Salve
gente, come state?
Io non
benissimo, anzi…
Ho un mal
di stomaco terribile, la febbre e, come se non bastasse, domani
si ritorna a scuola e ho il compito di matematica.
Evviva!
*Fa cadere coriandoli
ovunque*
Comunque,
eccomi qui ad aggiornare di nuovo con il primo capitolo.
Spero che
vi piaccia. Alla prossima con il secondo.
Bye.
~
Cruel Heart.
***
***
Napanee,Ontario,
Canada, 4 Febbraio 2001
Avril's pov
«Ciao
Avril!»
Mi girai, per sentire a chi
appartenesse quella voce. «Oh…
Ciao Scott.»
La naturale propensione di Scott -
l'autista dell'autobus che mi riaccompagnava a casa ogni pomeriggio -
di sorridere e di salutare chiunque incontrasse, mi faceva sentire a
disagio.
«Ehi, salutami tua
madre.» ammiccò, aggiustandosi il buffo cappellino
dei Lakers, la sua squadra di basket preferita.
«Lo
farò.» risposi, con le guance in fiamme. Se prima
ero a disagio, adesso stavo chiedendo direttamente alla terra di
aprirsi sotto di me e di inghiottirmi. Non era il massimo quando un
ultracinquantenne pelato e panciuto chiedeva di salutare tua madre ammiccando.
Scesi dall'autobus in tutta fretta
e per poco non rischiai di inciampare negli scalini che dividevano il
mezzo dall'asfalto.
Cercai di dimenticare
l'imbarazzante scambio di battute a cui avevo partecipato e rivolsi il
cervello immediatamente da un'altra parte. Feci un rapido rewind di
tutto ciò che mi era successo nella mattinata.
La giornata a scuola non era stata
particolarmente esaltante: sempre gli stessi corridoi, sempre le stesse
facce, sempre le stesse raccomandazioni per la fine del semestre...
Nonostante il secondo semestre
fosse iniziato da appena quattro giorni, i professori non perdevano
occasione di ricordarci che dovevamo studiare sempre e comunque, se non
volevamo diventare "superciucci".
Una cosa era certa: per quanto gli insegnanti si sgolassero, cercando di impedire la nostra trasformazione in complete capre ignoranti, non tutti ce l'avrebbero fatta a superare gli esami finali a Luglio, quest'anno.
In
particolare, sperai che qualcuno
non
li superasse. Mi riferivo a Travis Michigan.
Per
mia
sfortuna, frequentavamo lo stesso corso di educazione alimentare e oggi
aveva
dato spettacolo, mostrando il peggio di sé in corridoio.
Infatti,
la suddetta capra, mi aveva rubato il mio fantastico panino al pomodoro
e al
prosciutto crudo e agitandolo, aveva gridato:«Lavigne, mi
deludi, questo non fa
bene alla tua alimentazione!»
Il
tutto
fu accompagnato da un ghigno che mi fece scattare.
Due
pugni sul naso dopo, ero riuscita a riavere il mio pranzo e avevo
fissato
Michigan con uno sguardo assassino. Nonostante tutto, non si toglieva
quel
ghigno irritante dalla sua faccia appena tumefatta.
Lo
superai a passo di carica e andai in mensa per consumare il mio pranzo.
Mi
ero
appena seduta al primo tavolo libero che avevo trovato, quando vidi
l'orrore di
tutti gli orrori esistenti a questo mondo: una fetta di formaggio
sbucava dalle
due fette di pane.
Bastardo.
Michigan sapeva della mia avversione.
Dire
che
il formaggio non mi piaceva era un eufemismo.
Io
odiavo
quel colore così giallo, quell'odore intenso, per non
parlare poi del sapore…
Era
la
cosa più brutta che potesse esistere.
Ritornai
con la mente al presente. Fissavo il marciapiede sotto di me, mentre mi
dirigevo verso casa.
Piccoli
fili d'erba fuoriuscivano dalle mattonelle fissate male, che sembravano
essere
lì da secoli.
Se
la
situazione era relativamente
tranquilla a scuola, non potevo dire lo stesso di quella a casa.
Mia
madre era stanca della nostra situazione, ed ero abbastanza sicura che
fosse
arrivata ormai al limite.
Il
problema era che abitavo da sola con lei, in un piccolo appartamento
nella
periferia di Napanee, in Canada.
In
culo
al mondo, per dirla in breve.
In
più,
mia madre non lavorava da mesi e, per adesso, vivevamo con i soldi che
aveva
racimolato con il suo precedente lavoro da insegnante.
Guardai
verso il cielo. Mentre continuavo a camminare, osservavo tutte le
nuvole,
cercando di dare loro una forma nella mia mente.
Tutte
quelle persone - poche, a dir la verità - che erano a
conoscenza della nostra
situazione, ci chiedevano come mai mio padre non rientrasse
dall'Afghanistan
per stare con la sua famiglia.
Beh,
quella del soldato in missione di guerra, era la versione inventata da
mia
madre, Judy.
La
realtà,
invece, era ben diversa.
La
leva
militare, per mio padre, non era mai esistita, così come non
era mai esistito
nemmeno lui, in fondo...
Già.
Non
c'era mai stato nessun padre per me, nessuna figura maschile a cui
poter
aggrapparmi nei momenti più difficili. Non sapevo neanche
quale fosse il suo
nome.
Eravamo
state sempre e solo io e mia madre. Lui, invece, l'aveva abbandonata
quando era
incinta di me, forse per le troppe responsabilità.
Riabbassai
lo sguardo verso la punta delle scarpe, e mi sistemai una ciocca di
capelli
dietro l'orecchio sinistro.
Forse
era meglio non pensarci, per ora.
Cinque
minuti dopo, ero arrivata a casa.
Immediatamente,
notai una busta che spuntava fuori dalla cassette delle lettere.
Così, presi il
mazzo di chiavi dalla cerniera dello zaino, aprii la piccola teca in
metallo ed
estrassi la lettera.
La
carta
era completamente liscia e bianca, eccezion fatta per il nostro
indirizzo
scritto sul retro.
“Probabilmente sarà un'altra bolletta.”,
pensai amareggiata.
Come
avevo già detto, non navigavamo nell'oro, e in
più non avevamo nessuno che
potesse aiutarci nelle spese.
Feci
un
paio di passi in avanti, cercando di trovare il modo più
gentile per darle
quell'altra brutta notizia. Scelsi un'altra piccola chiave dal mazzo,
la
inserii nella toppa e feci scattare la serratura della porta
d'ingresso.
Un
dolce
profumino di patate arrosto invase completamente le mie narici.
«Mamma!
Sono tornata!»
Tolsi
le
chiavi dalla toppa, sempre più preoccupata. Sbattei la
porta,
richiudendola, e
percorsi il corridoio,
per andare in cucina.
Posai
la
busta sul tavolo, delicatamente - per non far degenerare ulteriormente
la
situazione - e salutai mia madre con un bacio veloce sulla guancia.
Stava
infornando le ultime patate.
«Scott
mi ha detto di salutarti.» Decisi di iniziare con
quell'argomento, per metterla
più a suo agio.
«Cosa?
Oh, sì, Scott. È un brav'uomo. Ha persino tentato
di spedirmi alcuni centinaia
di dollari per lettera, il mese scorso, ma ovviamente ho dovuto
portarglieli
indietro.»
Mi
diressi verso il frigo, prendendo la bottiglia d'acqua e dissetandomi.
Stavo
cercando deliberatamente di ignorare le parole "Scott",
"spedirmi" e "dollari". Non era bello venire a sapere che
il fastidioso autista non solo ammiccava a tua madre, ma le faceva
persino
l'elemosina.
«Ah,
a
proposito di lettera, ne ho trovata una, appena sono
entrata.» dissi, indicando
con un cenno la busta sul tavolo da pranzo.
Mia
madre si spazzolò il grembiule e aprì la lettera
con un coltello.
Iniziò
a
far scorrere gli occhi sulle prime righe.
Aveva
uno sguardo accigliato, e capii che, come me, stava pensando ad una
sola cosa: bollette.
Poi,
però,
qualcosa cambiò.
Ad
ogni
riga che leggeva, si strofinava sempre più velocemente le
mani sul grembiule, e
il suo sguardo, da accigliato, si fece sorpreso, poi disperato, e poi
di nuovo
calmo, come se non fosse successo alcunché.
«Avril...
Dobbiamo parlare.»
Bene,
quando qualcuno pronunciava quelle due parole, c'era solo una cosa da
fare: un
brevissimo resoconto della propria noiosissima vita, per vedere dove si
stanavano gli errori più madornali e capire il motivo di
quella frase.
Allora,
bisognava partire dall'inizio.
Il
mio
nome era Avril Ramona Lavigne. Avevo 17 anni e un colore di capelli -
portati
sempre lisci - indefinito, che andava dal biondo scuro al castano
chiaro.
Ero
bassina, con forme femminili non ancora pervenute.
La
bellezza e la grazia che tutte le fidanzate dei vari Travis Michigan
possedevano, per quanto mi riguardava, erano fuggite da qualche parte e
non
erano mai più tornate. Ma, soprattutto, ero l'unica
responsabile della
separazione dei miei genitori. E solo con la mia nascita.
Credevo
che questo fosse il
mio mondo, ma non sapevo ancora come questo stesse per
cambiare totalmente.
Guardai
mia madre negli occhi. «Dobbiamo partire. Domattina
stessa.», disse.
Il
tonfo
del mio zaino, sul pavimento, parlò per me.
Cosa?
***
Judy's pov
Io
non…
non riuscivo a crederci.
Un
attimo fa stavo preparando il pranzo per me e per mia figlia, e
adesso… era
tutto diverso.
La
guardai negli occhi, mentre sentivo il suo zaino cadere a terra.
“Ma
se
questo vuol dire proteggerla”, pensai, “allora
andrei anche in capo al mondo.”.
Era
il
mio segreto e io dovevo custodirlo.
Per
lei.
***
Please tell me what
is takin' place,
'cause I can't seem
to find a trace.
Guess it must have
got erased somehow.
Probabilly 'cause I
always forget,
everytime someone
tells me their name,
It's always gotta
be the same.
(In my world).
Never wore
cover-up.
Always beat the
boys up.
Grew up in a five
thousand population town.
Made my money by
cutting grass.
Got fired by fried
chicken ass.
All in a small
town, Napanee.
[…]
I'm off again, in
my world.
Per favore, ditemi cosa sta accadendo,
perché sembra che non riesca a capire
nulla.
Credo sia stato cancellato in qualche modo.
Probabilmente, perché dimentico sempre
ogni volta che qualcuno mi dice il suo nome.
Sarà sempre lo stesso.
(Nel mio mondo).
Non mi sono mai truccata tanto.
Ho sempre battuto i ragazzi.
Sono cresciuta in una cittadina di 5000 persone.
Ho fatto i soldi tagliando l'erba.
Sono stata licenziata da un culo di pollo fritto.
Il tutto in una piccola cittadina, Napanee.
[…]
Sono di nuovo spenta, nel mio mondo.
~ Avril Lavigne
- My World.