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Autore: LumineNoctis    23/04/2014    0 recensioni
L'anoressia. Questo è. Tutti la conoscono, ma chi la conosce sul serio, chi sá la veritá nuda e cruda?
La storia ha tre capitolo. Il presente, la malattia. Poi la cura. E la fine, il futuro. Sarà morte o vita? Fine o rinascita?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Quando arrivano a casa, io sono nel letto, intrecciata a lenzuola di stagnola. Il gatto mi dorme sui piedi, grasso e felice, a pancia all'aria, le zampette rannicchiate. Mi fa male lo stomaco e ho la nausea, o forse è mal di testa, non lo so. A pranzo ho mangiato una decina di fragole, qualche verdura, uno yogurt e una mela. Le sento danzare nei succhi gastrici e sbattere contro le pareti del mio stomaco. Spero si disintegrino in fretta. 
Provo a dormire, ma rimango cosciente, così mi alzo e mi trascino in bagno. Chiudo la porta, sporgo un piede per tenerla chiusa, apro l'acqua del lavandino, tolgo il tappo viscido e mi ci chino sopra. Le dita della mia mano destra si incastrano perfettamente sulla mia lingua e poi dentro la gola. Torturo l'epiglottide con le dita cercando la posizione più efficace. Aspetto il primo conato, poi il secondo. Mi gocciola la saliva fuori dalla bocca. Qualcosa di ruvido torna su, tolgo le dita e lo sputo in fretta, sciacquandomi la bocca. 'Brava, martina, brava'. Rifaccio. Distinguo il gusto di mela e di fragola. Dopo un po' quello che viene su è impregnato di succhi gastrici, il gusto mi fa venire le venire le convulsioni. Ho gli occhi lucidi e iniettati di sangue, mi fa male la gola,  ho le ghiandole tumefatte, ma sono contenta. Alzo la maglietta e guardo la pancia. Una superficie larga e gonfia e molle. Distolgo lo sguardo, amareggiata, e raggiungo la bilancia. Poso un piede, poi l'altro. Le lineette si rincorrono e io trattengo il fiato. 57.6. Rimango neutra: domani saró 57, a meno che io non mi uccida di esercizio, in tal caso un sei affiorerà sullo schermo verde, e io sorrideró involontariamente e mi godró quell'insana felicità per qualche minuto. Poi ricominceró ad avvertire la pesantezza del mio corpo, l'attrito con l'aria, la troppa massa. Questo lo so, anche se fisica non mi piace. Più massa c'è, più la gravità la attira verso il terreno. Così spero di sprofondare sotto terra, sotto al cemento, fino a decompormi, cellula dopo cellula, assorbita nel terreno tiepido e umido, dormire per sempre indisturbata con tonnellate di terra sopra le palpebre. Inquinerei l'ecosistema con il grasso unto del mio corpo, ne crescerebbero piante grasse e rigonfie di acqua e di un colorito verdognolo e malsano, venate di linfa violacea e velenosa. Ma la massa da decomporre sarebbe troppa e neanche la natura ce la farebbe. Oppure è la fisica che non funziona.


Ho preso un libro e sono uscita, una sigaretta nelle labbra, la nausea che mi attanaglia lo stomaco. La sedia di plastica è scomoda e fredda. Un calabrone gira attorno e cerca il suo nido. Non lo trova. Si sofferma sui buchi delle sedie. Una sedia piena di uova di calabrone, si schiuderanno e la sedia ronzerà dei versi di centomila calabroni cuccioli, finchè troveranno la strada nella plastica ed usciranno e voleranno via. Divoro le parole e me ne nutro, inchiostro nero impresso nella mente, accarezzo delicatamente, premurosa, le parole con lo sguardo, senza capirle davvero, pagine di morbida cellulosa fra le mie dita.
Aspiro e la sigaretta brucia e si consuma e sfrigola luminosa, fiorisce la cenere dal tabacco speziato e si accumula finchè mi cade sulla pancia. Il fumo esce e così un pezzo di me, un pezzo immateriale e maligno che finisce nell'aria e si dissolve, rimasugli di sangue e pezzi di esofago nei miei polmoni che colorano il fumo di rosso vermiglio. Se ne impregneranno le piante e i polmoncini dei calabroni cuccioli, forse non riusciranno più a volare, appesantiti di bugie.

Sono di nuovo a letto. La luce artificiale mi dà fastidio, così sto nella penombra. Il peso della pancia mi ancora al materasso, penzola di lato come il lembo di una ferita marcia. La tocco e la stringo, la vorrei staccare. Chissà quanto male farebbe.
Penso penso penso e penso, la testa ronza e brucia ma non si ferma, lavora lavora lavora e non mi lascia neanche il tempo di prendere fiato. Le calorie di oggi.. Troppe. Numeri uno sull'altro, cifre legate da legami a idrogeno, molecole di grasso giallastro e unto incollate alle costole di madreperla che vorrei tanto affiorassero e tendessero e tagliassero la mia pelle, linee spigolose sulla cassa toracica, una gabbia pronta ad aprirsi e farmi prendere il volo. Impazzisco dietro ai conti malati e ossessivi del cibo che ha sfiorato il mio esofago. Conto e riconto, non basta una, nè due, nè tre volte. Riconto gli stessi numeri sperando che a forza di fare si consumino e spariscano. Strisciano negli occhi e corrodono quello che incontrano, come veleno. Ma stanno lì, reali, come delle coltellate nelle cosce, nella pancia, nello stomaco. Disordinata, sporca, pesante, grassastupidagonfia, stronzadeboleperdentepigrainutileipocrita. Sento il gusto dell'amarezza sulla lingua, il naso mi solletica dalla voglia di piangere, la gola sofferente per la pressione delle lacrime, ma non ci riesco, si coagulano dietro gli occhi e rimangono lì, allora mi tiro con forza un pugno sulla cosca. Il colpo rimbalza nell'osso, lo spinge e lo fa vibrare, sbatte contro i muscoli e il grasso schifoso, il dolore mi sale sordo come un formicolio lungo la spina dorsale, si diffonde come onde sull'acqua per il corpo, e io lo assaporo, proprio come una persona normale farebbe per un brivido, per un orgasmo, per una carezza. Ne godo. A volte mi faccio paura.

Mi dicono 'smettila di farti del male', 'smettila di trattarti male', 'non te lo meriti', ma non capiscono che lo faccio per il mio bene. Mi faccio solo un favore, se non mangio, se mi ammazzo di ginnastica e se sento i muscoli bruciare sotto il peso del mio stesso corpo. Non posso permettermi di andare incontro al futuro così, debole ed enorme, un grosso organismo saprofita ripieno di grasso appiccicoso. Debole. Saró più forte e più magra di tutte le altre. So stare in piedi dopo gli svenimenti, dopo i drappi neri che avvolgono gli occhi, insettini neri luccicanti che zampettano attorno alle mie iridi e mi ricoprono la visuale, le dolci mancanze di zuccheri al mio cervello. So resistere ai crampi della fame, ruggiti feroci che attanagliano le stomaco, lo fanno rantolare e contorcersi, ma il mio stomaco sta bene così, vuoto e stretto e intatto. Sono capace di non mangiare per giorni, di memorizzare il numerino magico e maledetto associato a centinaia di cibi, la sfumatura dell'associazione delle cifre. Il mio cervello di quella sfumatura si nutre, ma se ne vuole tenere lontano. Io non mangio, non più. Ingurgito piccoli numeri sempre troppo grandi, colori limpidi di 10, 20 calorie, 50 calorie un rosa pastello, poi indaco e lilla, rosso vermiglio di 200, 500. 

Oh, a volte sono debole, sono inerme, di fronte alla potenza primordiale e disperata con cui ogni mia cellula, ogni nervo, ogni fibra, chiede nutrimento, chiede cibo, cibo vero, vuole sentire il gusto pieno che esplode sulla lingua, scende e accarezza la gola, atterra con un tonfo sordo e rassicurante in mezzo ai succhi gastrici.  Che poi il gusto non lo sente neanche. Le mie mani come grossi artigli famelici aprono il frigo e la dispensa e svuotano la ciotola della frutta, meccanicamente, vogliono vogliono vogliono e non si saziano mai, finchè la pelle del mio stomaco sarà così sottile e tirata da rischiare di esplodere e riversare tutto nei polmoni e farmi soffocare. Con quantità esorbitanti di cibo nello stomaco, appesantita, dolorante, in balia di maree rabbiose di cioccolato e pane e latte e cerali e merendine chimiche e caramelle velenose, mi trascineró in bagno, mi svuoteró da quello scempio, maree fuori dal mio stomaco, il tragitto inverso, e poi a galleggiare sopra l'acqua del cesso. Sottomessa da ceramica lucida e dita viscide, tremo, piango, gemo, ma sì, me lo saró meritato.
  
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