo avrebbe condotto alla prigione della contea, gli venne in mente un episodio di Supernatural, girato nella seconda stagione, dove i fratelli Winchester si facevano rinchiudere in una prigione per dare la caccia a un fantasma. Cercò allora di entrare in 'modalità Dean'. Molto spesso aveva usato questo espediente quando doveva confrontarsi con tutte quelle fobie che gli affollavano la mente quotidianamente. Si sentì più sicuro e spavaldo. In fondo erano solo quattro giorni, prima di arrivare all'udienza: doveva stare zitto, cercare di sembrare meno attraente di quello che era e non rispondere alle provocazioni di chicchessia. In quel momento avrebbe tanto voluto la presenza del 'suo' Sam o di qualsiasi altro viso amico, ma si accontentò di riviverlo nella sua mente.

 

A Richardson si alternavano momenti di inquietudine, paura, sgomento e ilarità isterica. Donna Ackles aveva avuto un malore nel momento in cui il marito aveva appreso da Morgan l'arresto di Jensen, Solo il ricorso a forti sedativi aveva permesso alla signora di riposare tranquilla. Danneel non si era scomposta più di tanto ma il segnale della sua irrequietezza era dovuto al ricorso costante di quadrati di cioccolato al latte farcita alle nocciole. Josh aveva commentato in modo ironico che tanto non avrebbe più lavorato nel mondo del cinema, visto che il marito era caduto in disgrazia.

Mentre si susseguivano riunioni tra avvocati della famiglia, quelli del network e della produzione, Jared cercava di non lasciarsi travolgere da attacchi di panico, assai inutili e controproducenti.

La parola chiave in quelle ore era 'tutela legale', ovvero quel documento che avrebbe sancito l'impossibilità di intendere e volere da parte di Jensen e il ricorso a un tutore che avrebbe preso, in vece sua, tutte le decisioni. Unica strada percorribile ma senza via d'uscita. Era conscio che la sua vita, così come era trascorsa in quei ultimi sei anni, sarebbe cambiata inesorabilmente. Ora capiva perché all'uomo non era dato conoscere il proprio futuro. La conoscenza di ciò avrebbe reso il presente ingestibile! E benché tutti gli dicessero quanto fosse importante quell'atto, lui era sempre meno convinto di ciò.

L'unico aspetto che potesse essere convincente ai suoi occhi era la cancellazione del reato penale e quindi il ritorno al suo lavoro e alla vita di sempre. Forse quello valeva di più della loro amicizia o qualsiasi altra cosa ci fosse fra loro due.

I colleghi e amici di Jensen si sentivano impotenti. Non potevano aiutare Jared e tanto meno Jensen, rinchiuso in un carcere in attesa dell'udienza che avrebbe deciso il suo futuro. Avrebbero dovuto tornarsene alle loro rispettive case e lasciare il tutto in mano ad avvocati e al linguaggio legale.

Perciò, quando arrivò la notizia che Jensen, appena giunto alla prigione di North Pond, si era trovato nei guai, la proposta dell'avvocato Pierce fu accolta con una gioia irrefrenabile, quasi fuori luogo.

“Voi non siete normali”, esclamò Pierce, al vedere tanti volti illuminati dall'entusiasmo.

“Essere pazzi è un requisito fondamentale per essere assunti nel cast di Supernatural?”, chiese, poi, dopo aver illustrato il piano al limite dell'impossibile.

Tutti risero con la consapevolezza di sentirsi tutti come in una grande famiglia.

“Allora, Pierce, ripeti un po' cosa ti ha detto il procuratore”, lo incalzò Morgan, dopo aver rifornito tutti quanti con una birra gelata, unico conforto contro la calura texana.

“Come pensavamo, nel momento in cui è arrivato Jensen nel perimetro carcerario, si è scatenata la corsa di tutti i detenuti nel contendersi la preziosa 'merce'”, spiegò l'avvocato, sospirando. Ciò scatenò un improvviso brivido a tutti quanti. E la birra gelata non ne era la responsabile!

“Perciò si è trovato nel mezzo di una rissa, dove con un po' di buon senso è riuscito a non farsi male e a chiedere protezione alle guardie che comunque erano già state allertate”, continuò il legale, davanti a un audience silenziosa, a parte qualche imprecazione sottovoce.

“Non è che i secondini abbiano fatto chissà cosa: hanno sedato la rissa e rinchiuso in cella Jensen ma almeno hanno impedito che la situazione degenerasse”, aggiunse , prima di bere una lunga sorsata di acqua fresca da un bicchiere colmo di cubetti di ghiaccio. Poi, dopo essersi asciugato il sudore dalla fronte, continuò: “Ora abbiamo pensato che se ci fosse qualcuno che proteggesse Jensen all'interno della prigione si potrebbe arrivare a martedì senza tanti patemi d'animo. E a quanto pare anche il procuratore è di questa opinione. Per cui entro le quattro devo trovare due persone che possano svolgere questo servizio di baby-sitter e a loro sarà fornita una storia di copertura per non destare sospetti”

“Non si possono assumere due guardie del corpo?”, chiese Josh, dubbioso.

“Si, ci avevo pensato. Ma non credo sia la soluzione migliore. Le persone che mandiamo là devono avere la completa fiducia di Jensen, in modo che accetti tutti quello che dicano senza questionare”, rispose Pierce, ristorandosi nuovamente con l'acqua.

“Di conseguenza avete un'ora anche meno, per fornirmi i due nomi di questi temerari. Direi che possano essere eliminati dalla lista Josh, il quale assomiglia troppo a Jensen, Jared, perché se no ci vorrebbero i body-guard anche per lui”, affermò l'avvocato, accennando a un sorriso, “e forse anche Misha per gli stessi motivi”, concluse poi, osservando la delusione sul volto dell'attore in versione 'angelica'.

“Eh, non rimangono molti nomi da mettere su quella lista”, bofonchiò Josh, il quale non capiva bene il motivo della sua esclusione.

“Il procuratore è stato categorico. Darà l'assenso solo a due persone che possano assicurare una protezione a Jensen e che riescano a imporsi su di lui senza problemi. Dovranno far intendere a tutti che quel figliolo è affar loro e nessuno dovrà immischiarsi. Perciò servono due tipi che si possano spacciare per boss e e che abbiano la capacità di recitare un ruolo da duro, in modo che tutti gli stiano alla larga”, affermò risoluto l'avvocato, prima di uscire dalla stanza.

“Ah, meno di un'ora per trovare due persone che abbiano il fegato di andare volontariamente in un carcere in mezzo a dei criminali e le palle per difendere Jensen da qualsiasi malintenzionato...”, bofonchiò Misha, finendo di bere la sua birra, ormai calda.

“Per non parlare del 'container' di pazienza che ci vorrà per tenere a bada Jensen...”, replicò Beaver, sospirando.

“Ahaha, i quaranta minuti più lunghi della nostra vita”, ribatté Morgan, rientrando nella stanza con una tazza di caffè in mano.

 

Jensen, seduto su una panca nel cortile della prigione di contea, si rese conto di come si fossero sentiti i primi cristiani quando venivano gettati nelle arene sotto lo sguardo famelico dei leoni. Avrebbe voluto farsi una corsetta per sgranchirsi le gambe oppure alzarsi e guardare al di là della rete la valle che si stendeva sul lato occidentale della costruzione carceraria, ma era impossibile. Purtroppo ogni suo movimento era osservato da centinaia di occhi che bramavano una sola cosa: lui!

Inghiottì a vuoto. Era stato proprio un incosciente. Non lo avrebbe mai ammesso ma in quel momento, mentre tremava, nonostante i quaranta gradi, avrebbe firmato qualsiasi cosa per sottrarsi a quell'incubo. Con la coda dell'occhio vide arrivare un altro trasporto detenuti. Altri potenziali pretendenti che si aggiungevano alla lista. Grandioso!

Quelli che si erano azzuffati, quando lui era arrivato, erano stati rinchiusi in isolamento. Mentre li conducevano via, gli avevano mimato che lo avrebbero ucciso, una volta tornati liberi. Sperava, così, in cuor suo, che quella detenzione forzata durasse fino a martedì.

L'ora d'aria stava per terminare. Sarebbe tornato in cella a leggere uno dei libri che sua madre gli aveva messo nel borsone con i suoi effetti personali. 'Furore' di Steinbeck era proprio il libro indicato per quel frangente. Aspettò che si svuotasse parzialmente il cortile, prima di avvicinarsi al cancello. Mentre si accingeva a farlo, diede un'occhiata ai nuovi detenuti che erano schierati accanto al pullman che li aveva condotti lì e per poco non gli venne un accidente. Due tizi, ammiccanti, gli avevano rivolto un fugace ma alquanto eloquente sorriso. Cosa ci facevano Morgan e Sheppard lì?

 

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Angolo di Allegretto

Per cominciare, auguro a tutti i miei lettori una Buona e Serena Pasqua! Ringrazio tutti quelli che mi seguono, leggono e recensiscono questa storia e sopportano i miei tempi lunghi di pubblicazione. Come al solito, mi sono fatta prendere la mano dalla trama e mi sono dilungata, come penso vi siate accorti. Vorrei sapere se siete d'accordo oppure volete un accorciamento delle vicende e una conclusione più veloce.

Grazie a tutti!

 

 

 

  
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