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Autore: EvgeniaPsyche Rox    20/04/2014    10 recensioni
Era stato partorito così, con quell'inarrestabile voglia di cercare l'introvabile che lo costringeva a sentirsi a disagio in qualsiasi luogo.
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Roxas aveva appoggiato il piede sinistro fuori dall'auto; all'interno suo fratello piangeva a dirotto, suo padre bestemmiava perché quegli stronzi mi avevano detto che la casa era molto meglio, e sua madre rimaneva chiusa nel suo solito silenzio.
Fuori, in mezzo all'odore di pioggia, qualcuno che strillava: «Questo posto è una discarica!»
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Roxas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Altro contesto
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Cigarettes.



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«Rox!»
«Rox!»
«Roxas!»





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L'unica cosa che ricordava della sua vecchia città erano le storie sui fantasmi dello zio Bern, lo sguardo irato di suo padre dinnanzi alle notizie dei quotidiani e quella volta che si era per sbaglio pinzato l'indice perché aveva scambiato la pinzatrice per lo scotch. Suo padre si era infuriato un sacco e quando gli aveva tolto la graffetta dalla pelle aveva pianto per quasi un'ora.
Roxas aveva quattro anni e suo fratello Sora due, quando si trasferirono dall'altra parte del Paese, quella più fredda e lontana.
La gente laggiù si chiamava per cognome e l'aria odorava perennemente di pioggia, anche se erano poche le volte in cui essa scendeva per davvero: in quei luoghi vi era principalmente neve e grandine.
«Questo posto è una discarica!». Quella fu la prima frase che Roxas udì; aveva appena appoggiato il piede fuori dall'auto e una voce era riecheggiata immediatamente nel piccolo quartiere in cui avrebbe vissuto.
Era nato solamente da quattro anni e già doveva avere a che fare con un territorio apparentemente nuovo per lui; apparentemente perché dentro era pieno di storie, persone, luoghi a lui estranei, che doveva scoprire giorno dopo giorno, attimo dopo attimo.
Sarebbe stato decisamente più facile venire partorito in un posto nuovo di zecca, un posto che sarebbe cresciuto insieme a lui.
Invece vivere in un ambiente già adulto, già pieno di vita, già avanti con l'età, non era mica facile.
Roxas aveva appoggiato il piede sinistro fuori dall'auto; all'interno suo fratello piangeva a dirotto, suo padre bestemmiava perché quegli stronzi mi avevano detto che la casa era molto meglio, e sua madre rimaneva chiusa nel suo solito silenzio.
Fuori, in mezzo all'odore di pioggia, qualcuno che strillava: «Questo posto è una discarica!»





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Le scuole medie e quelle superiori erano una di fronte all'altra e facevano parte dello stesso Istituto che aveva un nome che a Roxas ricordava sempre la marca di qualche formaggio francese (E tra l'altro lui detestava il formaggio).
Non erano molto distanti da casa sua, quindici minuti a piedi al massimo; ben presto suo padre aveva iniziato a mandarlo da solo insieme a suo fratello, costringendolo a tenerlo addirittura per mano, il che era particolarmente imbarazzante per Roxas, poiché desiderava mantenere una certa dignità dinnanzi ai suoi coetanei.
Alle elementari non gli dispiaceva andare a scuola; c'era in lui quella voglia di scoprire il mondo, le persone, gli odori, gli ambienti ed era tutto un miscuglio di colori e rumori che lo rendevano entusiasta di qualsiasi cosa, perfino delle monotone lezioni di matematica.
Riusciva a cogliere un frammento di arcobaleno in tutti, perfino nelle maestre e nelle bidelle, con quella faccia decrepita e piena di rancore verso il proprio mestiere; ecco, perfino lì Roxas riusciva a cogliere qualcosa, a scavare o a trovare del colore.
O magari non è che lo trovasse in fondo; forse semplicemente distendeva un velo colorato sul grigiore delle persone per addobbarle, per renderle più presentabili, per strapparle dalla loro vera natura.
Amava fare il tragitto per recarsi a scuola, dal momento che allora c'era ancora suo padre ad accompagnare lui e suo fratello; la mattina era l'unico momento in cui non era stressato per il lavoro, lanciava dei sereni sorrisi di tanto in tanto ed era diventata per loro un'abitudine fermarsi al bar per cinque minuti prima di entrare in classe.
Roxas amava quel momento, probabilmente era il suo preferito.
Suo fratello che raccontava di ciò che aveva combinato a scuola il giorno prima in un monologo infinito; suo padre che annuiva sorridendo, ascoltandolo un po' sì e un po' no, e l'odore delle brioches appena sfornate che riempivano l'aria.
Si sedevano sempre davanti alla finestra, e Roxas ogni mattina vedeva passare i ragazzini per raggiungere le diverse scuole; i bambini che correvano, i ragazzi che camminavano, e i teenagers che parevano quasi trascinarsi.
Una volta vide un ragazzino delle superiori con una sigaretta in mano e Roxas la trovò una cosa strana, strana e sbagliata, però curiosa, come quando il suo vicino di banco si metteva a scavare nella terra per cercare i vermi e li infilzava con un bastone per poi mostrare il suo trofeo a tutti: e le bambinette con le treccine che correvano via inorridite piangendo, mentre lui rideva forte. Roxas pensava che fosse una cosa disgustosa, però spesso si avvicinava per vedere quel corpicino rosa-maialino inerme e abbandonato al suo tragico destino.
Quando aveva domandato a suo padre che gusto avessero le sigarette, lui gli aveva risposto soltanto con la parola ''fumo''.
Da quel giorno Roxas aveva iniziato a recarsi vicino alla fabbrica in periferia della città per cercare in ogni maniera di inspirare quel famigerato fumo, e quando il vecchio contadino pazzo bruciava un mucchio di foglie morte lui tentava di avvicinarsi il più possibile per assaporare quell'odore che avevano racchiuso sotto forma di sigarette.
Successivamente si era messo in testa che quella roba, fumare, era per le persone mature, adulte insomma. Un po' come bere il caffè. 
Erano tutte cose che acceleravano il processo di crescita, secondo Roxas.
Il giorno in cui vide per la prima volta una sigaretta dopo una manciata di secondi aveva guardato la fumante tazza di caffè di suo padre e aveva deciso di assaggiarla.
Un gusto amaro, terribilmente amaro.





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Alle medie avevano iniziato a domandargli che cosa volesse fare nella vita e lui si era accorto che non ne aveva la più pallida idea perché nulla lo interessava a tal punto da volerlo rendere un lavoro. Forse era l'idea di ''lavoro'' a spaventarlo in qualche modo; se durante un periodo della sua esistenza aveva trovato piacevole disegnare, poi il pensiero di dover commissionare i disegni gli aveva fatto venire la nausea. Se durante una settimana era riuscito a farsi venire tutti i problemi di matematica, l'idea di rimanere chiuso in uno studio a calcolare per ore ed ore gli aveva fatto venire voglia di vomitare.
Roxas aveva in qualche modo cominciato a coltivare in sé l'ipotesi che il lavoro era qualcosa di appiccicoso, una sorta di virus che andava ad infettare le passioni di ogni persona. 
Fare una cosa per passione era okay, era divertente: la potevi fare quando volevi, per quanto tempo desideravi, e nessuno ti correva dietro.
Invece il lavoro era diverso: al lavoro non decidevi tu, una data di scadenza per il libro, svegliarti presto per l'ufficio, e magari ti faceva pure odiare ciò che da ragazzino invece avevi amato alla follia.
Dopo avergli mostrato il tragitto un paio di volte, suo padre gli aveva detto di prendere per mano suo fratello e di andare a scuola da solo dato che ormai era grande abbastanza per arrangiarsi, anche perché accompagnandoli tutte le stramaledette volte rischiava di arrivare tardi a lavoro.
Al contrario durante i primi due anni fu Roxas ad entrare in classe in ritardo, dal momento che doveva portare suo fratello fino alle scuole elementari, ascoltarlo lagnarsi perché non voleva vedere quel mostro della maestra di disegno, e assicurarsi che entrasse con gli occhi asciutti.
Non voleva mica che la città parlasse di ''Roxas, quello che c'ha il fratello piagnone.''
E poi via di corsa per l'altra strada, alla velocità della luce perché la campanella era già suonata da cinque minuti. 
Durante la prima settimana lo fecero aspettare in corridoio perché era ''inamissibile che già a quest'età credi di fare il furbetto''; dopodiché si erano arresi e lo avevano lasciato entrare in classe senza storie, tanto che Roxas aveva smesso di correre come il vento, rischiando ogni volta di travolgere tutte le persone che lo intralciavano.





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1. Il ragazzo della discarica
 
«T'òh, porta la mia cartella a casa.»
«Cosa? E che dico a mamma?»
«Che sono scappato.»
«C-Che?!». Dinnanzi all'espressione impaurita di Sora, il maggiore non poté fare a meno di soffocare una risata; scosse leggermente i morbidi capelli dorati e gli tirò una pacca sulla spalla. «No, scherzo, vado a farmi un giro.»
«Dove? Posso venire anch'io?»
«No, non puoi. Sei troppo piccolo», replicò aspramente il biondo, voltandosi. «Va' a casa, non ci metterò tanto.», e, dopo aver detto ciò, Roxas iniziò a correre il più velocemente possibile per evitare di ascoltare le ulteriori lamentele di Sora.
Doveva andare lì, in quel posto da sballo!
Ne aveva sentito parlare da quelli di terza; ci si diverte un casino lì, l'hanno aperto da poco, wow, forte, e cose di questo genere.
Si trovava dietro la piazza, accanto al negozio di vestiti che le sue compagne di classe tanto amavano: a sinistra borsette, sconti, accessori e vestitini; a destra il posto da sballo che hanno aperto da poco, wow!
Lo raggiunse correndo, Roxas, con l'odore di pioggia nelle narici e i capelli scompigliati dal vento autunnale.
Non aveva comprato la merendina per una settimana perché voleva tenere i soldi per quel posto da sballo.
Quando si trovò dinnanzi all'entrata udì un sacco di tic-tic-tac-tac-tic-tac-tic-tic.
Erano dita che premevano freneticamente dei tasti, poi il rumore di spari, qualche bestemmia, poi urla di vittoria, poi tic-tac, delle auto che correvano e due pugili che si picchiavano violentemente.
Era una sala giochi.
Una sala giochi nella città con le scuole-formaggio-francese e l'odore di pioggia nell'aria.
Era notte, lì dentro. Tutto buio, solo le luci delle macchinette, il rumore dei goal al calcetto e le urla dei ragazzi. 
A Roxas già piaceva. Non puzzava come la scuola. La scuola puzzava di formaggio, forse era per quella ragione che aveva quel nome così idiota.
Si avvicinò alla prima macchinetta libera e guardò le figure colorate che si muovevano di fronte alle sue iridi blu. Non aveva mai preso un joystick in tutta la sua vita, e quel gioco aveva addirittura una mitragliatrice. 
Poco male, avrebbe imparato giocando.
Infilò una mano in tasca e tirò fuori una monetina; dopo qualche secondo di ricerca, trovò la fessura e si piegò per mettere definitivamente in moto il gioco, quando una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare: 
«No, ti prende per il culo, non farlo!»
Roxas si voltò di colpo e, sotto la luce degli schermi illuminati, in mezzo al rumore degli spari e delle bestemmie, vide quello che presto sarebbe diventato il suo migliore amico, forse l'unico che lo fu per davvero nella sua vita.
Aveva le iridi marroni e piene, piene di vita, anche se sbagliata: era un suo coetaneo, eppure pareva aver già visto metà del mondo senza mai superare il confine della città. 
Quelle iridi avevano un luccichio furbo, dicevano chiaramente ''Io ne so più di te'', e non brillavano tanto sotto la luce del sole (Anche perché esso pareva essersi scordato dell'esistenza di quel luogo; lasciava sempre il posto alle nuvole e alla neve), bensì sotto la luce della televisione, delle lampade a neon e della discoteca.
Brillava di una luce artificiale che però era piena in qualche modo, era sbagliata, ma pur sempre di luce si trattava. Era la luce della vita vera, perché lì il sole non c'era, e bisognava andare a cercarsela la luce, con le proprie mani, i propri occhi, già in giovane età.
I capelli erano biondi, però decisamente più scuri rispetto a quelli di Roxas; erano una sfumatura macchiata, come perennemente sporchi di cenere.
«C-Cosa?»
«Ti fotte quella macchinetta. Non funziona, però il proprietario non ci mette il cartello con su scritto ''Guasto'' perché è stronzo e vuole fotterci i soldi.»
Roxas rimase immobile, la mano a mezz'aria ancora proiettata verso la fessura, le iridi rivolte verso quel ragazzo che parlava sputando quei termini così forti, rudi, un po' troppo per un ragazzino di seconda media.
«Beh? Non vorrai mica che ti fotta, la macchinetta?», continuò a domandare insistentemente il ragazzo, afferrando nel frattempo il joystick sottoforma di mitragliatrice.
«N-No, non... Certo che no». Roxas tentò, pateticamente, di mostrarsi più tranquillo e sciolto; tentò, seppur inconsciamente, di somigliare a quella presenza estranea e improvvisa che era piombata nella sua giornata, nella sua vita. Si rizzò e si ritrovò dinnanzi alla mitragliatrice, gli occhi puntati proprio in quel tunnel da cui sarebbe potuto uscire proiettile immaginario da un momento all'altro.
«Dimmi il tuo nome, soldato.»
«E-Eh?»
Il nuovo arrivato corrugò la fronte e strinse l'arma tra le proprie mani. «Il tuo nome, soldato!»
E, anche se per un attimo soltanto, Roxas sentì il proprio battito cardiaco accelerare per davvero: la sala giochi attorno a sé svanì e gli parve di trovarsi in un campo di battaglia, e gli schermi luminosi si trasformarono in cannoni, e le lampade a neon divennero imponenti carri armati. 
«Roxas!», sputò tutto d'un fiato il biondo, guardando quella fessura nera che avrebbe potuto vomitar fuori un proiettile.
«Roxas», ripeté il suo coetaneo, giocherellando con il grilletto. «Roxas è un nome a posto. Chi si chiama Roxas non deve morire.»
Il diretto interessato tirò dunque un sospiro di sollievo. «E tu, come ti chiami?»
«Howard.»
«Howard?»
L'altro, in quel momento intento ad adocchiare qualche altro gioco, tornò a guardare Roxas; lo squadrò dall'alto verso il basso e scosse la testa. «No, okay, era una stronzata. Mi chiamo Hayner.»
Roxas, davvero, si stava perdendo in quel ragazzo dai modi di fare così strani. «E allora perché mi hai-»
«Perché Howard è un nome da persone importanti. A te non piacerebbe cambiare nome?»
«A... A volte, credo.»
Roxas avrebbe voluto rispondergli che a volte avrebbe voluto cambiare faccia, identità, famiglia, casa, città, non solo nome.
«Vuoi vedere una cosa?». Sotto la luce di due schermi, Roxas si accorse che Hayner indossava dei pantaloni mimetici, proprio come i militari; forse se si fosse chiamato in un altro modo, un nome non a posto, sarebbe stato in grado di sparargli per davvero.
Il biondo annuì e Hayner gli fece cenno di seguirlo; dopodiché spintonò alcuni ragazzi per farsi spazio e raggiunse l'uscita prima di iniziare a correre il più velocemente possibile.
Roxas faticò molto per stargli dietro e per non perderlo di vista; nonostante ciò si vergognava troppo di gridargli di rallentare perché le sue gambe stavano implorando pietà. 
Hayner aveva una marcia in più, come dicevano i suoi compagni: aveva visto già metà del mondo, anche se attraverso una luce artificiale, sbagliata.
Roxas si ritrovò presto accanto al lago dietro il parcheggio dei camionisti che ruttavano e bevevano: ricordava bene quel luogo, poiché una volta suo padre portava spesso lui e suo fratello a pescare. 
Guardò il compagno in cerca di spiegazioni, quando quest'ultimo lo precedette; infilò una mano in tasca e Roxas pensò che avrebbe tirato fuori una granata, eppure così non successe.
«Fumi?»
Roxas sbatté più volte le palpebre prima di focalizzare la vista sull'oggetto bianco tra le mani dell'altro; successivamente scosse la testa e storse le labbra.
«Hai mai fumato?»
Un altro cenno negativo con la testa.
«Nemmeno io.», ammise Hayner un attimo dopo aver tirato fuori anche un accendino tinto di un verde brillante. «Ti va di provare, soldato?»
Roxas pensava ancora che il fumo, proprio come le tazze di caffè, fosse una cosa che lo avrebbe proiettato prima nel mondo degli adulti; quel mondo che tramite il lavoro ti strappava le passioni, le trasformava in monotonia e grigiore.
Quel mondo in cui avrebbe dovuto lanciarsi, presto o tardi.
Meglio abituarsi, no?
Forse no.
Roxas annuì, anche se Hayner già aveva provveduto ad accendere la sigaretta per poi portarsela alla bocca; assunse una smorfia disgustata e cercò di soffocare la tosse. «Wow, sì, è forte.»
In fondo alla città c'era un lago: dietro il parcheggio dei camionisti, quegli omaccioni che facevano le gare di rutti dopo quintali e quintali di birra.
Seduti su una sporgenza rocciosa due ragazzini di dodici anni che provavano la loro prima sigaretta.
Roxas tossì forte, fortissimo, e si tirò un colpo al petto. «Fa schifo, fa proprio schifo. Fa ancora più schifo del caffè.»
«Ti abitui poi.», mormorò Hayner, riprendendo la sigaretta prima inspirare nuovamente l'intenso odore del fumo. «Andiamo da qualche altra parte, questo posto è una discarica.»
Roxas in quel momento sgranò leggermente le iridi blu e ricordò.
Ricordò quella vecchia auto azzurra di suo padre: lui che appoggiava un piede sull'asfalto e una voce che riecheggiava nel cortile. 
Un bambino dagli occhi marroni che aveva come acquilone un foglio di carta appiccicato ad un pezzo di spago e correva, correva forte perché sperava inutilmente di vederlo volare. Poi sbatteva le scarpe da ginnastica sporche per terra e urlava dalla rabbia, urlava ''Questo posto è una discarica!''
Aveva detto così, aveva dato voce ai pensieri di Roxas, allora.
Perché Roxas lo aveva pensato per davvero, giungendo in quella città.
E quel bambino aveva avuto il coraggio di urlarlo ai quattro venti.
Era diventato il suo migliore amico già da allora, perché è così, no? I migliori amici si leggono nel pensiero, giusto?
Quel bambino era Hayner.





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Roxas aveva presto compreso che era praticamente impossibile, almeno per lui, accostare il termine ''vita'' con l'aggettivo ''felice''.
C'erano momenti felici al massimo, e quelli li contava sulla punta della dita, poiché metà di essi erano avvenuti nell'infanzia della quale ricordava ben poco.
C'era la verifica di matematica quel Mercoledì e Roxas aveva davvero paura; non gli andava di lasciare il foglio bianco e di prendere un votaccio, così Hayner gli aveva detto che quel giorno nessuno dei due sarebbe andato a scuola.
Aveva accompagnato suo fratello all'entrata e poi era corso in piazza, dove il suo migliore amico lo aspettava con due sacchetti tra le mani. «Ce ne andiamo.»
«Dove?»
«Facciamo un mega pic-nic nel bosco. Ho comprato un sacco di brioches, guarda.»
«Nel bosco?»
«Sì, perché quella faccia? Sarà divertente.»
«E come pensi di arrivarci?»
A quella domanda Hayner, che aveva già iniziato ad incamminarsi, lanciò un'occhiata divertita al compagno. «Autostop, no?»
«Eh?»
«Muoviti dai.»
Impiegarono trenta minuti per raggiungere a piedi la strada principale e durante il tragitto Roxas non fece altro che lamentarsi del fatto che quella era una pessima idea, poiché avrebbero potuto finire chissà dove.
Hayner non ci aveva fatto caso e quando giunsero a destinazione aveva allungato tranquillamente il pollice, sforzandosi di impietosire gli automobilisti con la sua giovane età.
I primi minuti furono un'agonia ininterrotta per Roxas, dal momento che ogni volta che passava una macchina temeva di vederla rallentare seriamente; con lo scorrere del tempo però si tranquillizzò. Probabilmente Hayner quella volta aveva fatto male i calcoli, dato che nessuno pareva davvero intenzionato a dare un passaggio a due marmocchi come loro.
O almeno, nessuno tranne Xigbar Martinez.
Proprio quando Roxas si alzò, pronto a rinfacciare ad Hayner che quella era stata un'idea veramente stupida, un'automobile grigia rallentò fino a fermarsi del tutto di fronte a loro; un finestrino si abbassò lentamente e apparve un uomo sulla cinquantina dai lunghi capelli neri e grigi, diverse cicatrici che gli ricoprivano il volto e addirittura un occhio bendato.
«Hayner, non avrai mica intenzione di-»
«Due ragazzini come voi non dovrebbero essere a scuola?», rinfacciò loro con fare divertito l'automobilista, sogghignando.
«Ci siamo presi un giorno di vacanza», spiegò con affilato sarcasmo Hayner, afferrando i propri sacchetti. «Ci porta al bosco alla fine dell'autostrada?»
«Se non vi mettete a cantare durante il tragitto va bene.»
Hayner rise e aprì la portiera dei sedili posteriori. «Affare fatto». Dopodiché si sedette comodamente e fece cenno al compagno di imitarlo, il quale pareva davvero stralunato e terrorizzato di fronte a quella situazione a lui del tutto sconosciuta.
Inizialmente Roxas si sentì veramente a disagio, proprio come quando qualche suo compagno lo invitava per cena e lui non sapeva di cosa parlare di fronte ai genitori: Xigbar faceva loro domande di vario genere, Hayner rispondeva a gran voce, al contrario di Roxas che borbottava dei monosillabi poco comprensibili.
Successivamente però si accorse che quell'uomo, a parte l'aspetto losco e poco raccomandabile, non aveva cattive intenzioni; aveva una parlantina buffa, chiacchierava del suo divorzio appena avvenuto, del lavoro e del fatto che voleva cambiare vita un giorno di questi.
Dunque Roxas sciolse i muscoli e si mise a proprio agio; nell'auto c'era l'odore delle brioches insieme alla sigaretta che aveva appena acceso Hayner. Era iniziata la primavera e quella era la prima giornata dell'anno veramente soleggiata , nonostante soffiasse ancora un'arietta piuttosto fresca.
Alla radio stavano trasmettendo a raffica alcune canzoni dei Beatles e Xigbar aveva attaccato a parlare di una band che aveva formato da ragazzo insieme ai suoi amici, uno dei quali era morto in un terribile incidente; Roxas abbassò il finestrino, si accese una sigaretta e buttò fuori il fumo alla strada, alle altre automobili, al mondo.
Fu una delle sensazioni più belle. C'era odore di libertà.
Per la prima volta Roxas si sentì libero, con l'auto che tagliava in due l'aria e il sole che aveva bruciato tutti i suoi pensieri, le sue preoccupazioni.





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2. La ragazza muta.
 
Roxas aveva ormai quattordici anni e fumava con la medesima tranquillità con la quale sorseggiava un bicchiere d'acqua. Suo padre non era certo un idiota, Roxas sapeva che l'aveva capito, ma probabilmente non aveva voglia di aprire inutili discussioni e perciò aveva deciso di ignorare la fitta puzza di sigarette che inondava la casa non appena il biondo rientrava.
Hayner aveva iniziato a distrarlo anche nelle scuole superiori e presto Roxas si era trovato terribilmente indietro con il programma di matematica; poco male, Riku, il ragazzo più brillante della scuola, se non dell'Istituto intero, parve disponibile a dargli una mano.
Più o meno disponibile, poiché in cambio fu costretto a pagargli la merenda per una settimana, comprargli tutte le sigarette che voleva e imporsi di non mandarlo a quel paese ogni stramaledetta mattina.
Era un lavoraccio non da poco per Roxas, senza alcun dubbio.
Dal momento che a casa del biondo era praticamente impossibile studiare a causa di suo fratello, mentre nella dimora di Riku suo padre era decisamente poco disponibile con gli ospiti, avevano optato per un bar nascosto in qualche quartiere poco conosciuto della città (Entrambi pensavano che la propria reputazione sarebbe andata a farsi benedire se qualche loro conoscente li avrebbe visti insieme a ripassare le equazioni come vecchi amici d'infanzia).
Il proprietario era un uomo di mezz'età dai capelli grigi e l'aria amichevole: non gli importava se vedeva un cliente ogni morte di Papa, stava bene com'era, in quel piccolo locale tranquillo con l'aria di caffè nelle narici e il parco abbandonato di fronte.
Qualche volta offrì loro anche una fumante tazza di tè gratis, e Roxas capì che quell'uomo era un tipo che a quanto pare si affezionava facilmente alla quotidianità, ai momenti, alle persone.
Pareva innamorato della vita.
Roxas non sapeva esattamente se catalogare quei gelidi pomeriggi d'inverno in un momento felice o meno; certo il luogo era piacevole, con la neve fuori e il calduccio dentro, ma c'erano anche quelle dannatissime equazioni, il pesante libro di matematica e i continui rimproveri di Riku che lo irritavano a morte.
E poi c'era lei, la figlia del proprietario.
Aveva gli occhi blu, i capelli corvini a caschetto e lo guardava allo stesso modo con cui si guarda un quadro triste che ti rappresenta; la malinconica consapevolezza di non essere soli mista ad una fitta sensazione di imbarazzo, come se qualcuno fosse improvvisamente piombato nella tua stanza proprio mentre sei completamente nudo.
Era comparsa alla loro terza visita e avevano scoperto che il suo nome era Xion.
Breve, efficace, essenziale.
Si muoveva fugacemente tra le macchinette del caffè e le fumanti tazze di cioccolata bollente: di tanto di tanto era stata lei stessa a servirli, altrimenti si sedeva in qualche tavolo poco distante dai due studenti e ascoltava i loro battibecchi continui su qualche risultato di chissà quale complicata operazione.
Era strana, Xion: sorrideva spesso, ma con tristezza, e a Roxas ricordava una gemma nascosta sotto terra. 
Consapevole della propria importanza, impossibile però mostrarla al mondo intero.
Non si annoiava mai, Xion; appoggiava la nuca sulle mani e ascoltava all'infinito gli esercizi assegnati per il giorno successivo, la verifica imminente, lo scroscio della pioggia e le battute del proprietario che di tanto in tanto interrompevano la lezione dei due ragazzi.
Suo padre pareva badare poco a lei. Non nel senso che la ignorasse, affatto; era stato lui stesso a presentarla ai due, ma non si era mai spinto oltre. 
Non aveva mai spiegato loro perché non parlasse mai; non aveva mai detto che era timida, orgogliosa, o che forse semplicemente non sentiva la necessità di aprir bocca.
Nulla di tutto questo.
Conviveva con il suo silenzio, come se ormai facesse parte della sua quotidianità.
E così sia Roxas che Riku non volevano infrangerla in alcun modo, dunque non si erano mai permessi di chiedere, di fare a lei qualche domanda indiscreta, di troppo.
Durante un pomeriggio particolarmente nevoso Riku aveva fatto tardi e così Roxas si era ritrovato nel piccolo bar da solo con la fanciulla, poiché il padre si era recato in cantina a prendere chissà cosa.
Roxas quel giorno si sentì al tempo stesso a disagio e imbarazzato; un conto era quando il silenzio di Xion era basso, di sottofondo in mezzo alle chiacchiere di Riku o del padre, un altro conto era quando lei era la protagonista indiscussa della scena.
Rimase dietro il bancone per una manciata di minuti; dopodiché fece un respiro profondo, come se si fosse improvvisamente decisa a fare qualcosa di importante, e si avvicinò al giovane ragazzo prima di prendere posto sulla sedia di legno accanto a lui.
Roxas per un attimo pensò che forse stava finalmente per parlare, ma così non fu.
Lei si limitò a guardarlo intensamente negli occhi, a rispecchiarsi in quel blu così simile alle proprie iridi: ammirò ciò che non era potuta essere, diventare, ammirò quel capolavoro ancora incompleto, ma pur sempre sbocciato, al contrario suo, di lei, che non era mai potuta nascere per davvero.
Successivamente Xion allungò la mano sinistra e consegnò al biondo una busta su cui vi era disegnato un piccolo cuoricino rosa.
Roxas sentì le gote infiammarsi e fu sul punto di dire qualcosa, qualsiasi cosa, quando la porta si spalancò e la giovane dunque si alzò all'istante per tornare alla macchinetta del caffè.
Una volta a casa Roxas si accorse di essere inspiegabilmente spaccato in tre parti: da un lato era ovviamente curioso, incredibilmente curioso; dall'altro si sentiva lusingato e dall'altro ancora era... Confuso?
Confuso perché gli era sorto il dubbio che forse quella lettera non era indirizzata a lui, bensì a Riku. Magari quella di Xion non era stata una dichiarazione, ma una richiesta d'aiuto, un favore, insomma.
E ciò gli faceva piacere o meno? Non ne aveva la più pallida idea.
Non sapeva se quella ragazza dai capelli neri come la notte e le labbra cucite come quelle di una bambola di pezza le piaceva. 
Decise dunque di aprire la busta, sperando forse di leggere il destinatario, ma non trovò nulla di tutto ciò.
Nei pomeriggi successivi fece più attenzione a quella ragazza così particolare, ai suoi sguardi; e infatti lesse l'amore, in quegli occhi.
Per la prima volta in tutta la sua vita, Roxas lesse l'amore.
Vide una manciata di colori in quel blu, sotto l'oceano vide un mondo, delle isole, i gabbiani, i pesci e le barche.
Vide che era indirizzato a quello sbruffone di Riku, ma non gli importò: semplicemente a sua volta Roxas si innamorò di quell'amore, si innamorò del blu innamorato, si innamorò di quel Cupido silenzioso, quel Cupido che aveva scoccato la freccia di nascosto, in maniera intima e discreta.
Consegnò la lettera a Riku durante il loro ultimo pomeriggio insieme: ormai i risultati avevano iniziato a vedersi, stava prendendo voti sempre più alti in matematica e non sentiva più il bisogno di spendere le proprie ore in compagnia di quel rompiscatole.
Non seppe più niente.
Non tornò più in quel piccolo bar, anche se avrebbe voluto farlo.
Non rivide più Xion, e a scuola non chiese nulla a Riku.
Tornò tutto come prima: in classe si parlavano per il minimo indispensabile, un cenno con la testa e poi più nulla.
A Roxas di quei due rimasero soltanto i ricordi di quei pomeriggi d'inverno e quelle tre parole impresse nella mente, quelle scritte sulla lettera di Xion:
''Non posso parlare.''





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La scuola aveva smesso di andargli a genio; detestava svegliarsi la mattina presto, buttare suo fratello giù dal letto, aiutarlo a cambiarsi, ascoltare i suoi racconti su quanto si divertisse con i suoi compagni, ingoiare faticosamente non solo la colazione, ma l'intera mattinata in classe. 
Non gli andava a genio la gente, gli insegnanti, ed era tutto grigio e appiccicoso: quello era fumo vero, altro che le sue sigarette.
Qualche volta non si sentiva esattamente a posto nemmeno con Hayner e con quegli svitati dei suoi nuovi amici: si divertivano a fare scommesse, ridevano forte e non avevano paura quando i poliziotti li beccavano a scrivere sui muri con le bombelette.
Roxas rideva, qualche volta, ma era l'adrenalina e il nervoso a fargli quell'effetto.
In realtà si sentiva perennemente fuori posto. 
L'idea della scuola alla mattina, le cazzate al pomeriggio e la famiglia a cena gli faceva contorcere le budella in ogni caso.
Aveva iniziato a farsi male con il taglierino di sua madre che ormai custodiva gelosamente nel proprio cassetto: era alla disperata ricerca di qualcosa di forte, perché le sigarette non bastavano più a farlo sentire vivo.
Qualsiasi cosa sarebbe andata bene.
Per questo accettò senza troppi problemi l'invito di Hayner a quel concerto; non sapeva nemmeno il nome della band che suonava, ma poco gli interessava, in fondo.
Ai suoi aveva detto che sarebbe andato a dormire da un amico che poi lo avrebbe accompagnato a scuola il mattino successivo: un mucchio di stronzate, ovviamente.
Si erano recati in provincia tramite un paio di autostop e Roxas si era trovato catapultato in quel caos di musica, chitarre, urla e sudore.
C'era la gente che strillava sotto il palco, sotto il cielo, le stelle e l'arietta notturna.
Non ricordava molto, però.
Si accese una sigaretta e si voltò verso Hayner che dormiva a pancia in sù sul divano rosso, russando di tanto in tanto.
Erano le tre di notte e la testa gli pulsava da morire; dopo il concerto aveva provato per la prima volta la Vodka e non gli ci era voluto molto a perdere completamente il controllo.
Il mondo aveva iniziato a girare in maniera vertiginosa e camminare era diventato improvvisamente un gesto strano, sfumato, come le figure attorno a sé; aveva sparato un mucchio di cazzate, o almeno, così gli aveva raccontato Hayner, e ad un certo punto addirittura si era messo a saltare sul cofano di un'automobile.
Si era sentito leggero, per un po' la scuola, le risate forti e la cena in famiglia erano scomparse.
Ma quello era barare, e Roxas lo sapeva fin troppo bene.
Non si inganna la felicità con l'alcool. Non si inganna la felicità con i sensi annebbiati, il cervello a puttane e l'alito di Vodka.
Eppure nessuno gli aveva insegnato altro modo per vivere, se non quello di barare.





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3. L'uomo felice
 
Avevano scelto una gran bella giornata di merda per sbatterlo fuori di casa.
C'era un acquazzone spaventoso, con tanto di lampi e tuoni.
«Ma che cazzo stai combinando, eh?! A scuola non ci vai? E se ci vai che cazzo di voti mi porti? Cos'è questa merda?»
Beh, in realtà non è che lo avessero cacciato fuori a calci sul sedere; era stato lui stesso ad andarsene sbattendo la porta.
Non ne aveva di spiegazioni da dare, niente da dire.
Che cosa avrebbe potuto rispondere? Che aveva smesso di studiare perché non ne aveva più voglia? Che non aveva più voglia di uscire, di vedere la gente, di quella vita? Che aveva voglia di altro, ma non sapeva definire il termine altro? Che aveva voglia di rinchiudere la libertà di quella mattinata nell'auto di Xigbar, la felicità dell'infanzia sui prati, suo fratello che all'asilo gli regalava i disegni, ecco, che aveva voglia di rinchiudere quelle cose piccole, piccole e belle, ed allacciarsele all'anima come una cintura nella speranza di rimanere beato per sempre?
Che aveva paura di crescere? Che si stava aggrappando rovinosamente ai suoi anni con così tanta violenza da graffiarli, da ridurli in brandelli? Che si faceva del male, pur di provare qualcosa?
Si strinse le spalle nella felpa fradicia e iniziò a darsi piccole spinte sull'altalena, tentando in ogni maniera di ignorare il fastidio del vento e della pioggia.
Suo fratello pareva essersi accorto che c'era qualcosa che non andava, che si stava drasticamente allontanando dalle proprie origini; ora era lui a prenderlo per mano la mattina, a dirgli ''Forza Roxas, là fuori c'è il mondo, che è bello.''
Ma a lui non sembrava bello; proprio per niente.
«Rox!»
«Rox!»
Il diretto interessato sussultò e frenò i piedi sul terreno bagnato; si voltò di scatto con aria allarmata, spaventata quasi.
Rox?
Chi era Rox? Non era mica lui. Lui era Roxas, Roxas, sì. I suoi amici nella sua vecchia città avevano soprannominato Rox, millenni fa.
Lui lì era Roxas.
Vide un uomo che sventolava la mano sinistra a qualche metro di distanza, accanto al recinto del parco.
Chi era Rox?
Roxas si guardò attorno, smarrito, e notò che era l'unico presente nei d'intorni, se non nel quartiere intero. Beh, comprensibile; chi mai spenderebbe il proprio pomeriggio fuori in una giornata come quella?
A quanto pare lui e quell'uomo svitato.
I capelli, Dio... Che razza di capelli aveva?!
Così... Così prepotenti, e rossi... Rossi da morire, rosso sangue delle ginocchia sbucciate... Rosso come... Come il fuoco, il fuoco che accendeva le sue sigarette...
«Sto parlando con te, Rox!»
Solo allora Roxas si accorse che per tutto quel lasso di tempo era rimasto imbambolato a fissarlo; dunque si riscosse e mosse un poco i capelli dorati per potersi concentrare nuovamente su quella nuova figura che si stava avvicinando pericolosamente.
Attraversò un paio di scivoli e calpestò con i propri stivali di pelle le numerose pozzanghere che ricoprivano il terreno: la sua imponente figura presto sopraggiunse quella esile di Roxas che ridusse le iridi a due fessure.
E quegli occhi verdi, verdi come... Come i prati della sua vecchia città, come... Come la speranza? Il verde non era il colore della speranza?
«Che cazzo vuoi?», sputò infine il giovane, irritato da quella presenza indesiderata che per tutta risposta scoppiò a ridere e allungò l'ombrello che reggeva nella mano sinistra per poter coprire anche l'altro. «Impedire che tu ti bagni ancora.»
«Sono già fradicio, genio.», fece notare con affilata ironia il minore, alzandosi dall'altalena. 
«Beh, non significa che ti debba bagnare ancora.», insistette l'uomo con un leggero sorriso. «Comunque io sono Axel.»
Roxas gli lanciò una fugace occhiata con la coda dell'occhio: non doveva avere più di venticinque anni, nonostante quel colore improponibile di capelli gli donassero un'aria più giovanile. I lineamenti erano però duri, severi, prossimi a quelli di uomo adulto; ed era alto, incredibilmente alto, soprattutto con gli stivali, e indossava quei jeans abbinati ad un'elegante giacca nera.
«Va bene, Axel», sputò con una certa ripugnanza il biondo, quasi cercasse in qualche modo di sfidare quell'uomo che probabilmente aveva appena terminato il proprio turno a lavoro. «adesso si può sapere come cazzo fai a sapere il mio nome?»
Rise nuovamente, Axel, e Roxas parve stupirsi. «Ho tirato ad indovinare.»
«Vaffanculo.»
A quell'allegro insulto il fulvo ghignò un altro po' e scrutò con attenzione i capelli completamente fradici dell'altro. «Ho sentito parlare molto di te, tutto qui.»
Il biondo si ritrovò nuovamente spiazzato; aveva sentito parlare... Di lui? Di Roxas Evans?Di Rox?
Eppure non eccelleva a scuola, né combinava guai di dimensioni bibliche come Hayner... E allora perché conosceva il suo nome?
Roxas si voltò, le iridi blu traboccanti di rabbia, le mani serrate in un pugno. «Ho capito, mio padre ti ha chiesto di riportarmi a casa. Non sono mica scemo.»
A quella conclusione Axel sbatté più volte le palpebre; inclinò leggermente la nuca su un lato e scoppiò per l'ennesima volta a ridere, scuotendo poi la folta chioma rossa. «Ne hai di fantasia, Rox.»
Roxas avrebbe voluto sentirsi ancora più arrabbiato, irato; avrebbe voluto urlare, chiedergli strillando che cosa c'era di così divertente, chiedergli perché la sua risata non gli dava fastidio come quella degli amici di Hayner, chiedergli come cazzo aveva fatto a trovarlo, a soprannominarlo, che cazzo aveva da ridere lì, in quel posto, cresciuto, adulto.
Chiedergli perché a lui sembrava tutto un circo, mentre Roxas si sentiva nel bel mezzo di una tragedia greca che si prolungava all'infinito attimo dopo attimo.
Ma il grigiore delle sue giornate pareva aver annullato anche la rabbia; l'avevano spenta, avevano spento tutto, e allora a Roxas non restava altro che accendere le sue strafottutissime sigarette.
«E adesso dove vai?»
«A casa, stronzo.»
Roxas voleva essere mandato a quel paese. Roxas voleva voltarsi e vedere quell'uomo incazzato; voleva ricevere un pugno in faccia, voleva che gli sputasse sulla felpa bagnata e gli dicesse vattene ragazzino del cazzo.
Voleva lo cacciasse, voleva dimostrargli che non era un circo, che non era divertente, che non era una commedia e non c'era nulla di esilarante.
«Eppure mi pare di averti visto scappare via da casa tua. Sicuro di volerci tornare?»
E invece fu Roxas ad arrabbiarsi, ad incazzarsi; si voltò ancora, con le gote arrossate, dalla rabbia, dall'imbarazzo forse, e gridò: «Mi stavi spiando?!»
«Forse», mormorò con estrema tranquillità l'altro, tirando fuori un accendino ed una sigaretta; tentò di reggere l'ombrello tra la spalla e la nuca per riparare la fiamma dall'acqua e riuscì dunque ad accenderla. «Ho l'auto qui vicino, ti posso portare via.»
«Dove?»
«A casa mia.»
Roxas sembrò calmarsi e soffocò una mezza risata con il naso. «Potresti essere un killer, uno psicopatico, un pedofilo o chissà altro.»
«Non sembri uno a cui importerebbe molto». Il quindicenne si irrigidì e presto comprese che Axel aveva quel potere che solitamente strappavano a tutti dopo l'infanzia: la capacità di far stupire la gente. Axel lo stupiva, e ogni volta a Roxas pareva di tornare ai suoi primi anni di vita, dove il battito d'ali di una farfalla gli faceva sgranare le iridi.
Lo stupore era verde, adesso lo sapeva.
Quel pomeriggio si trasformò in un momento felice per Roxas.
Axel aveva un buon odore, e lo stesso valeva per casa sua; gli piaceva, era un appartemento piccolo ed accogliente, con il soggiorno pieno di pacchetti di sigarette e giornali sparsi. Era disordinato nei giusti limiti, lo faceva sentire a proprio agio, al contrario di casa sua dove suo padre esigeva un ordine impeccabile.
Il bagno odorava di albicocca; Roxas aveva chiuso la porta, si era spogliato e si era immerso nella vasca piena d'acqua calda. 
Si era addormentato per una decina di minuti ed era rimasto lì dentro finché il calore non aveva appannato tutti gli specchi presenti; fuori tuonava, ma a Roxas non era importato nulla.
Axel lo aveva riaccompagnato a casa di sera, e lui avrebbe voluto ardentemente attaccarsi al suo forte braccio e implorarlo di partire, di mettere in moto e portarlo via da quel postaccio.
Ma non ne ebbe il coraggio.





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Quando vide Sora dalla finestra della sua stanza tornare da scuola in compagnia di due strani ragazzi si allarmò.
Si precipitò per le scale e lo intercettò immediatamente; il castano si stupì, poiché Roxas ormai gli parlava di rado, e sorrise allegramente. «Roxas! E' successo qualcosa?»
«Chi erano quelli?», tagliò corto il maggiore, guardando l'altro dritto negli occhi.
Sora corrugò la fronte, perplesso. «Quelli chi?»
«Quelli che ti hanno accompagnato poco fa.»
«Oh, loro!», si illuminò dunque il minore, ridendo appena. «I miei compagni, sono fantastici!»
«E lo sai cosa stavano facendo, no?»
«C-Cosa...?»
«Quello che avevano in mano, Sora, andiamo!», trillò Roxas gesticolando animatamente sotto lo sguardo stralunato del castano; era da tempo che non vedeva suo fratello così allarmato. «A-Ah, sì... Ehm... Parli d-delle sigarette? Ma non ti preoccupare, lor-»
«Non farlo, Sora», lo interruppe Roxas, afferrandolo per le spalle. «Promettimi che non lo farai mai, Sora, niente, che non farai mai niente.»
Sora sbatté ripetutamente le palpebre, più confuso che mai. «Mai... Mai niente di cosa? Non capisco, Roxas...»
Roxas sentì il labbro inferiore tremare un poco.
Tremò, poi sputò fuori tutto d'un fiato: «Non fare mai niente di quello che ho fatto io!»





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Per il suo sedicesimo compleanno Hayner decise di portarlo in discoteca ad assaggiare la roba.
«Ma di che cosa state parlando?»
«Della roba, Roxas.»
«Quale roba?»
«Insalata, ovviamente stiamo parlando di insalata! Ma sei suonato? Della droga, no?»
Ed ecco il momento che Roxas tanto temeva, anche se in fondo avrebbe dovuto aspettarselo; certamente Hayner non si sarebbe fatto scrupoli a provare anche qualcosa di più forte del semplice alcool.
Della maggiore età non importava a nessuno, e Roxas non se ne accorse soltanto quando quei due omaccioni all'entrata li lasciarono passare senza troppe cerimonie, ma anche quando all'interno notò la presenza di un sacco di ragazzini della medesima età di suo fratello.
Entrare fu sicuramente traumatizzante, dato il volume assordante della musica; Hayner però gli disse che non appena avrebbe bevuto un po' non ci avrebbe neanche più badato.
E le luci, tutti quei colori... Pensò a quando da bambino cercava l'arcobaleno dentro le persone, anche quelle più apatiche e grigie; pensò a quei colori che una volta aveva utilizzato per nascondere la vera natura della gente, mentre ora si trovava lui stesso lì, sotto tutti quei flash, quelle luci artificiali che, al contrario, mettevano in evidenzia la vera natura delle persone.
Quella disperata ricerca dei colori.
Roxas si voltò e vide Hayner infilarsi una pillola in bocca che mandò poi giù con un sorso di Vodka. «Offriamo tutto noi 'sta sera.»
«Eh?», fece Roxas, attonito dalla musica e dall'alcool che stava già iniziando ad avere i primi effetti.
«Dico che sia la roba che l'alcool te lo paghiamo noi. Sedici anni non è roba da poco, amico!»
«Oh, sì, sì», farfugliò Roxas, sorseggiando il proprio drink con fare disinteressato. «Wow, sì, grazie.»
«Però non possiamo farlo sul bancone», riprese a parlare Hayner, alzandosi dallo sgabello prima di afferrare il compagno per un braccio. «Si va in bagno a prendere la roba.»
Roxas non capì praticamente nulla di ciò che gli venne detto, ma si limitò a lasciarsi trascinare a destinazione. I bagni, se possibile, erano pure peggio del locale stesso; nonostante la musica non rimbombasse così tanto, c'era un insopportabile odore di fumo, alcool e solo Dio poteva sapere cosa.
Hayner lasciò andare il braccio dell'altro e tirò fuori dalla tasca un piccolo sacchettino pieno di polvere bianca sotto le iridi confuse di Roxas. «Hayner, io sinceramente non so se sia il cas-»
«Non rompermi il cazzo, Roxas», lo interruppe con voce rude l'altro, facendo comprendere al biondo che ormai era completamente rincoglionito dall'alcool e dalla pillola e l'ultima cosa che Roxas desiderava era discutere con il suo migliore amico sotto l'effetto di allucinogeni il giorno del suo sedicesimo compleanno.
Dopo una manciata di secondi nei quali Hayner non fece altro che bestemmiare e sbuffare, riuscì finalmente ad aprire la bustina di plastica e ne rovesciò lentamente il contenuto accanto al lavandino. «Prima il festeggiato»
Roxas sospirò pesantemente e si chinò verso quegli strani granelli bianchi; gli sembrava di aver letto di sfuggita come si faceva, perciò sperò nella sua memoria e avvicinò il naso alla cocaina prima di decidersi definitivamente a sniffare una volta per tutte.
Non sapeva la quantità esatta in grammi, né gli interessava. Tra lui e Hayner comunque la terminarono in pochi minuti e ben presto Roxas si accorse di quanto potessero essere potenti le sostanze stupefacenti.
La cocaina era amara, tremendamente amara, e una volta fuori dal bagno non fece altro che mandare giù saliva nella speranza di cacciare via quel saporaccio; cercò anche di berci su un po' d'acqua ma la nausea prese subito la meglio nel suo corpo.
Non ci volle molto a sentire il reale effetto della sostanza; Roxas iniziò a sentirsi inspiegabilmente agitato, il battito cardiaco a mille, le mani sudate e il cervello euforico.
Provò l'impulso di sfogarsi, di ballare, e non fece altro che ridere, muoversi e correre per il locale; i suoi pensieri si spensero completamente e l'istinto prese il controllo della situazione.
Andò a sbattere contro una decina di persone, venne mandato a quel paese un bel po' di volte ma non gli interessò per nulla; Roxas sentiva solo il corpo sovraeccitato da quella sensazione di estrema euforia.
Questo almeno finché non si imbatté contro una macchia rossa e confusa; assottigliò gli occhi, senza riuscire comunque a mettere a fuoco nulla. 
Niente da fare, il mix della cocaina e della Vodka gli aveva mandato in palla il cervello.
«Rox?»
Roxas sgranò le iridi e il suo corpo ebbe un violento sobbalzo; sentì il sangue correre ancora più velocemente e il battito cardiaco eccelerare precipitosamente, come fosse pronto a lanciarsi a capofitto in un burrone. 
«Rox? Accidenti, puzzi da far schifo». Le parole gli arrivarono in maniera strana, stonata, e Roxas non riuscì a distinguere il sapore: non sapeva se lui, se quella macchia rossa fosse preoccupata o divertita, non riusciva più a differenziare le sensazioni.
«Oggi è il mio compleanno, festeggiami», biascicò dopo una manciata di secondi il biondo, dondolando la testa. «Festeggiami, è il mio compleanno, oggi sedici e domani diciassette, dopo domani morirò».
Axel lo guardò fare seriamente intimorito. «Che ti hanno dato, Rox?»
«Non mi toccare!», sbottò improvvisamente il giovane, sentendosi in qualche modo violato. «Non mi toccare! Non mi toccare! Non mi toccare!». Successivamente si voltò e, senza lasciar il tempo all'altro di replicare, si fece spazio tra la gente e iniziò a correre il più velocemente possibile, inciampando di tanto in tanto tra i suoi stessi piedi.
Non ci voleva più stare in quel postaccio, quella musica, quella puzza; aveva la nausea, gli martellava la testa e si sentiva soffocare.
Riuscì a raggiungere miracolosamente l'uscita e sperò che l'aria notturna riuscisse in qualche modo a tranquillizzarlo, ma così non fu: Roxas si inginocchiò sul marciapiede e scoppiò a piangere di punto in bianco.
Si mise le mani alla testa e continuò così, a lacrimare, a singhiozzare in maniera incontrollata in mezzo al freddo della notte, al termine del suo sedicesimo compleanno.
Era disperato, a pezzi, stanco, e aveva voglia di strapparsi da se stesso per togliersi di dosso quella viscida sensazione.
«Meno male, non te ne sei andato». Roxas si voltò lentamente, con la testa piena, maledettamente piena, piena e pesante, e questa volta vide il verde; socchiuse un poco le palpebre e si sentì sollevare da un paio di braccia che lo calmarono molto più della brezza notturna.
Durante la notte Axel si prese cura di lui e a Roxas venne in mente quella volta che ebbe trentanove di febbre a tre anni; ricordò l'amore in mezzo alla malattia, suo padre che era rimasto sveglio fino all'alba per rimanergli accanto, per assicurarsi che la sua salute non peggiorasse.
Roxas si era sentito amato in mezzo al malessere di vivere.





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4. La creatura di sabbia
 
Durante la stagione estiva suo fratello era andato al campeggio con la sua squadra di calcio e perciò i suoi genitori non si erano lagnati molto quando aveva chiesto se poteva passare un paio di giorni al mare: meglio per loro, almeno per un po' potevano starsene tranquilli con i figli fuori dalle scatole.
Ovviamente Roxas non aveva accennato al fatto che ci sarebbe andato insieme ad Axel, in moto, con le mani avvolte intorno ai suoi fianchi e la testa appoggiata sulla sua imponente schiena.
Si era preso alcuni giorni di ferie dal lavoro soltanto per lui, perché voleva passare dei momenti speciali.
Partirono all'alba e Roxas si portò dietro una manciata di sigarette e due asciugamani piegati in malo modo nello zaino; indossò il costume al posto dei boxer, perché sapeva che non appena avrebbe visto il mare si sarebbe lanciato senza pensarci due volte, dal momento che non aveva mai fatto il bagno nell'acqua salata.
L'autostrada era praticamente deserta e si prospettava una splendida giornata; a Roxas pareva addirittura di sentire il verso dei passeri danzare nell'aria.
Impiegarono un paio di ore a raggiungere la spiaggia e data l'ora riuscirono a trovare posto facilmente.
A Roxas piaceva Axel; parlava del suo lavoro, di quanto fosse rompicoglioni il suo capo e noiosi i suoi colleghi, ma lo faceva in maniera diversa rispetto a suo padre, molto diversa. Adornava i suoi discorsi, ci aggiungeva le parolacce nei giusti punti, gli insulti, il suo punto di vista, c'erano i suoi occhi verdi ovunque, e non si lasciava risucchiare dal grigiore in cui era costretto a vivere.
E soprattutto a Roxas piaceva le attenzioni che gli dedicava; lo cercava con la mano, gli toccava la spalla, i capelli, gli sussurrava cose all'orecchio, lo considerava un individuo in carne ed ossa, una persona, un essere umano, non solo un bavoso sedicenne con gli ormoni in palla.
Lo trattava... Con cura.
Era tutto stupendo, lì: la sabbia bollente che gli solleticava i piedi, l'acqua marina, la pelle bagnata che poi si asciugava sotto il sole, i tuffi dagli scogli, le battute di Axel, i bambini che giocavano a pallone... Roxas si sentì inspiegabilmente vivo e nel corso della giornata non toccò le sigarette nemmeno per una volta.
A metà pomeriggio Axel lo lasciò solo e si recò nella gelateria in fondo alla spiaggia perché voleva assolutamente fargli assaggiare i famigerati ghiaccioli al sale marino; Roxas dunque rimase seduto sul proprio asciugamano azzurro, sotto l'ombrellone, e fece per abbandonarsi tra i propri pensieri, quando una voce attirò la sua attenzione: «Posso stare qui?»
Roxas voltò la testa e si imbatté in una ragazzina dalla pelle pallida, i lunghi capelli dorati e le iridi azzurre; indossava una leggera veste bianca e si era rivolta proprio a lui, stringendo un piccolo album da disegno. 
Il sedicenne annuì lentamente, perplesso. 
«Grazie», la ragazza allora prese posto accanto al biondo e sorrise timidamente. «Mi chiamo Naminè.»
«Io Roxas», brontolò l'altro, un poco irritato da quella nuova presenza; non aveva la più pallida idea del perché quella ragazza avesse deciso di aprire una conversazione con lui. Forse lo trovava carino, o semplicemente si sentiva sola. In ogni caso a lui non andava di distogliere l'attenzione da Axel o dal mare, proprio per nulla.
«Questo è un posto perfetto per disegnare», riprese a parlare la giovane, tirando fuori da chissà dove una matita particolarmente appuntita, e a Roxas parve per un attimo trasformarsi in una spada pronta per la battaglia. «Mi piacerebbe diventare un'artista un giorno». Naminè tracciò qualche morbida linea sul foglio bianco prima di voltarsi nuovamente verso il biondo. «E tu?»
Roxas sussultò leggermente. «Ehm, no, sinceramente non mi interessa diventare un'artista.»
La ragazza rise di cuore e mosse un poco i lunghi capelli dorati. «Intendevo dire che cosa ti piacerebbe fare un giorno.»
«A-Ah, beh...», Roxas si mordicchiò ripetutamente il labbro inferiore, imbarazzato e al tempo stesso irritato: insomma, non era mica andato al mare per pensare al futuro, al contrario, voleva svuotare la mente almeno per un paio di giorni.
«Non lo so e non mi interessa», tagliò poi corto, sperando di essere stato diretto e chiaro sull'argomento; Naminè dunque annuì con fare assorto e riprese a disegnare, lanciandogli delle attente occhiate di tanto in tanto.
Sembrava far parte dell'ambiente, lei: con i capelli fatti di sabbia, gli occhi pieni d'acqua marina e la pelle che pareva la schiuma delle onde. Roxas la immaginò sirena, con una lunga coda al posto delle gambe, la voce che usciva sotto forma di bolle e gli occhi che si confondevano con l'acqua.
Volse un poco la nuca e scorse una macchia rossa in lontananza; allora tornò a guardare con fare allarmato la giovane, indeciso su come chiederle in maniera delicata di andarsene, quando si accorse che la diretta interessata si era già alzata. «Spero di rivederti, Roxas».
«Sì, u-uh, anch'io», mormorò con aria titubante il biondo; fece per alzare la mano in cenno di saluto, quando un dubbio gli attraversò la mente. «Posso... Posso chiederti una cosa?»
«Certo.»
«Per caso stavi disegnando me?»
Naminé sbatté ripetutamente le palpebre; dopodiché inclinò la nuca su un lato e appoggiò la mano sinistra sulle sottili labbra per accennare una flebile risata. «No, Roxas, non stavo disegnando te.»
Il diretto interessato allora sentì le gote andare in fiamme per l'imbarazzo e abbassò istintivamente le iridi. «No, è che spesso ho notato che mi guardavi e...»
«Oh, sì», annuì la bionda. «Questo perché ho disegnato il mare attraverso il tuo sguardo.»
Roxas fu sul punto per chiedere ulteriori spiegazioni, ma la fanciulla non glielo permise e corse via proprio nel medesimo momento in cui Axel gli si presentò con un paio di ghiaccioli in mano.
Fecero altri due bagni nel corso del pomeriggio e Roxas pensava che la giornata non sarebbe potuta andare meglio, almeno finché il sole non iniziò a calare, costringendo gran parte dei turisti ad abbandonare la spiaggia.
Il biondo si stava asciugando i capelli, seduto comodamente sulla tiepida sabbia, quando Axel aveva iniziato a sembrare... Diverso.
In un primo momento pensò che fosse semplicemente stanco, ma presto si era accorto che c'era una richiesta silenziosa, nascosta: Axel aveva iniziato a sfiorargli la pelle con più insistenza, a privarlo del suo spazio personale, a guardarlo spesso, a baciargli le scapole un poco sporgenti, a schioccargli un rumoroso bacio sulla guancia per i motivi più sciocchi come una battuta divertente o un ringraziamento.
Poi gli aveva afferrato il volto con una mano e lo aveva baciato sulle labbra.
Aveva la pelle calda, Axel: emanava calore da tutti i pori, e Roxas si era sentito sciogliere dinnanzi al fuoco dei suoi capelli. Aveva iniziato a sentire le mani sudare, il battito irregolare, il cervello in tilt, proprio come quando aveva sniffato la cocaina in discoteca, solo che poteva giurare davanti a Dio che non aveva preso nulla quel giorno.
Per la prima volta in tutta la sua vita, Roxas si lasciò scivolare addosso ad una persona: si abbandonò, proprio come quando si lanciava sul materasso da ubriaco, con la vista annebbiata e il corpo a pezzi. Si abbandonò ad Axel, intrecciò le dita alle sue, schiuse le labbra e toccò la sua lingua bollente, assaggiò il suo respirò, condivise la sua aria, e quando lo portò in quel piccolo Hotel poco distante si lasciò esplorare per tutta la notte.
Il mattino dopo si svegliò felice. 
Felice.
L'alba lo partorì magicamente felice.
Non era un momento che si era creato, no: era nato così, sbocciato dal nulla, era felice e basta, felice, niente inganni, niente sigarette, quelle potevano anche annegare in acqua, niente nascondigli dietro i cespugli per sfuggire dalla polizia insieme ad Hayner, no.
Roxas si svegliò felice su quel morbido materasso, con la punta del naso che sfiorava il volto spigoloso di quell'uomo dai folti capelli rossi. 
Si fecero portare la colazione a letto e Roxas rise così forte che iniziò a fargli male la pancia perché, davvero, il suo corpo non era per niente abituato a tutta quella felicità; gli attorcigliava le budella, ma era bellissimo, era tutto bellissimo e avrebbe voluto vivere quella giornata per sempre.
Spesero il pomeriggio in spiaggia, e ogni volta che Axel lo spingeva a sé, lo baciava sulle labbra o lo accarezzava, Roxas avrebbe voluto morire per timore di esplodere in mille pezzi dall'emozione.
Al tramonto la magia della spiaggia si ruppe: era tempo di ritornare lì, nella città fredda anche d'estate, dai suoi genitori, nella vita reale.
Ma Roxas non voleva essere triste, non subito almeno; c'era ancora tutta l'estate davanti, e Axel, c'era Axel, avrebbero potuto passare le sere insieme a mangiare il gelato, a parlare all'infinito, a darsi baci e carezze, e Roxas si sarebbe potuto sentire felice per sempre.
Ma quella sera comprese una cosa: la natura era stata maligna con lui, lo aveva partorito male, al contrario, con la tristezza dentro, con una pistola che sparava alla felicità non appena essa si avvicinava.
Axel lo accompagnò di fronte alla porta di casa e lo aiutò a togliersi il casco: Roxas dunque scese dalla moto e si voltò con un sorriso sereno dipinto sulle labbra. «Grazie.»
«Grazie a te per avermi fatto compagnia. Abbiamo festeggiato bene.»
«Festeggiato?», fece eco il biondo, perplesso. 
Axel annuì. «Festeggiato il nostro arrivederci».
Qualcuno dall'interno parve tirare un violento pugno ai polmoni di Roxas, perché si sentì mancare inspiegabilmente l'ossigeno. «A... Arrivederci?»
«Già», sospirò Axel, e Roxas non poté nemmeno vedere la sua espressione perché era nascosta dal casco: era sollevato? Divertito? Triste? Angosciato?
«Te ne vai in vacanza?», si sforzò poi di riprendersi il biondo, mordendosi leggermente il labbro inferiore.
«Magari», brontolò l'uomo, facendo ripartire il motore. «Il lavoro mi chiama, partirò domani.».
«E... E quanto tempo starai?», domandò nuovamente il minore, sempre più scosso.
Si sentì come quando i vicini della sua vecchia città gli facevano scherzi di cattivo gusto, come barare a nascondino: e non appena lui lo scopriva si sentiva esplodere dentro dalla rabbia, dalla delusione, e aveva voglia di piangere, sentiva gli occhi pizzicare, ma tentava di ricacciare dentro le lacrime perché non gli andava di dare loro importanza, di mostrarsi debole.
«Non lo so, comunque un bel po'», spiegò con tono piuttosto neutro il fulvo, sistemando nel frattempo gli specchietti della moto. 
«Settimane? Mesi?»
«Forse un anno».
Le ossa di Roxas si irrigidirono e divenirono improvvisamente cemento; al contrario, la terra sotto di sé parve aprirsi e temette seriamente che se avesse osato abbassare le iridi avrebbe visto una voragine infinita da cui non sarebbe potuto fuggire, dal momento che era completamente pietrificato.
«Non te l'ho detto prima perché non volevo rovinarti la vacanza.»
Roxas non rispose.
«Stammi bene», l'uomo allungò la mano per tirare una pacca sulla spalla del biondo, ma si ritrovò a toccare la gelida superficie di una lapide.
«Non mi dimenticare, mi raccomando, e non te ne andare». Quella fu l'ultima frase che Roxas udì, anche se già da qualche minuto ogni suono gli parve incredibilmente lontano; perfino il forte motore della moto di Axel gli risultò un ronzio prima di svanire del tutto, risucchiato dalla notte, dalla strada.
Roxas non seppe identificare con esattezza quanto tempo rimase lì, con i capelli intrisi di sabbia, la pelle odorante di mare, gli occhi rossi a causa del sale: gli ci volle comunque un bel po' prima di poter riprendere il controllo del proprio corpo, anche se ogni passo gli risultò pesante come un macigno.
Infilò le chiavi nella fessura e non rispose né al saluto di sua madre, né al rimprovero di suo padre per l'orario; salì le scale con aria assente e si diresse in camera propria.
Per la prima volta in tutta la sua vita, Roxas si era abbandonato ad una persona; e ora che quella persona si era scostata con estrema noncuranza, lui non aveva ricevuto neanche la grazia di battere la testa sul terreno.
No, si era ritrovato proprio a cadere in una fossa, nella sua stessa tomba.
Si sedette sul letto e tirò fuori una sigaretta.





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Mercoledì divenne il giorno del silenzio in casa Evans.
Il padre prima a pesca e poi al bowling con i colleghi, Sora al campo con la sua nuova ragazza.
Rimanevano soli in casa, Roxas e sua madre.
Erano pigri pomeriggi estivi, con i deboli raggi del sole che illuminavano appena la cucina dove la donna era intenta a leggere o cucinare. Roxas si sedeva sul divano e guardava il quartiere attraverso la finestra con aria assorta, e di tanto in tanto usciva in balcone per accendersi una sigaretta.
Fuori c'era sempre quel dannato odore di pioggia; di pioggia mai scesa per davvero, di acqua che non riuscì mai a purificare del tutto il grigiore, di gocce che non riuscirono mai a lavare l'asfalto per permettere una futura rinascita.
Qualche volta Roxas non si accorgeva nemmeno dello scorrere della giornata finché non sopraggiungeva il tramonto o la squillante voce di suo fratello che non aveva ancora imparato ad aprire la porta da solo.
«Roxas». Il biondo sollevò leggermente la testa e incontrò le iridi di sua madre che tentavano in ogni maniera di sembrare serene; pensò che gli volesse chiedere di passargli una pentola o qualcosa del genere, e invece lo stupì. «ti va di fare una sorpresa a papà e a Sora?»
Il giovane sbatté ripetutamente le palpebre, allibito. 
A sua madre non piaceva quella famiglia, e lui ormai l'aveva capito da anni, o forse lo aveva sempre sospettato, fin da bambino. Lei non amava suo padre, così severo e rigoroso, non lo amava per niente, ma non aveva avuto altra scelta.
Eppure quella domanda lo stupì; lasciava trapelare la dolcezza di una madre che voleva davvero fingere che andasse tutto bene; quella domanda voleva dimostrare, anche se per finta, che aveva scelto lei quella vita.
Per un attimo Roxas tornò bambino; le iridi perennemente sorprese, i tavoli e gli scaffali sempre troppo in alto, le manine troppo piccole per i pacchetti di sigarette. Tornò bambino e si alzò per affiancarsi alla donna. «E' una bellissima idea.»
Roxas, dopo anni e anni, si sentì appartenere a quella casa, a quell'ambiente, a sua madre, anche se per poco; ebbe perfino l'impulso di parlare di Axel, di quello stronzo che lo aveva abbandonato, che lo aveva usato come un corpo vuoto, ma non lo fece.
Ebbe l'impulso di fare domande, proprio come un bambino curioso, di piangere e di strillare che aveva paura del futuro che si stava pericolosamente avvicinando, ma non lo fece.
Lasciò filtrare gli ultimi flebili raggi della giornata attraverso le tende e si concentrò su quella manciata di farina da lavorare, accanto a sua madre.
Poi lei si voltò, si raccolse i capelli biondi in una coda, sorrise e per un attimo le numerose rughe sul suo volto scomparvero come per magia: «Sono molto fiera di te, Roxas».





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Settembre riportò con sé un'aria decisamente troppo fredda per la stagione autunnale, ma ormai Roxas era abituato a ciò, anzi, pensava che quello fosse il periodo più adatto alla città; con il cielo perennemente grigio, le ultime foglie appese disperatamente ai rami e le pesanti felpe addosso.
Erano gli ultimi giorni di vacanza e Roxas quella sera aveva deciso di uscire di casa per fumare una sigaretta, quando il motore di un'auto particolarmente rumorosa attirò la sua attenzione: guardò avvicinarsi la vettura grigia che si fermò proprio di fronte a lui.
Roxas pensò che forse si trattava di qualche collega di suo padre che voleva salutarlo o chiedergli qualcosa, ma si stupì quando vide il finestrino della parte posteriore abbassarsi e mettere in mostra il volto sorridente del suo migliore amico. «Ehi, Roxas.»
«Hayner?»
«In carne ed ossa», rise lui, e Roxas sentì in sottofondo alcune risate; comprese quindi che non era solo e si trovava in compagnia del sua solita combricola di svitati.
«Ti sei fatto vedere poco quest'estate», gli fece notare il biondo, un poco offeso; insomma, erano o non erano migliori amici? Davvero Hayner preferiva quegli idioti a lui?
«Lo so», sospirò l'altro, appoggiando una mano sul finestrino con aria improvvisamente abbattuta. «ho pensato molto».
«Davvero?», fece Roxas, stupito. Nelle numerose settimane in cui non lo aveva visto se lo era immaginato a qualche party, a scolarsi litri e litri di birra e a fare baldoria come al solito.
Hayner annuì. «Sì, e finalmente ho deciso.»
«Hai deciso cosa?», domandò il biondo, anche se già sentiva una leggera pressione ai polmoni.
La stessa sensazione che aveva provato quella sera con Axel.
«Ho deciso che questo posto è una discarica», Hayner allungò il braccio e afferrò la sigaretta dalla mano del compagno con una leggera risata prima di accendersela. «e che me ne voglio andare.»
«Andare?»
«Già.»
«E tuo padre? E la scuola?»
«'Fanculo tutto.», Hayner scosse un poco la testa e inspirò il fumo. Qualcuno dall'interno gli gridò di muoversi e lui lo mandò a quel paese. «Non mi va di ricominciare un altro anno qui.»
Roxas sentì un nodo alla gola ed ebbe voglia di chiedergli un'altra domanda, ma Hayner parve leggergli nel pensiero e lo precedette: «Vieni con noi. Sono venuto qui per te. Va' prendere il minimo necessario, manda a 'fanculo tutti e salta su.»
Stessa situazione di quella sera, solo una domanda in più.
Una richiesta, un'àncora, forse.
Roxas guardò a lungo Hayner, e tornò mentalmente a quel lontano giorno di quattro anni fa: tornò a quella sala giochi, al campo di battaglia, ad Hayner che reggeva in mano la mitragliatrice e gli diceva che avrebbe voluto chiamarsi Howard.
Avrebbe voluto riaverlo con sé; avrebbe voluto tornare a giocare a rincorrersi, a rubare le sigarette dal tabaccaio vicino alla piazza e fare il bagno nell'acqua gelata del lago. Avrebbe voluto rimanere lì, incastrato tra la fine dell'infanzia e l'inizio dell'adolescenza, senza rovinarsi, senza spingersi oltre, senza superare il confine.
Avrebbe voluto cancellare tutto ciò che era successo dopo: i votacci, gli anni persi a scuola, le serate in discoteca, l'alcool e la nausea.
Avrebbe voluto riprendersi il suo migliore amico. 
Hayner gli stava puntando la mitragliatrice davanti agli occhi un'altra volta, l'ultima. «Vieni con me.»
E se glielo avesse chiesto Axel, quella sera?
Perché lui non gli aveva fatto posto sulla moto?
«Non posso.»
Hayner che abbassava la mitragliatrice e sorrideva.
Hayner che gli diceva che chi si chiamava Roxas non doveva morire.
«Lo immaginavo.», sorrise il ragazzo, allungando nuovamente la mano. «Allora addio, soldato.»
Non te ne andare, avrebbe voluto gridare Roxas.
Resta qui, avrebbe voluto gridare.
Sei il mio migliore amico, stronzo, scendi dall'auto, avrebbe voluto gridare.
Addio, stronzo, addio, non ti voglio rivedere da adulto, voglio ricordarti nella mia mente così, avrebbe voluto gridare.
«Addio», disse ad alta voce il biondo, stringendogli a sua volta la mano.
Due compagni di guerra che si salutavano per ritornare in patria, dove c'era nessuno ad attenderli.
Hayner sorrise per un'ultima volta e fece cenno agli altri di ripartire; di nuovo il motore assordante, poi un'auto che svaniva per sempre dalla città.
Roxas allora si voltò e corse nella notte.
Corse veloce come il vento, corse proprio come quando a dodici anni correva per non perdere di vista Hayner, corse con il battito cardiaco a mille.
Superò strade, quartieri, case.
Poi rallentò e si piegò sulle ginocchia con il respiro affannoso; quando rialzò la testa vide una vetrina scura e davanti agli occhi gli si proiettò l'immagine di quel bar poco distante dalla scuola, quel bar dove aveva assaggiato il caffè, quel bar dove suo fratello parlava a vanvera e suo padre sorrideva.
Quello sì che era un momento davvero felice.
Roxas si avvicinò alla vetrina di quel vecchio bar che da ormai un anno si era trasformato in un'agenzia di viaggi.
Poi capì di aver perso tutto e pianse, pensando a quelle nuvole grigie che non erano mai riuscite a far piovere nulla.





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5. Roxas
 
Un anno dopo un diciassettenne guardava il quartiere dalla piccola finestra della sua stanza.
Un'automobile rossa rallentò e parcheggiò accanto ad un'altra macchina; da essa spuntò una bambina con uno stupido fiocco rosa e un lecca lecca in mano, correndo a destra e sinistra con aria allegra.
Ecco i famigerati nuovi vicini.
Peccato non avrebbe avuto occasione di far la loro conoscenza; magari a quella bambinetta bionda avrebbe potuto regalare il libro di fantasmi che aveva trovato casualmente in cantina, scoprendo così che lo zio Bern non aveva tutta quella fervida immaginazione.
Roxas si alzò e si infilò la giacca verde che gli aveva comprato sua madre qualche mese prima; si mise un pacchetto di sigarette in tasca e chiuse la piccola valigia che aveva sistemato sul materasso.
I suoi genitori erano andati a vedere il saggio di danza della fidanzata di Sora; una ragazza carina ed educata, proprio per bene, dicevano.
Avrebbe potuto attendere i diciott'anni, sarebbe stato certamente più furbo, ma Roxas sapeva che quello era il momento giusto e ormai non poteva tornare indietro. Non gli andava di frequentare un altro anno di scuola, non gli andava più di ascoltare suo padre che progettava l'Università o il lavoro. Soprattutto non gli andava che i suoi iniziassero a versare soldi per lui, dato che sarebbe stato del tutto inutile; meglio lasciare i risparmi a Sora, dal momento che lui rappresentava una maggiore certezza.
Niente saluti, baci o lacrime.
Solo un bigliettino sul comodino della sua stanza: ''Vado a cercarmi.''
Magari non lo avrebbero nemmeno trovato, tanto piccolo era.
Suo padre se ne sarebbe fatto una ragione; tanto c'era Sora come futuro della famiglia.
Sua madre avrebbe pianto un po', ma probabilmente lo aveva capito già da tempo che sarebbe andata a finire in quella maniera. Forse fin dal parto aveva compreso che il suo primogenito era nato così, con quella voglia di cercare l'introvabile.
E Sora... Sora magari lo avrebbe cercato dopo le scuole superiori. 
E forse un giorno lo avrebbe rivisto, chissà.
Era meglio così; se fosse partito con Hayner non avrebbe combinato nulla di buono. Probabilmente avrebbe iniziato a dipendere da lui e avrebbero fatto casino tutti i giorni, intrufolandosi nelle feste e bevendo a più non posso.
Roxas afferrò la valigia e la trascinò faticosamente lungo le scale; gradino dopo gradino cercò di purificarsi, di lavarsi l'anima, di cacciar via i ricordi legati a quella casa, il profumo impercettibile di sua madre, il forte dopobarba di suo padre e gli occhi sorridenti di suo fratello. 
Suo fratello Sora che aveva tentato di salvare.
Suo fratello che credeva di aver salvato.
Suo fratello che era salvo fin dalla nascita; e che lo sapeva, e per questo Sora aveva tentato disperatamente di allungargli una mano, di trascinarlo via da quel caos, inutilmente.
Era suo fratello che aveva cercato di salvarlo, non il contrario, non era mai stato il contrario.
Non era colpa sua.
Non era colpa né di suo padre, né di sua madre.
Era colpa dell'alba, che lo aveva partorito così.
Con quella voglia inarrestabile di cercare l'introvabile.
Raggiunse a piedi l'autostrada, trascinandosi dietro quella valigia bordeaux, unico legame con il suo passato; fece l'autostop e un uomo silenzioso dai lunghi capelli tinti di un azzurro acceso lo accompagnò fino alla stazione che avevano costruito da poco.
Sarebbe arrivato alla capitale e lì avrebbe pensato sul da farsi. 
Per ora sapeva solo che aveva voglia di una città grande, di autostrade, di auto che correvano, di gente nuova, sconosciuta, di persone che non badavano a lui.
Non dovette attendere molto; il treno arrivò dopo solamente una decina di minuti e il suono delle ruote che frenavano sulle rotaie provocò una forte stretta allo stomaco di Roxas.
Ecco, era arrivato il momento.
Era ancora in tempo per alzarsi e tornare indietro.
Avrebbe potuto voltarsi, uscire dalla stazione e chiedere l'autostop per tornare a casa.
Avrebbe stracciato il bigliettino sul comodino e avrebbe potuto ricostruirsi una vita in quella città odorante di pioggia.
No.
Quella città era troppo piena.
Quel luogo ormai non era più inesplorato: c'erano troppe parti di lui, dei suoi momenti, del suo passato. Lì avrebbe rischiato di inciampare in quei frammenti, annegare nelle sabbie mobili costantemente.
Sarebbe stato un suicidio.
Il treno fischiò e Roxas si alzò, stringendo con forza la valigia tra le mani.
Si avvicinò lentamente alle portiere spalancate, e passo dopo passo, non sapeva se stava sprofondando o se stava finalmente riemergendo da quel burrone infinito.
Sarebbe stato un suicidio, ma l'alba lo aveva partorito così, con quell'inarrestabile voglia.
Una volta qualcuno gli aveva detto che ogni individuo non era altro che il riflesso formatosi da tutte le persone che aveva incontrato nel corso della propria esistenza; e Roxas non poteva essere più d'accordo, per questo l'unico modo per purificarsi era spostarsi, trasferirsi altrove, verso nuove persone, per ricreare un nuovo riflesso di sé, migliore, forse.
«Rox!»
«Rox!»
Roxas si voltò di scatto, e ad una decina di metri di distanza, all'entrata della stazione, vide un uomo dai folti capelli rossi correre verso di lui, con il casco della moto ancora in mano.
«Roxas!»
Sarebbe stato sicuramente un suicidio.


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*Note di Ev'*
 
Le mie note normalmente sono lunghe quasi quanto la storia; figuriamoci per questa storia che, oltre ad essere la più lunga in assoluto (E non parlo solo di One-Shot, ma anche di singoli capitoli delle mie Long), è stata pubblicata dopo tipo due mesi e mezzo di assenza della sottoscritta, se non ho calcolato male.
Ricordo solo che a Febbraio, durante la settimana di sospensione, era ultra-felice perché continuavo a pensare ''Wow, adesso ho tantissimo tempo libero per scrivere, per aggiornare tutte le mie storie!''
Passa la settimana, non faccio un cazzo.
Mi stupisco, penso che forse volevo rilassarmi in altri modi.
Passano altre settimane, week-end, Venerdì, pomeriggi liberi, ancora niente.
Il punto è sempre che non mi manca l'ispirazione, affatto: c'è ''Insidie Interiore'' che trabocca di idee, un sacco di One-Shot a metà, però ero io proprio che... Che ero bloccata dentro, e boh.
Sto passando un periodo tremendo, ecco il punto, e questo periodo si è riversato perfino nella mia scrittura. La mia patologia mi sta massacrando e ne ho le palle piene della scuola.
E dopo avervi reso partecipi della mia triste vita privata, passiamo alla storia che... Oh mio Dio, ho voglia di dire niente e tutto.
Tutto perché ho scritto di me, della mia vita.
Oddio, non ho fatto tutte queste cose, per carità magari! Ho modificato e aggiunto un bel po' di roba, ma il succo, le sensazioni, sono quelle.
C'è un disagio di fondo che si trascina per tutto il racconto: abbiamo un Roxas più complessato che mai, anche decisamente più trasgressivo (E, sinceramente, non penso sia OOC), che cerca disperatamente qualcosa per sentirsi vivo, per trovare un posto nel mondo.
La storia è spaccata in frammenti della sua vita, tra brevi momenti felici, il suo migliore amico che lo trascina in una vita spericolota e priva di regole, e alcune conoscenze che emergono particolarmente.
Prima c'è appunto Hayner stesso, motore che da il via a tutto: apre dinnanzi agli occhi di Roxas una quantità industriali di modi per passare il tempo, per sfuggire alla vita quotidiana, e Roxas si lascia trascinare, anche se sa che è barare, perché non si sente comunque completamente felice.
Poi c'è Xion, una ragazza -Probabilmente muta per davvero- che a causa della sua condizione non è mai riuscita ad esprimersi, a vivere; e dunque si nutre dell'esistenza altrui, riesce a leggere il disagio di Roxas, ma lo considera comunque più fortunato rispetto a sé.
Si passa poi ad Axel, un uomo che si intrufola inaspettatamente nella vita di Roxas; gli fa provare sensazioni vere, dall'amore, dalle attenzioni fisiche, alla serenità, alla felicità senza bisogno di alcool, droga o chissà altro.
Roxas crede di aver raggiunto una tappa fondamentale della sua vita; pensa di aver finalmente trovato la felicità, e invece no, Axel lo abbandona nel bel mezzo della nulla. 
C'è infine Naminè, che rappresenta quasi la voglia di proiettarsi verso il futuro tanto temuto di Roxas; lei parla di un sogno, di disegnare, lui non vuole nemmeno pensarci, è terrorizzato, anche se al tempo stesso sa che non può rimanere lì per sempre.
La partenza di Hayner simboleggia quasi la fine dell'adolescenza; e infatti un dopo è finalmente Roxas ad andarsene, spera di voltare pagina, di dimenticare tutto, ma a quanto pare una piccola parte del suo passato è riuscita a raggiungerlo...
 
E meno male che devo essere breve.
Niente da aggiungere, credo.
Vi auguro buona Pasqua, in ritardo, comunque auguri in generale.
E se avete letto questa storia... Vi prego di recensire; no, 'sta volta non perché siamo in un sito in cui il confronto è importante, oddio, anche per quello, ma soprattutto perché, cazzo, se siete riusciti ad arrivare fin qui senza morire di noia meritate un bacino e una stretta di mano.
Alla prossima, spero.
E.P.R.
   
 
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