Per
continuare(?)
Fine della prima parte! L'introduzione dei fratelli di
Vallesanta e del loro sporco business italiano è
ufficialmente finita ;D
Tanto per rendervi partecipi della mia preparzione, non ho la più pallida idea di come chiamare la seconda parte. Maaaaa va tutto bene. Più o meno.
Vi lascio e torno ai miei deliri, che sarebbe anche ora.
Vollemossebbene<3
Un abbraccio,
Lechatvert
Saremi morte già dolce paruta
il corridoio dei santi
http://www.youtube.com/watch?v=A76a_LNIYwE
I fantasmi che ululano riappaiono
tra le montagne che si addossano per la paura.
Ma tu sei un re e io un cuordileone
Of Monsters and Men –King And Lionheart
Roma, tredici settembre 1475. Giorno della nascita di Cesare Borgia.
Orso di Vallesanta tossì, lasciando che il suono secco del
suo catarro si propagasse con l’eco dei corridoi vaticani. Di
tutti i posti in cui aveva mai immaginato di mettere piede, quello era
decisamente l’ultimo. L’ultimo e il meno gradito, a
dirla tutta, ma fuori pioveva a dirotto e quei corridoi erano caldi e
asciutti, quindi non si azzardava a lamentarsi.
Silenzioso, osservava le alte architravi stagliarsi su di lui, i volti
ritratti dei santi guardarlo con astio, quasi non fosse benvenuto in
quella che, a detta di tutti, era la vera casa del Signore.
Decisamente, quello non era un posto in grado di metterlo a suo agio.
Nervoso, si voltò verso la sorella, di gran lunga
più rilassata e serena di lui, intenta a rimirare il suo
grazioso profilo nel riflesso di una finestra.
Si era lavata come meglio poteva, facendo sparire almeno le croste di
terra che aveva in viso, e aveva trovato chissà dove una
camicia di un colore vagamente più simile al bianco della
casacca che indossava di solito. Così, messa più
o meno in ordine, appariva quantomeno piacente.
«Porpora, credi che ci faranno entrare negli
archivi?», le chiese, sovrappensiero.
Ogni tanto gli piaceva fantasticare.
La ragazza si voltò appena, inarcando un sopracciglio
castano.
«Non fare lo stupido.»
Orso strabuzzò gli occhi.
«Non si sa mai», si giustificò.
Porpora aprì la bocca per ribattere, ma la voce di un uomo
la bloccò.
Dietro di lei, la figura massiccia del capitano delle guardie svizzere
oscurò un poco la stanza, mentre egli si avvicinava con
passo pesante.
«Gli imbalsamatori?», esordì con tono
seccato, incrociando le braccia sul petto.
Orso lo guardò, attento.
Era alto poco più di lui, ma estremamente più
massiccio. Lo conosceva bene. Tutti lo conoscevano, a Roma. Capitano
Grunwald, spalla del nipote del Papa, non esattamente il tipo di uomo
con cui valeva la pena scherzare. Una volta, Orso lo aveva visto
spezzare una porta con un solo pugno.
«Sì», gli rispose quindi, a voce bassa,
avvicinandosi alla sorella. «Porpora e Orso di
Vallesanta.»
Lui li scrutò attentamente, soffermandosi sulla cassa di
legno che Porpora portava tra le braccia.
Scosse poi il capo, quasi a scacciare un qualche pensiero, e
voltò loro le spalle.
«Da questa parte», li chiamò, prendendo
a camminare lungo il corridoio. «E vedete di non
perdervi.»
Orso lanciò un’occhiata a Porpora.
Difficile dire chi, tra sua sorella e Grunwald, apparisse
più seccato. Era una gara che non avrebbe visto un vincitore.
Sospirò, quindi, e iniziò a camminare in silenzio.
Avanzarono senza parlare per qualche minuto, accompagnati soltanto
dagli occhi dei dipinti, che Orso non perdeva mai di apprezzare. Con il
polso appoggiato all’elsa della sua spada, sfilava
affascinato lungo quell’esibizione di Santi. Era una
ricchezza che sua sorella non poteva comprendere, quella.
Sospirando, si voltò verso di lei, studiandone
l’espressione.
Mostrava il volto stanco di chi ha decisamente dormito troppo, ma era
ben dritta sulle gambe, con il mento alto e lo sguardo superbo che
l’accompagnava ovunque andasse. Portava i capelli legati
sulla nuca con un pezzo di corda, una camicia meno sporca del solito e
una lama al fianco, che dava mostra di sé ondeggiando ad
ogni passo.
Orso non poté fare a meno di chiedersi se l’avesse
rubata a qualcuno nel tragitto o se, piuttosto, l’avesse
sempre avuta con sé, nascosta sotto il mantello per
difendersi da qualche aggressore nelle serate più buie.
Si sentiva irrequieto. Gli sembrava di essere nel posto più
bello del mondo con un coltello puntato alla gola pronto a conficcarsi
nella giugulare al primo sgarro.
In effetti, realizzò, quella visione del suo stato non era
poi troppo lontana dalla realtà.
Si sforzò di buttare da parte quei pensieri, seguendo
Grunwald per i corridoi.
Quel castello doveva essere un vero labirinto: svoltarono a destra un
paio di volte, percorsero scale in salita e in discesa, attraversarono
almeno tre diversi colonnati, tutti decorati con sfarzose
raffigurazioni di santi e scene bibliche.
Infine, sbucarono in un piccolo cortile interno illuminato appena dai
pochi raggi di sole che avevano fatto capolino dalle nubi di quella
mattina.
Evidentemente, nel tempo che lui e Porpora avevano trascorso
all’interno di Castel Sant’Angelo, il temporale si
era allontanato, lasciando spazio a qualche attimo di pace.
Sollevato all’idea di non dover passare un’altra
notte sotto la pioggia battente, Orso osservò il
giardinetto.
Esso si apriva sotto un colonnato rettangolare, con due alberi di pesco
ormai spogli e qualche erba aromatica piantata con ordine accanto alle
colonne. Vi erano anche dei cipressi, tenuti bassi, a delimitare il
perimetro del giardino, e un’aiuola di primule sistemata
accanto a una panchina in marmo.
Sospirò, obbligandosi a seguire Grunwald nel biancore che
era il groviglio di corridoi di Castel Sant’Angelo. Avrebbe
veramente pagato oro per potersi godere un istante tra l’erba
di quel cortile.
Starnutendo, Porpora ruppe il
pensate silenzio che era caduto nel corridoio quando, una volta giunti
dinanzi a una maestosa porta in mogano, si erano accorti del fatto che
Orso fosse rimasto indietro.
Il Capitano Grunwald si era limitato a un pensate sospiro, portandosi
una mano alle tempie come per raccogliere la pazienza che gli era
rimasta per evitare di esplodere.
Lei, invece, non era stata così controllata. Aveva prodotto
una serie di insulti che si era fermata soltanto quando, di corsa, Orso
non aveva fato capolino da dietro l’angolo, preceduto dallo
stridere dei suoi stivali sul pavimento di marmo.
Porpora lo raggiunse con uno scatto, stringendo le mani contro il
bavero della sua giacca e scuotendolo appena.
«Maledizione, possibile che tu ti debba perdere
ovunque?», sbuffò, seccata.
Orso aprì la bocca per rispondere, ma non uscì
alcun suono. Sembrava perso in una specie di stato incosciente, lontano
miglia e miglia dalla realtà.
«Per Dio, Orso!», lo richiamò Porpora,
adirandosi ancora di più di quanto già non fosse.
«Rispondimi!»
Fece per scrollarlo di nuovo, ma le mani del Capitano Grunwald
l’afferrarono per la treccia e la alzarono di qualche
centimetro, costringendola a mollare la presa attorno al fratello.
«Finitela con questo chiasso!», ruggì
l’uomo, allontanando Porpora dalla figura di Orso.
«Cercate di ricordare dove siete e datevi un
contegno!»
Ancora sotto la presa di Grunwald, Porpora non osò
controbattere. Lasciò che le braccia le cadessero molli sui
fianchi e attese di essere lasciata andare, con ogni singolo capello
che le doleva per la presa.
Si stupì, comunque, della delicatezza con cui
l’uomo la depositò a terra, lanciandole
però uno sguardo severo che le fece incrociare le braccia
sul petto.
Fu in quell’istante che le porte della sala si aprirono,
lasciando uscire due maggiordomi vestiti di bianco che li annunciarono
con pomposità, quasi si trattasse di pronunciare il nome di
chissà quale nobile anziché quello di due
ragazzini venuti dalla campagna.
Porpora li superò senza degnarli di uno sguardo, recuperando
velocemente la cassa di legno in cui avevano riposto lo scheletro.
«Orso, stammi dietro», disse, evitando di voltarsi
per controllarlo. «Non perdiamo altro tempo.»
Entrò nella sala che suo fratello l’aveva ormai
raggiunta e le camminava affianco, reggendo la borsa in cui aveva
raccolto il raccoglibile lasciato nella cripta. Due monete di una
valuta che non conoscevano e qualche pinza che Orso si era voluto
portare dietro per sicurezza e che pesavano molto più di
quanto la loro grandezza lasciasse a intendere.
Gli prese il braccio, affondando le dita nella sua giacca.
«Sta’ tranquilla», le disse lui,
dondolando appena il capo.
Sembrava sicuro di sé, ma Porpora notò che gli
tremavano le gambe.
«Agitato a conoscere il Papa?», gli chiese, tirando
fuori un sorrisetto di scherno.
Lui annuì, divertito.
«Spero si sia sistemato», rispose, guardando il
trono piazzato al centro dalla sala. «Non capita tutti i
giorni di incontrare Sua Eminenza, gradirei serbarne un ricordo
piacevole.»
In realtà, Porpora dubitava molto che quel primo incontro
sarebbe stato in alcun modo piacevole, ma non disse nulla, chiudendo il
discorso con una risatina prima di rivolgere l’attenzione
alla sala e ai presenti.
Se avessero messo assieme tutti i corridoi che avevano attraversato,
probabilmente non sarebbero arrivati a toccare la metà dello
sfarzo presente in quell’ambiente. Soffitto affrescato,
grandi finestre oscurate da delle pesanti tende di velluto rosso,
pavimenti in marmo recanti lo stemma papale e, al centro, il grande
trono dorato su cui sedeva Sisto IV.
Nel sudiciume del suo unico paio di pantaloni, Porpora dovette
ammettere che persino il papa, in quel luogo, era avvolto da uno sfarzo
pacchiano.
Aveva addosso la veste bianca e si riscaldava con un pellicciotto del
pelo chiaro di chissà quale animale esotico. Era ricoperto
di gioielli dalla testa ai piedi, talmente luccicante che Porpora si
ritrovò a constatare di non aver mai visto tanto oro addosso
a una sola persona.
Per forza,
si corresse mentalmente, roteando gli occhi verso il
soffitto. È
il Papa!
Alla destra del trono, un uomo dall’aspetto saccente stava in
piedi a fissarli con un mezzo sorriso sul volto. A giudicare
dall’aria compiaciuta con cui guardava Orso, doveva essere il
famoso tirapiedi che l’aveva trovato ad oziare al Pantheon.
Sospirando, Porpora pizzicò il braccio di suo fratello,
facendogli capire, con un cenno della testa, che forse era il caso di
esordire con un saluto.
Riluttante, Orso la guardò, poi congiunse i polpastrelli
delle mani e mosse un passo avanti, malfermo sulle gambe tremanti.
«Vostra Santità», salutò
chinandosi in una profonda riverenza mentre si schiariva la voce.
«Desidero porgervi i miei più sinceri
omaggi.»
Si leccò le labbra, rivolgendosi poi all’uomo alla
destra del pontefice.
«Prefetto Mercuri, buongiorno.»
Di rimando, il prefetto chinò appena il capo.
Orso deglutì.
«Ho portato mia sorella Porpora», disse,
indicandola. «Spero la sua presenza non sia di intralcio. Io
e lei … collaboriamo.»
Mercuri gli fece cenno di andare avanti.
«Avete ciò che vi abbiamo chiesto?»,
esordì, avanzando in un passo verso di lui.
Orso sorrise.
«Assolutamente», rispose, tirando fuori un lato
teatrale che Porpora non ricordava di avergli mai visto addosso.
«Dritto dalla cripta di famiglia. Aspettava soltanto che
qualcuno lo andasse a tirare fuori.»
Mercuri si accigliò.
«Ebbene?»
Orso sbuffò, senza nascondere una certa soddisfazione.
«Ebbene, eccolo.»
Fece cenno a Porpora di avanzare e portare la scatola di legno che si
portavano appresso, senza perderla di vista nemmeno per un secondo.
«Apparteneva ad un bambino morto pochi anni dopo la
nascita», continuò, mentre lei apriva con calma la
cassa. « Ricordo il giorno in cui mio padre lo
acquistò, a Firenze.»
A dire il vero, Porpora ricordava alquanto bene la filosofia che
impediva a suo padre di comprare i morti ai banchi del mercato nero.
Filosofia che però non gli aveva mai impedito di andare a
scassinare il sarcofago di qualche vecchio, ma in fondo erano dettagli.
Se quello scheletro era nella cripta, l’unico modo in cui
aveva potuto finirci era stato il furto dal cimitero, cosa che di cui,
per altro, suo padre si occupava sempre personalmente.
Non era una bella storia da raccontare in Vaticano, però.
Scosse la testa e, una volta rimosso il coperchio della cassa, si
drizzò sulle ginocchia e mosse un passo indietro, lasciando
che i presenti potessero ammirare il contenuto.
Due teste, due spine dorsali, un solo piccolo bacino dalle ossa
talmente minute da apparire quasi come dei piccoli gioielli.
Il Prefetto Mercuri aggrottò la fronte, prendendo un
profondo respiro.
«È senza dubbio un falso ben studiato»,
commentò, osservando lo scheletro. «Non posso
credere che un essere tanto stravagante sia esistito non molti anni
orsono.»
Orso scrollò le spalle.
«Mio padre non ha mai venduto nulla che non fosse stato
donato lui dal Signore», affermò.
Porpora storse il naso.
Giovanni di Vallesanta era famoso per le sue chimere, animali
mitologici che lei stessa gli aveva visto fabbricare unendo pezzi di
cadaveri di vari animali morti di freddo in campagna. Orso stesso, da
bambino, ne era un abile costruttore.
Di nuovo, si astenne dal commentare.
«Non vi venderei mai qualcosa di cui non conoscerei
l’esatta provenienza», continuò suo
fratello, prendendo un grosso respiro. «Inoltre, non credo
voi siate di venuto di persona in cerca dei miei servigi per un falso,
sia pur esso ben costruito.»
A quelle parole, Porpora vide i volti del Papa e di Mercuri illuminarsi
di un sorriso compiaciuto.
Aggrottando la fronte, guardò lo scheletro, poi
guardò Orso, poi di nuovo lo scheletro.
Già, perché disturbarsi tanto quando non si aveva
nemmeno la certezza di ricevere un’opera autentica?
Dopotutto, le voci su Giovanni di Vallesanta erano tante, a Roma.
C’era persino chi diceva che le ossa che vendeva in
realtà erano quelle dei suoi stessi figli.
Arricciando il naso, guardò verso Orso, cercando il suo
sguardo grigio.
Non appena lo intercettò, lui parve illuminarsi.
«Oh», mormorò, voltandosi verso Mercuri
con un’espressione sorpresa.
«C’è dell’altro,
quindi?»
Il prefetto sorrise, ondeggiando lievemente sulle punte dei suoi
stivali scuri.
«Siete arguto, Vallesanta», disse loro, portandosi
la mano destra al mento. «In effetti sì,
c'è dell'altro. Siete mai stato a Genova?»
Orso alzò le spalle.
«Mai.»
«Ho sentito di uno scheletro, laggiù, dalle ossa
talmente corrose dalla sifilide da apparire sciolte come la cera di una
candela.»
Porpora storse il naso. Genova non le piaceva, anzi, a dirla tutta
nessuna città le piaceva. Niente era come Roma, dove il
potere del clero era forte abbastanza da insinuarsi nelle menti di chi
la abitava e da tenere la gente lontana dal mestiere di tombarolo.
Nessuna concorrenza, a Roma.
Sospirando, guardò di nuovo Orso, il quale appariva
pensieroso, assorto in chissà quale considerazione.
«Non serve andare molto lontano, allora», disse,
trattenendo a stento una risata. «Nostro nonno è
morto di sifilide due settimane fa. Prendete le sue, di ossa!»
D'istinto, anche Porpora si scompose in una piccola risata,
più divertita dell'idea di dare a suo nonno una fine del
genere, piuttosto che dalla battuta in sé.
Il Papa e Mercuri, però, rimasero impassibili.
Orso dovette accorgersene immediatamente, perché
soffocò il suo divertimento con un colpo di tosse,
ricomponendosi all'istante.
«Naturalmente, ci recheremo immediatamente a
Genova», assicurò, accennando una riverenza.
Papa Sisto si sporse sul trono, piegando leggermente il capo in avanti.
«Lavorerete per noi, Vallesanta», disse, lieve.
«Come vostro padre fece per Papa Pio II, viaggerete dove
sarà necessario che viaggiate, occupandovi di realizzare
ciò che vi sarà commissionato. Ogni lavoro vi
sarà pagato anticipatamente con cinquanta scudi.»
Orso ringraziò con un inchino e porse i suoi saluti, Porpora
rimase immobile in mezzo alla sala. La sua mente si era fermata ai
cinquanta scudi. Non era sicura di aver mai sentito nemmeno parlare di
una simile cifra, figurarsi stringerla tra le mani.
Si affrettò a fare una riverenza e girò sui
tacchi, raggiungendo suo fratello.
Cinquanta scudi non andavano sprecati. Se dovevano spenderne la
metà per dei cavalli, come minimo quella sera avrebbero
risparmiato su un letto al caldo, dormendo sui tavoli della taverna.
Cinquanta scudi.
Ancora non riusciva ad abituarsi al dolce suono che quelle due parole
assumevano, una volta messe vicine.
Una volta sul corridoio, si voltò verso Orso per
congratularsi, ma venne immediatamente zittita quando la mano di lui si
strinse attorno al suo polso.
Aveva il palmo sudato e freddo.
«Stringila, ti prego», le disse lui, paonazzo in
volto. Non aveva quasi più voce, tanto tremava.
«Non sono sicuro di riuscire a camminare da solo.»
Porpora roteò gli occhi.
«Sei davvero una donnicciola», commentò,
accostandosi a lui per fargli riprendere il fiato che la paura gli
aveva tolto. «Si può sapere cosa c'è,
che ti spaventa tanto?»
Lui la guardò disperato, mentre a passo spedito si
allontanavano sui corridoi di Castel Sant'Angelo.
«Credo che ci sia dell’altro»,
confessò.
Porpora rise, senza abbassare la guardia una volta che furono lontani
dalla sala.
«E come mai, donnicciola?»
Orso prese una grossa boccata d'aria, guardandosi intorno con
circospezione mentre abbassava il tono di voce a un sussurro.
«Non lo so. Ma il Papa ha gli occhi cattivi.»
Per risposta, lei gli sorrise, fingendo una preoccupazione che, dopo i
cinquanta scudi, non aveva modo di avere addosso.
«Non s’è mai sentito parlare di un
pontefice dagli occhi buoni.»
Si allontanò in fretta, isolandosi mentalmente da Orso e
dalle sue paranoie.
Per la prima volta nella sua vita, aveva in tasca più di tre
scudi. Tutto quello che le andava di fare era, in uno sprizzo di
improvviso buonumore, festeggiare con quanta più birra
poteva tenere in corpo.