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Autore: Loluz    27/04/2014    1 recensioni
"La rabbia che provo adesso è un’altra a quella che provavo in quei giorni, lo sapevo che un giorno la vita me l’avrebbe portata via, ma se avessi saputo che ciò sarebbe successo così presto avrei ascoltato tutte quelle dannate storie che mi raccontava, le avrei detto tutto quello che odiavo di lei e poi avremmo fatto l’amore un’ultima volta.."
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa è la seconda storia che mi decido di pubblicare, spero sia di vostro gradimento e accetto volentieri ogni genere di critica purchè sia costruttiva e mi aiuti a migliorare ^-^
Buona lettura :)


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I suoi occhi erano fissi sulla mia schiena , non lo vedevo ma potevo sentire quelle iridi marroni bruciare mentre contemplava ogni mia curva, ogni mio neo.
Io ero girata, avevamo appena fatto l’amore, lui, quella sera, mi aveva dato tutto, il suo respiro lo diceva, anche quelle lacrime che aveva versato sui miei seni dopo essere esploso d’amore dentro me lo dicevano e perfino il battito del suo cuore lo diceva, troppo veloce rispetto al solito.
Io, al contrario di lui, non avevo provato nulla.
La mia era frustrazione, rabbia, dolore, vergogna.
Non lo volevo vedere, gli diedi le spalle durante tutto il tempo che restò sveglio, poi quando finalmente sentii il suo respiro rallentare e la sua tensione diminuire mi girai.
Il suo viso sprofondava nel  cuscino, i suoi occhi chiusi facevano apparire le ciglia ancora più lunghe, il suo corpo nudo e ambrato era vicino al mio ed emanava calore.
Non lo amavo, non lo avevo mai amato e non sarei mai riuscita a farlo.
Lui lo sapeva benissimo, lui mi odiava, lui voleva punirmi per avergli rubato il cuore e per aver occupato ogni cellula del suo cervello, divorandola poco a poco, ma mi amava e forse quello era il vero motivo di quell’odio smisurato, non era ricambiato.
Lui faceva l’amore, per me era violenza psicologica.

Ero sempre stata una grandissima masochista, sentivo di non meritarmi ciò che mi poteva fare bene. Ogni sera mi ritrovavo in quell’appartamento, al sesto piano di una palazzina ottocentesca del centro, a donarmi a lui, come se io non avessi sentimenti, come se fossi solo una bambola con cui giocare, come se non valessi nulla.
Il motivo? Non c’era una motivazione, almeno non così valida da giustificare questo mio atteggiamento, mi piaceva sentirmi male, soffrire in silenzio, mi piaceva perché era ciò che mi ero predestinata da quando l’avevo vista soffrire in quel modo.
Ogni sera, dopo quello che si può definire sesso, mi affacciavo al balcone della stanza in cui pochi attimi prima il mio corpo si era unito ad un altro, senza amore, senza sentimento, mancava perfino di  passione, e mi fumavo quella sigaretta che mi dava l’unico vero attimo di piacere della giornata, un piacere che mi concedevo solo una volta al giorno.
Aspirando la nicotina mi venivano in mente tanti ricordi, scene spezzate, frasi, sguardi, parole, carezze, sorrisi, lacrime… le sue ultime lacrime. Quello sguardo non lo potrò mai dimenticare, lei, bellissima, divorata dalla malattia, sdraiata su quel letto d’ospedale, così bianco, così triste.

Si chiamava Viola, amava il colore giallo, diceva che le metteva allegria, che era il colore del sole, che era il colore della felicità. Io odiavo il giallo ma non glielo dissi mai e me ne pento. Le avrei voluto dire tante cose, come ad esempio che non mi piaceva la sua cucina, non ne azzeccava mai una, troppo sale, troppo sciapo, troppo olio, troppo cotto o troppo crudo. Non mi piaceva il suo tono di voce quando voleva fare la bambina, troppo stridulo. Non mi piaceva quando cantava, era terribilmente stonata. Ma non le dissi mai niente del genere, perché l’amavo troppo. Lei era perfetta così, con quella voce un po’ lagnosa, con quelle cene immangiabili, con quel giallo accecante. E nel letto di quell’ospedale proprio non ci riusciva a stare, era così distante dal suo mondo.

Ogni giorno le compravo un fiore e ogni giorno le pettinavo i boccoli castani, beh, fin quando li ha avuti. Le leggevo interi libri di poesie e lei sorrideva, persa nella sua realtà, ormai staccata dalla mia. Lo sapevo che l’avrei persa da lì a poco. Le portavo anche la cioccolata, quella al latte con le nocciole, ne mangiava tanta e le piaceva talmente tanto che i suoi occhi brillavano, brillavano più di qualsiasi prezioso diamante al mondo, poi vomitava e quelle sue iridi verdi non brillavano più, ma sorrideva sempre, anche dopo la perdita dei capelli, anche dopo essersi vista come uno scheletro allo specchio, sorrideva per non farmi capire che stava male. Allora io le ricambiavo i sorrisi, le dicevo che era bellissima e la baciavo, anche se dentro il mio unico pensiero era quello di volare via con lei. I suoi baci erano deboli, le sue mani erano fredde, il suo respiro affannato. Ma l’amavo e non mi importava di niente e di nessuno.
I suoi genitori la pensavo diversamente però. Io non ero adatta alla loro figlia, io non ero il ragazzo giusto per lei, perché si, loro volevano un ragazzo, non un ibrido tra maschio e femmina, come mi aveva definito il padre.  No, loro volevano vederla con un libero professionista, alto, vestito bene e con tanti soldi. Ma l’amore di Viola non lo comprava nessuno, l’amore di Viola era puro. A lei non importava se il vestito era di marca o se poteva avere l’ultima macchina in commercio. Viola voleva essere amata e voleva amare, io riuscivo ad amarla anche con quel fiore, con quella poesia o con quella carezza.
Mi impedirono di vederla.
Ogni volta che entravo in quell’ospedale era una lotta continua contro infermieri e parenti, non avevo il diritto di vederla perché ero una “sconosciuta”, “un’estranea” che molestava la loro figlia, ma io ero molto di più, ero il suo cuore e lei il mio.

L’ultima volta che la vidi era stesa su quel letto, pallida e parlava a fatica, ma parlava, parlava, parlava, mi raccontava talmente tante storie come se quell’ospedale fosse un regno fatato e le persone personaggi di intrighi e vicende epiche. Io ero presa a guardarla, non era più la stessa, si stava spegnendo piano piano ed io non potevo fare nulla. La guardavo  sorridendo e la trovavo bellissima, anche se ormai di quello che lei era prima ci era rimasto ben poco.
Tornai due settimane dopo, ero riuscita ad entrare senza blocchi, senza litigi, i medici mi guardavano senza alcuna espressione. Entrai nella sua stanza, il letto era occupato da un’altra signora, più anziana, ma nelle stesse condizioni. Solo un’infermiera mi si avvicinò. Mi diede la notizia. Viola non c’era più da ben otto giorni ed io non ne sapevo nulla. Non mi scesero mai tante lacrime come quel giorno, e credo che mai mi scenderanno ancora, penso siano finite.
Il mio dolore si trasformò in rabbia e la mia rabbia in apatia assoluta.

Ma la rabbia che provo adesso è un’altra a quella che provavo in quei giorni, lo sapevo che un giorno la vita me l’avrebbe portata via, ma se avessi saputo che ciò sarebbe successo così presto avrei ascoltato tutte quelle dannate storie che mi raccontava, le avrei detto tutto quello che odiavo di lei e poi avremmo fatto l’amore un’ultima volta, avrei sentito ogni suo piccolo gemito, ogni suo respiro e le avrei raccontato tutte le poesie del mondo, l’avrei anche portata fuori a cena e le avrei regalato un corso di cucina. Le avrei dato tutta me stessa, più di quella che ero, avrei buttato giù il mondo per un suo sorriso. Ma purtroppo non è stato mai abbastanza.

Ogni sera dopo la sigaretta su quel balcone, soffocavo le urla singhiozzando, trattenendo le poche lacrime che mi rimanevano, allora lui si alzava e mi abbracciava, non sapeva il motivo, lo faceva e basta, per questo rimanevo sempre con lui, non c’erano parole, solo gesti, silenziosi gesti in cui, in un certo senso, trovavo conforto.
Non ero felice, non lo ero mai più stata, niente e nessuno mi avrebbe restituito la mia anima, niente e nessuno mi avrebbe restituito Viola.
  
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