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Autore: Glory Of Selene    26/04/2014    0 recensioni
"Ho creduto, in verità, di amare un uomo. Un uomo e il suo sguardo. Un uomo e la sua storia, che non ho mai conosciuto. Un uomo e l’idea che ho potuto farmi di lui, osservando soltanto lo scorrere lento della sua vita davanti ai miei occhi, senza poterla mai toccare."
Una villa. Enorme, in disfacimento. Una finestra. Un prato, e la linea dell'orizzonte. Un uomo, su quel prato. Una ragazza, in quella villa. E un sogno, ricorrente...
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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…E quindi continuo a chiedermi se ci sia una cura contro la debolezza. La debolezza dentro. Quella che mi gonfia il petto come la tempesta lacera una vela. Quella che mi guarda in faccia e non ha nemmeno il coraggio, lei stessa, di definirsi “viltà”.
 
Fuori era bellissimo.
C’erano mattine che lei si svegliava con gli occhi pieni di quella bellezza, e la speranza che avrebbe potuto rivederla.
Erano i giorni in cui le punte dei suoi piedi freddi toccavano il legno scuro del pavimento con più sicurezza di quanto fossero abituate a fare, e i drappi bianchi, quasi trasparenti, della sua camicia da notte svolazzavano di un’allegria evocata solo e soltanto dal sorriso di lei. Un evento che capitava così raramente.
Raggiungeva la finestra, talmente veloce e silenziosa che persino la casa stessa pareva perseverare nel proprio sonno. Si appoggiava al davanzale, circondata da un mondo cristallizzato nell’eterno attimo del sogno.
L’alba era lì ad aspettarla. L’aurora era giunta da qualche tempo, scacciando con il rosso ardente delle proprie fiamme le ombre violacee del crepuscolo che, sopra di lei, lontano dalla linea dell’orizzonte tanto luminosa da ferire gli occhi, si rannicchiava attorno alle stelle ancora rimaste, come un anziano in procinto della morte abbraccerebbe i suoi unici averi. Il sole nasceva allora, e lei sola era spettatrice di quell’ennesimo miracolo della vita; che fosse destinato a ripetersi ogni giorno, non aveva importanza alcuna. Si sentiva benedetta dalla luce rosata del primo raggio ch’egli donava al mondo. Il primo sguardo di un bimbo che apre i propri occhi e scopre di vedere.
In quei momenti, quasi trascurava ciò che dall’orizzonte si estendeva fino alle fondamenta della sua vecchia casa. L’erba soffice in balia del vento, che sapeva mutar docile il proprio colore a seconda di quale fosse il signore della volta celeste, o il nome della stagione a cui doveva devozione. I fiori notturni, che stanchi richiudevano le proprie fragili corolle, mentre il resto della vita intorno a loro si destava.
In quei momenti, quasi trascurava persino lui.
L’aveva sempre visto da quel davanzale. Sul prato, e sin dall’inizio gli era sembrata una cosa singolare, ed eccezionale al contempo.
Era un uomo. E indossava un’armatura; ma sotto i raggi del sole riluceva di rosso, e dopo qualche tempo capì che doveva essere arrugginita. Il simbolo che portava dipinto sull’ampio petto era sporco e graffiato, e aveva l’aria stanca di chi è appena fuggito da qualcosa di terribile. Ma lì intorno, oltre all’erba, ai fiori e alla quotidiana storia, sempre uguale, del sole che nasceva e moriva all’orizzonte, non c’era altro. Di certo non guerre.
C’era forse la villa dove lei viveva, ma col tempo imparò, assurdamente, a dubitarne. Lui non si era mai accorto della sua presenza. Sarebbe stato normale, avrebbe forse chiesto aiuto, cercato il naturale conforto di un tipo di umanità, qualunque tipo di umanità, spinto dal bisogno disperato che sente l’uomo appena capisce di essere rimasto solo per sempre. Nessun uomo può tollerare la solitudine eterna. Alla solitudine eterna preferirebbe l’eterna guerra, l’eterna tortura, l’eterno inganno. Ma non l’eterna solitudine, mai.
Era probabilmente per questo motivo che lei lo ricercava così spesso. Che a volte gettava un’occhiata fuori dal vetro, solo per vederlo camminare avanti e indietro, per sapere che era ancora lì.
Che cosa ci facesse in mezzo a quel prato, non lo sapeva. Probabilmente non l’avrebbe saputo mai. D’altra parte, non sapeva nemmeno che cosa ci facesse, lei stessa, in mezzo a quella villa.
 
Voci, voci confuse. Voci confuse in mezzo alla nebbia. No, non voci, non voci ma urla. Urla quindi. Urla confuse. Urla confuse in mezzo alla nebbia. Io devo vedere. Io devo capire. Capire perché urlano a me, che cosa vogliono dirmi. Io devo vedere, altrimenti impazzisco. Ma non si dirada, questa nebbia non si dirada. Voci, no non voci ma urla, e sagome scure in mezzo alla nebbia. Anzi, una sagoma scura. Una sagoma scura davanti a me. Chi è? Vi prego ditemi chi è. Ho bisogno di capire chi è. Altrimenti… Ah, forse sono già pazza. Se so che devo combatterlo. Se so che devo ucciderlo. Se so che io non voglio ucciderlo, ma che in qualche modo questa decisione non spetta a me prenderla. E a chi? È ciò che chiedo ogni volta alla nebbia. E alle urla. E persino all’ombra nera di cui sono pronta a spargere il sangue. A chi spettano le decisioni della mia esistenza? Perché io non posso vedere, io non posso sapere, io non posso decidere?
 
Si svegliò di soprassalto, che tremava ancora. Gli occhi sbarrati, le ciocche di capelli incollate alle guance sudate, e il respiro accelerato mentre si passava una mano sul viso e si rendeva conto che era stato di nuovo quel sogno.
Sempre lo stesso, da che aveva memoria. Diverso da tutti gli altri incubi di cui era a conoscenza, questo era certo. Le provocava angoscia, più che con le immagini, con la mancanza di immagini. Con quella nebbia che annientava ogni sua possibilità di azione e, allo stesso modo, comprensione. In balia di eventi che neanche sapeva quali fossero.
Si poteva dire, però, che stesse migliorando, di volta in volta. Le cose diventavano più nitide, i pensieri più articolati, la nebbia meno fitta. La prima volta che sognò, un ricordo che le rimase impresso nella memoria tanto da indurla ad evitare il sonno per giorni, fu soltanto nebbia. Muta e semplice.
Aveva pianto per giorni.
Quando vide che il tremore si faceva più debole, si alzò dal letto, provocando la consueta nuvola di polvere, e si trascinò verso la finestra con un’aria più sfinita di quella che aveva avuto prima di andare a dormire.
Aprì le tende e i raggi dorati di un ridente mattino fecero irruzione nella stanza con la consueta vitalità. Lei li salutò con una smorfia dovuta all’improvviso abbaglio e il sorriso di chi rivede un vecchio amico.
Si azzardò a gettare una seconda occhiata oltre la vetrata, sull’erba brillante, soltanto per capire come si fosse svegliato quest’oggi il suo armigero distratto. Bene, a quanto pareva. Si era tolto l’elmo e si era seduto in mezzo all’erba, i capelli castano chiaro, forse più lunghi del dovuto, esposti al vento, e un accenno di barba più scura sul volto né troppo vecchio né troppo giovane. Reggeva con una mano l’elsa della propria spada, una bella arma, per quanto lei se ne potesse intendere di armi, e l’osservava riflettere la luce del sole con un sorriso che, davanti a lei, risultava malinconico.
La ragazza sospirò e si allontanò dal davanzale con la consueta leggerezza. Si sorprendeva spesso a considerare che le sarebbe piaciuto conoscere la storia di quella lama e di quell’armatura arrugginita. Capire il motivo della tristezza del loro possessore e tentare di alleggerirlo dai suoi ricordi. Solo per un istante…
Ma erano fantasie stupide. Perché lui avrebbe dovuto accorgersi di lei, quando anche fosse uscita dalla villa, se per tutto questo tempo non si era accorto della villa stessa?
Raggiunse a passi lenti la porta della sua stanza da letto, e con altrettanta cura posò la mano sulla maniglia d’ottone. Annerita dal tempo, coperta da un sottile strato di polvere, come ogni oggetto sul quale si potesse volgere lo sguardo. Forse anche lei, ormai, si era coperta di una leggera patina di polvere, e non se n’era mai accorta. L’idea, benché fosse agghiacciante sotto certi versi, la fece sorridere mentre abbassava la maniglia e tirava la vecchia porta verso di sé. Si aprì che sembrava nessuno la toccasse da più di un millennio.
La sua testa si affacciò sul corridoio buio che aveva imparato a conoscere tanto bene. La carta da parati che lo percorreva doveva essere stata di un bel celeste, una volta, ma adesso risultava soltanto ingrigita dalla polvere, squarciata dagli anni e resa scura e pesante dall’umidità che sembrava l’avesse colta come un morbo. Più che una casa, pareva la carcassa di una casa, e lei la sola fiammella di anima che si ostinava ancora ad abitarvi dentro.
Eppure sapeva che non era così. Non sarebbe mai riuscita a spiegarlo a qualcuno, ma non avrebbe potuto fare un esempio di qualcosa che fosse più vivo di quella casa. Lei la sentiva. Sentiva il suo respiro, sentiva i suoi vecchi lamenti. Sapeva quando si addormentava, la notte, e quando al mattino il sole la risvegliava sin dalle antiche fondamenta.
Con una sicurezza che non apparteneva ai movimenti del suo corpo fragile, uscì dalla stanza e s’allontanò per il corridoio, immerso nella penombra.
Nonostante tutto, quella casa non la terrorizzava. Non avrebbe potuto, si era lasciata conoscere troppo a lungo e troppo a fondo per sperare di suscitare in lei quella sorpresa insita in natura nell’atto dello spaventare. Quella casa era il suo rifugio, da sempre, sembrava quasi che la propria vita fosse in simbiosi con quella delle pareti che la custodivano. Come una perla con l’ostrica che l’ha generata.
Però, un giorno, si era svegliata e aveva scoperto di non rammentare che cosa fosse custodito nelle altre stanze. Aveva aperto gli occhi e si era resa conto di conoscere soltanto le stoffe del proprio letto a baldacchino. Era sempre stato così? Davvero non era mai uscita da quella stanza? Non seppe giungere a questa conclusione. Ma non avrebbe passato il resto della propria vita a tentare di riportare alla mente immagini ed esperienze che forse non c’erano mai state; ed aveva così deciso di tornarci. Di persona.
Le sembrò, inoltre, un ottimo modo per rendere omaggio a quell’immensa villa che lei, in un atteggiamento probabilmente egoistico, aveva utilizzato soltanto in quell’unica stanza che le dava ciò di cui aveva bisogno.
Camminava per questo lungo quel corridoio, adesso. Conscia di vederlo per la prima volta, ma anche accompagnata dalla sensazione di familiare sicurezza che suscitano tutte le cose rimaste incise irrimediabilmente nel proprio inconscio. Fu con una lieve confusione, dovuta a tale paradosso, che si fermò di fronte alla prima porta.
Era del tutto uguale a quella che custodiva l’entrata della propria camera. Un’austera porta realizzata in legno scuro, priva di decorazioni che potessero sembrare troppo frivole ma della quale si poteva ancora indovinare l’ottima fattura, dietro alla polvere e al marciume. Quando abbassò la maniglia e spinse, si stupì per un istante nel constatare quanto fosse più fredda, al tocco, di quella di prima.
Fu infatti un leggero refolo di vento quello che la investì inizialmente, il quale però aveva un pesante sentore di chiuso e non di fresco come avrebbe dovuto essere. Come un soffio che avesse vagato attraverso quella stanza per chissà quanto tempo, rimbalzando stanco contro le pareti, aspettando solo l’istante in cui qualcuno fosse venuto a liberarlo della propria crudele prigionia, e trovare finalmente, fuori, la morte che si aspettava.
Più nulla, infatti, ella riuscì a sentire dopo, durante i numerosi istanti che passò, spiazzata, ad indugiare sul ciglio della porta. Riusciva ad intravedere un lampadario, grandioso con le proprie volute, spettacolari nella maniera vezzosa di chi si compiace di se stesso, e ombre. Ombre probabilmente gettate dalle numerose candele che sorreggeva, ma proiezioni di cosa?
Sbatté le palpebre, nel tentativo di riaversi dalla sorpresa che l’aveva paralizzata, e si decise ad entrare.
Una mano le sbarrò il cammino.
Statue.
La sala era immensa. Dieci, venti volte la modesta grandezza della sua intima stanza da letto, sorretta da colonne ch’ella non sarebbe mai riuscita ad abbracciare nemmeno con secoli a disposizione per crescere, attraversata da un motivo di piastrelle una volta splendide, ora incrinate ed annerite, scrostate, irriconoscibili.
E poi statue, statue dappertutto. Chinate a terra, inginocchiate, dormienti, a cavallo, impegnate in sanguinosi combattimenti, o intente a fare il bagno vanitose della propria palese bellezza. Statue, su piedistalli o senza, scure come scuro lo era tutto in quella casa resa scura dall’impietosa mano del tempo.
Le sue gambe si mossero senza che nemmeno se rendesse conto, tanto era impegnata a comprendere la maestosa grandezza, seppur in rovina, di ciò che le stava davanti. Continuava a lasciar spaziare lo sguardo sulla costruzione architettonica del soffitto, che andava semplicemente oltre la sua umile comprensione, tant’era bella e al contempo studiata nei minimi dettagli, e poi ancora, sull’ottone di quel lampadario che pareva essere l’unica cosa ancora lucente all’interno della villa.
Pian piano, quando i battiti del cuore si calmarono e riuscì a chiudere la bocca secca, anche i suoi occhi accettarono di abbassarsi, scivolando lungo le colonne, sui corpi e sulle pose che quelle statue erano destinate a tenere per sempre. Ne ammirò la plasticità e la muscolatura. Ne ammirò la drammaticità e la bellezza, che lei non avrebbe mai potuto sperare di eguagliare. Ammirò i lineamenti dritti dei loro visi che, congelati in quell’eterna perfezione, arrivavano a somigliarsi un po’ tutti. Come fratelli, uniti dallo stesso destino. I nasi dritti, le fronti serene, nonostante nessuna delle loro bocche riuscisse ad incresparsi in un sorriso. Gli occhi, un poco infossati, che ricambiavano le sue occhiate con una dolce aria di rassegnazione.
…Rassegnazione.
Era questo, se ne accorse in un istante, che accomunava ognuno di quei volti. Ognuna di quelle statue. Che fossero sopite o stessero per infliggere al nemico il colpo di grazia. Che stessero ammirando il proprio corpo o bevendo una coppa di vino. Non rappresentavano quei singoli gesti, ma tutte lo stesso tema. La resa. In ogni sua declinazione: la resa del corpo, nel vecchio che non riusciva più a sorreggersi nemmeno col proprio bastone storto. La resa in senso stretto, nelle mani di quell’uomo che si lasciava infine uccidere dal suo nemico, guardandolo negli occhi. E infine quella della mente, dell’anima, scritta sui visi di tutti loro. Scritta persino su quello del guerriero vincente, che affondava la propria lama e nel farlo si arrendeva alla guerra ed alla morte.
Corrugò le sopracciglia ed allungò una mano verso la statua più vicina. Quanto poteva essere struggente il messaggio che portava con sé? La debolezza di cui si è consci ma che non si riesce a sconfiggere. Una resa che disgusta noi stessi per primi, ma alla quale non si sa rinunciare. Ne accarezzò il profilo della guancia, fredda, e mentre lo faceva questa si sgretolò sotto le sue mani.
Fu breve, ma l’orrore riuscì lo stesso a colpirla con una forza probabilmente insensata. Tempo di un battito di ciglia, e tra le sue mani, ai propri piedi, era rimasta soltanto polvere.
Polvere, tutte quelle statue erano polvere.
Polvere la debolezza. Polvere la resa. Polvere di un cammino che non si era voluto e che si insinua dappertutto, nei vestiti, nelle mani,  nella bocca, polvere di chi ha deciso che ha intenzione di fermarsi.
Polvere, anche lei. Il suo animo stesso, polvere. Destinato a volare via al primo soffio di vento. Cos’avrebbe dovuto fare, dunque? Rassegnarsi al destino che quella nuova consapevolezza comportava?
Fu colta dalla morsa al cuore del terrore più cieco. Fuggì, che ancora stringeva in pugno una manciata di quella polvere.
 





Ciò che dice l'Autore
Un enorme grazie a tutti coloro che si sono fermati a leggere questo primo capitolo. La storia partecipa ad un contest, "La ragazza... e la spada", e non ho saputo non partecipare a causa di quest'idea, che mi ha fulminato sin dal primo istante. Forse è stato un progetto ambizioso, troppo difficile da rendere, eppure ho voluto buttarmi ^^ Spero che l'inizio vi sia piaciuto e che lascerete una recensione ;)) A breve il prossimo... stay tuned!
  
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