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Autore: Umpa_lumpa    18/07/2008    5 recensioni
Ormai, la dittatura di Freezer acquista sempre maggior potere. Eserciti vengono inviati su ogni pianeta, popoli sterminati e schiavizzati. Sarà mai possibile sfuggire alla morte?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cronache di un’emigrante




Le gambe continuavano a rincorrersi fra loro, quasi fossero state in gara. Il grano sfiorava dolcemente le caviglie, solleticandole e pizzicandole in una strana movenza, fastidiosa e piacevole al tempo stesso. Nell’aria, la risata cristallina di una giovane bambina di soli 3 anni risuonava quasi fosse l’unica del mondo. Poi, una caduta, un piccolo taglio. Il rivolo di sangue, puro, trasparente e vitale come l’acqua, sgorgò dal graffio situato sul ginocchio finché due mani violacee non provvidero a tappare la piccola ferita.

Non ricordo di più di mio fratello.
Probabilmente quella era stata l’ultima volta in cui l’avevo visto, prima che si unisse ai ribelli e ci lasciasse soli. Il tutto per una guerra che non gli apparteneva, il tutto perché ormai la sopravvivenza era più importante di ogni cosa, persino più rilevante del volto di mio fratello.
Ero nata mentre il regime di Freezer aveva già preso piede ed il suo esercito si espandeva ome una macchia d’olio. Benchè non fosse ancora arrivato su Kamiel, la futura morte era già manifesta, e tutti sapevamo che era solo questione di tempo prima che anche lì arrivassero quegli assassini. Per questo quel ragazzo, di cui ricordavo soltanto le mani callose, si era unito alla resistenza ed era scomparso dalla nostra vita.
Sinceramente, non ero nemmeno particolarmente interessata a ricordare qualcosa di più di quel familiare, ritenendo che la mia memoria, in quel momento, fosse troppo importante per poter essere sprecata nel ricordo di qualcuno che sicuramente non avrei mai più rivisto.
Probabilmente era meglio usarla per custodire ogni momento con il mio ragazzo.
Anche in tempo di guerra ci può essere amore, ed i miei giovani quindici anni lo reclamavano senza ritegno. Tutto cambiò, però, quando i miei genitori ricevettero quella lettera. Il loro primo genito, venuto a sapere del futuro sbarco dei soldati nemici sul nostro piccolo e pacifico pianeta, ci raccomandava di fuggire al più presto. Non c’era bisogno di informare nessun altro di quella notizia, non si doveva provocare un esodo di massa. In guerra la lealtà nei confronti altrui non ha alcun valore; l’unica cosa che conta è la propria vita.
Per quanto la nostra piccola patria non fosse particolarmente evoluta o prosperosa, si poteva trovare qualche navicella vecchia ma ancora ben funzionante. Naturalmente, ogni cosa ha un costo e di certo, la possibilità di una via di fuga ha un prezzo molto alto.
Ma cos’altro avremmo dovuto fare?
Semplicemente lavorammo come non mai, ci privammo della parola “riposo” per poter ottenere quell’unica via di scampo.


Quella fu la mia ultima notte sul mio pianeta natale.
A dire il vero non fu nulla di speciale o plateale, solo una serata stesa sull’erba, accanto al ragazzo di cui ero innamorata.
Non c’era molto da dire, o chissà quali parole da scambiare, forse per la semplice consapevolezza che io mi sarei salvata, almeno per il momento, lui no. Da lì a pochi giorni sarebbe morto per mano di quei carnefici di cui tanto avevamo sentito parlare e ciò che maggiormente mi turbava in quel momento era il fatto di non poter neppure sapere il volto di chi avrebbe strappato colui che amavo da quella strana esistenza. Era vuoto, angosciante non poter conoscere il viso di qualcuno fautore del destino e penso che anche lui ne fosse convinto. Brutto non sapere per mano di chi morirai.
Non credo, comunque, che avrei mai potuto dimenticare quella sera, neppure volendolo.
Kamieil non era un bel pianeta: non era disseminato di campi fertili, il suolo era alquanto piatto e monotono, il cielo di uno strano verde che dava quasi il volta stomaco. La notte, poi, era scurissima, tanto che persino vedere al di là del proprio naso diveniva un’impresa sovrumana.
Ma cosa poteva importarmi?
Era la mia terra, e mai come in quel momento sentivo il bisogno pressante di imprimere ogni odore, ogni suono in tutte le fibre del mio corpo, nelle mie cellule, sulla mia pelle. La nostra patria, per quanto possa essere brutta, è pur sempre casa nostra, una parte di noi e dei nostri ricordi. Ed io ero sempre stata legata ad essa.



Non saprei dire quanti pianeti visitai, nel giro di pochi mesi. Ogni volta era un nuovo luogo, nuove facce, nuove vite da dover assimilare, da dover incorporare nel residuo di una vita passata.
Le stelle che scorrevano velocemente al di là dell’oblò della navicella erano diventate uno spettacolo monotono e stressante, ripetitivo.
Ogni volta, mio fratello ci inviava di nascosto una nuova lettera. Poche parole che ci intimavano soltanto di scappare, non credo ci fosse bisogno di dire altro. Ed ogni volta bisognava ripartire, perché la mano della morte era veloce, ma noi lo dovevamo essere di più.
Lo ammetto: delle volte arrivavo a chiedermi il perché di quella snervante fuga. Mi sentivo talmente perseguitata, seguita in ogni angolo, incapace di vivere una vita che dover continuare a fuggire non sembrava voler avere senso.
Erano solo attimi, però, giusto il tempo di rendersi conto che in tutta quella guerra e quegli stermini era ben poco  ad avere senso. Ed a quel punto, scappare tornava ad essere la reazione più sensata perché la vita era l’unica cosa che avesse senso preservare, quasi come se un domani potesse ritornare utile a qualcosa.


Erano ormai un pochino di mesi che ci eravamo stabiliti sul pianeta Gyps ed ormai eravamo quasi convinti fosse la nostra nuova dimora. Abitavamo nella modesta capanna di un piccolo paesino e ci sentivamo bene con noi stessi. Era bello dedicarsi alla vita familiare, lavorare, sudare per ottenere un raccolto e penare le pene dell’inferno per riscaldarci: sembrava quasi come se, d’un tratto, quella corsa frenetica si fosse arrestata, come se quella realtà nera, opprimente fosse scomparsa.
Questo finché non sbarcarono.
Non credevamo potesse accadere proprio in una sera così tranquilla…..in fondo come può la calma essere il preludio dell’apocalisse?
Eppure, l’odore persistente di morte, di sangue, il calore scoppiettante ed ardente delle fiamme, le urla strazianti di dolore ed il pianto rotto, sofferto, si diffusero in un istante per tutto il villaggio.
Nessuna lettera ci aveva avvisato dell’arrivo delle truppe, ed allora capimmo che mio fratello doveva essere morto. Non sapevamo né dove, né come, né quando; l’unica certezza era che solo la fine, solo la vita recisa potevano averlo distratto dal compito di trarci in salvo.
Fu un attimo e mia madre crollò in terra prendendosi il viso tra le mani, piangendo, gridando, graffiandosi le gote viola, tale era la disperazione. Era solo questione di tempo prima che varcassero la soglia della nostra casa. Non si può sfuggire a lungo dalla morte, eppure volevamo ancora tentare quasi come se qualche Santo dimenticato da tutti potesse aver a cuore le nostre sorti e trarci in salvo.
Corsi verso mia madre, affiancando mio padre, ed afferrandola da sotto le ascelle, tentando di sollevarla. I singhiozzi si perdevano confusi nel battito del mio cuore in preda al terrore. Non ci rimase altro che darle uno schiaffo affinché si riprendesse.
Uno, due, tre passi.
La porta sul retro era sempre più vicina ma, ahimè, mio padre non fece in tempo ad aprirla che un raggio lo trafisse da parte a parte, strappandogli un lieve gemito di dolore.
Vidi gli occhi di mia madre spalancarsi dall’orrore, il braccio tendersi a stringere la mano del defunto marito.
Poi, anche quello scomparve.
Solo allora mi girai verso il nostro boia: un ragazzo di pochi anni più di me, dal visto altero ed i capelli a forma di fiamma. Sorrideva compiaciuto nell’aver negato a mia madre persino il piacere di un ultimo alito di calore, prima che mio padre spirasse del tutto. E quel grido, lanciato da mia madre appena le aveva reciso il braccio, sembrava averlo divertito maggiormente.
Alla vista di quel lago di sangue avrei dovuto vomitare, quanto meno piangere ma non feci nulla. Forse perché fin dal principio avevo saputo che era questo ciò che ci aspettava.
Lasciai che le budella mi si contorcessero dal dolore, che respirare diventasse sempre più doloroso, che quelle fitte atroci scuotessero le mie membra nell’attesa di vedere mia madre morire lentamente, con dolore. Non mi chinai neanche ad aiutarla, sapendo che era inutile. Rimasi con lo sguardo fisso suo cadaveri dei miei genitori. Perché mai avrei dovuto spostare i miei occhi sul nostro carnefice?
Perché avrei dovuto dare a quel volto la soddisfazione di avere un piccolo ritaglio nei miei ricordi?
Ora che non avevo più nessuno con cui condividerli, continuare sarebbe stato inutile.
Per questo non mi gettai ai suoi piedi, non piansi, non implorai pietà. Avrei potuto, ma non lo feci.
Invece con lentezza disarmante mi girai e, con un gesto serafico, fissandolo nelle sue iridi scure, alzai le braccia  in un gesto che sembrava quasi voler dire: “uccidimi”.
E così fece.
Mi accasciai a terra mentre la vista ormai si appannava e tutti i contorni divenivano sfocati, ma nulla di tutto quello aveva importanza perché presto mi sarei ricongiunta ad i miei cari, avrei rivisto il volto di mio fratello, per mai più dimenticarlo.
Presto, dopo tanto tempo, sarei stata di nuovo a casa.      





Quest'idea mi è venuta stamattina, ma purtroppo non ho avuto la possibilità immediata di scriverla, perciò gran parte dell'ispirazione me la sono persa per strada e non  sono riuscita a costruire questa storia come avrei preferito. In ogni caso, contando che sono appena uscita da un blocco creativo, sempre meglio di niente! E' possibile che ci siano alcuni errori o ripetizioni, devo ammettere di non averci prestato molta attenzione e per questo mi scuso. Comunque sia, mi farebbe piacere sapere la vostra opinione e le vostre critiche riguardo questa storia. Ringrazio anticipatamente tutti coloro che saranno così gentili da soffermarsi a leggere e, chissà, anche a recensire. Saluti a tutti.

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