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Autore: Xima_    23/04/2014    4 recensioni
{ Personaggi serie Metal, BeyWhezzel e OC | AU!Sovrannaturale | ispirata al manga “Bibliotheca Mystica de Dantalian” }
Non ha mai fatto male a nessuno leggere un libro, giusto? Eppure, ci sono testi che è bene non siano letti. Libri che non dovrebbero nemmeno esistere, poiché un destino terrificante attende chi si azzarda a leggerli. Questi testi devono essere custoditi in un posto sicuro, una leggendaria biblioteca dove vengono raccolti libri con un potere immenso: la Bibliotheca Mystica de Illusion.
Sarà compito di una ragazza, Miku Kurogane, figlia del Custode della biblioteca e nipote del grande Bibliotecario Nero, trovare questi libri pericolosi, prima che finiscano in mani sbagliate. Verrà aiutata da una persona particolare, precisamente da un demone, che tutti conosciamo con il nome di “Principe dell’Ade”

Scusate per questa fan fiction penosa, ma quando mi viene in mente qualcosa niente mi ferma. Io, grande amante del soprannaturale, non potevo trattenermi nel scrivere qualcosa di questo genere, e, grazie al manga che ho da poco comprato, è spuntata fuori questa idea. Spero vi piaccia.
Xima_

(Capitoli uno, due, tre revisionati)
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Damian Hart, Nuovo personaggio
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Pagina due
 
 
I P r i n c i p e  d e l l ' A d e
- The Prince of Hades -
 
 
「 Ehi, lo sapevi? I demoni esistono davvero. 」
「 Huh? Che cosa stai dicendo? 」
「 Io ne conosco uno, si chiama Damian ed è il mio migliore amico. 」
「 ... 」
「 Non mi credi, vero? 」
「 Certo che no, stupida. 」

 
 
Era tutto buio. Regnava il silenzio e nessuno osava spezzare quella eccezionale tranquillità. Era uno spazio privo di pavimenti o di soffitti, senza inizio o fine: il vuoto infinito. In mezzo a quella fitta oscurità, si confondeva una figura raggomitolata su di sé, come a formare un guscio, avvolta da un mantello color oro: un ragazzo che mostrava quindici anni, ma l'apparenza inganna. I suoi capelli, dalla capigliatura strana, erano di un innaturale azzurro pallido. La pelle diafana quasi rischiarava quel luogo tetro e spaventoso. Le palpebre, chiare e cadaveriche, erano chiuse in un sonno profondo senza sogni e senza incubi. Ma in verità lui attendeva. Attendeva il momento giusto per risorgere dalle tenebre e per portare paura e morte, disgrazia e odio, sentimenti neri. Voleva solo questo: il potere assoluto. 
Aspetta il momento giusto” gli avevano detto, “e tutto quello che desideri sarà tuo”. Ma  era stufo di aspettare. Erano passati anni, decenni e secoli, ma non aveva ottenuto nulla. Non gli bastava essere il principe dell'Ade, colui che regnava nel mondo dei morti, lui voleva essere il re di tutto.
Se hai il potere tutti ubbidiranno a te. Non sarebbe fantastico?”. Il sorriso di una persona amata risorse dai suoi ricordi, pronunciando quelle parole così vere e melodiose. “Nessuno ci tratterà più così, vivremo per sempre felici e contenti”. Una fiaba, un'utopia, una visione irraggiungibile in cui perfino i re e dittatori della storia ci avevano sperato, ottenendo solo il sonno eterno.
Un fragore improvviso lo fece sussultare. Sul suo volto si dipinse un sorriso diabolico, i suoi canini spuntarono dalle labbra, vogliose di addentare qualcosa. E finalmente le sue palpebre si aprirono, mostrando delle iridi glaciali.
 
Era l’ora di risorgere dalle tenebre.
 
 

 
 
Intanto sulla Terra, in un paesino nipponico sperduto, dominava la monotonia. Nessuno poteva immaginare che, da un momento all'altro, fosse in gioco il futuro del pianeta. Ma gli umani come potevano sapere che esistevano entità superiori che li osservavano dall'alto?
 Anche io, come una comune abitante del pianeta Terra, vivevo una normale vita da studentessa, ignorando questa realtà. Insomma, entità sovrannaturali... Come alieni, fantasmi e demoni? Perché avrei dovuto credere a queste idiozie?
Eppure ascoltando i miei compagni, molto interessati all'argomento, iniziai a comprendere quanto gli esseri umani siano creduloni e pieni di fantasia. Da più di un'ora discutevamo sulla probabilità di altre forme di vita, tra battibecchi e ipotesi stupide.
E io sinceramente mi annoiavo. Di solito era la prima ad ascoltare la lezione, ma quelle cavolate non servivano né per la mia cultura né per il mio futuro. Che utilità potevano avere nella vita? Salvarmi da un gruppo di vampiri con aglio e croci? Far resuscitare qualche morto? Parlare con gli alieni? Magari mi avrebbero fatto salire sui loro UFO.
Fu la prima volta che odiai così tanto il professore di scienze, Dunamis, visto che era stato lui a tirare fuori l'argomento. E i miei compagni che lo avevano seguito a ruota, pur di saltare un'ora di spiegazioni noiose.
Quando suonò la campanella, mi sentii così libera. Tirai un sospiro di sollievo e uscii di fretta dalla classe, ignara che il professore aveva appena assegnato una ricerca sull'argomento.
 
 
La WBBA era la scuola più antica di tutto il Giappone, nel centro di un piccolo paese chiamato Komamura1. Fondata nel secondo dopoguerra dalla aristocratica famiglia Hagane, era diventata famosa per l'efficienza, l'ottimo personale scolastico e le attività extra-scolastiche che metteva a disposizione.
Ogni anno si iscrivevano in molti, addirittura l'edificio era diventato troppo piccolo per ospitare tutti i giovani. Adesso era diventato un sogno entrare in quel liceo, dovevi superare gli esami d'ammissione.
E ovviamente io ce l'avevo fatta con il massimo dei voti, come mi aspettavo. Adoravo questo posto, mi sentivo a mio agio. Soprattutto avevo trovato degli amici stupendi. Così stupendi che mi urlavano nei timpani anche durante l'unico momento di pausa, ovvero l'intervallo.
Mentre tentavo di leggere un libro imprestatomi da una compagna, con la testa annoiata sorretta dalla mano, quattro ragazzi (due maschi e due femmine) stavano discutendo animatamente sull’argomento trattato nell'ora di Dunamis, attorno al mio banco.
«Vedi che gli alieni esistono eccome!» disse decisa una ragazza, Mei-Mei, agitando le braccia. «E ho le prove, io ne ho visto uno». I suoi grandi occhi, che esprimevano la sua felicità incontrollabile, brillarono d’euforia.
I suoi capelli erano di uno strano colore, verde-acqua, raccolti in due crocchie dalla forma di odango. Maldestra, goffa e piena di allegria, capace di contagiare anche degli emo. Per lei passare un attimo a far niente era uno spreco della propria vita; per me se stava un secondo zitta e ferma era un miracolo per la mia vita.
«Come no! Se esistono, perché non si fanno vedere? Perché non sono ancora venuti a rapire qualcuno? Se sono più evoluti e tecnologici, sicuramente si sarebbero mostrati e vantati di fronte a noi» protestò un ragazzo dai bizzarri capelli rossi che sfidavano la forza di gravità.
Gingka Hagane era il figlio del preside della WBBA, inoltre vicino di casa, un tipo simpatico, gentile e  sempre disponibile. Un fidanzato ideale, starete pensando, ma vi sbagliate di grosso: la sua stupidità  superava ogni limite.
Stessa cosa vale per il suo inseparabile amico sbruffone Masamune Kadoya, intento a mangiare le sue patatine. Ogni tanto prendeva fiato, poi ripartiva in quinta divorando la merenda. Il suo stomaco era identico a un buco nero, quando qualcosa entrava, non sapevi dove finisse. Anche se mangiava come un maiale, era magro come un chiodo.
«Se esistessero, forse ci userebbero come cavie nei loro esperimenti» commentò.
«Di sicuro non userebbero il tuo encefalo, è microscopico» dissi fredda, senza staccare lo sguardo dalla pagina, mentre lui domandava a Madoka cosa fosse l'encefalo.
Madoka Amano era l'ultima componente del gruppo, diciamo la mia salvezza. Una sedicenne dal viso tenero e grazioso, con degli enormi occhi celesti. Gentile e  davvero intelligente. Unico difetto era la poca pazienza: se la facevi arrabbiare, erano guai seri, insomma morte certa.
«Se è per questo nemmeno quello di Gingka! Sono troppo stupidi!» urlò Mei-Mei, indicando i due amici.
Senza pensarci, i due iniziarono a rincorrere la cinese, creando un gran trambusto. Volavano banchi e sedie di qua e di là. Per fortuna il professore era uscito per bere un caffè. Mei-Mei sembrava divertita, ma né lei né gli stupidi erano consapevoli che la loro vita era in pericolo. Infatti Madoka era avvolta da un'aura nera spaventosa. Dopo due secondi si scatenò il putiferio: la castana alzò un banco, come una lottatrice di wrestling, e lo lanciò dritto verso i tre, che si salvarono per miracolo.
Iniziò una battaglia continua, che fui costretta a fermare, anche se controvoglia.
I  tre sopravvissuti mi lodarono come loro salvatrice e, dopo aver ripreso fiato, Gingka tornò sul discorso di prima.
«Comunque dobbiamo fare lo stesso la ricerca di Dunamis. Io porterò i fantasmi!»
«Scordatelo! Li porto io!» ribadì Kadoya, premendo il pollice sul proprio petto.
Ci mancava solo che litigassero. Ormai erano così frequenti che nessuno ci faceva più caso. Per decidere il vincitore se la giocavano in gare stupide. Stavolta capitò uno scontro di boxe.
«Stop!» li fermai, stufa di non riuscire a leggere in santa pace. «Ve la giocate a morra cinese come dei normali cristiani.»
«Io non sono cristiano.»
«A chi importa, Kadoya!»
Alla fine vinse Gingka.
«Invece tu cosa porterai, Miku-chan?» mi domandò Madoka, mentre i due litiganti ancora si fulminavano con lo sguardo.
Misi nello zaino il libro che stavo leggendo. «Ci devo riflettere.»
«Una scelta davvero difficile!» scherzò Hagane, che aveva lasciato perdere il suo amico e si era avvicinato al banco con una sedia.
«A dir la verità, non mi interessa granché.»
«Meglio delle spiegazioni sui moti dei pianeti. Sai che noia!» disse Mei-Mei.
«Quella che ti manca è la voglia. Se continui così non imparerai un bel niente». Conoscevo benissimo i suoi voti, e la stessa cosa valeva per il Duo Baka. «Lo stesso vale per voi, Hagane e Kadoya».
«E non farmi la predica!» sospirò disperato il rosso, stendendosi con le braccia sul banco, stanco. «Sei più assillante di mio padre.»
«Secondo me, quest'anno è quello giusto che ti bocciano!»
«Meglio se non parli proprio tu, Masamune!»
«Nemmeno tu, Mei-Mei!» l'ammonì Gingka.
E ripartì un altro battibecco.
Sospirai annoiata, lanciando uno sguardo al cielo, esasperata. Ragazzi, che monotonia!
“Vi prego, alieni proveniente da Marte, Giove, Saturno o qualsiasi altro pianeta o galassia, portatemi via!”.
Forse meglio chiedere a un demone?
 
 
Al suono dell'ultima campanella, tutti i ragazzi erano fuggiti dalle proprie classi, contenti di aver passato un'altra giornata pacifica. Anche io, dopo aver finito con il turno di pulizie, mi ero avviata con tutta calma verso casa. Appena entrata, buttai con poca delicatezza lo zaino vicino all’attaccapanni e le mie scarpe in un angolo, insieme ad altre accumulate una sull’altra.
A casa mia c’era sempre molto disordine, come se fosse appena passato un tornado; la voglia dei miei familiari di pulire era poca, così nessuno badava a sistemare tutto. Ma in fondo aveva un aspetto accogliente. Anche se non era tutto in ordine, non si poteva dire che fosse un luogo sporco.
Pensai di riposarmi un po’, dopo quest’altra giornataccia. Andai in salotto e trovai una signora cicciottella sulla ottantina intenta a russare su una poltrona passata. Nonna Rika era una pigra anziana che adorava passare le giornate a poltrire davanti alla televisione. Perché non poteva essere come tutte le nonne del mondo? Quelle che pensano sempre ai nipoti e preparano loro dei piatti gustosi che fanno ingrassare almeno dieci chili.
Poiché ormai ronfava, spensi la televisione, ma purtroppo la svegliai.
«Perché l’hai spenta? La stavo guardando!» sbraitò, sputacchiando a ogni parola.
Sospirai pesantemente, abituata a quella routine pomeridiana. Riaccesi la tv e mi avviai in cucina alla ricerca di qualcosa che calmasse la mia fame.
Fui accolta da un gracchiare stridulo seguito da un “Ciao, ciao!”. Un pappagallo dalle piume bianche con un ciuffo erettile giallo si muoveva agitato nella sua gabbia appesa vicino alla finestra, forse rallegrato del mio arrivo. Odiavo a morte Mister Parrot, ricevuto in regalo da una parente australiana della mamma, perché non stava mai zitto. Schiamazzava tutte la parole che imparava, senza alcuna logica; oltretutto era costantemente agitato e riusciva con il suo becco nero a uscire dalla gabbia per poi svolazzare per casa. Mi ero informata sulla sua specie, i Cacatua, classificata tra le più parlanti del mondo. Ero tentata di strappargli le piume e poi le corde vocali.
«Ciaoo! Pronto? Bakaa bakaaa!!» strillava per attirare la mia attenzione.
«Taci, stupido pennuto. Non sono dell’umore giusto» dissi a denti stretti, mentre mi riempivo un bicchiere d’acqua.
All’improvviso, un rumore assordante di oggetti che cadevano echeggiò sulla mia testa, spaventando anche Mister Non-sto-un-attimo-zitto, che sobbalzò sul suo appoggio di ferro. Proveniva dalla mia camera da letto.
Dopo essere ripassata dal salotto, dove nonna Rika aveva ripreso il suo pisolino, corsi veloce sulle scale di legno che portavano al piano superiore, fino ad arrivare davanti alla mia stanza, la cui porta era spalancata. Il suo stato mi sconvolse: era tutto a soqquadro. La mia perfetta e ordinatissima camera non esisteva più!
Trovai il colpevole, il solo ed unico, di quel disastro, che non appena incontrò il mio sguardo furioso si nascose sotto il letto.
«Maledetto!» tuonai, tirandolo fuori dal rifugio sicuro dalle gambe.
Una figura bassa, con un buffo ciuffo arancione, si proteggeva dalla mia ira con le braccia, mentre dagli occhi dello stesso colore dei miei sgorgavano grossi lacrimoni.
Ecco Zero Kurogane, il mio carissimo fratello di dieci anni, il più piccolo della famiglia. Fin troppo euforico, vivace e giocherellone. Era lui che dava vita a questa casa. Mi guardava con i suoi occhietti da cucciolo bastonato, velati dalla sua ovvia colpevolezza, ma non mi lasciavo incantare: anche se non sembrava, dentro di lui si nascondeva il demonio.
«S-sorellona…» farfugliò tremante, mentre cercava di trovare una scusa credibile per discolparsi.
«Cosa-ci-fai-qui?!». Forse la mia domanda fu urlata con aggressività, perché Zero indietreggiò verso l’uscita e il solito rossore che colorava le sue paffute guance era sparito.
Balbettò qualcosa, ma non capii niente. Troppo spaventato per darmi una spiegazione, scappò a gambe levate, ancora in lacrime, verso il suo nascondiglio segreto in giardino. Sospirai sonoramente chiudendo la porta, lasciandomi poi scivolare a terra. Con poca forza, mi rialzai e riordinai la stanza alla veloce. Ma ero così esausta.
Zero aveva catapultato tutto in aria, peggio di una ladro professionista.
Sollevai lo sguardo verso l’unica finestra, di fronte alla porta. Entrava poca luce, fuori si stava preparando un bel temporale, ma abbastanza da farmi vedere dov’era il letto e buttarmici sopra.
I miei occhi blu erano spenti come il cielo, troppo stanchi per rimanere aperti fin dopo cena, ma dovevo studiare per la verifica di fisica di domani.
Eppure lasciai perdere, osservando con sguardo vacuo il soffitto blu con le decorazioni del sistema solare. Amavo l’astronomia e l’astrologia, tutto ciò che riguardava i corpi celesti e le loro mitologie. Mi ero appassionata grazie a mio padre, che ogni sera, seduti sul tetto della casa, mi raccontava qualcosa sulle stelle, anche se la mamma ce lo vietava. Lui amava la costellazione del cavallo alato, Pegaso, invece io era rimasta incantata dalla galassia d’Andromeda.
Mi mancava molto papà, ero quella che aveva patito di più la sua morte, avvenuta per cause ancora sconosciute. La polizia non aveva alcun indizio da cui aprire il caso, così l’aveva dichiarato suicidio, tanto per chiudere la questione. Ma lui non avrebbe mai abbandonato la propria famiglia. Mai. Doveva essere stato per forza qualcuno, un collega di lavoro o un amico, ma comunque una persona che lo conosceva e che volesse qualcosa da lui, ma cosa?
Restai un po’ sdraiata sul letto a riflettere, tra le coperte ancora disfatte impregnate di un odore acre e stuzzicante. I capelli castani, raccolti in due code alte, erano sparpagliati sul cuscino, crespi e poco curati. Lo ammetto: non mi ero mai presa cura del mio corpo. Non che non m’importasse, ma non era una cosa così importante come la scuola.
Mi alzai, mentre facevo leva per mettermi in piedi e dirigermi verso la libreria accanto alla  scrivania. Anche lì nessun libro era messo in ordine, tutti buttati a terra. Chissà cosa stava cercando Zero per ridurre così questo posto. Magari la Nintendo DS che gli avevo sequestrato perché aveva preso tre volte di seguito delle insufficienze gravi in matematica.
Mentre raccoglievo i miei testi, scolastici e non, il mio sguardo finì su uno in particolare e fermai la mano a mezz’aria. Era il libro nero che mi aveva regalato zio Ziggurat l’ultima volta che ero andata a fargli visita, ben sette anni fa.
Anche lui era morto, poco dopo la nostra visita. Come per mio padre, l’assassino era ancora in circolazione, c'era una lunga lista di sospettati vista la sua fama nel litigare con altri bibliotecari.
Quel libro nero sembrava minacciarmi con la scritta rossa “Hades”. Da quando me lo aveva donato, non l’avevo mai aperto, per niente interessata a leggerlo e in parte impaurita dalla frase detta da Ziggurat: «E’ un libro molto speciale. Quello è… il libro della morte».
Non lo presi molto sul serio quella volta, troppo ingenua per capire se quello che mi aveva detto fosse vero oppure uno stupido scherzo.
Ma adesso, la mia mano si mosse da sola, fino a sollevare il libro. Lo rigirai tra le mani. Spolverai la copertina e continuai a scrutarlo attentamente. Sembrava chiamarmi, dirmi che dovevo aprirlo e leggerlo. Eppure… avevo paura, paura di sfogliare quelle pagine.
 
«Invoca il mio nome.»
 
Mi bloccai di colpo, guardandomi attorno, ma non c’era nessuno. Zero non poteva essere stato, anche se gli piaceva fare gli scherzi, non mi avrebbe innervosito ulteriormente e nonna Rika dormiva come un orso in letargo e avrebbe continuato così per altre tre ore di fila. In conclusione: lo stress mi stava portando alla pazzia.
 
«Sono qui.»
 
Lasciai scivolare il libro dalle mani e indietreggiai spaventata più che mai, fino a poggiare la schiena contro il letto. Se era uno scherzo, non era divertente.
Il libro nero era poco distante da me, ancora chiuso.
«L-lasciami stare...» balbettai, mentre le lacrime mi rigavano il volto, dandomi poi della stupida perché parlavo da sola.
Aspettai secondi, forse minuti, tentando di calmarmi e convincermi che era tutto un'illusione dovuta alla stanchezza. Così mi alzai e presi quel dannato libro nero. L’avrei rimesso dov’era e mai più l’avrei toccato, questa era la mia intenzione. Ma una parte di me non ascoltò.
Troppo curiosa di sapere cosa avesse di speciale, sfogliai le pagine, ma con mia grande sorpresa vidi che erano tutte bianche. Intanto, tutto quello che mi circondava sembrava essere sparito, esitavamo solo io e quel libro.
Mi concentrami sulla pagina, segnata dal cordoncino rosso di stoffa, e trovai scritte alcune parole sbiadite ma leggibili.
Lessi ad alta voce. «I-io ti d-domando… Sei umano?»
Che domanda era? Senza alcun senso. Magari era uno stupido libro utilizzato nei riti funebri nell’antichità. Che cavolata.
«No, lo nego.»
Mi coprii gli occhi con le braccia, non ebbi il tempo di urlare che fui avvolta dal buio.
 
 
Un forte dolore mi martellava la testa, così forte che forse sarebbe scoppiata come un palloncino. Cos’era successo? Mi ero addormentata?
Aprii pigramente le palpebre, infastidite dal chiarore della luna proveniente dalla finestra, unica fonte di luce della stanza. La luna? Quindi era arrivata la sera?
Mi stropicciai gli occhi, cercando di ricordare come mi ero addormentata sul pavimento. Tutto mi tornò in mente e feci in tempo a voltarmi per vedere Hades ancora aperto. Possibile che fosse stato quell’oggetto a provocare quella nube oscura?
«E finalmente la bella addormentata aprì gli occhi.»
Il mio cuore smise di battere e credetti di svenire quando sentii quella voce. Puntai lo sguardo verso la finestra e i miei occhi blu oltremare spalancarono dalla sorpresa: le tende, color panna, si muovevano delicate in sincronia col vento, coprendo in parte una figura bassa seduta sul davanzale. I raggi lunari si riflettevano sui capelli azzurri dello sconosciuto, facendolo sembrare un angelo. La sua pelle era pallida come quella di un cadavere, vestita da un tuta bianca e un mantello dorato, in perfetto contrasto con il collare nero che portava al collo, simile a quello di un cane. Era voltato verso l’esterno della casa, intento a osservare la bellezza del nostro satellite naturale che splendeva in quel cielo notturno, schiarito finalmente dalle continue nuvole scure cariche d’acqua.
Rimasi incantata davanti al suo fascino e pensai solo in un secondo momento che quello era uno sconosciuto, per di più apparso dal nulla, e che si trovava in camera mia. Chi era quel ragazzo? Com’era arrivato lì? Che fosse un’altra illusione dovuta alla stanchezza?
No, quel ragazzo non era il frutto della mia immaginazione, era lì e me lo stavo mangiando con gli occhi, quasi volessi consumarlo.
Si voltò lentamente verso di me e mi congelò con lo sguardo di ghiaccio. Le iridi grigie-azzurre mi stavano scrutando, quasi volessero leggere i pensieri che mi affollavano la testa.
Ero affascinata quanto terrorizzata. Presa dal panico, afferrai velocemente la prima cosa a portata di mano, un dizionario, portandolo davanti a me per difendermi.
Lui rise divertito e scese con grazia dal davanzale, per poi avvicinarsi lentamente.
Quel ragazzo… io lo conoscevo, ne ero sicura. Ma dove l’avevo visto?
La mente era troppo annebbiata per rispondermi, lo sconosciuto dai capelli azzurri era a pochi metri da me.
Un passo e poi un altro, le distanze tra di noi si stavano accorciando. Indietreggiai spaventata, sempre con il dizionario teso in avanti, pronta ad attaccare a qualsiasi  sua mossa.
Lui ridacchiò di nuovo. «Hai paura?»
Da cosa l'aveva dedotto? Dal mio corpo che tremava o dalle lacrime che continuavano a scendere copiose dai miei occhi?
Un altro passo e il mio cuore palpitava forte nel torace dalla paura. Quando mosse il piede per avvicinarsi ancora, lanciai il dizionario. La botta l'avrebbe colpito così forte da farlo svenire. O almeno così pensavo.
Il libro si fermò a mezz'aria, a pochi centimetri dal suo volto, e, improvvisamente, divenne polvere. Un cumulo di carta cadde sul pavimento, come se fosse stata bruciata. Non aveva mosso un muscolo, com'era possibile?
Ne rimasi scioccata, lui rise di nuovo. «Ritenta» disse divertito, «magari sarai più fortunata.»
Cercai qualcos'altro da lanciargli. Presi ciò che era ancora per terra, una lampada, dei peluche, biro e matite... Ma fecero tutti la stessa fine: carbonizzati.
Alla ricerca di altre munizioni, non mi ero accorta che ero con le spalle al muro, bloccata dal suo corpo. Il suo respiro era caldo, lo sentivo sulla pelle. Gli occhi bramavano qualcosa di pericoloso, mi guardava come se fossi già sua.
Avrei potuto chiamare qualcuno, così quell'incubo sarebbe finito. Tutto finito.
Ma il pianto mi impediva di urlare, i singhiozzi rompevano il silenzio della stanza. Avevo paura, non potevo negarlo. Era la prima volta che mi mostravo indifesa. Di solito ero la fredda Miku Kurogane che non aveva paura di niente e nessuno.
Invece in quel momento volevo qualcuno che mi abbracciasse e che mi dicesse che era solo un incubo.
La sua mano sinistra cercò la mia guancia, così calda che potevo scogliere le sue dita ghiacciate. Iniziò a carezzarmi, con una dolcezza invidiabile, e asciugò le mie lacrime. «Sssh, stai tranquilla» sussurrò. «Sentirai solo un po' di dolore.»
Non ebbi il tempo di far alcunché, le sue labbra fredde si sovrapposero alle mie, infuocandomi l’anima. Non era voglioso, ma un puro e semplice bacio.
Il mio primo bacio rubato da uno sconosciuto. No, da un demone.
Improvvisamente un bruciore invase il petto. Mi sentii morire e volevo urlare, ma le sue labbra me lo impedivano. Mi sentivo così pesante, le forze stavano per sparire e le gambe non reggevano più il mio peso. Quel bacio mi stava rubando l’energia. Dovevo fermarlo o sarei morta da un momento all'altro.
Lui sembrò leggermi il pensiero: smise di baciarmi, finendo col passare la lingua sulle mie labbra, lasciando una piccola scia di saliva. Sorrise soddisfatto. Soffiò sulle mie labbra.
«Ora dormi.»
La mia vista si annebbiò e le gambe cedettero.
 
 
«Buonanotte, Miku».

 
1. Komamura è la citta natale di Gingka.
 
 
Fine pagina due

Angolo Autrice disperata!!
Chiedo perdonooooo! Perdonooo! 
Mi scuso davvero con l'immenso ritardo, avevo promesso di aggiornare presto, ma c'è stato un imprevisto.
La storia si è cancellata ed ero disperata. Ci ho messo due mesi solo a riscrivere questo capitolo.
Oltre al ritardo, non mi faccio manco più sentire. Per chi aggiornasse le sue storie che io seguo, chiedo perdono (di nuovo).
Spero che anche questo vi sia piaciuto come il precedente, per qualsasi errore o incomprensione, non esitate a dirmelo.
Accetto anche critiche.

Sayonara,
Xima_

 
 
  
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