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Autore: Some kind of sociopath    23/04/2014    2 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Mal di testa. – Ah. Cristo. – Però potevo parlare. Be’, un piccolo punto a mio favore.
– Quel maledetto comandante stava rovinando tutti i nostri piani. – Trasalii sentendo di nuovo quella voce. Allora non l’avevo immaginato… – Non me lo sarei mai aspettato. Se non fossi stato lì Washington sarebbe morto.
Sentii il respiro rauco di un’altra persona, una seconda voce che ben ricordavo. – E i nostri problemi non esisterebbero.
Rise. Maledetto bastardo. – Via, Charles! Non avresti potuto lasciar morire un tuo superiore in quel modo, dico bene? È pur sempre il futuro comandante in capo dell’Esercito Continentale, e in qualità di generale credo sia un tuo dovere difenderlo. No, lasciare che Haytham gli sparasse o mollarlo sul pavimento mezzo dissanguato non sarebbe stata una mossa astuta.
– Ma la sua morte lo sarebbe stata. – Charles cominciò a camminare avanti e indietro, le assi del pavimento che scricchiolavano sotto di lui. – Io potrei essere il comandante, a quest’ora. Invece siamo qui.
– Abbiamo Haytham. È un passo avanti, ragazzo mio, non pensi?
Ragazzo mio! Mi veniva da vomitare. – Ah, Haytham! A proposito, come stai? – Si avvicinò a me, guardandomi dall’alto come una divinità, e mi sollevò per le braccia, manco fossi un bambino. Avevo le mani legate dietro la schiena e mi faceva male la faccia. – Temo, per tua grande sfortuna, che George Washington sia ancora vivo. – Battei le palpebre quando me lo ritrovai davanti, perché non potevo crederci. Ero tra le sue mani un’altra volta. Sempre vestito in modo impeccabile, la redingote blu, i capelli puliti, gli stivali lucidi e i calzoni lavati di fresco. Io indossavo una camicia e i vecchi pantaloni di tela beige. Mi avevano strappato di dosso la divisa da soldato. – Che ti era saltato in mente? Tutto frutto della tua testa, giusto?
Digrignai i denti. – Reginald – sussurrai, quel nome come una bestemmia tra le mie labbra. – Come hai fatto a trovarmi?
– Ah, rispondi prima tu. Poi io e Charles ti spiegheremo un paio di cose. Lee, per piacere, potresti portarmi del vino? Gli interrogatori mi mettono sete. – Reginald mi guardò con un gran sorriso. Gli sarei saltato addosso se non avessi avuto le mani legate.
Charles chinò la testa e si allontanò mentre Reginald si lasciava cadere su un divano riccamente decorato. Quello in cui mi avevano portato sembrava un salotto che nessuno puliva da un bel po’, pieno di polvere e ragnatele negli angoli. Il legno del divano, però, splendeva. Immagino che Charles l’abbia pulito con la lingua per te, maledetto porco. – Vuoi sapere perché l’ho fatto, Reginald? Perché pensavo fosse la cosa giusta da fare. Gli Assassini venderebbero anima e corpo per quell’uomo, e io credo non meriti quel posto.
Sogghignò mentre Charles Lee gli consegnava un calice pieno di vino rosso. Era come se stesse brindando con il sangue di mio padre. – Almeno su una cosa siamo d’accordo, Haytham. Due, in verità. – Si alzò agitando un po’ il bicchiere, come avevo visto fare a certi uomini importanti durante i ricevimenti. – Anche io voglio entrare nel Grande Tempio.
Ridacchiai. – Anche tu? Diciamo che non hai mai abbandonato quell’idea. – Concentrai tutto il mio odio nello sguardo e puntai gli occhi su di lui. – E poi a me non interessa il Grande Tempio. M’interessa la Mela. Voglio entrare lì dentro solo…
– …solo perché sei curioso. Lo so. Che cosa sarà mai così potente da attrarre Assassini e Templari? Deve certamente essere qualcosa di meraviglioso, e venerabile! Un oggetto protetto così bene da aver bisogno non di una, ma di due chiavi! – Il ciondolo verde al suo collo, che prima non avevo notato, brillò di luce propria. Succedeva spesso quand’era Reginald a tenerlo, e la cosa mi spaventava un po’. – Che il diavolo mi porti, siamo tutti curiosi.
Scossi il capo mentre Charles prendeva posto accanto al suo nuovo Gran Maestro. Una stretta al petto. – Tu non sei curioso, Reginald. Tu vuoi quell’oggetto, qualunque cosa sia. Vuoi quel Tempio. E magari lo… – Ripensai un attimo a ciò che aveva detto. – Un momento, hai parlato di chiavi?
Charles Lee rise e Reginald gli lanciò un’occhiata orgogliosa. – Chiavi – confermò il ragazzo. – Come abbiamo fatto a non pensarci? Non bastava trovare il Grande Tempio, andava aperto. Logico. E la Mela dell’Eden serve a questo. Ricordi? C’era un avvallamento nella parete. Un avvallamento sferico, perfetto per quel manufatto. – Charles guardò Reginald come se cercasse il suo appoggio. Un bambino egocentrico che ha bisogno di sentirsi dire quanto stia andando bene. Dio. Il Gran Maestro gli fece cenno di proseguire. – E non solo. Alcuni vecchi libri…
– Antichi, Charles. Antichi.
– Alcuni antichi libri – Lee fece un cenno ossequioso a Reginald pronunciando quell’aggettivo – hanno rivelato che nemmeno questo è sufficiente. Questo è il motivo per cui sei qui.
Aggrottai la fronte, sconvolto. – Io sono la chiave del Grande Tempio?
Reginald strinse la spalla di Charles in una morsa, la mascella irrigidita. – Non è così che avresti dovuto scoprirlo, ma il danno è fatto.
– Già, a te piace più l’effetto sorpresa – sibilai con tutto il mio disprezzo.
– Faresti meglio a tenere per te quel sarcasmo, Haytham. Ti ricordo che quello legato e disarmato sei tu. – Reginald mi rivolse un altro dei suoi famosi sorrisi, e sperai che almeno quello fosse seguito da delle risposte vere. – Bene, tornando al Grande Tempio, ti spiegherò con calma più tardi. Ora parliamo di George. Il vecchio Washington ha deciso di cambiare sponda. – Sollevai un sopracciglio. E, parlando di altre sponde, non è l’unico qui, vero, Reginald? Cane. – Così ha preso tutta la sua roba ed è andato a licenziarsi. Però l’Esercito Continentale ha pensato fosse un po’ pericoloso lasciarlo andare da solo.
Roteai gli occhi. – E chissà chi gli ha suggerito quest’idea. – Pensai che se fossi stato tra gli Assassini magari mi avrebbero mollato uno scappellotto, ma lì avevo una reputazione. Ero un Gran Maestro del rito coloniale e Reginald era troppo composto per darmi un ceffone come si fa con i bambini. Ridacchiò, infatti.
– Diciamo che sono piuttosto vulnerabili. – Giocherellò con l’anello che portava alla mano destra. – E che io sono molto persuasivo – aggiunse con un gran sorriso. – In ogni caso, il nuovo comandante in capo aveva bisogno di una scorta. E chi sarebbe stato più appropriato del generale Lee, suo secondo sia nell’Esercito Britannico sia in quello Continentale? – Mi parve quasi che Charles fosse arrossito.
– Un momento. Comandante in capo?
– Ancora niente di ufficiale – brontolò Reginald agitando la mano – ma è solo una questione di giorni. Intanto George ha insistito per correre dalle aragoste e fare il gentiluomo. Non è mai stato un grande stratega.
Abbassai lo sguardo, cercando di collegare tutti i fatti. Una cosa in comune tra Reginald e mio padre c’era, entrambi parlavano senza dire tutto, in modo che io potessi usare la testa. Non avevo più dieci anni, ma il metodo era lo stesso. – Lo schieramento non conta, dico bene? Continentale o Britannico, Corona o Colonie. Non importa. Basta che uno di noi salga al potere e guidi tutti verso un mondo migliore.
– Esattamente, Haytham. Il nostro scopo è quello.
– Però il Grande Tempio è più importante.
Reginald Birch si rizzò in piedi avvampando, il bicchiere stretto tra le dita così forte che poteva benissimo frantumarsi in una miriade di schegge. Charles, al suo fianco, sussultò. – Il Grande Tempio è parte del piano! – Calmo. Non ho mica insultato tua madre. Non ancora. Non ero sconvolto o spaventato da quel suo scatto d’ira, anzi, per la prima volta il ghigno s’aprì sul mio viso. – Come potremmo sedare le centinaia di ribelli risvegliate da questa guerra se non con il Frutto dell’Eden? È l’unica soluzione. Lo sai anche tu. Il Grande Tempio ci guiderà. Aprirà la strada verso… verso il futuro. – Nel dire quelle ultime parole lanciò un’occhiata strana a Charles, che subito s’alzò e corse verso un’altra stanza. – Ed ecco il motivo per cui sei qui, Haytham. Charles è stato molto utile, sai? Mi ha aiutato con le ricerche.
– Ed era anche sempre disponibile quando le ricerche ti avevano sfiancato, no? – Mi passai la lingua sulle labbra con aria perversa, solo per provocarlo. Ne avevo abbastanza del controllo che esercitava su di me. L’aveva fatto per troppi anni.
Sgranò gli occhi. Colpito nel segno. – Il ragazzo ha fatto la sua parte, al contrario di qualcun altro che ha passato il proprio tempo scopando e collaborando con gli Assassini invece di seguire l’Ordine cui diceva di appartenere. – Il suo sguardo si fece scuro. – So che hai ucciso William Johnson.
Oh, maledizione! – Non volevo farlo. È stato un incidente. Un dannato incidente.
– Davvero? Eppure pare che tu fossi lì con l’Assassino.
– Ero lì per impedirgli di uccidere William. Credi davvero che l’abbia ucciso volontariamente?
– Allora dimmi, come si fa ad uccidere un uomo involontariamente?
Rimasi senza parole. Di nuovo come quand’ero ragazzino. Lui riusciva ancora a zittirmi, io chinavo la testa e chiedevo scusa, perché aveva ragione lui. – Uno scatto d’ira – mormorai con un certo sforzo. Vuoi sapere la verità, Reginald? Ho delle voci nella testa. Voci che mi hanno mostrato cosa mi hai fatto e mi hanno ricordato quanto sia impotente quando mi trovo davanti a te. Per questo mi sono infuriato, per questo l’ho ucciso. Non l’ho fatto apposta e me ne pento, perché ho aiutato gli Assassini, ma non è stata colpa mia. I miei occhi cercarono i suoi per invitarlo a una sfida. – Non volevo ucciderlo. Mi dispiace per lui.
– Thomas Hickey è sparito. Dicono abbia un gran bel giro d’affari qui, a New York. Soldi falsi, prostituzione o qualcosa del genere. Non ho notizie di Benjamin Church da secoli. Credo stia cercando di mollarci. Tu sei diventato un mercenario sentimentale.
– Dio, Reginald, questo è davvero pesante come insulto finale. Mi hai ferito.
Sorrise. Se mi avesse detto di chiudere il becco mi avrebbe dato soddisfazione. Lui sì che mi conosceva bene. – L’unico che si preoccupa ancora della nostra causa è John Pitcairn, tutto preso dalla guerra. Di questo tempio non importa niente a nessuno, tranne che a te. Eppure non mi stupisce. Sei sempre stato diverso dagli altri. Anche quand’eri solo un ragazzino.
Gli sorrisi di rimando. – Anche tu. Non eri come gli altri adulti, Reginald. Quelli che lasciavano in pace i bambini.
Charles, rientrato in quell’istante, sollevò un sopracciglio e lui rise. – Arguto come sempre.
– Cosa intende? – sussurrò Charles. Voilà. – Signor Birch, voi…?
– Lee, altro vino, per favore. E porta il libro.
Sparì di nuovo oltre la soglia, come un bravo cagnolino. – Dovrà fare due viaggi – mugugnai, ma Reginald non si scompose. – Dunque, stavi cercando di dirmi perché sono qui.
– Lascia perdere il libro, Charles – gridò per farsi sentire nell’altra stanza. – Non ne ho bisogno.
Non arrivò nessuna risposta, ma Reginald non ci fece caso. – Si tratta di parole molto antiche, scritte migliaia di anni fa dagli uomini e dalle donne della Prima Civilizzazione. Una specie di formula religiosa che oggi come oggi chiameremmo profezia. Ascolta. Ti stupirà. – Prese fiato, come se stesse per mostrarmi qualcosa di sensazionale e mai visto prima. – Il sangue dell’Aquila e il pensiero della Croce, pensiero e sangue per lo stesso scopo, la Chiave. La Chiave porta al Tempio, Fonte del Potere cui il sangue sarà l’unica conseguenza. Il sangue aprirà la via per il futuro, l’Aquila vi porrà la chiusura. 
Non riuscivo a smettere di sbattere le palpebre, una smorfia ebete in faccia. Che diavolo significa? – Le parole mi uscirono di bocca senza che riuscissi a fermarle, e in un attimo mi parve di avere di nuovo quindici anni ed essere completamente alla sua mercé.
Reginald Birch ridacchiò ancora, sollevando il bicchiere di vino vuoto nella mia direzione. – Significa che dovrei fare un gran bel brindisi ai tuoi amici Assassini, dato che tenerti in vita è stata un’idea a dir poco geniale. – Portò le labbra al cristallo con quel ghigno da mastino ben in vista. – Alcune volte sono molto utili.
– E cosa c’entrano quelle parole con me? – Sentivo gli occhi bruciare. – È robaccia scritta migliaia di anni fa, non può…   
– Non può? – Rise ancora. – Credi davvero che non possa, Haytham? Però questo gingillo può – sibilò stringendo tra pollice e indice la brillante medaglietta verde, la Chiave. L’altra chiave. – E secondo gli scritti di Roberto di Sable e papa Alessandro VI, anche i Frutti dell’Eden possono. Nonostante siano passati migliaia di anni, la Prima Civilizzazione non è mai morta.
Chissà perché gli credevo. – Vorresti usarmi per questa pazzia?
– Che brutto termine, usarti. Io non voglio usarti. Hai detto tu stesso di voler entrare in quel dannato tempio, no? Non ti sto sfruttando, anzi, ti sto aiutando ad attuare un tuo desiderio, come ho fatto anche quand’eri un ragazzino.
– Davvero? – ringhiai, sentendomi pronto a squarciargli la gola con i denti. – Non mi pareva di desiderare la morte di mio padre o che tu mi violentassi.
Quelle parole non lo zittirono, anzi, sul suo viso comparve un piccolo sorriso. – Te lo sei ricordato, allora.
Con un aiutino. Lo volevo morto, lo volevo morto con ogni parte del mio maledetto corpo. – Tu non hai fatto altro che sfruttarmi. Anzi, diciamo abusare di me. In ogni senso. – Continuò a sorridere. – Non puoi comunque entrare nel Grande Tempio senza una Mela. Se credi che gli Assassini la cederanno come riscatto o qualcosa del genere…
– No, pensavo di tornare all’originario piano di William e chiederla agli indiani.
– Non sei in Inghilterra, Reginald. Qui non ci sono i tuoi mercenari.
Si alzò in piedi e si stiracchiò, giocherellando con il bicchiere. – No, hai ragione. Ho di meglio. Ho quattro uomini addestrati da un Gran Maestro del rito coloniale, e non mi resta altro da fare che trovarli e metterli ai miei ordini. Ho molto più di qualche mercenario, Haytham. Ho i migliori purosangue delle Colonie, gli uomini che mi permetteranno di vincere anche questa corsa.
Ci paragonava a dei cavalli. Tipico di Reginald. – Non starò sotto di te un’altra volta.
– Oh, ma questo piano non ti coinvolge. A dire il vero pensavo a qualcosa di semplice per te, come spezzarti le gambe per impedirti di scappare e rinchiuderti da qualche parte finché non avremo il Frutto dell’Eden tra le mani. – Sogghignò. – Sì, direi che mi piace molto. – Si voltò istintivamente verso il corridoio, aggiustandosi le maniche della camicia. – Dio, quanto ci mette Charles?
– Che è, hai fretta di scopare?
– Modera il linguaggio, signorino Haytham. Potrei sempre sfogare il mio frettoloso desiderio con te, prima di spezzarti quelle gambette impertinenti. – Gambette impertinenti? Cristo santo.
Immagino che avremmo continuato a minacciarci e provocarci l’un l’altro se in quel momento non si fosse sentito un rumore metallico e Charles, dalla stanza in cui si trovava, non avesse cacciato un gemito. Immediatamente Reginald si voltò l’uscio, poi il suo sguardo scattò su di me, gli occhi grandi come piatti. – Non guardarmi in quel modo! – grugnii con una scrollata di spalle. – I miei poteri telecinetici non funzionano ad una tale distanza.
– Sgrunt. – Mi diede le spalle e s’incamminò verso la stanza in cui Charles era andato a prendere il vino, io che gli trottavo dietro con le mani legate, guardandomi intorno. Quando Reginald mise piede in una grande sala da pranzo Charles era steso a terra, svenuto, una vecchio cavatappi in mano e la bottiglia di vino sul ripiano lì accanto, intatta. Sul tavolo c’era una padella ancora vibrante. – Gesù – brontolò portando la mano all’elsa della spada. Non l’avevo visto spesso sguainare un’arma.
– Magari ha avuto un malore.
Mi mollò una manata sul petto, facendomi indietreggiare e mandando la mia schiena e la nuca a sbattere contro lo stipite senza nemmeno lanciarmi un’occhiata. La botta mi stordì, mi accasciai a terra senza fiato mentre Reginald avanzava nella sala, girando attorno al tavolo. Silenzioso come un gatto, per quanto vecchio.
Con la vista appena fuori fuoco, riuscii comunque ad adocchiare una macchia dall’altro lato del tavolo venire nella mia direzione, strisciando sul ventre. Eh? Sbattei gli occhi per vedere meglio, e quando mi passò davanti – proprio mentre Reginald scostava una sedia con un gran calcio – riconobbi quell’uomo. La testa pelata, una vecchia redingote rattoppata e i calzoni consunti. L’avevo visto per la prima e l’ultima volta proprio in quella città, quando Giunone mi aveva mostrato la verità su Reginald, una verità che ancora mi faceva accapponare la pelle ma che cercavo di usare a mio vantaggio, ridendoci sopra quando possibile.
A dire il vero la maggior parte di quei ricordi non era affatto divertente, no.
– Tic.
– Uh?
Cristo.
Reginald si voltò di scatto verso di me e, come un lupo affamato, saltò oltre il tavolo.
Letteralmente. Il mio Gran Maestro oltrepassò quel vecchio tavolo di legno con un elegantissimo balzo, atterrando placido e rotolandosi con naturalezza. Tic mi scoccò un’occhiataccia e lo evitò di pochissimo, scattando in piedi e afferrando il cavatappi che Charles teneva ancora in mano. – Bene. E questo chi sarebbe, eh? – ringhiò Reginald voltandosi verso di me, i capelli castani appena scompigliati. – Uno dei tuoi amichetti della Confraternita?
– Gli Assassini non c’entrano niente – riuscii a sussurrare, gli occhi fissi su Tic. Dovevo dargli tempo, maledizione. Perché ero stato così stupido? – Almeno credo.
– Tu credi, eh? – Sguainò la spada lunga e la puntò alla mia gola, la punta ben ferma qualche centimetro sotto il mio collo. – Avrei dovuto sgozzarti da orecchio a orecchio quand’eri un poppante, quando ne avevo l’occasione!
Scrollai le spalle. – Però poi avresti dovuto trovarti un altro ragazzino con cui giocare, Reginald. Sarebbe stato un peccato. – Ora mi uccide. Ora mi impala su quella spada e da le mie viscere in pasto ai cani.
I suoi denti si scoprirono come quelli di un vecchio segugio irritato. – Dannato figlio di… ugh! – Dong! Il rintocco di una campana. O il macabro suono di una padella sbattuta violentemetìnte su un cranio.
Vidi il suo corpo cadermi addosso con una lentezza impressionante, la spada che scendeva piano. Mi parve quasi di sentire il rumore di quella punta d’acciaio che mi strappava la camicia, la pelle, e s’infilava dentro di me, l’addome reso caldo dal sangue che sgorgava placidamente. Reginald s’accasciò sopra di me come un cadavere, ma potevo sentire il suo petto sollevarsi. Delle macchie scure cominciarono a danzarmi davanti agli occhi.
– Dah, Cristo! – sentii Tic imprecare mentre sollevava il Gran Maestro per le ascelle e lo mandava a schiantarsi la qualche altra parte. Ancora con il cavatappi in mano, tagliò con un movimento feroce la corda che mi teneva i polsi uniti. Immediatamente le mie dita erano corse alla ferita che mi stava inzuppando la camicia di sangue. – Oddio, mi dispiace.
Strinsi le dita attorno alla lama, graffiandomi il palmo. – Fottuto… – Serrai la presa e mi morsi il labbro per non gridare, gli addominali contratti per quanto me lo permettesse il dolore. Poi diedi uno strattone alla spada, estraendola dal mio corpo con un singulto e un gemito. – …idiota.
Gli occhi di Tic si sbarrarono, mollò un pugno sulla nuca di Reginald e si chinò su di me con preoccupazione. – Ehi, no. No, no, no, non potete morire. Tiratevi su.
– Stupido stronzo…
– Ho delle notizie per voi – brontolò quel bastardo di un informatore, lanciandosi il mio braccio attorno alle spalle.
– Le mie armi… – sibilai con gli occhi socchiusi. Non potevo andarmene senza averle recuperate. – Sono qui da qualche parte, Tic. Valle a prendere, per l’amor di Dio.
Il mio informatore sospirò. – Signore, dovrei lasciarvi qui. Sarebbe rischioso.
Mi lasciai sfuggire una bestemmia. – Sono io quello che t’impedisce di vendere il culo per strada – gemetti con molta meno ferocia di quanto avrei voluto. – Fallo e basta. – Tic mi poggiò su una sedia in modo straordinariamente delicato per essere un uomo appena investito da insulti che non meritava. Sentivo il sangue continuare a sgorgare, più potente ad ogni battito del cuore. Costante, direi. Pensai che se fossi morto non sarebbe stato poi così male. Reginald non sarebbe mai arrivato al Tempio.
Già, ma nemmeno io.
Tic ritornò velocemente con le mie pistole, la polsiera della lama celata e la spada corta, che s’affrettò ad agganciarmi alla cintola e al braccio prima di sollevarmi nuovamente. Grugnii per il dolore, l’altra mano stretta sul fianco sanguinante. – Per quanto riguarda le tue notizie, Tic… – Mi sfuggì un gemito. – Hanno a che vedere con biscotti o tè?
Il mio vecchio amico mi guardò con le sopracciglia aggrottate. – Direi di no – sussurrò titubante. Forse pensava delirassi.
Mi lasciai andare ad un debole sogghigno. – Allora non vi è niente di buono.
– Oh, non ho detto che siano buone. – Spalancò la porta della casa in cui Reginald e Charles mi avevano portato con un calcio, scaricando tutto il peso di entrambi sull’altra gamba. – Credo solo che siano importanti. Abbastanza importanti da correre il rischio di essere ucciso.
– Ucciso dai tuoi creditori o dal vecchio Birch?
Si voltò verso di me con un sorrisetto sghembo. – Da entrambi, signore. Per piacere, dobbiamo allontanarci. – Di nuovo il mondo sembrava scorrere attorno a me al rallentatore. Le strade di New York erano solo uno sfondo fuori fuoco che mi circondava. Sentivo le gocce di sangue scivolarmi lungo l’addome e schiantarsi a terra, piccole, troppe. Dovevo fermarmi. Neppure Tic se n’era accorto, ma stavo per morire. Ne ero sicuro. Strizzai la mano attorno alla sua spalla con tutte le mie forze.
– Fermati – sibilai. – Io non ce la faccio…
Le gambe cedettero sotto il mio peso e il mio informatore fece appena in tempo a spingermi verso una panchina e a farmici abbandonare sopra. – No, no, no, no. Voi state bene. Starete bene. È una ferita stupida, posso vedere? – Ero mezzo svenuto, quasi dissanguato e quell’imbecille pensava a farmi domande. Perché a me?
Scostò la redingote con le mani tremanti, aprendo velocemente i bottoni della camicia. – Ben – mi sentii sussurrare. – Ben sa cosa fare. Lui è un chirurgo.
Tic mi ignorò, grugnendo. – Oh, Cristo – mugugnò scavandosi nelle tasche. Non esattamente la tipica esclamazione di chi si trova davanti una ferita stupida. – Signore, dovete promettermi di non urlare. Se quei due si svegliano siamo morti.
Risposi annuendo a malapena con le testa, e mi tornò in mente il viso di Benjamin Church. Era solo un dipinto, quando l’avevo visto per la prima volta. – Ben fa il dottore – grugnii. – Ben sa come vanno fatte queste cose.
– State in silenzio, Dio santo. – Chiusi gli occhi e sentii un sonoro pop. – Forse brucerà un po’ – sussurrò – ma dovete promettermi di non urlare. Capito?
– Non urlare.
– Ecco. Non dovete urlare.
– D’accordo. – Presi fiato piano, le palpebre sempre più pesanti. Non mi sentivo più le dita. – Fa’ quello che… ah!
Piccola parentesi. L’alcool è davvero il miglior amico degli uomini, ma quando te lo versano su una ferita aperta non ti sembra più così buono. – Cristo! – sibilai aprendo gli occhi di scatto. Sentivo la carne bruciare attorno alla ferita. – Ma che hai in testa? Fottuto… idiota.
Mi accasciai sulla panchina con le dita che tentavano debolmente di avvicinarsi alla ferita, ma la presa rude di Tic le spinse via. – Signore, non toccatela. – Un attimo dopo sentii anche uno strappo e per poco non ebbi un tuffo al cuore. Ma che cazzo fai?, avrei voluto urlargli. Mi hai salvato la vita, d’accordo, non significa che puoi strapparmi i vestiti! Cristo, quella è roba buona! Puro artigianato britannico! Buon Dio. Fortunatamente per lui non avevo abbastanza forze. – Vi porterò da mia moglie, è una brava guaritrice. Non vi preoccupate. Ora però dovete lasciarmi fare. – Mi fasciò l’addome alla bell’e meglio con i miei stessi vestiti e mi mollò uno schiaffetto sulla guancia. – Su, signore, non potete lasciarvi andare adesso.
Tic mi sollevò di nuovo e sentii il mondo capovolgersi. Attraverso gli occhi semichiusi la terra, il cielo e i palazzi sembravano girare, delle macchie nere avevano ricominciato ad allargarsi come inchiostro su una pergamena vecchia. – ‘Fanculo – riuscii a mugugnare prima di svenire.
 
– Nessun progresso.
Mi venne quasi da ridere. Ero rimasto solo troppo a lungo, non potevo godermela, no?
Quando aprii di nuovo gli occhi ero steso su un tavolo senza la camicia, una fasciatura stretta al torace e le bozze dei punti lì dove poco prima si trovava la ferita. Come se Reginald non mi avesse fatto abbastanza male senza armi.
Naturalmente, le prime parole che sentii erano quelle di Minerva. – Hai messo a rischio la tua vita e la tua missione, servo della Croce.
Sospirai, provando a puntellarmi sui gomiti. Un male tremendo allo stomaco, i punti che tiravano in maniera dolorosamente impressionante. La mia missione? Sogghignai. Forse intendi la vostra. Dovreste trattarmi meglio, comunque. Sono la chiave del Grande Tempio, io. Non avevo dimenticato le parole di Reginald, anzi, ma non avevo avuto il tempo di pensarci con una spada conficcata nella carne. Servivano troppe cose per aprire quel maledetto affare. La Chiave di Reginald, un Frutto dell’Eden, la mia magnifica persona. Forse per questo nessuno era mai riuscito ad entrarci. – Spiritoso. Il Gran Maestro ha ragione, non avresti dovuto scoprirlo in questo modo. – Non mi era mancata la loro voce, ma probabilmente erano le uniche persone con cui potessi essere sincero. – Il danno è fatto. Sai cosa ti aspetta.
Scoppiai a ridere amaramente, gli occhi socchiusi. No, invece. Forza, illuminate quel cervelletto da Assassino.Il Tempio deve essere aperto. Se non sarà lui chissà quanto ci toccherà aspettare, Minerva. – Giunone sembrava quasi preoccupata. Potevano sempre costringermi a collaborare, no?, così come avevano fatto svenire Tic e mi avevano mostrato i miei ricordi più oscuri. O, almeno, ero convinto fossero abbastanza potenti da farlo.
Be’, veramente c’era un altro Templare… Uno come me, insomma. Il ricordo del nostro primo incontro, quando mi aveva mostrato il dipinto di quell’uomo circondato da Assassini, ancora mi metteva i brividi. Ma è morto. Si chiamava… Jackson, di cognome.
– Servo della Croce, il cervello non basta – sibilò Giunone con la sua solita simpatia.
– Ma è importante. Fondamentale.Immagino che in quel momento si fossero scambiate un’occhiataccia, perché ricevetti un’altra scossa. Dovete piantarla con questi metodi di comunicazione, ragazze.
– Jackson… Il cognome non mi è nuovo – brontolò Minerva. – Però non è uno di loro.
– Il padre può tutto, Minerva – rispose Giunone continuando ad ignorarmi.
– Noi no. E a lui non interessa questa scaramuccia.
– Oh, certo che gli interessa!
Dio, sembrate proprio due comari. E piantatela di ignorarmi.

Un’altra scossa. Decisi di restarmene zitto. – Non agisce mai a caso – riprese Giunone. – Lui è più potente. L’ha fatto, ma noi non possiamo. – Mi parve di sentirla sospirare con tristezza. – Il sangue e il pensiero, quelli sono i nostri campi.
Il sangue, giusto. Reginald me l’aveva spiegato. Altaïr Ibn-La’Ahad ed Ezio Auditore da Firenze erano riusciti ad utilizzare la Mela senza impazzire – be’, più o meno – perché avevano qualcosa in più. Il sangue dei Precursori, quello che aveva permesso all’italiano di parlare con ben tre membri della Prima Civilizzazione.
Oddio. Sono un maledetto imbecille.  – Mi state dicendo che siete mie parenti? – Storsi le labbra in una smorfia, irritato. Avevo parlato di nuovo ad alta voce, di quel passo mi avrebbero sbattuto in un manicomio e addio Grande Tempio. Non era colpa mia. Sapere che ogni parte di me era legata agli Assassini, a quelle due pazze nella mia testa e ai Frutti dell’Eden mi mandava in bestia.
– Ave, servo della Croce. Antenate. – Non mi piaceva quella storia. Figlio di un Assassino, discendente da due progenitrici di Assassini, con un nome, un’arma e una vista da Assassino. Maledizione.
Mi passai una mano sugli occhi. Che intendete per “non è uno di loro”? Di che diavolo state parlando? Non sapevo più che pensare. Quelle due mi stavano sfiancando più della spada di Reginald nello stomaco, più di tutti i guai che avevo passato nella mia vita. – Ehi, signore, siete sveglio. – Cazzo. Mille grazie, voi due. Crollai di nuovo con la schiena sul legno, sbuffando esasperato. – Come vi sentite? Tutto bene? Mia moglie ha fatto del suo meglio, in questi tempi di guerra è più difficile del previsto trovare un medico, ma vi siete ripreso più in fretta del previsto, devo riconoscervelo. – Tic apparve nel mio campo visivo, un po’ agitato e con un sorrisetto sghembo. Probabilmente ero la sua unica fonte di sussistenza, lasciarmi morire non sarebbe stato saggio. Io lo pagavo e lo tenevo in pugno, a lui toccava solo lavorare per me.
Stringeva il cappello tra le mani, come al capezzale di un moribondo. – Abbastanza bene. Almeno sono ancora vivo, giusto? – brontolai con un mezzo ghigno, puntellandomi ancora sui gomiti per tirarmi a sedere. – Non ti ho ancora ringraziato come si deve per quello che hai fatto, Tic. Se non fosse stato per te sarei morto.
Il vecchio Tic scrollò le spalle, scavando nelle tasche della giacca con le dita tremanti. – Si figuri. A dire il vero, signore, dovreste ringraziare un certo Connor. – Sollevai le sopracciglia di scatto, curioso. Connor? – Se non fosse per la missiva che vi ha inviato, e che ho avuto la prontezza di intercettare e ritirare, non vi sarei mai venuto a cercare. E sareste morto. – Continuò ad aprire e chiudere le numerose tasche interne, probabilmente usate per rubacchiare nei periodi di magra. – Ah, ma dove l’ho messa? Scusate, signore, ma sono stato imperdonabilmente curioso e l’ho aperta – esclamò uscendo dalla stanza per cercare il misterioso foglio.
– Figurati, Tic – brontolai stancamente. – Ricordi che diceva?
– Oh, non l’ho letta tutta. Io… – Passò davanti alla porta tutto trafelato, il cappello diventato un fazzoletto consunto tra le sue dita tese. – Porca miseria, Kate, hai visto quella dannata lettera? Dicevo, signore – ripassò, correndo nella direzione da cui era venuto – che io non so leggere. I miei occhi si sono spinti solo sul mittente, sapete, in caso fosse stata spedita da una delle persone che mi avete detto di sorvegliare. Kate!
Una donna minuta, con una cuffietta calata sulla testa e imbacuccata in abiti anonimi apparve nella cornice della porta porgendo un foglio di carta piegato a Tic, lo sguardo imbarazzato e timoroso a terra. Se l’avessi chiesto ad Alice me l’avrebbe tirata dietro, la lettera, assieme magari ad un tavolino o una sedia d’epoca.
Specie dopo quello che le avevo fatto. – Finalmente! Cazzo! – Sollevò la mano in un gesto appena dispregiativo verso la moglie, che si allontanò ignorandolo. – Almeno si rende utile. Non sa fare altro che sfornare puttanelle e bambini morti da quella fossa che si ritrova in mezzo alle gambe.
Mi lasciai andare ad un sogghigno. Il rapporto tra miei era decisamente buono, l’unica cosa normale della mia famiglia. Avevo dimenticato che fuori da casa Kenway gli uomini non trattavano esattamente le donne con i guanti. Neppure io l’avevo fatto, no? Ecco, papà, è quello che succede ad essere morti quando il proprio unico figlio maschio entra nell’età in cui comincia ad interessarsi alle giovani donne. – Tutte femmine, eh?
Tic spiegò il foglio lasciandosi cadere su una sedia accanto a me. – Dalla prima all’ultima, signore. Una disgrazia. Malaticce, poi, e nemmeno lontanamente belle abbastanza da ricevere una dote decente. Probabilmente le venderò. – Ridacchiò amaramente. – E chi voglio prendere in giro? Nessuno vuole una puttana brutta o una schiava cagionevole. Finiranno a fare le dame di compagnia. Sempre in ombra, ma almeno con un tetto sulla testa. Noi avremo i nostri soldi e tutti saranno felici. E se non lo saranno, ‘fanculo. – Mentre parlava si rigirava la lettera tra le mani, proprio come un uomo che non aveva idea di dove si cominciasse a leggere quell’arcano pezzo di carta e l’utilizzava a mo’ di antistress, giusto per non restare con le mani in mano.
Pensai che fosse meglio cambiare discorso. – Perché il soprannome Tic? Non credo che l’abbia scelto tuo padre.
Il suo viso si rabbuiò. – Preferisco non parlarne.
Risi. – E dai, che ci sarà di tanto vergognoso? – Lanciai le gambe giù dal tavolo, lasciandole dondolare mentre sfioravo la fasciatura con le dita pallide. – Cos’è, te l’ha affibbiato una donna perché eri talmente veloce a letto che avevate già finito quando la lancetta si era spostata di un secondo? Tic. – Sollevai gli occhi sul mio informatore, ridacchiando a labbra aperte. Quando vidi la sua espressione, la risata mi morì sul volto. Oh – sussurrai, un po’ in imbarazzo. – Sono un genio.
– Signore, state zitto, vi prego.
– Allora non è tutta colpa di tua moglie – brontolai facendo spallucce. – Sai, per le puttanelle. Forse non ci metti il giusto impegno.
Tic mi porse la lettera con un gemito simile ad un ruggito trattenuto, il braccio tremante e gli occhi che mandavano fiamme. – Prego – grugnì.
Presi il foglio continuando a ridacchiare. – Scusa se ti ho offeso, Tic, ma davvero, non ho resistito. – Lo guardai allontanarsi, marciando verso la porta mentre emetteva continui mugugni. – Stavo scherzando, comunque. Non te la prendere. Qual è il tuo vero nome?
Mi lanciò un ultimo sguardo un po’ teso, nervoso. – Continuate a chiamarmi Tic, d’accordo? Me lo merito, in fondo. – Mi diede ancora le spalle e sospirò. – Forse mi ricorderà che devo metterci il giusto impegno.
Scoppiai a ridere mentre tornava ad insultare la moglie per sfogarsi, ma quando misi gli occhi sulla lettera mi pentii di averla spiegata e ricevuta.

 
Haytham,
Sempre la stessa calligrafia di tre anni prima, appuntita, fastidiosa alla vista e difficile da decifrare. Che noia.
Haytham,
ho appena ricevuto una notizia da Samuel Adams. George Washington è il comandante in capo dell’Esercito Continentale, finalmente. So che venire a conoscenza di questo fatto non porta alcun piacere al tuo spirito, ma io e Sam abbiamo intenzione di recarci a Philadelphia e presiedere al Congresso Continentale. Ti scrivo queste poche righe in tutta fretta per chiederti di unirti a me e sentire ciò che Washington ha da dire. Forse cambierai idea.
La riunione del Congresso si tiene all’Indipendence Hall di Philadelphia il 16 giugno. Io e Samuel ti aspetteremo fuori, se mai vorrai farti vivo.
Connor.

– Se mai vorrai farti vivo – gli feci il verso gettando la lettera sul tavolo. – Stupido idiota. La puttanella dei Figli della Libertà, ecco che cos’è.
– Brutte notizie? – strepitò Tic dall’altra stanza.
Roteai gli occhi, levandoli al soffitto. – No, non propriamente brutte – brontolai gettandomi giù dal tavolo. Non avevo perso così tanto sangue da non riuscire a camminare dopo un po’ di adeguato riposo. – Nemmeno stupende. Questa – sventolai la lettera con un certo trasporto – l’ha scritta mio figlio. Penso che dovrei andare a Philadelphia.
– Philadelphia? – Tic piombò nella stanza a passi pesanti, le mani piantate sui fianchi come se gli avessi appena confidato un segreto di Stato. – E che ci andate a fare, se posso permettermi?
Scrollai le spalle. – A quanto pare c’è un incontro tra Washington, qualche militare e i Figli della Libertà laggiù. – Infilai la lettera nella tasca di calzoni e scesi dal tavolo cigolante, cercando di acquistare stabilità. – Sai, dare a mio figlio la soddisfazione di non essere lì sarebbe troppo misericordioso da parte mia. – Lo guardai con un mezzo sorriso che non ricambiò. Andiamo, sono davvero così cattivo? Io ti pago, vecchio mio. Ora ridi o dirò a tutta New York il segreto del tuo dannato nomignolo. Non rispose al mio ordine mentale. Peccato. – Be’, grazie mille, Tic. Hai rischiato la vita per salvarmi, meriti una mancia. – Gli lanciai un pugno di sterline, nonostante non le meritasse per non aver riso alla mia battuta. Ehi, non si può avere tutto dalla vita, giusto? – Potresti solo… ridarmi i miei vestiti? Se uscissi così non potrei fare un passo senza che una donna mi salti addosso. La tua Kate deve esserti davvero fedele per aver resistito al mio fascino.
Tic scoppiò a ridere, stavolta. Ah, finalmente hai capito come guadagnarti la pagnotta, Scheggia. – Certo, signore. I vostri indumenti non erano ridotti benissimo, ma attualmente indosso tutto il mio guardaroba. – Mi sentii un po’ in imbarazzo. Quell’uomo non solo aveva preso una lettera per me, ma era venuto a consegnarmela rischiando la vita e salvandomi da morte certa. Insomma, meritava decisamente più di venti sterline.
Mi lanciò la camicia appallottolata, un gran buco all’altezza della ferita che mi aveva inferto Reginald e l’orlo strappato. Era ancora macchiata di sangue, comunque meglio di niente. Uscire di lì senza un cappotto non sarebbe stato facile, ma Tic aveva già fatto fin troppo per me. Ne avrei comprato uno in città. – Ancora grazie. Continui a tenere le orecchie aperte?
Lui si grattò la testa con le unghie sporche, allungandomi la polsiera con l’altra mano. – Per quanto mi è possibile, signore. Sapete, è stato solo per un grosso colpo di fortuna se sono riuscito a trovarvi. Due giubbe rosse si sono messe a parlare di Birch e Lee, hanno blaterato qualcosa su un prigioniero e ho origliato fino a capire dove andare. – Sospirò. – Davvero, una grande botta di culo.
Sogghignai, sfiorando la pistola con la punta delle dita e controllando che la lama scattasse. Clic. Perfetta. Non deludeva mai. – Senti, avrei solo un ultimo favore da chiederti, d’accordo? Niente di che, solo un’aggiunta alla lista delle persone da tenere sotto controllo. – Si chinò in avanti per ascoltarmi meglio. – Sì, ovviamente aumenterò il tuo compenso. Comunque, ascoltami. Si tratta di Alice Jackson.
Tic aggrottò la fronte. – Alice Jackson?
– Esatto, Jackson. Dovrebbe vivere qui. Non so dove, di preciso, ma con lei pare ci sia anche la figlia. – Sospirai. Non era molto e lo sapevo, ma l’avevo dimenticata per troppo tempo. Era stata una parte importante della mia vita, per quanto breve, e non potevo permettere che finisse in quel modo. Avevo tentato di ucciderla. Non potevano essere quelle le mie ultime parole, quelle sussurrate dalle mie dita ferree sul suo collo. Non l’avrei permesso. – Credi di poterla trovare?
Tic si diede un colpetto sulla tempia. – Jackson. D’accordo. Credetemi, signor Kenway, non avreste potuto scegliere uomo migliore per un incarico del genere. Conosco ogni buco di New York.
Sospirai. – Immagino che sia necessario, quando si deve sfuggire ai creditori.
– A-ah, spiritoso – grugnì Tic. Sì. – Comunque, questa città non ha segreti per me. Se la signora vive qui, potete star certo che la troverò. Vi farò sapere.
– Potrei anche farmi vivo io, di tanto in tanto. Sai, Tic, New York è un bel posto.
Ridacchiò. – Immagino che se riuscissi a trovare questa Alice correreste qui come un bracchetto dietro alla lepre, dico bene? – Fece un inequivocabile cenno con la mano verso il basso e roteai gli occhi con un sorrisetto. – Alla prossima, signore.
Gli rivolsi un cenno con la mano. – Alla prossima. Sai dirmi dove posso trovare una sartoria?
– Vi sembro tipo da sartorie?
Sogghignai e lo salutai un’altra volta, stringendomi nelle spalle mentre lui mi apriva la porta. – Tieni d’occhio la città, Tic. Non sembra un posto noioso.
Tic sorrise di rimando. – Oh, non lo è. Credetemi.
Sbuffai e il mio fiato si condensò in una nuvoletta candida. Cristo. – D’accordo, mi piacerebbe restare a parlare qui delle grandiose feste tra indebitati che si svolgono nei vicoli, ma devo andare. – Gli feci un ultimo sorrisetto. – Ho una nave da prendere e mi piacerebbe avere ancora abbastanza dita da potermi reggere al parapetto. Insomma, nove sono già poche, per uno schermidore.
– A proposito, signore, come…
– Un’altra volta, Tic. È una storia divertente, sul serio, ma un’altra volta. 
  
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