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Autore: everlily    25/04/2014    15 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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13

13.

What you hide


- Who you are is what you hide
I was yours, but you weren't mine
So now you've drawn your line
But I hope it will fade, in time -

(Hear me sing, AM)


Damon


Ci sono tre cose che ho capito a mie spese negli ultimi giorni. Che il bourbon di bassa lega procura dei postumi terribili. Che odio il country, quello passato, quello presente e quello futuro. Che quando le cose si fanno deprimenti, non riesco a non avvelenarmi con entrambi.

Un minuscolo bicchierino di vetro mi compare davanti, accanto alla bottiglia di Jim Beam senza infamia e senza lode che subito uso per riempirlo fino all'orlo. Lo butto giù in un solo sorso e lo faccio sbattere contro il bancone, proprio mentre nel locale parte un'altra cavolo di canzone di Carrie Underwood uguale a quella di prima. E, cazzo, non voglio neanche stare a chiedermi come faccio a sapere chi è Carrie Underwood.

"Dunque, mio fratello non mi vuole neanche vedere …"

Mi protendo in avanti sullo sgabello, riempio un altro bicchierino straboccante.

A giudicare dalla stoccata secca alle mie spalle e dalla risata di esaltazione che segue subito dopo, qualcuno sta stravincendo la sua partita a biliardo. Buon per loro.

" … la sua irritante fidanzata rincara la dose guardandomi come se fossi qualcosa di viscido scappato da sotto una pietra …."

Il bicchiere resta vuoto per neanche mezzo secondo. Pieno, ci rimane ancora meno.

" …. ho una moglie malefica che è tornata dall'inferno a caccia del mio sangue e che non placherà la sua sete fino a che non mi avrà prosciugato di ogni più piccolo fottuto centesimo …"

Nella mia visione periferica, una ragazza ed un tizio parecchio più grande di lei, entrambi in jeans e camicia a quadri, hanno iniziato a spalmarsi l'uno sull'altra con la pietosa scusa di ballare, sempre la solita canzoncina del cazzo. Ho già detto quanto odio il country?

Pieno, vuoto, pieno, eccetera. Liquide strisce incendiare che si accumulano nel mio stomaco colmo di niente.

".. ho completamente mandato a puttane il mio ruolo nella prestigiosa, inimitabile, compagnia di famiglia, facendomi ritenere da un intero consiglio di amministrazione l'essere più incompetente e indegno sulla faccia della terra …"

Questa volta, la barista - credo che il suo nome inizi con la J - arriva veloce alla bottiglia di bourbon prima che possa farlo io, pensandoci lei stessa a servirmi un'altra dose. Grazie, tesoro.

" … oh, e poi, notizia dell'ultim'ora. A quanto pare, ho di nuovo perso del tutto la testa dietro al mio primo amore, la stessa incredibile, esasperante, e completamente fuori dalla mia portata, ragazza che mi ha baciato come se non ci fosse un domani, e poi ha finito di fare a pezzi i rimasugli del mio ego ferito perché si sposa tra meno di due mesi."

Quest'ultimo bicchiere se ne va via giù per la gola con una scia particolarmente dolciastra, rapida e infuocata. Sì, mi sento estremamente poetico quando inizio ad essere ubriaco.

"Quindi, dolcezza …" finisco rivolgendo a J un veloce sorriso, mentre poso nuovamente il vetro sul bancone e lei si sporge verso di me, appoggiandosi contro la superficie di legno e posando il mento su una mano, in interessata attesa della fine del mio monologo. " … per rispondere la tua domanda, sono praticamente l'uomo del momento."

Per la cronaca, la domanda era un "Come va?" accompagnato da un'occhiata smaliziata dalle intenzioni piuttosto inequivocabili. Non sbaglio mai su quel genere di occhiate. E' un talento. E, sempre per la cronaca, confermo anche che sì, la barista il cui nome inizia per la J è anche fottutamente sexy. Canotta ridotta ai minimi termini, capelli neri corti e spettinati, occhi verdi che cercano e promettono un sacco di divertimento.

"E' il tuo modo per strapparmi un pompino nei bagni?" mi domanda, con lo sguardo dritto nel mio ed un altro sorriso allusivo.

Tra le sua labbra socchiuse intravedo il luccichio metallico di un piercing sulla lingua. Cazzo.

Qualcuno mi dà una spallata nel sedersi sullo sgabello accanto a me, rompendo l'incanto inebetito di me che, già mezzo stordito, sto ancora lì a domandarmi perché non ho risposto "sì" seduta stante. Mi volto verso colui che, appena tornato dal bagno, ha appena rovinato tutta l'atmosfera.

"Quindi, stavo pensando …" Inizia Ric con fare convinto, come se nei cinque minuti dentro alle toilette avesse ricevuto chissà quale illuminazione divina. " … sei patetico. E te lo dico consapevole di avere le mie colpe in questo, in quanto colui che ti ha passato la bottiglia e che è stato con te nelle ultime tre notti. A proposito, sei uno che abbraccia durante il sonno, specialmente quando sei completamente andato. Non farlo. Non farlo più."

J lancia una strana occhiata verso il mio compagno di bevute dal tempismo perfetto e dalla lingua un po' troppo sciolta dall'alcol (e comunque, sta vaneggiando: io non abbraccio). Solleva un sopracciglio, si raddrizza dal bancone sul quale si era protesa e mi rivolge un veloce sorriso condiscendente. "Ho da fare. Magari un'altra volta."

Come la ragazza se ne va, colpisco bruscamente il mio amico sulla spalla con il dorso della mano.

"Un piercing sulla lingua, Ric!"

"Cosa?" mi domanda lui confuso, senza capire.

"Lascia perdere …"

Alzo gli occhi al cielo, scuoto la testa ed allungo la mano per andare a riempirmi un altro bicchiere.

Ma, con uno scatto impressionante per il suo stato attuale, Ric mi anticipa e mi sottrae la bottiglia direttamente sotto al mio naso e al mio sguardo stupito.

"No," scuote la testa con fare deluso. "Come stavo dicendo, lo so che non sono probabilmente la migliore persona per farti questo discorso, visto che … potrei essere io stesso un tantino ubriaco in questo momento. E' solo che davvero mi piace tanto il whisky … Ciò che voglio dire è, quanto hai intenzione di andare avanti così, a girare per bar fuori mano e fottertene di tutto quanto? E' stato divertente le prime due sere … adesso, inizio a sospettare che stia diventando patetico."

"Non lo so e non mi importa," ribatto alzando le spalle. Ci mancava solo che ci si mettesse pure lui. "Sono permanentemente fuori servizio."

Tento di riprendermi la bottiglia, ma senza successo, perché Ric me la allontana di nuovo.

Gli rivolgo un mezzo broncio nel tentativo di dissuaderlo dalla sua crociata tardiva e maldestra.

"Quanti anni hai, quindici?" ribatte.

La sua domanda, grazie anche all'ebbrezza che finalmente inizia a farsi sentire, mi fa quasi scoppiare a ridere, anche se invece della risata ciò che mi esce fuori è solo un mezzo ghigno in onore della paradossale ironia della situazione.

Più o meno, avrei voglia di rispondere.

Perché, ecco la cosa divertente: fino a neanche due mesi fa ero una semi-specie di semi-adulto semi-funzionante che era appena riuscito a permettersi un appartamento decente a Mission Bay [1] con tanto di terrazza spazzata dal vento gelido dell’oceano; uno che passava le sue serate tra sushi bar e locali affollati di bionde dalla coda alta, troppo single e troppo in carriera per preoccuparsi degli impegni di lungo periodo, e che proprio per questo risultavano l'abbinamento ideale alla mia incapacità di restare fedele a qualsiasi cosa per più di una stagione.

Poi è bastato farmi una passeggiata sul viale dei ricordi di questa fottuta città e, di colpo, addio semi-specie di semi-adulto ventiseienne e bentornato fresco diciottenne mai in grado di combinarne una giusta; oggi come allora decisamente poco intitolato alla fittizia coscienziosità che, a quanto pare, un banale concetto astratto come la maggiore età dovrebbe magicamente dare.

"Sembri mio padre," replico. "Una versione più ubriaca e con meno filtri."

"Dovrebbe essere un insulto?"

Questa volta rido, per davvero, con la testa leggera piena di alcol e pensieri sconnessi, e con quel fastidioso groppo alla gola che nessuna quantità di liquore è mai riuscita a farmi andare giù.

"Torna a San Francisco, Damon," prosegue lui, prima di buttare giù l'ultimo sorso rimasto sul fondo del bicchiere, e poi tornare ad inclinare la testa verso di me. "Era la mia missione quando sono salito su quell'aereo, prendere le tue chiappe e riportarle dove devono stare. Dico davvero, cosa ci stai a fare ancora qui, in ogni caso?"

Bella domanda, non posso dargli torto.

Avrei dovuto essere su quell'aereo settimane fa. Tutto questo non avrebbe dovuto essere nient'altro che una veloce toccata e fuga per mettere in ordine quelle due o tre cose dopo la dipartita di mio padre, giusto quel tanto che bastava per pulirmi la coscienza.

Invece, in un modo o nell'altro, una settimana era passata e poi un'altra e poi un'altra ancora. Fino a che non mi ci sono ritrovato dentro fino al collo, colato a picco peggio di una porta-aerei da battaglia navale in mezzo a ciò che ho perso, ciò che ho ritrovato e ciò che non ho mai avuto. E la verità è che non lo so più neanche io cosa ci sto a fare qui, in un bar di periferia con del pessimo country e bariste disinibite, senza più nessuna vera scusa per restare e senza davvero nessuna voglia di andare.

Faccio leva sul bancone per alzarmi dallo sgabello e tiro fuori il portafoglio per lasciare una banconota da 50 sopra il bancone.

"Per il momento, Ric," rispondo. "Penso che sia solo ora di tornare a casa."


"Quando cresce, vedrai che diventa più ragionevole."

Era una sera d'agosto poco prima dell'inizio del liceo e a pronunciare quella frase era stata zia Julie venuta a trovarci da Atlanta.

L'aria aveva il tipico odore pieno e dolce dell'estate, la luce sulla veranda era di un intenso violetto scuro, e mio padre mi aveva appena proibito di uscire per incontrarmi con Enzo, il nuovo ragazzo che si era appena trasferito da Manchester con una madre single perennemente assente, una scorta di sigarette sempre pronta ed un colorito assortimento di nuove parolacce splendidamente britanniche. Io avevo tredici anni e, per tutta riposta al suo divieto, gli avevo usato per la prima volta la parola con la "F" ed ero uscito lo stesso.

Spoiler alert, zia Julie: ti sbagliavi. Non diventai né più ragionevole, né altro.

Anche se il perché di tutta quell'irrequietezza e rabbia repressa, onestamente, non avrei saputo dirlo neanche io.

Non è che fossi cresciuto con grossi traumi infantili. Anche se, di quando ero bambino, a volte tutto ciò che rimaneva era solo la soverchiante presenza di mio padre. Forte, rigoroso, carismatico, rispettato. Era dappertutto: nelle strette regole educative con cui aveva cresciuto me e mio fratello, nello spingerci verso nient'altro che l'eccellenza, ma anche nelle ore che spesso si prendeva libere da tutto e da tutti solo per passare del tempo insieme a noi, al fiume in estate, in mezzo alla neve d'inverno. La sua presenza nelle nostre vite era soverchiante almeno quanto l'evanescenza di Charlotte, di cui, per almeno un paio di anni dopo che se ne era andata, tutto ciò che avevamo erano biglietti e regali spediti via posta per natali e compleanni.

Tanto che, ad un certo punto, quando aveva sei anni, Stefan aveva iniziato a dire in giro che fosse morta. Era stato allora che nostro padre ci aveva preso da parte, si era messo con calma a sedere con entrambi e, mentre fuori diluviava e il fuoco languiva nell'ampio camino della sala, ci aveva detto che Charlotte ci voleva bene ma non era felice qui, che per questo aveva scelto di andarsene e risolvere le sue problematiche da sola. Niente bugie o pillole indorate. Dopotutto, mio padre non ci aveva mai, neanche una singola volta, trattato con la condiscendenza riservata ai bambini da chi crede che non possano capire le cose da grandi.

Ad ogni modo, l'irrequietezza. Forse era da lì che arrivava. Forse me la aveva trasmessa Charlotte. O, forse, era stata la naturale conseguenza del momento - così poco definito a differenza del resto, un po' come l'età in cui non si è più bambini ma neanche quel qualcosa di spaventoso che viene subito dopo - in cui un giorno avevo guardato mio padre ed avevo realizzato che avevo bisogno di liberarmi di una tale figura, così incrollabile e infallibile. E, da lì in poi, la mia irragionevolezza - o irresponsabilità come lui la chiamava - non aveva mai davvero conosciuto una fine.

Ecco cosa avevo in testa quando mi svegliai e mi alzai dal letto: zia Julie, pomeriggi al fiume e pioggia sui vetri, qualcosa che è troppo e qualcosa che è troppo poco.

Così, intento a trangugiare un toast al volo prima di andare a scuola, per poco neanche la notavo.

La busta giallastra era posata al centro del basso tavolino di fronte al divano, con il mio nome scritto sopra nella calligrafia ferma ed elegante di mio padre. Nient'altro: non una nota di accompagnamento, non una firma.

Quando la aprii e le chiavi della Camaro scivolarono tintinnanti sul mio palmo aperto, dalla sorpresa il mio cuore balzò contro le costole in un guizzo così inaspettato e potente da farmi quasi male.

Mormorando un sommesso "cazzo", mi precipitai alla finestra per averne conferma e, infatti, eccola lì. Lucida e azzurra sotto il sole tiepido di marzo, perfetta e senza neanche l'ombra della brutta ammaccatura sulla fiancata destra e del danno al semiasse anteriore che l'avevano messa fuori uso dopo il mio incidente.

Afferrai la giacca e raggiunsi in fretta l'uscita per andare a toccarla con mano, ma quando aprii la porta mi trovai davanti Stefan, colto proprio nel bel mezzo dell'atto di bussare.

Mio fratello aprì la bocca, ma lo stroncai sul nascere prima che potesse proferire parola.

"Hai visto papà?"

Stefan corrugò la fronte, perplesso. Non era un qualcosa che mi sentiva chiedere spesso.

Scosse la testa, con aria sinceramente dispiaciuta.

"No, è partito per DC questa mattina presto ..." Alzò lo sguardo su di me e mi guardò quasi come se si sentisse in obbligo di dovermi delle scuse o delle giustificazioni al posto suo. "Ma penso che ti chiamerà, voglio dire ..."

"Non lo farà. Ma va bene," risposi, e al dispiacere per me negli occhi di Stefan si aggiunse quasi un accenno di pietà.

Ma la sua compassione nei confronti del mio ruolo di figlio degenere mi scivolò addosso senza scalfirmi, tanto che Stefan mi guardò completamente disorientato quando, invece che incupirmi, iniziai a fargli dondolare le chiavi proprio davanti al naso, sorridendo come un idiota.

"Ti serve un passaggio?"

"Beh, perché no," riprese lui, "Ma prima volevo ..."

Fu allora che notai che, tra le mani incrociate dietro la schiena, stava nascondendo qualcosa.

"Cazzo, Stef, avevo detto-"

"Lo so, lo so, cosa avevi detto," sbuffo' impermalito. Mi scaraventò in mano il libro che si era portato dietro e si strinse impacciato nelle spalle. "E' mio, perciò è solo un prestito, ok? Me lo ridai quando hai finito."

"Il Giovane Holden?" commentai nel vedere di che si trattava, alzando un sopracciglio verso di lui. "Che cliché."

"Sta' zitto e leggilo."

"Ok," concessi. Mi infilai Holden Caulfield nella tasca interna della giacca, evitando di dirgli che lo avevo già letto l'anno prima. Io ero sorprendentemente di buon umore e lui era troppo carino per rovinare il momento. "Grazie."

Poi gli rivolsi un mezzo ghigno e gli feci cenno con la testa invitandolo a seguirmi per andare a rimettere in moto la Camaro.

Avevo appena chiuso la porta della depandance, quando il rumore basso e vibrante di un'auto che risaliva il vialetto ci fece voltare entrambi.

Il maggiolino decappottabile color giallo vivo parcheggiò ad una decina di metri da noi, dandoci modo di intravedere la figura sottile di chi lo stava guidando, e, cazzo, lì per lì quasi mi caddero le chiavi di mano dallo stupore. Guardai Stefan, il cui volto era la maschera dello shock, e poi di nuovo verso l'auto, per esserne sicuro.

Ma non mi ero sbagliato. I lunghi e lisci capelli biondo cenere, quel modo delicato e nervoso al tempo stesso di muovere le dita nel tirare giù e rimettere a posto lo specchio del guidatore, e, soprattutto, i grandi occhi verdi dall'espressione sempre meravigliata, appena una sfumatura più chiari di quelli di Stefan.

Charlotte scese dalla macchina e si appoggiò contro lo sportello, sorridendo e agitando una mano nella nostra direzione in segno di saluto.

Sorpresa.


Finii per lasciar perdere scuola e passare la giornata con Charlotte.

Appena arrivata, mi aveva sussurrato nell'orecchio parole affettuose adatte alla circostanza e stretto in un abbraccio che mi aveva fatto sentire tutta la fragilità delle sue ossa. Quando però si era voltata verso Stefan per fare lo stesso, mio fratello si era sottratto con un veloce passo indietro ed un'occhiata da tigrotto ferito, se ne era andato bofonchiando di essere in ritardo per la scuola, ed i grandi occhi di Charlotte si erano subito riempiti di lacrime. Così, non avevo davvero avuto altra scelta che stare con lei, se non volevo vederla piangere proprio lì di fronte a me.

L'aria era ancora frizzante degli ultimi residui di inverno, ma il sole aveva già un piacevole tepore che ci concesse di sederci ad uno dei tavolini all'aperto del Grill, lei con un Martini bianco ed io con la triste acqua minerale che la mia età mi concedeva [2].

Per un po', a parlare fu solo lei, a raccontare le storie del suo recente viaggio in Guatemala e i progressi del suo nuovo libro, il terzo. Un po' la storia della sua vita: rimasta incinta appena finito il liceo di un uomo di dieci anni più grande, matrimonio riparatore a seguire, un altro figlio e cinque anni dopo aveva deciso che non ne poteva più. E poi era finita a scriverci sopra dei libri.

Si accese un'altra sigaretta, una di quelle lunghe e sottili che sembravano sempre un prolungamento naturale delle sue dita inquiete e filiformi. Uno, due, tre colpetti per scrollare una cenere inesistente che ancora non si era accumulata.

"Stai bene, tesoro, ti servono dei soldi?"

"Ce li ho i soldi. Ho un lavoro, ricordi?" risposi facendo girellare la cannuccia nell'alto bicchiere cilindrico.

"Anche per quando finirai il liceo? Sai già cosa fare?"

Alzai lo sguardo su di lei e mi lasciai sfuggire una smorfia sarcastica.

"Hai parlato con papà, per caso?"

Si voltò di lato per soffiare via il fumo, scosse velocemente la testa e riprese a scrollare la sigaretta.

"Lo sai che tuo padre con me non parla."

"Magari dopo tutti questi anni ha cambiato idea."

Charlotte sorrise tristemente.

"L'ho ferito, e lui sa essere molto testardo nelle sue decisioni quando viene ferito."

Affondai un po' di più nella sedia e scrollai le spalle con noncuranza, niente affatto intenzionato ad entrare nel discorso del suo fallimentare rapporto con mio padre, né tantomeno con me e Stefan. Ero l'unico che le dava un po' di tregua, forse perché sotto sotto mi rendevo conto che ci provava a rimediare, anche se in un modo che era sempre sbagliato e che non risolveva mai un cazzo.

"Quindi? Piani?" riprese in tono più allegro, anche lei evitando subito l'argomento. Come sempre.

"Per ora nessuno."

"Lo capirai quando arriverà il momento, vedrai."

Fu in quel momento - in quella situazione surreale di essere lì a parlare con Charlotte, in un luogo perfettamente normale e familiare come il Grill, invece che su barche o camere di hotel o posti sempre nuovi, tallonati alle calcagna da sconosciuti che impazzivano per lei senza ricevere mai lo stesso in cambio - che per davvero lo avvertii: il peso di tutto ciò che mi ero perfettamente allenato a far sì che non mi toccasse, la disfunzionale tendenza al menefreghismo che tutta quella situazione del cazzo mi aveva lasciato addosso, le eccessive aspettative che non sarei mai stato in grado di soddisfare. Ero fottutamente incasinato dentro e con nessuna prospettiva di migliorare la cosa.

"E se non succede?" domandai corrugando la fronte, con lo sguardo fisso sulle minuscole bollicine d'acqua che risalivano su per andare a scoppiare verso la superficie. "E se non sarò mai capace di fare una sola cosa buona?"

Gli occhi di Charlotte sembrarono allargarsi all'infinito. Per alcuni secondi, si dimenticò perfino di dare i suoi ossessivi colpettini alla sigaretta.

"Ma certo che lo farai, tesoro," disse sorridendo convinta.

Lo dici solo perché sei mia madre, le avrei risposto se la parola "madre" non fosse suonata così terribilmente stonata in riferimento a lei. Pentendomi già di essermi lasciato scappare quelle parole, forzai un sorriso ed un cenno di assenso con la testa per tranquillizzarla, e tutto il resto lo tenni per me, ingoiandolo giù con quella triste acqua minerale.


***


Quando con Ric torniamo a villa Salvatore, è notte fonda. La casa sembra ancora più grande e buia, senza nessuna traccia di persone ancora sveglie.

Beh, quasi nessuna traccia di persone ancora sveglie.

Dopo aver salito l'ultimo scalino, detto buonanotte a Ric e messo piede nel corridoio del secondo piano, noto una sottile striscia di luce provenire da sotto l'ingresso della mia camera e, chissà perché, ho subito la fastidiosa sensazione che il seguito della mia nottata non abbia in serbo niente di buono.

Non mi sbaglio.

Apro la porta ed infatti… detto fatto.

Mi sorreggo con una mano contro la cornice della soglia e mi accascio contro di essa per darci un paio di testate, espressione disperata di tutta la mia frustrazione.

"Due altre camere da letto. Una dependance recentemente rinnovata. Per non parlare di un mondo intero là fuori, che sono sicuro ha molti posti adatti per una stronza psicopatica come te. Devi proprio startene qui?"

Katherine, languidamente distesa sul ventre sopra al mio letto, alza lo sguardo dal mio portatile su cui stava trafficando, posa in tranquillità il mento sulla mano e mi guarda da sotto in su. Le sue gambe, lasciate scoperte dal vestito nero la cui gonna si è raccolta sopra le sue natiche, sono incrociate in alto e dondolano pigre nell'aria.

"Non sono mai stata una psicopatica," si stringe nelle spalle.

"Che fortuna," replico sarcastico.

Non ho le forze, né la lucidità mentale per mettermi a discutere con lei in questo momento. Così chiudo la porta alle mie spalle, mi avvicino al letto, le sottraggo il pc da sotto lei mani suscitandole un broncio bambinesco, e mi butto sul materasso senza neanche togliermi le scarpe.

Incrocio le mani sugli occhi per farmi scudo dalla luce bassa che proviene dalla lampada sopra il comodino, sforzandomi di ignorare la nefasta presenza nella stanza e pregando che almeno non sia troppo d'intralcio tra me e l'incoscienza alcolica che mi attende. Forse, se mi impegno abbastanza a far finta che lei non sia qui, prima o poi scompare davvero.

Ovviamente, non sono così fortunato.

Il letto si muove sotto al suo peso, mentre Katherine cambia posizione e si sdraia su un fianco accanto a me. Con un dito, inizia a tracciarmi i contorni dei muscoli sulla parte più bassa del ventre, appena sopra la cintura e appena sotto l'orlo della maglietta che è rimasta sollevata.

Rabbrividisco. Non so se di disgusto o di piacere.

"Lo sapevi che, secondo le mie ricerche, solo questa casa vale due milioni di dollari?" mi domanda in un sussurro basso contro il mio orecchio. "Per non parlare di tutto il resto della tua eredità, compreso il valore di una compagnia così grande …"

Allungo un braccio e blocco la provocazione messa in atto dalla sua mano, chiudendola nella mia. Ma lei non la sottrae ed io non la spingo via, così le sue dita rimangono lì, ferme sul mio addome. Perché sì, non c'è nient'altro che io voglia di più in questo momento che vederla andarsene a fanculo; eppure, è un piccolo contatto di calore umano, per quanto umana possa mai essere Katherine, a cui in questo momento sono troppo debole per rinunciare.

"La compagnia non vale un cazzo se va avanti di questo passo," rispondo iniziando a strascicare la voce, con l'altro braccio ancora sugli occhi a crearmi un buio artificiale su cui danzano piccole lucine colorate.

"Beh, allora vedi di rimediare. Non sono venuta fin qui per tornarmene a mani vuote."

"E pensare che una volta ti credevo appassionata e imprevedibile, altro che così calcolatrice."

"Oh, per favore. Guarda che anche io ti credevo qualcosa che non eri. Ricco. Come vedi, siamo in due ad essere rimasti fregati."

Le lascio andare la mano con un sospiro infastidito e riporto il braccio insieme all'altro, sopra la mia testa, non appena quella frase fa breccia nella nebbia post-sbronza e mi ricorda con chi è che ho davvero a che fare.

"Ma," prosegue in tono allegro, "la buona notizia è - almeno per me - che adesso ricco lo sei davvero!"

"Non ti dò un cazzo di niente, Katherine."

"Certo che lo farai," mi bisbiglia, con quel tono seducente e appena roco per cui, un tempo, sarei stato capace di fare follie. Infila lentamente la mano sotto la mia maglietta e risale, accarezzandomi il torace, delineando sulla mia pelle tutto il percorso fino alla parte alta del petto, dove voleva arrivare. "Perché lo so che, in fondo a quel tuo cuoricino morbido e sentimentale, …" lo accarezza piano mentre parla e, con una coscia nuda, preme e si struscia contro il cavallo dei miei jeans, che si è già indurito di sua spontanea volontà. "… una parte di te ancora mi ama."

"Ti detesto."

Sorprendentemente, le parole mi escono fuori più piatte ed indifferenti di quanto non avessi intenzione, senza la forza con cui mi sono sempre immaginato che gliele avrei dette.

Katherine ride, di una risata bassa e sinceramente divertita. Non mi crede neanche per un istante.

"Se è davvero così, allora perché non hai mai chiesto il divorzio?"

Perché se ne è andata da un giorno all'altro senza lasciare neanche un bigliettino, figuriamoci un recapito. Perché pensavo che intestardirmi per andare a cercarla e cancellarla dalla mia vita le avrebbe solo dato l'impressione che ci tenessi ancora a lei. Perché, forse, in fin dei conti sarebbe stata l'ammissione finale di aver sbagliato e aver fatto una cazzata, di nuovo.

Ma col cazzo che si merita una risposta. Può pensare quello che diavolo le pare.

Le sue labbra mi sfiorano il collo, accompagnano un altro sfregamento di apprezzamento della sua coscia.

Lo so che mi sta manipolando. Lo so che sta solo cercando di dimostrare il suo punto, quello per cui non sono stato in grado di resisterle in passato e non sarò in grado di farlo neanche questa volta, quando si tratterà di definire il divorzio che è tornata per chiedermi dopo aver saputo - dio solo sa come - quanto fosse cambiata la mia situazione finanziaria.

Ma anche questo pensiero non mi fa incazzare come dovrebbe. Mi sento impermeabile a qualsiasi suo giochetto mentale. In questo stato mezzo ottenebrato dall'alcol che ancora mi intasa le vene, ho la ridicola percezione di essere io ad usare lei. Per non pensare, per dimenticare, per farmi una scopata con una qualsiasi altra ragazza in cui perdersi e divertirsi per una notte, e poi archiviare facilmente il mattino successivo.

Apre il primo bottone e poi la cerniera dei jeans, per insinuarsi direttamente sotto ai boxer.

"Mi detesti davvero tanto …" commenta sarcastica soffiando sopra la mia bocca, mentre spingo il bacino in alto contro la sua presa ed il mio cazzo le riempie la mano.

La afferro deciso per i fianchi per portarla come si deve sopra di me, e poi mi assicuro che smetta di parlare.


***


Cose che avevo giurato a me stesso di non fare mai più, prima voce della lista: svegliarmi nudo accanto a Katherine.

Cose che rimpiango: non essermelo ricordato quando sarebbe stato il momento.

La luce del mattino e la ritrovata lucidità mi colpiscono peggio di un faro stroboscopico puntato dritto in faccia. Mi porto le mani sul volto, per imprecare sottovoce contro i miei stessi palmi e prendere un profondo respiro, prima di voltarmi verso l'occupante del lato destro del letto.

Eccola lì: la prova inconfutabile dell'infimo punto a cui mi sono ridotto. Forse il Ric ubriaco ha ragione: è il momento di smetterla di fare il coglione.

Katherine è ancora addormentata, una mano sotto al cuscino e la linea rotonda del seno premuta contro il materasso. La cosa peggiore è che, a guardarla adesso, ingannerebbe chiunque. Nessuno sospetterebbe che dietro quel viso dalle linee dolci e delicate possa nascondersi una tale vipera.

Mi maledico ancora una volta nell'alzarmi dal letto, tanto per non dimenticarlo neanche io.

Dopo una doccia allo scopo di liberarmi al più presto di qualsiasi minuscolo ultimo residuo di Katherine che possa essermi rimasto addosso, finisco di infilarmi la maglietta mentre sto ancora scendendo le scale fino all'ingresso, ben intenzionato a svignarmela e a far finta che ieri notte non sia mai accaduta.

L'anticamera d'ingresso è ancora completamente ingombra del caos di scatoloni da cui, con la stessa voracità di una pianta rampicante, adesso che si è trasferita qua, la roba di Caroline continua a sbucare e ad invadere ogni centimetro di questa casa. Ne scavalco un paio con la scritta "Sala", dentro ai quali intravedo vecchie fotografie incorniciate da legno chiaro e tappezzeria varia dai colori pastello che mi auguro vivamente non abbiano intenzione di trovare collocamento da queste parti almeno finché ci sono ancora io nei paraggi. Poi Stefan potrà lasciare che Blondie Girl trasformi la nostra casa di infanzia in una sala da tè quanto le pare e piace.

Sto per compiere gli ultimi passi della mia personale camminata della vergogna verso la porta, ma ciò che inaspettatamente intravedo nella sala alla mia sinistra mi fa bloccare all'istante. Dannazione.

Nel mio salotto c'è Elena. O, a seconda dei punti vista, il karma che ha deciso ancora una volta di ridermi in faccia.


Quella era probabilmente una pessima idea. Era tardi, era un qualsiasi giorno nel mezzo della settimana, ed anche solo per quello mi avrebbe mandato a quel paese. Lasciai che la cosa mi fermasse? Ovviamente no. Non mi soffermavo mai più di tanto a soppesare la ragionevolezza delle mie idee.

Parcheggiai la Camaro accostandola vicino al marciapiede e mi incamminai nel buio rischiarato dai lampioni ai lati della strada, la maggior parte delle luci provenienti dall'interno delle altre case già spente. Arrivato sotto al portico della mia destinazione, girai per un paio di metri sulla sinistra e sollevai lo sguardo per sbirciare verso la finestra di Elena, così da poter controllare che la sua luce fosse ancora accesa.

Ero appena andato via dalla mia comparsata alla festa di Enzo, il quale, anche se gli avevo detto da giorni che non c'era proprio un cazzo da festeggiare, si era allegramente sbattuto di ciò che ne pensavo io e mi aveva usato come scusa per radunare un po' di alcol ed un po' di ragazze con cui possibilmente andare in seconda base negli angoli bui del suo garage. Me ne ero andato dopo nemmeno due ore, un po' perché non ero dell'umore, un po' perché, fanculo, tanto valeva ammetterlo: non avevo voglia di passare la serata incollato a qualche ragazza della quale avrei quasi sicuramente dimenticato il nome il mattino successivo.

Raccattai da terra una manciata di sassolini e li lanciai contro la finestra di Elena.

Niente.

Ripetei di nuovo l'operazione e, questa volta, passati alcuni secondi, Elena alzò il vetro e cautamente si sporse in avanti per scrutare nel buio, anche se l'ombra dell'albero al limitare del suo giardino, che si innalzava fino al limitare del tetto, mi nascondeva completamente.

"Damon?" sussurrò incerta, pur senza vedermi. Mi spostai di qualche passo finché non entrai nella sua visuale e lei corrugò la fronte perplessa. "Cosa?…"

Le feci cenno con la testa di scendere, indicandole la sua porta.

Inclinò la testa di lato e mi rivolse con lo sguardo un muto Sul serio?, scosse la testa e richiuse la finestra con un colpo secco, poi si voltò e scomparve in una ventata di capelli scuri. Lo avevo detto che mi avrebbe mandato a quel paese.

Era passato quasi un mese, dal giorno in cui mi ero infine deciso a farmi coraggio e ad andare a chiederle se davvero le parole impulsive dettate dalla mia stupida competizione con il quarterback avessero per sempre segnato la fine della nostra amicizia. Certo che no, era stata la sua risposta. Tre parole, ma erano state abbastanza.

Non riuscivo ancora a digerire del tutto il suo nuovo ragazzo, né tantomeno quel suo amichevole e completamente non odiabile sorriso alla famiglia Brady che sapevo io dove glielo avrei volentieri infilato. Ma non potevo. Non dopo che Elena si era intestardita a metterci entrambi seduti ad un tavolino del Grill per farci conoscere meglio, costringendomi ad iniziare a chiamarlo per nome (Matt. Nome stupido, no?) e ad andarci d'accordo. Cosa che tra l'altro era fin troppo facile da fare, dato che il tizio (Matt. Il nome, dannazione) era un maledetto cucciolo di labrador. E come cavolo fai a prendere a calci un cucciolo di labrador?

Fatto sta che il cucciolo (Matt) le sottraeva buona parte del suo già limitato tempo libero, ed io avevo le briciole. In un certo senso, quello aveva cambiato qualcosa nel nostro rapporto, nel modo in cui avevamo piano piano iniziato ad avvicinarci di nuovo, a cercarci nei momenti più impensati. Non in peggio. Solo … diverso. Come se tutto tra noi fosse più prudente. Meno banale. Più indispensabile.

Rimasi appoggiato con la spalla contro una colonna del portico con le mani infilate nelle tasche ad aspettarla scendere finché, qualche minuto dopo, l'ingresso non si aprì gettando un triangolo di luce gialla sulle assi di legno della veranda.

"Cosa ci fai qui?" mi domandò, socchiudendosi la porte alle spalle e venendomi incontro. "E' quasi mezzanotte."

"Ti va di venire in un posto?"

"Adesso?…" La circospetta incertezza della voce, però, si accompagnò al barlume di vivace curiosità che le accese gli occhi, facendoli sfavillare anche al buio. "Dove? …"

Piegai le labbra in un mezzo sorriso. "Ti fidi di me?"


E' la prima volta che vedo Elena dopo la mia totalmente intempestiva idea di baciarla sul portico di casa sua e già i miei sensi, i miei pensieri, la mia razionalità … fanno bip e vanno in corto circuito.

Non mi ha visto, quindi probabilmente la cosa migliore per tutti sarebbe ignorarla e continuare a dirigersi verso l'ingresso. Certo non appoggiarmi con le braccia incrociate contro lo stipite della porta, ad osservarla mentre se ne sta in punta di piedi sulla piccola scala, piegata appena in avanti con le braccia allungate per sorreggere un nuovo quadro straboccante di girasoli da piazzare in uno spazio vuoto accanto al camino.

Lei e quella sua brutta abitudine di indossare gli shorts. Lei e quelle gambe, slanciate e adesso leggermente in tensione. Lei e …

Ok, ecco come stanno le cose. Ho cercato in tutti i modi di non pensare a quel bacio. Tanto pazzesco, quanto impossibile da ripetere. Dopotutto, ho fatto una promessa, no?

E, d'accordo, è vero che il mio cervello non è di per sé mai stato molto collaborativo quando si tratta di smettere di pensare a lei, ma qualcuno mi conceda almeno la scusante di quanto sia ancora più dannatamente difficile mantenere quella promessa quando solo vederla (non solo le gambe, ma la perfetta rotondità che le corona, la spalle che sbucano dalla larga maglietta bianca traforata, l'estremità della coda che dondola sulla curva della nuca) basta per riportare a galla lo stesso identico afflusso di sangue alla testa nonché a tutto il reso delle mie estremità.

Del resto, quel bacio non ha fatto altro che confermare ciò che già sapevo. Ovvero che sotto a tutto quel suo atteggiamento da "fare-la-cosa-giusta" - perché dio ce ne scampi che possa concedersi qualcosa che non la faccia sentire sempre in controllo di tutto - Elena è fuoco, di quelli quieti e silenziosi che sono solo brace finché non divampano all'improvviso. E dopo che a ricordarmi questa cosa ci hanno pensato le sue mani che si aggrappavano strette tra i miei capelli come se ne andasse della sua vita, la sua schiena arcuata contro il mio corpo fino a che non ho avvertito nient'altro che le piccole punte indurite dei suoi capezzoli, e quel sommesso, eccitante, suono che si è lasciata sfuggire dalla parte più profonda della gola … beh, dopo che Elena ti bacia così, non è esattamente una passeggiata dimenticarsene e tornare a recitare il caro vecchio gioco dell'indifferenza.

"Care, sbrigati, non posso stare qui tutto il giorno!" grida, voltando la testa di lato.

In tempo per vedermi, e sorprendermi ancora intento a sbirciare le curve di quei maledetti shorts. Mi vede e reagisce: occhi spalancati, labbra socchiuse … Un cerbiatto colto alla sprovvista.

"Ehi," la saluto piano.

"Ehi …"

Si guarda attorno, cauta. Non sa chiaramente cosa fare, impossibilitata a lasciare la sua posizione a causa del quadro che altrimenti rischierebbe di cadere a terra. Dovrei forse restare fermo dove sono, a studiare le sue reazioni contraddittorie alla mia presenza? Probabilmente dovrei.

Invece entro in sala e mi avvicino, lasciando che Elena mi segua con lo sguardo, afferro il quadro per lei e la aiuto ad appoggiarlo delicatamente per terra.

Mi accenna un "grazie" mentre scende dalla scala.

"Non pensavo … cioè, non sapevo …" Si sposta dalla fronte una ciocca sfuggita dalla coda, evita il mio sguardo e tira fuori un sospiro che sa di scuse che non mi deve e che soprattutto non mi va di sentire. "Non sapevo che tu fossi qui."

"Io ci vivo qui."

"Sì, lo so, voglio dire …" Due ciocche da risistemare, ancora qualcosa all'altezza della mia spalla che deve sembrarle particolarmente interessante. "Caroline aveva detto che di solito sei sempre fuori. Altrimenti, se lo avessi saputo, non sarei mai venuta."

Questa è stata crudele … Ma immagino che il fatto di eclissarmi dalla sua vita, implichi anche questo. Una politica zero contatti.

"Così non vuoi neanche vedermi, o rischiare di incontrarmi. Lo terrò a mente."

I suoi occhi scattano di colpo, in un riflesso incondizionato, verso il mio volto.

"Cosa? No, io …Dio, Damon, non è questo che intendevo. Ho solo pensato … che forse eri tu quello che non aveva voglia di vedermi." Pronuncia le ultime parole cautamente, in attesa della mia reazione, e dopo un ultimo attimo di esitazione, aggiunge così semplicemente da far male, "Io ci tengo a te. Questo non cambia."

E' la risata del karma quella che sento? Eccolo qui, il vero grosso fottuto problema. Perché una parte di me quasi vorrebbe che non fosse così. Renderebbe tutto molto più facile. Prego, Elena, unisciti a Katherine nel club delle stronze. Riunioni infrasettimanali, cocktail e stuzzichini inclusi.

Peccato che facile non rientri nel mio vocabolario. Peccato che lei sia Elena, che io sappia che lo intende per davvero, e che anche in questo frangente io non possa farle una colpa per questo.

"Sto bene, Elena. Sono un ragazzo grande, so incassare un rifiuto."

Scuote appena la testa. "Non avrei mai dovuto lasciare che le cose diventassero così incasinate tra noi."

"Come ho detto: ragazzo grande."

Tiro un angolo delle labbra verso l'alto per sottolineare la mia frase, e lei fa lo stesso di rimando.

Per un breve attimo, ho quasi l'impressione che questa cavolo di situazione di sentimenti scombinati e male assortiti possa davvero funzionare: io imparerò di nuovo a togliermela dalla testa e a pensare a lei solo come ad un'amica, lei si preoccuperà per me dispensando consigli per arginare la mia costante promiscuità sentimentale, e ci ritroveremo tutti insieme a riderci su al primo compleanno del figlio di Stefan e Caroline.

Poi Elena piega il viso di lato per sbirciare oltre le mie spalle e quell'abbozzo di sorriso sul suo volto … puff, svanisce all'istante.

Quando mi volto, Katherine è appena saltellata giù dall'ultimo gradino della scalinata, vestita solo della maglietta blu che indossavo io ieri sera e che a malapena arriva a coprirle il sedere.

"Buongiorno!"

Incrocia le mani sopra la testa per stiracchiarsi e scoprire l'altro pezzo del suo abbigliamento, una brasiliana di pizzo nero che le incornicia le natiche meglio che a una modella su una copertina di Playboy, prima di gettarmi entrambe le braccia al collo ed iniziare a fare le fusa più false di tutto il suo repertorio.

"Perché ti sei alzato così presto? Avremmo potuto fare il bis. O tris, o … non lo so, penso di aver perso il conto ieri notte?"

Mi libero della sua presa con una smorfia ed uno scatto infastidito delle spalle.

Quando poso di nuovo gli occhi su Elena, noto che ci sta guardando con una specie di strano orrore incredulo, la bocca semi-spalancata e le braccia adesso conserte intorno al petto.

E' un secondo, in realtà, non molto di più, quello in cui incrocio il suo sguardo e vedo tutto il mondo che ci passa dentro, il cambiamento da ferito, tradito, a schifato, ed infine … così incazzato che non so neanche come dovrei reagire.

E' vero che solo qualche sera le avevo detto che di Katherine non poteva fregarmene di meno e adesso è appena balzata fuori seminuda dal mio letto … Ed è vero che, per un momento, penso quasi di partire con tutte le giustificazioni del caso, con l'intero pacchetto "ero-ubriaco-e-triste" … solo che poi, beh, era o non era lei, quella che ha messo in chiaro come stanno le cose come tra noi?

"Allora, ho trovato solo questi due di martelli, secondo te quale …" Ci voltiamo tutti di scatto verso Caroline, che sbuca sulla cima delle scale di ritorno dalla cantina, con un martello in ognuna mano. Si ferma a rivolgere uno sguardo disorientato a tutti i presenti "…. Cosa sta succedendo qui?"

"Devo andare," si affretta a dire Elena, mentre si piega a riprendersi la borsa che aveva posato sul divano, con un scatto secco che trabocca di furia trattenuta. "Avevo dimenticato … Devo essere al Grill."

"Ma avevamo appena cominc-" protesta Caroline.

"Mi dispiace, Care. Ti chiamo, ok?"

Si avvia a passi decisi verso l'uscita, senza guardarmi in faccia, ma assicurandosi di scontrarmi piuttosto violentemente contro la spalla nel passarmi accanto. Vedo lo scenario del primo compleanno di mio nipote dissolversi nell'aria con un ultimo, scoppiettante, sbuffo di fumo.

Lo schiocco del portone che si chiude con forza riecheggia ancora nella sala, quando mi volto minaccioso verso Katherine, che invece dal canto suo alza infastidita gli occhi al cielo con fare melodrammatico.

"Oh, ti prego!" mi anticipa. "Come se non ti avessi appena fatto un favore. Quell'espressione da cucciolo preso a calci con cui la guardi non ti dona. È solo patetico."

"Ti hanno nutrito a pane e zolfo da bambina, vero? Perché spiegherebbe un sacco di cose."

"Se tu ti decidessi a firmare quei cavolo documenti che ti ho portato, stai tranquillo che non dovresti vedermi mai più, perché sarei fuori dai piedi in un batter d'occhio!"

"Non ti dò tre quarti del mio patrimonio!"

"Guarda che un milione e duecentomila dollari sono una cifra perfettamente ragionev-"

Un colpo secco così violento da far tremare il pavimento, ci fa sobbalzare entrambi e voltare in direzione di Caroline, che ha appena scaraventato entrambi i martelli a terra sul tappeto e ci sta guardando entrambi con una paurosa violenza assassina.

"La prossima volta …" scandisce gelida, prendendo un profondo sospiro come per imporsi di controllare la sua reazione, e poi indicando prima me e poi Katherine con il dito indice. "Questi finiscono contro le vostre teste. Non vi sopporto più!"

Caroline lascia la stanza battendo i piedi con un rumoroso click-clock inviperito, ed anche io esco incazzato di casa, maledicendo Katherine, il giorno in cui l'ho incontrata, me stesso e la mia fottuta incredibile capacità di rovinarmi sempre con le mie stesse mani.


"Allora …" cominciò Elena, sistemandosi meglio in avanti per appoggiare i gomiti sulla sottile balaustra di metallo. "… adesso mi dici perché siamo qui?"

Mi strinsi nelle spalle e mi appoggiai all'indietro contro la parete della struttura, il cui freddo metallico mi percorse la schiena anche attraverso la giacca di pelle.

"Mi piace la vista."

Elena posò il mento sulle mani, incrociate una sull'altra.

"E' una bella vista."

Sotto di noi, aguzzando lo sguardo, era ancora possibile intravedere nel buio la sagoma spigolosa della Camaro, parcheggiata a pochi metri dalla vecchia torre cisterna dell'acqua su cui ci eravamo arrampicati, su per la sottile scaletta di metallo mezza arrugginita, usando come unica luce quella di una torcia di scorta che avevo recuperato dal vano porta-oggetti. Ci eravamo seduti sul parapetto di quella costruzione imponente e fuori uso che non aveva mai fatto davvero paura a nessuno, con le gambe che dondolavano nel vuoto e nell'immobilità silenziosa della notte.

Più avanti, in lontananza, semi-nascosto dai rami degli alberi, si apriva l'agglomerato compatto del centro città, ingoiato dall'oscurità informe tutto attorno e puntellato dai bagliori più brillanti dell'illuminazione cittadina e da quelli più fievoli delle case, che continuavano a spegnersi mano a mano che la notte avanzava.

Elena inclinò la testa per posare il viso sui suoi gomiti incrociati sulla ringhiera, rivolgendolo verso di me. Sulle sue labbra comparve l'ombra di un sorriso leggero e sereno che mi affondò dritto tra il petto e lo stomaco, e da lì ne tirò come sempre fuori corde e appigli che non sapevo neanche come diavolo facesse a trovare.

"Venivo qua spesso con Stefan quando eravamo ragazzini. C'è un piccolo fiume là più avanti," glielo indicai allungando un braccio. Anche se era impossibile vederlo nel buio, era comunque possibile sentirne lo scroscio tranquillo e costante in lontananza, "dove mio padre ci portava tutti gli anni, di solito appena iniziava la primavera. E' vicino alle cascate, ma non è grande o troppo profondo, così si può davvero fare il bagno senza essere trascinati via. Solo che io e Stefan ci allontanavano sempre per venire fin qua, salire in cima e guardare ciò che c'era sotto. Mio padre, ogni volta, si incazzava da morire."

Elena si sporse appena, per dare una sbirciata verso i venti metri di vuoto sottostante.

"Non è pericoloso?"

"A undici anni, sono cascato da quasi metà scalinata e mi sono rotto un gomito. Frattura esposta. Un inferno."

"Sei un incosciente," commentò scuotendo appena la testa. "Un maledetto incosciente."

Scoppiai a ridere di fronte al tono solenne con cui lo disse.

"Sono seria!" ribatté con convinzione. "Avresti potuto farti male gravemente."

"Ma non è successo."

"Quindi," asserì dopo essersi lasciata sfuggire un sospiro di rassegnazione ed essere tornata a posare il mento sulle mani, "Siamo qui per ripercorrere le malefatte del piccolo Damon."

"No. Siamo qui perché è il mio compleanno. O meglio," mi corressi subito, sbirciando l'ora sul display luminoso del mio cellulare che tirai brevemente fuori dalla tasca, la mezzanotte passata da quasi quaranta minuti. "Ieri era il mio compleanno."

Elena si raddrizzò di colpo, la bocca dischiusa per la sorpresa. Uno avrebbe pensato che la reazione successiva fosse farne uscire un bel "Oh, buon compleanno!", magari con tanto di bacino sulla guancia, ed invece no, ciò che seguì fu un dolore acuto ed improvviso sulla spalla, dove venni colpito dal suo pugno piccolo e preciso che non avevo neanche minimamente visto arrivare.

"Ouch!" reagii, massaggiandomi con la mano il punto colpito. Che cazzo se faceva male. "Perché?!"

"Perché sei un idiota!" esclamò infuriata. "Non posso credere che tu mi abbia tenuto nascosto il fatto che era il tuo compleanno, per di più il tuo diciottesimo! Ti avrei preso un regalo e avresti potuto avere una festa e…"

"Non voglio nessun regalo e di certo nessuna festa," la interruppi roteando gli occhi al cielo. Quello era proprio ciò che avevo provato ad evitare in tutto il giorno, regali e sorprese e altre stupide manifestazioni di giubilo obbligato, quando io mi sentivo solo un giorno più vicino a non sapere cosa cazzo fare per il resto della mia vita. "I compleanni sono sopravvalutati."

"Ma avrei potuto prepararti una torta!" continuò lei a protestare offesa.

"Allora l'ho scampata bella," sogghignai.

Un altro pugno, dritto nello stesso identico punto di prima, che riaccese subito il dolore moltiplicandolo per dieci.

"Dannazione, Elena! Sei così piccola, da dove diavolo ti viene fuori tutta questa violenza?"

"Non insultare le mie torte immaginarie. E' vero che non ci ho mai provato, ma mia madre aveva anche vinto dei premi per la sua pasticceria, potrei sempre avere un po' dei suoi geni, no?"

"Ok, va bene!" concessi alzando le mani in segno di resa, perché, dio, davvero avevo paura che potesse colpirmi di nuovo. "Allora facciamo che mi devi una torta."

"Ti devo una torta. E te la preparerò davvero ..." ribadì risoluta, ma finì per esitare e lasciar cadere la frase. Poi sospirò e si lasciò anche lei andare all'indietro contro la solida parete di metallo."… E, hai ragione, quasi sicuramente sarà terribile."

Le diedi un colpetto di conforto spalla contro spalla e mi piegai verso di lei per bisbigliarle, "La mangerei lo stesso."

Sollevò il volto, appena, verso di me. Sembrò di colpo così vicino. Così reale. Semi-nascosto dalla notte, eppure così tangibile da poter intuire la curva piena del suo labbro inferiore, il punto esatto dove disegnava un mezzo sorriso. Da non vedere nient'altro.

Un lieve tremito ci passò in mezzo. Il vento, probabilmente.

"Hai freddo?" domandai, ma la voce mi uscì fuori così smorzata da non suonare neanche come la mia.

Qualche secondo di silenzio, prima che Elena si riscuotesse, alzando lo sguardo verso di me.

"Un po' …"

Ritirò le gambe e le rannicchiò piegandole sotto al suo corpo. Si avvicinò e, con la semplicità che mi coglieva ogni volta di sorpresa, posò la testa sul mio petto, su in alto, vicino alla spalla. Feci scivolare il braccio attorno alla sua schiena, che mi sembrò piccola anche infagottata nella giacca, e, per un po', restammo semplicemente così. Senza né parlare, né sentire il bisogno di farlo.

Avevo già chiuso gli occhi, quando le sue unghie presero distrattamente a disegnare linee astratte sulla stoffa dei miei jeans, appena sopra l'altezza del ginocchio.

Un'improvvisa serie di tanti piccoli brividi partirono da lì, si diramarono ovunque, finirono sparati dritti al mio cervello.

Non solo lì. A tutti i miei sensi, svegli tutto d'un colpo e concentrati solo su quello.

La sua mano, il mio ginocchio. La sua mano, il mio …

Dannazione. Dovetti ringraziare che il buio nascondesse la pronta reazione che tutto ciò - in quell'attimo in cui me la immaginai salire più su, a continuare ad accarezzarmi decisamente più in alto tra le mie gambe - innescò nei miei pantaloni.

Ma non si mosse di un millimetro da lì. Stranamente, io stesso mi ritrovai a preferire che fosse così.

Avevo forse quattordici anni l'ultima volta in cui mi ero davvero trattenuto, in quel genere di situazioni, dall'agire in base a risposte fisiche per portare appena possibile le cose al livello successivo. Forse neanche allora.

Ma quella era una cosa nuova. Non innocente, non oltre la linea.

Perché lei era Elena e, per una volta, stare lì a godersi quel formicolio di eccitazione dato da un gesto così semplice, senza nessuna prospettiva di ottenere qualcosa di più, era meglio di qualsiasi altra cosa. Un gusto insolito appena scoperto che non vuoi contaminare mischiandolo con nient'altro.

Mossi la dita fino alla parte alta del suo braccio, che accarezzai sopra la stoffa del suo cappotto, nel mentre pensando a come sarebbe stato farle scorrere davvero a contatto con la sua pelle. Le feci salire tra i suoi capelli, assaporandone lentamente la consistenza morbida e liscia sotto i polpastrelli.

Il suo respiro accelerò. Lo avvertii dal movimento del suo petto, dal ritmico e più rapido pulsare del suo cuore contro il mio torace.

Come me ne accorsi, mi fermai. Un altro pensiero mi attraversò il cervello.

Lei non era mia. Era così sbagliato da parte mia tenerla e accarezzarla in quel modo, senza reclamarla come tale né sapere che linea stessi percorrendo, quando un altro ragazzo, in una di quelle case in lontananza - un maledetto bravo ragazzo, per di più - ne aveva molto più diritto di me.

"Cosa ne dice il tuo ragazzo del tempo che passi con me?" le chiesi, riaprendo anche gli occhi per riemergere del tutto da quei pensieri sulla mia migliore amica dal limite indefinito.

"Matt sa che siamo amici," rispose a bassa voce. Una pausa, incerta. "E poi, è diverso."

Aspettai, qualche istante.

Un uccello notturno, da qualche parte poco lontano, aveva iniziato a lanciare il suo richiamo e rompere il silenzio.

"Diverso come?…"

"Sai …" cominciò, le unghie che avevano ripreso a disegnare i loro motivi. Dovetti ricorrere ad uno sforzo di concentrazione enorme per non ricadere negli stessi pensieri di poco prima. "Ci sono volte, piccoli momenti, in cui penso davvero di essere innamorata di lui. Ma poi … non ho neanche ancora compiuto sedici anni. Come faccio a sapere cosa vuol dire essere innamorati? Però tu …" la sua voce sfumò in una nota più intensa, e esitante al tempo stesso, che mi fece attorcigliare dentro pur non avendo la più pallida idea di cosa stesse per dire. "… So che non saprei cosa fare se tu non fossi qui. Mi sei mancato così tanto quando abbiamo litigato. Nessuno scherzo idiota in mezzo a film paurosi. Niente commenti maliziosi sugli altri genitori alle partite di Jeremy. Niente fughe improvvisate da casa nel mezzo della notte. Sei mio amico. In realtà, sei il mio migliore amico. Di te … ho bisogno."

Avrei probabilmente dovuto rispondere qualcosa. Qualcosa di profondo, qualcosa che un bravo ragazzo sensibile come il suo Matt non avrebbe avuto problemi a tirare fuori. Ma niente - niente - di quello che avrei potuto dire sarebbe mai suonata giusta o abbastanza in grado di esprimere quanto quelle parole avevano appena significato per me.

Così non lo feci. Invece, chiusi gli occhi, chinai la testa per lasciarle un bacio tra i capelli e, dentro di me, promisi ad entrambi che questa cosa, quello che avevamo, non lo avrei mai rovinato.

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Note:

[1] Quartiere di San Francisco

[2] Piccolo reminder che, negli USA, l'età legale per bere alcol ed entrare in alcuni locali non sono i 18 ma i 21 anni.



Spazio autrice

Buonasera, care.

Prima di tutto. A Bloodstream_, che mi ha consigliato la bella canzone iniziale e incoraggiato spudoratamente verso il fluff dell'ultima scena: ti devo una torta :)

Lo so, non succede quasi niente in questo capitolo, che è molto più concentrato sui flashback rispetto al presente ed è un po' più riflessivo del solito. Ma ho pensato SL un po' come una storia di crescita, sia nel presente che nel passato, e mi sembrava giusto che in questo caso il 18esimo compleanno di Damon fosse il focus principale del capitolo.

Nei flashback, vedete fare la sua apparizione, per la prima volta, anche miss Charlotte-non-più-Salvatore, che nella mia mente ha un po' il visino di Heather Graham e che sì, ha lasciato i suoi danni sia su Damon che su Stefan almeno quanto Ciuseppi. Sarei molto curiosa di sentire che ne pensate di lei, dato che confrontarsi con il "mito da fanfiction" di Mamy Salvatore fa sempre un po' paura e, personalmente, non volevo renderla una figura nè troppo idealizzata-perfetta, nè troppo negativa, come Ciuseppi del resto. Ho un debole per le sfumature.

Inoltre, sull'ultima scena: ho cercato di darvi un'idea dei vari strati che compongono il rapporto tra teen Damon e teen Elena, che non ridurrei mai nè solo all'etichetta di amicizia, nè solo a quella di innamoramento, dato che è qualcosa che bene o male è rimasto radicato in entrambi anche a distanza di anni. Spero di esserci riuscita, a voi il giudizio.

Ed è sdolcinata, lo so, ma ormai che siamo dentro al fluff tanto vale esserci dentro fino in fondo, quindi questa è la canzone che mi immagino come sottofondo all'ultimo flashback.

Voglio mandare davvero un ringraziamento speciale a tutte voi meravigliose ragazze che mi accompagnate in questa storia con le vostre parole: impiego sempre molto a portare a termine un capitolo perchè - anche se il tempo è, come per tutte immagino, quello che è - questa è una storia che cerco di curare molto, ed anche se il pubblico/le recensioni sono diminuite, voi che siete rimaste avete sempre pensieri e riflessioni talmente belle e interessanti che mi commuovete e mi ripagate di tutto. Se sono ancora qui è grazie a voi.

Un bacio


   
 
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