Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Dynamis_    26/04/2014    3 recensioni
“Il Capitano era una persona moderata, una di quelle che penseresti di non poter mai vedere se non in un'antica opera marmorea o in un'illustrazione di magistrale abilità: ogni singolo dettaglio del suo viso, ogni singolo capello color del grano, era in perfetto ordine, irremovibile, inalterabile. La sua bellezza traspariva nell'equilibrio tra le parti, dal suo naso perfettamente ritto alla profondità e grandezza di quegli occhi che sembravano cielo liquido, dalla sua mascella squadrata alle labbra turgide e rosee.
Erwin era un uomo attraente e carismatico, così tanto che era capace di ottenere favori senza bisogno di chiederli due volte - questo era il caso di Levi, per esempio.”
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Irvin, Smith
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia al di fuori dello studio picchiettava forte, si infrangeva sui vetri in sottili e ghiacciate gocce che, inarrestabili, solcavano quelle superfici opache e appannate, rigandole appena.
All'interno della sala si udiva il sommesso scribacchiare della piuma contro la carta, la luce era dettata dalle torce appese alle pareti su appositi sostegni e, proprio a causa delle ombre rigettate sul foglio, a Levi riusciva difficile concentrarsi.
Egli se ne stava lì a udire il ticchettio della pioggia al caldo, una tazza fumante di tè tra le mani, e a scrivere fogli su fogli di rapporti riguardo le recenti spedizioni.
Ciò che amava della pioggia era il fatto che annullava qualsiasi altro rumore e suono, che rendeva ovattata ogni singola percezione. Era semplice annullarsi in quel quieto sentire - non che Levi avesse problemi a nascondere le sue emozioni, ma la pioggia facilitava quel compito e gli permetteva di pensare con ancor più attenzione.
Ogni volta che pioveva gli sembrava di vedere da un altro punto di vista l'esistenza di ogni singolo uomo: erano come quelle gocce che, colpendo le vetrate, continuavano ad avanzare superando molti e molti ostacoli - le rigature dei vetri, le scheggiature - fino a giungere al bordo della vetrata e precipitare, ponendo così fine alla propria corsa verso l'indistinto.
Se c'era un punto saldo sul quale potessero fare affidamento era il fatto che tutti avrebbero operato quel salto nel vuoto, prima o poi, si sarebbero lasciati tutto alle spalle, una sottile scia come traccia del loro cammino.
Ebbene, quando si trovava dinnanzi a quel lavoro ingrato, non poteva far altro che rimanere soprappensiero e arrendersi, capendo che non avrebbe concluso nulla nemmeno quella volta.
Non amava quei compiti Levi, ed Erwin lo sapeva bene. Ciò però non gli impediva di assegnargli quella mole insormontabile di lavoro almeno due volte alla settimana - come se non avesse nulla a cui pensare!
Il lavoro era estenuante, persino peggiore di affrontare i titani a mani nude - o almeno, questo era quello che pensava il Caporale - e occupava molto del suo tempo, che avrebbe preferito spendere in altri modi e occupazioni, più liete magari.
La verità è che Levi preferiva sempre 'operare', 'agire', piuttosto che pensare o ordinare scartoffie, quello era un compito che riusciva ad allietare solamente il Capitano e Levi non si capacitava di come potesse sortire quell'effetto nel suo superiore: non c'era nulla di interessante nello stare chini sulla scrivania per ore e ore, nel vedere la luce affievolirsi istante dopo istante senza aver combinato nulla di concreto.
Eppure, Erwin riusciva a trovare quiete in quegli atti, in quelle pile di fogli firmati e revisionati, la stessa quiete che Levi provava quando affondava le lame nella carne dei loro nemici, quando sentiva l'olezzo del loro sangue.
Erano due figure opposte, ma complementari: se l'uno pensava accuratamente e adoperava particolari strategie per far fronte agli attacchi, l'altro era pronto ad agire in qualsiasi momento con enorme lucidità e sangue freddo. Erwin era la mente, lui il braccio, il suo braccio destro - così gli aveva detto il Capitano.
Ne era fiero, sul serio, ma non in quel momento, non davanti a quelle cartacce del diavolo che sembravano aumentare costantemente ed esponenzialmente, non davanti alla prospettiva di altre ore estenuanti passate a intingere la piuma nell'inchiostro.
Fu con un grave suono gutturale che spinse via la sedia e si alzò prontamente, gli stivali che scricchiolavano, dirigendosi verso la finestra.

***

Nell'altra ala della Chōsa Heidan, in una sala anonima e perfettamente curata, il Capitano Erwin Smith stava riponendo inchiostro e piume nel suo solito cassettino.
Il mobilio della stanza non era nulla di sfarzoso, perfettamente semplice e levigato, geometricamente perfetto.
La stessa aura di perfezione si intravedeva in quell'uomo le cui mani stavano adesso aggiustando le pieghe della camicia, che ricadeva leggera e naturale sul suo corpo muscoloso, sulle sue larghe e possenti spalle, le quali portavano su di loro il peso di numerosi cadaveri, cenere tra la cenere.
Aveva portato a termine da poco i suoi incarichi inderogabili ed era pronto ad andare nelle stanze del Caporale per ritirare i documenti che gli aveva fornito e che gli aveva educatamente intimato di compilare.
In realtà, già da alcune ore aveva pensato all'espressione che il Caporale avrebbe di certo ostentato davanti alla prospettiva di un intero pomeriggio con il sedere attaccato alla sedia, e aveva sorriso ben più di una volta, soffocando subitaneamente le risa erompenti.
Levi non era tipo da acconsentire tacitamente alle sue direttive, probabilmente gli aveva lanciato contro tante di quelle maledizioni che Erwin si stupiva di essere ancora in ottima salute.
Era quella una delle parti più esilaranti della sua posizione: vedere Levi irritato era uno degli spettacoli che preferiva godersi appieno a fine giornata, quando la noia era talmente tanta che occorreva un attimo di spensieratezza e ilarità.
D'altro canto, il Caporale non tradiva mai le sue aspettative, era sempre pronto a ostentare un'espressione contrariata, le sopracciglia aggrottate e le labbra taglienti serrate in una linea retta, pronte ad apostrofarlo in malo modo.
Dall'alto della sua posizione, il Capitano avrebbe potuto tranquillamente demandare a qualcun altro il compito di ritirare le carte, ma non poteva - non voleva - assolutamente perdersi quell'inutile quando divertente spettacolino.
Il primo atto sarebbe iniziato di lì a poco.
Prese la giacca con il simbolo della Squadra Ricognitiva e la indossò, facendo estrema attenzione a non piegare la camicia precedentemente stirata.
Il Capitano era una persona moderata, una di quelle che penseresti di non poter mai vedere se non in un'antica opera marmorea o in un'illustrazione di magistrale abilità: ogni singolo dettaglio del suo viso, ogni singolo capello color del grano, era in perfetto ordine, irremovibile, inalterabile. La sua bellezza traspariva nell'equilibrio tra le parti, dal suo naso perfettamente ritto alla profondità e grandezza di quegli occhi che sembravano cielo liquido, dalla sua mascella squadrata alle labbra turgide e rosee.
Erwin era un uomo attraente e carismatico, così tanto che era capace di ottenere favori senza bisogno di chiederli due volte - questo era il caso di Levi, per esempio.
Fu con una risata bieca sulla labbra che, aperta la porta, si diresse lungo il corridoio buio e umido in quel giorno di pioggia, affondando gli stivali in delle pozzanghere di acqua piovana che erano riuscire a superare l'ostacolo costituito dalle finestre, apparentemente chiuse, producendo sonori scrosci.
Ancora poco e avrebbe avuto la giusta dose di divertimento quotidiano, gli bastava solamente aprire la porta e la commedia sarebbe iniziata.

***

Toc toc.
Levi alzò lo sguardo dai fogli sparsi sulla scrivania, la piuma ancora in mano e sospesa nell'atto di scrivere.
Doveva essere Erwin sicuramente e lui non aveva ancora finito di compilare e revisionare quelle cartacce della malora.
Erano le 18:47, la luce si era affievolita ancor di più al di fuori della sala e il naso di Levi si trovava a pochi centimetri dal foglio, gli occhi parimenti serrati nel tentativo di discernere qualcosa, anche poche e sottili parole scritte con la grafia elegante del Capitano.
Sapeva benissimo che Erwin sarebbe passato a riprendere il malloppo di fogli che gli aveva affidato precedentemente, ma non così presto, questo andava oltre le sue previsioni.
«Avanti.»
La porta si aprì, cigolando sui cardini e facendo passare la figura del Capitano, la mano stretta attorno alla maniglia di ottone e l'espressione pacata e irremovibile sul viso.
«Buonasera Rivaille, sono passato a prendere i rapporti.»
I suoi occhi saettarono sulla scrivania in completo disordine e sulle tracce di inchiostro sui fogli - inchiostro che certamente Levi avrebbe pulito di lì a poco.
«Posso accomodarmi?»
Non una parola, il Caporale spinse la sedia con il piede verso il suo superiore, in un tacito assenso.
Erwin era abituato ai suoi comportamenti, il suo fare così taciturno e distaccato, come se tutto attorno a lui non gli appartenesse, come se vivesse la realtà da un punto di vista esterno. Apprezzava quella sua capacità di nascondere le emozioni, anche le più difficili da soggiogare, e così anche il suo autocontrollo, sia in guerra che nella realtà di ogni giorno.
Ebbene, il Caporale stette lì impalato, la piuma ormai calata e gli occhi gelidi e inespressivi su quelli del Danchō.
Incrociò le dita tra loro, poggiando i gomiti sul mogano, e portò le mani davanti al suo viso, l'espressione a tratti seria e a tratti irritata. 
«Io non comprendo perché ti ostini a demandare a me questo lavoro quando sai in partenza che non lo porterò a termine.»
«Suvvia, Rivaille, non mi pare poi così grave e difficile compilare qualche modulo.»
Non l'avesse mai detto: Levi gli lanciò un'occhiataccia perforante, una di quelle che - se ne avesse avuto il potere - avrebbe persino potuto stendere un titano di quindici metri, figurarsi lui.
«E comunque, per la cronaca, questo è l'ultimo favore che accetto di farti, Erwin. Non spetterebbe a me compilarli.»
Solita frase che il Caporale si ostinava a ripetere ogni qualvolta si trovasse lì in quella situazione, eppure non una volta aveva negato un favore al suo superiore, non una volta gli aveva voltato le spalle, soprattutto per compiti così stupidi.
Erwin sorrise appena canzonandolo e si sporse in avanti, verso la figura minuta e in penombra di Rivaille, le braccia poggiate sulla scrivania e la testa leggermente inclinata lateralmente.
«Non ti ho mai obbligato, Levi. Sai benissimo che avresti potuto rifiutare in qualsiasi circostanza.»
«Tch.»
Voltò il viso di lato, Levi, e strinse le mani sui braccioli della poltrona, le nocche bianche per lo sforzo che stavano subendo.
Udì una risata biascicata e profonda, una di quelle che sentiva raramente erompere dalle labbra del suo superiore e che lo sorprese oltremodo.
Non ebbe nemmeno il tempo di girarsi nuovamente verso Erwin che udì lo strisciare della sedia e due dita sul suo mento, che lo costrinsero a incastrare i propri occhi con quelli del Capitano, il quale occupava adesso tutta la sua visuale.
Levi trattenne il fiato, gli occhi saettavano a destra e a manca e il cuore gli batteva velocemente nel petto.
Ogni qual volta si trovava lì, dinnanzi a quei due profondi pozzi azzurri, perdeva qualsiasi freno, qualsiasi razionalità, e si ritrovava a fantasticare sul sapore delle sue labbra, sulla loro consistenza e sulla forza che avrebbero esercitato contro le proprie.
Erwin schiuse leggermente la bocca e si avvicinò ancor di più a quella del moro, solleticandolo con il proprio respiro, dopodiché prese di nuovo a ridere, allontanandosi leggermente dal volto del Caporale.
Finiva sempre così, non una sola volta il Capitano si era spinto oltre, non una sola volta gli aveva dato quel calore, quel contatto passionale che più di una volta aveva desiderato. 
Semplicemente si divertiva a vederlo pendere dalle proprie labbra - letteralmente - e lo divertiva ancor di più vedere come il corpo di Levi restasse rigido e ben saldo alla poltrona, in quei momenti, come le sue gote si arrossassero di uno squisito color porpora e come egli tentasse di nasconderlo.
Si stupì non poco il Caporale, quando con un solo fluido movimento il Capitano mise una mano dietro la sua nuca e lo attirò inesorabilmente a sé, verso quelle labbra perfette e turgide.
Era persino meglio di quanto avesse immaginato.
Le loro labbra aderivano perfettamente, si modellavano le une sulle altre quasi si conoscessero a menadito. Il suo respiro poi - quello di Erwin - era così caldo e dolce che era impossibile non cedervi, era impossibile non rimanerne ammaliati.
Il biondo tirò il moro su di sé, un sorriso sghembo a riempirgli le labbra, per annullare la loro lontananza fisica, per far sì che i loro corpi, così come le loro labbra, combaciassero alla perfezione.
C'era solamente urgenza nei loro movimenti, eccesso e passione. Si desideravano più di quanto fosse loro concesso.
E poi... Levi amava quelle mani - le sue mani - che percorrevano e carezzavano il suo viso, quelle mani così possenti che sapevano essere delicate, che sapevano compiere gesti misurati e leggeri, che erano in grado di farlo rabbrividire se solo ne veniva sfiorato.
La lingua del Capitano si fece strada sulla sua bocca umida e calda, riuscendo a trovare anche la sua, di lingua, e intrecciandosi a quella.
Gli occhi di Levi si aprirono quando quella prese a vorticare, quando sfiorò il suo palato e si insinuò ancor più a fondo; egli allora reagì: aggirando l'ostacolo della scrivania che si frapponeva tra loro, spinse per terra il Capitano e gli si stese addosso, il ginocchio tra le sue gambe e i loro volti vicini, sin troppo.
Non avrebbe mai pensato di poter perdere così il controllo, di desiderare in quella maniera Erwin, in quel modo insano e totalizzante. Prese a muovere il ginocchio Rivaille ma fu fermato dalla risata del Capitano, totalmente diversa dalla prima, molto più calda.
«Quanta fretta, Rivaille.»
Sì, aveva fretta. 
Aveva fretta perché aveva aspettato sin troppo tempo, perché gli aveva mostrato ben più di una volta quanto quel corpo lo attraesse, perché da un giorno all'altro avrebbero potuto non esserci, cenere e sangue nel vento.
Sentiva necessario quel contatto per rendersi di nuovo umano, perché mai nulla lo aveva fatto sentire così vivo come quelle labbra premute contro le sue, come quel corpo sotto di sé, quel respiro così ammaliatore, la sua voce profonda e seducente.
Aveva fretta perché, in un mondo dove vige la legge del tempo, del lento scorrere dei fatti, tutto sarebbe cambiato, anche quello stesso pomeriggio avrebbe perso colore nella loro mente, non si sarebbe lasciato alle spalle nulla se non la malinconia e il rimorso.
Levi però non disse una parola, non era una persona loquace o particolarmente emotiva. Semplicemente, assunse la sua solita espressione distaccata, gli occhi di nuovo freddi sotto quelle palpebre pesanti e cerchiate, quegli occhi che avevano visto tanto - troppo - per una vita intera.
Eppure, stretto vicino quel corpo, si era sentito libero come mai aveva provato sino ad allora. Non avrebbe rinunciato a quella sensazione per nulla al mondo.
I loro occhi si incontrarono nuovamente, illuminati dal chiarore della luna. La luce lunare irradiava ogni singolo contorno, ogni singolo soggetto, rendendo le loro pelli ancor più chiare e perfette, scolpite su un marmo prezioso e ben levigato.
Si diedero un ultimo bacio, uno casto e denso di sospiri, prima che Erwin, posando una mano sul pavimento e facendo leva sul braccio, si alzasse e gli sorridesse, i capelli leggermente scompigliati e la camicia spiegazzata.
«Il termine è rimandato a domani, confido che me li farai trovare nel mio studio perfettamente compilati nel tardo pomeriggio.»
Gli rivolse un'ultima occhiata e chiuse la porta dietro di sé, lo spettro dell'ultima risata sul viso.
 
   
 
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