9.
Nightmares
- Non farmi cadere.
- Non lo
farò.
Deglutii, tremai,
mentre il vuoto che si apriva
sotto di me sembrava voler trovare spazio nel mio stomaco. La
vertigine,
fastidiosa compagna di sempre, quella volta sembrò
trasformarsi nella più
pericolosa delle nemiche.
D’istinto
strinsi con forza la mano che sfiorava
la mia sinistra, trovandola gelata come il vento che mi tagliava le
guance.
- Posso fidarmi?
La mia voce,
più sottile del solito, tremò come le
cime dei pioppi intorno a noi che si stagliavano contro il cielo al
crepuscolo
come nervose macchie d’inchiostro su un vestito di velluto
blu.
- Da morire.
– sussurrò lei, cattiva.
Così, mentre
il terrore iniziava a rompermi la
schiena, mi voltai alla mia sinistra. Di fianco a me si stagliava
quello che
sembrava l’Eremita, ma quando abbassai lo sguardo sulle
nostre mani, trovai la
sua ridotta in ossa, scheletrica.
- Grace! –
urlai, ma contro il vento sembrò un
sussurro – Aiutami Grace!
La figura incappucciata
voltò il capo.
Non riuscii nemmeno ad
urlare quando mi accorsi
che quello sotto il cappuccio era il volto di Grace, un ghigno che le
tagliava
la faccia e gli occhi bianchi come attraversati dalla nebbia.
Allargò ancora di
più quel sorriso cattivo, per poi strattonarmi e tirarmi
giù, insieme a lei.
Questa volta urlai, mentre il dirupo scorreva sotto di noi e le cime
dei pioppi
si avvicinavano a noi come se fossero state le braccia della Morte,
pronta ad
accogliermi.
Poi, la caduta si
arrestò.
La mia guancia si
trovava contro qualcosa di umido
e freddo.
- Jimmy!
Balbetto qualcosa, un
“sto morendo” che resta solo
nei miei pensieri.
Una risata, dolce e
comprensiva.
- Non ancora, Jimmy.
Svegliati!
*
Tampa, Florida, 2
Giugno 1977
Chiudo gli occhi, inspiro
profondamente.
Sembra che il mare mi
stia entrando nei polmoni, lasciando una sensazione di leggerezza di
cui avevo
nostalgia. Una libertà da qualsiasi preoccupazione che ormai
non provo da quasi
un mese, da quando Robert e Richard mi ritrovarono addormentato nel bel
mezzo
di un giardino di Birmingham. Ne susseguirono giorni di febbre, tosse,
di altri
chili persi e una nube di silenzio che mi ha isolato da tutti fino ad
oggi. Poi
arriviamo qui, nel caldo della Florida, e mi rifugio in
spiaggia,
in un
posto appartato, isolato. Solo io, il mare, il sole e
Grace.
Ormai non mi abbandona
più e mi sono abituato al fatto che per lei
finirò con l’impazzire per davvero.
Nessuno la vede, solo io. Non parla con nessuno, solo con me. Sempre lo
stesso
vestito, sempre lo stesso sorriso. Una malinconia che si porta dietro
come un
segno di riconoscimento, che rende i suoi occhi sempre più
blu, mentre la sua pelle
non accenna ad abbronzarsi con l’avanzare
dell’estate.
- Sei la Morte?
Deglutisco pesantemente,
il mio petto nudo che trema, le mie gambe ossute che si piegano
nervose. Una
goccia di sudore scende dalla fronte, ma non di certo per il caldo
soffocante.
- No. – dice con
fermezza, continuando a camminare in punta di piedi sul bagnasciuga, le
mani
dietro la schiena come una bambina che gioca a campana –
Avrei troppo da fare
per stare con te. – aggiunge scherzosa.
- Giusto. – dico,
grattandomi il mento – E allora?
- Allora cosa?
- Dimmi chi sei. – dico
infastidito, picchiando un pugno nella sabbia.
- Se sapessi te lo direi.
– sbuffa lei – Ma ormai ho capito che dobbiamo
scoprirlo insieme.
- Tu sei matta. – rido
sarcastico – Perché dovrei?
- Perché altrimenti lo
diventi anche tu. – dice sedendosi di fronte a me.
- Mi ci stai già facendo
diventare, ragazzina.
- Ah, adesso è colpa mia!
– ride, stendendosi di fianco a me, il volto rivolto al sole.
È bellissima, eterea.
Vorrei dirle che forse è un angelo, ma credo lo saprebbe.
- Sembri un’anima persa.
– sussurro – Non sai da dove vieni, non sai dove
vai.
- Ricordo chi sono. –
dice, tenendo gli occhi chiusi – Ricordo perfettamente la
voce di mia madre.
Cantava bene. La mattina intonava sempre qualcosa della Fitzgerald o
della
James mentre preparava la colazione, poi si metteva ad intrecciarmi i
capelli e
a metterci dei fiori in mezzo, mentre mio padre mi dava un bacio sulla
fronte e
lo rivedevo solo la sera.
- Ti mancano? – chiedo.
- Sì. – annuisce, il suo
tono che diventa serio – Mi manca l’odore di mio
padre. Quando tornava a casa,
profumava di terra e sudore. Aveva addosso l’essenza di tutta
la fatica che
aveva compiuto. Era un odore tutt’altro che fastidioso, mi
trasmetteva forza e
sicurezza.
- E tua madre? – chiedo,
fissandole la punta del naso.
- Mi manca il rumore
delle sue scarpe. – dice, aggrottando la fronte –
Era il segno che c’era appena
dietro alle mie spalle, pronta a proteggermi, oppure davanti a me per
guidarmi.
Una presenza costante sul mio cammino.
- Ami i tuoi genitori. –
osservo, facendole aprire gli occhi.
- Sì. – sorride,
voltandosi per guardarmi – Ho sempre sognato una famiglia
come la loro. – e
mentre lo dice, una luce che brilla di vita le passa negli occhi, il
suo volto
che parla di un sogno che l’avrebbe resa la persona
più felice del mondo.
È bella. Da
morire.
Una morsa allo stomaco,
ma la ignoro.
- Cosa darei per baciarti
ancora. – sussurro, una nota di tristezza che fa stonare la
frase.
Fa di no con la testa, la
sua bocca che si piega da un lato.
- Non permetterò che ti
succeda qualcosa. – sospira, annegando lo sguardo nel mare,
lontana da me,
lontana da ciò che in questo momento ci sta tenendo
così vicini da poterci
quasi sfiorare con le mani.
- Ormai non mi spaventa
niente. – rispondo severo – Ho già
ricevuto tutto l’orrore che questa vita
potesse darmi. Non ho paura.
Sospira, tracciando
disegni immaginari nella sabbia con un dito, mentre i capelli le vanno
davanti
alla faccia, alcuni le si incastrano tra quelle labbra che non
potrò più assaggiare.
Sulla pelle bianca stanno passando dei brividi, lasciando sollevati i
pori,
mentre il vento ha iniziato a correre su di noi.
- Dovresti averne. –
sussurra. La sua voce è così bassa che
l’ho sentita appena tra le onde del
mare. Sembrava l’eco di una voce sperduta negli abissi. Tale
è la profondità
con cui l’ha detto. Da sempre le parole di Grace mi sono
sembrate insondabili,
senza un briciolo di senso, azzardate, di una ragazzina fin troppo
piena di sé,
che crede di poter zittire un uomo con quattro stronzate inzuppate di
enigmaticità.
Invece no. Lei sa.
Lo ha sempre detto, e più la
conosco, più mi convinco che lei riesca a vedere oltre il
velo di nebbia che il
presente pone tra me e il mio domani. Sembra che lei riesca a sondare
col suo
osservare silenzioso fino al più intimo fremito del mio
cuore, mettendolo a
nudo, fino a renderlo evidente anche a me che cercavo
d’ignorarlo.
So chi sei.
Lo ricordo ancora, il
modo in cui lo disse, per poi scomparire nel buio di un parcheggio
sperduto
dell’America. Mi disse che veniva dal mio
inferno quando, nel bel mezzo di un temporale notturno, le chiesi da
dove
venisse. E solo ora mi rendo conto di quanto fosse sincera, che il suo
non era
un modo impertinente per non darmela vinta, ma che stava parlando sul
serio. Grace
è stata sempre sincera con me. Il problema è che
mi rifiutavo di capirlo.
- A cosa pensi? – mi
chiede, apprensiva, notando il mio silenzio.
- Devo avere paura di te?
– le chiedo, ma in realtà la sto implorando che mi
risponda con un “no”.
Sorride, abbassa la
testa.
- Hai sempre quest’aria
malinconica. – le dico – Perché non
torni a casa?
Alza lo sguardo,
puntandolo dritto nel mio, ma senza l’ombra di sfida. Sembra
solo una bimba
alla quale ho chiesto qualcosa che non conosce.
- Ormai ho perso la strada
Jimmy. – dice con voce rotta – E non posso
più tornare indietro.
Aggrotto la fronte, le
mie dita che si stringono nella sabbia.
Le sue parole mi scuotono
dentro come un uragano, mentre intorno a noi il vento si è
fermato e delle
nuvole iniziano a raccogliersi all’orizzonte, trasformando il
blu intenso del
mare in un grigio che sa di catrame.
Le chiederei il perché di
questa affermazione, ma in qualche modo lo so.
Non saprei spiegarmelo,
ma sento di sapere la risposta alla mia domanda.
O forse perché, un’altra
più difficile mi risuona nel cervello e grande è
lo sforzo che faccio per
dirla.
- È per questo che sei
qui? – sussurro, guardandola intimorito – Potrei
non tornare nemmeno io?
Questa volta non sorride,
anzi. Il suo volto è una smorfia che sa di dolore, angoscia,
di poca voglia di
ammettere la verità. Poi torna a guardarmi.
Trattiene il fiato.
E poi, annuisce.
*
Mi son rinchiuso in
albergo. Le insulse strade di Tampa intrise di mondanità
hanno messo a dura
prova il mio sistema nervoso. Così, dopo aver abbandonato la
spiaggia, Grace e
dopo aver sonoramente mandato a fanculo Cole che insisteva per andare a
puttane
insieme, ho recuperato la mia chitarra acustica, rifugiandomi
all’ombra del
giardino dell’hotel.
Improvviso, le note
scivolano via da sole, senza la mia volontà. Sono loro che
guidano le mie dita.
Lei, la Musica. Mia padrona. Dea generosa e crudele allo stesso tempo,
capace
di regalarti la più grande felicità e le
più profonde delle delusioni.
La Musica è una mamma
gelosa, che ti culla, ti accarezza, ma non ti protegge dai dolori. Lei
preferisce curarli. La Musica mi ha dato tutto, anche il senso
d’onnipotenza
che mi porto dentro come un cancro, ritrovandomi così a mani
vuote, così
ingordo di successo da riempirmi solo di quello, restando solo.
O forse no.
- Ciao.
Mi volto alle mie spalle,
il rumore dell’erba schiacciata accompagnata dagli stivaletti
di Robert, il
capo chino, le mani nelle tasche dei pantaloni, una sigaretta tra le
labbra.
- Ciao Robert. – sorrido.
Non risponde.
Semplicemente si siede a terra, di fianco a me, gambe incrociate e
mento
all’aria, uno sputo di fumo che va a finire nel cielo,
sigaretta tra i denti.
- Anche tu stanco della
solita vita da tour? – chiedo, giusto per cercare
d’intavolare una
conversazione.
- No. – sussurra – Sai
perfettamente di cosa sono stanco.
- E allora perché sei
qui? – chiedo freddo, per poi stringere i denti contro la mia
di sigaretta, le
dita che impugnano più forte la chitarra – Ti
prendi fin troppo fastidio per
me.
Sorride sarcastico tra le
labbra chiuse, lo sguardo infuocato mentre si volta a guardarmi.
- Stronzo. – ringhia –
Sei solo uno stronzo, James Page. – continua, mentre il tono
della sua voce si
fa sempre più minaccioso – A furia di farti di
eroina e magia nera ti sei
fottuto il cervello, ma sono tutt’ora convinto che questo non
sia un problema.
- Ah no? – dico, sputando
via il mio mozzicone – E qual è? Sentiamo!
- Vuoi capire che non me
ne fotte un cazzo di perdere un chitarrista, eh? – urla, le
sue mani che
conquistano le mie spalle e le inchiodano alla terra seccata dal sole
– Il tuo
genio, la tua pazzia, chiamala come cazzo ti pare, sono niente
… niente … in
confronto al Jimmy uomo che
io vorrei accanto per questi e altri mille giorni, hai capito?
Si ferma, ma solo per
riprendere fiato.
I miei tremori, invece,
non si fermano affatto.
- Mi rifiuto di credere
che la tua magia sia frutto della
tua
mente. Io lo sento il tuo cuore battere nella chitarra, lo
sento, Cristo santo! – e così dicendo
prende a scuotermi forte
– Ma non voglio nemmeno credere che le
tue manie ti stiano fottendo anche l’ultimo segno della tua
esistenza, Jimmy,
porca puttana! – e questa volta mi lascia, rimettendosi a
sedere, le mani
fiondate nei capelli, i singhiozzi che gli scuotono il dorso ampio.
Io, invece, rimango
immobile a fissarlo, i tremori scompaiono, mentre il cuore che ha
menzionato
sembra voler esplodere in gola.
- Credi io sia cattivo? –
sussurro – Pericoloso?
- No. – afferma roco,
asciugandosi le guance col dorso della mano – Non per me
almeno, ma per te
sicuro. Ho paura a lasciarti nelle tue stesse mani.
Deglutisco, le sue parole
che sembrano pungermi il petto fino a iniettare fitte di dolore al
cuore, i
battiti che non accennano a rallentare, mentre la mia onnipotenza
artificiale
non fa altro che rendermi sempre più freddo, incredibilmente
lucido, mentre
Robert trema. Sembra che l’anima gli si stia contorcendo nel
petto.
- Quella mattina. – tenta
di dire, ma un colpo di tosse lo blocca – Quella mattina, a
Birmingham, credevo
fossi morto. – dice, recuperando fiato, fissando un punto
impreciso di fronte a
se. Sembra che mi stia ancora vedendo, ancora tra l’erba,
addormentato, il
respiro quasi inesistente, mentre una tavolozza di fiori mi circonda
come una
tomba – Il tuo corpo era così freddo tra le mie
braccia che per un momento ho
creduto davvero che fosse arrivata la fine.
Porta la sigaretta alle
labbra con fare nervoso, le dita che tremano mentre aspira con
avidità, la
fronte che si arriccia. Sembra che voglia incamerare nei suoi polmoni
tutto ciò
che lo circonda, io che rimango muto a guardare, mentre i suoi occhi si
perdono
tra le palme del giardino. Una farfalla bianca volteggia
nell’aria.
- Per fortuna mi
sbagliavo. – riprende – Quando ti ho portato le
dita alla gola, il tuo cuore
sembrava scalciare. Tu non vuoi morire. – afferma, per poi
guardarmi negli
occhi – Ma sembra quasi che tu stia sfidando te stesso, che
tu voglia portarti
al limite per capire quanto sei bravo a non superarlo.
- Mi credi così
incosciente? – faccio rauco, passandomi qualche filo di erba
sotto le punte
delle unghie.
- No. – sospira - È che
vorrei capire quale colpa stai espiando. O quale dolore tu stia
combattendo, di
quale angoscia non riesci a liberarti.
Non riesco a rispondere.
Eppure con Grace era
stato così semplice. Persino piangere non sembrava
così umiliante di fronte al
suo sguardo limpido. Confidarmi con lei è stato un qualcosa
di naturale.
Con Robert, no.
Perché?
- Non lo so. – mento – Ho
solo bisogno di farlo.
Non dice nulla. Spegne la
sigaretta contro il tacco dei suoi stivali e butta il mozzicone
lontano, i suoi
occhi che si perdono nel cielo, confondendosi di colore. Sembra stia
cercando
le parole giuste, capire se sia meglio contraddirmi o assecondarmi.
- Toccare il fondo prima
di risalire, eh Jim? – afferma dopo pochi istanti di silenzio.
- Credo di sì.
- Ci porterai anche me? –
chiede poi, freddo, pungente, un gancio dritto allo stomaco,
tant’è che lo
sento accartocciarsi sotto le costole, quando all’improvviso
vedo qualcosa
muoversi sullo sfondo, percepibile appena con la coda
dell’occhio.
Un gelo improvviso e una
nuvola che passa davanti al sole, il giardino che si veste
d’ombra.
Grace.
Proprio lì, in piedi,
sulla mia sinistra, una spalla poggiata ad una palma.
- Che succede? – chiede Robert,
allarmato, prendendomi il mento tra le dita e costringendomi a
guardarlo.
Di sfuggita, rivolgo uno
sguardo veloce a Grace, in tempo per vedere i suoi occhi sgranarsi e il
suo
dito indice raggiungere le labbra, intimandomi di fare silenzio.
- Nulla. – rispondo, ma
la mia voce trema e non inganna nemmeno me stesso.
- Sicuro?
Annuisco, mentre Robert
passa con lo sguardo ogni metro quadrato del giardino, cercando la
fonte della
mia inquietudine, ma nulla. Ben tre volte il suo sguardo passa su
Grace, quasi
incontra quello di lei, ma lui sembra solo un cieco che si muove a
tentoni. Nel
frattempo, io continuo a guardare lei, cercando di farle capire cosa
sto pensando
e, quasi come se mi stesse parlando in un orecchio, sento la sua voce
amplificarsi nella mia mente quasi per magia.
Lui non può
vedermi. Solo ora ho capito il perché.
Dimmelo, Grace.
Maledizione!
Ti aspetto a New York,
Jimmy. È lì che io e te abbiamo
iniziato.
Cosa? Cosa abbiamo
iniziato io e te, Grace? Cosa è successo a New York?
- Sembrava avessi visto
un fantasma!
La voce di Robert
riecheggia allegra, sporcata da una risata, distaccando i miei pensieri
da
quelli di Grace.
- Cosa? – chiedo, disorientato,
Grace che rimane lì dov’è.
- Jimmy, ti senti bene?
Una sua mano sulla
spalla, Grace che ci guarda.
- Sì. – balbetto,
recuperando un po’ di lucidità per poter
nascondere l’inquietudine – Ho avuto
un giramento di testa. È tutto ok.
- Sicuro? – chiede ancora,
per esserlo lui.
- Sì, Robert, tranquillo.
Sorrido. Mi imita.
Poi si alza, mi da un
ultimo sguardo e si avvia dritto, davanti a me. In direzione
dell’albergo. Dove
Grace è ancora ferma a guardare.
Una morsa allo stomaco,
tra un po’ le sarà addosso.
La raggiunge. Ci passa
accanto, ma non la vede.
È
a New York la risposta. È lì che ti aspetto,
James!
Angolo della pazza:
Rieccomi! ^^
Ehm, sì. Sto cercando di risolvere la trama, vi giuro che ci sto provando! >.<
Ovviamente, i prossimi capitoli saranno ambientati a New York, ergo tenetevi pronte (?).
Nulla, in questa storia voglio che siate voi a interpretarla, se lo faccio io non vale! ^^'
Quindi, mentre mi leggo con tanta calma il mio Doctor Sleep nuovo di zecca (aaaaah, zio Stephen), aspetto con anZia i vostri pareri.
E vi lascio anche una foto (finalemente l'ho trovata) di colei che "presta" il volto alla mia Grace.
Barbara Palvin
Jimmy, caro, poi non dirmi che non ti tratto bene! u.u
Bene, ringrazio Irene, che come sempre rimane in piedi per leggere i miei aggiornamenti ritardatari, e Zelda, la mia fedele lettrice. Grazie della tua impazienza. Mi ricompensa molto più di qualsiasi recensione.
Detto ciò, vi aspetto al prossimo capitolo.
Vi aspetto a New York.
Un abbraccio,
Franny