50 Saint Tail
Perché aveva voluto baciarlo? Ok,
era un bacio innocente, ma perché proprio sulla fronte? Se lo domandò in quel
frangente di secondo, mentre nascondeva alla vista della stanza un
febbricitante Asuka spostando alcuni appendini dalle quali pendevano alcune
tute da lavoro sporche. Era come baciare un bimbo malato. Il suo bimbo malato.
Lo avrebbe protetto da tutti, d’ora
in avanti. Asuka però non era un bimbo a cui doveva asciugare il moccio. In
genere se la cavava benissimo da solo. Ripensandoci, parecchio tempo dopo,
rimase sorpresa del fatto che nemmeno si accorse di quel “Meimi” al posto di
“Saint Tail”. Lo diede per scontato. In effetti, era proprio Meimi, che in quel
momento interveniva.
Saltò sulla cima di un armadio, e
guardò in basso, verso la macchia bianca in mezzo a quella parziale oscurità.
«Sei colpi, devi ricaricare».
L’odio che provava l’aveva fatta divenire pure sarcastica. Se ne stupì.
«La famigerata Saint Tail», sorrise
la Belva, incurante, mentre si infilava una mano in tasca per recuperare le
pallottole e ricaricare il revolverino. «Che ci fai qui?».
«Di solito annuncio i miei colpi»,
continuò, più seria che mai, «e me ne scuso. Sono qui per rubare la Contessa e
Asuka-kun».
«Rubare…», la Belva rise selvaggiamente.
«Rubare. Tu non sai nemmeno che significa rubare».
«Io…», ma la Belva la interruppe.
«Hai delle doti ragazzina. Sul serio», continuò, «ma sei completamente fuori
strada». Proseguì, con l’atteggiamento di un vecchio so-tutto-io che vorrebbe
spiegare a un giovane come va la vita. «La giustizia…», e sorrise amaramente,
come se avesse pronunciato una bestemmia, «la giustizia…», ripeté, «per cui tu
lotti, per cui tu rischi… è un’illusione. Non esiste».
«ESISTE!!!», urlò la ragazza.
«NO, NON ESISTE!», ringhiò la
Belva, «NON ESISTE RAGAZZINA. COME NON ESISTE L’AMORE, NON ESISTE LA PACE, NON
ESISTE L’AMICIZIA O IL RISPETTO. Sono illusioni. Illusioni che l’uomo si è dato
nel corso della storia per controllare meglio il suo vicino. Homo Homini Lupus.
È questo il mio credo».
Saint Tail aveva di fronte a sé
l’emblema della malvagità. Ma si accorse che non era malvagio. Perché malvagio
è colui che conoscendo il male lo fa scientemente. La Belva non era malvagia.
Era al di sopra di ogni legge, al di sopra di un’umanità che disprezzava.
«Ragazzina. Ti do una notizia. Tu e
io non siamo poi così diversi». Meimi provò un moto di disgusto. Ma non fu un
disgusto così pieno come avrebbe potuto preventivare inizialmente.
«Anche tu vivi in questo mondo. E a
un certo punto della tua vita le leggi che ti circondavano, che ti contenevano,
che prima davi per scontate ti sono state strette. Così hai iniziato a rubare.
Perché così volevi. Perché così potevi. Non è vero?».
«IO HO RUBATO SOLO PER LA
GIUSTIZIA!!!» si giustificò Saint Tail. Ma stava gridando.
«No. Hai rubato per il tuo senso di
giustizia, il che è diverso. Hai rubato perché una parte del tuo cervello ti
diceva di farlo, e poi hai dato a quella parte di cervello il nome di
giustizia. Sei come me ragazzina, perché di fronte alla voglia di fare qualcosa
che l’ammasso di merdacce che ci circonda vorrebbe impedirci di fare, l’hai
fatto lo stesso». Aveva ragione? Meimi arrivò al punto di domandarselo sul
serio. «Una volta che ti ergi sulla massa, non sei più come prima. Questione di
tempo e sarai come me. Anch’io sono partito come giustiziere, ai miei tempi».
Era sincero, ma Saint Tail non poteva accettare di venire catturata in una
spira logica così stringente.
«Io non sarò mai come te».
«Nella vita non esiste il giusto,
non esiste lo sbagliato». Continuò, placido, infilando le pallottole nel
caricatore della pistola.
«CHE MOTIVO AVEVI DI RIDURRE COSI’
QUEL RAGAZZO???», urlò Saint Tail, gonfia di rabbia e di disprezzo. Era
l’appiglio più che logico per respingere i ragionamenti della Belva.
«Perché potevo. Ecco perché. E
posso ancora». Un movimento improvviso. La Belva premette il grilletto.
Saint Tail, questa volta, non aveva
nessuno da difendere, così potè far sfoggio di tutte le sue doti. Schivò e con
un balzo era giù dall’armadio, mentre la pallottola andava ad incastonarsi nel
soffitto di lastre prefabbricate. La Belva vide la sagoma della giovane ladra
muoversi tra una fila di scrivanie, mobili da ufficio e lastre di vetro. Sparò
alcuni colpi tra i mobili che la sfiorarono. A colpirla, però, ci pensarono
alcune schegge di legno e alcuni pezzettini di vetro che si staccarono dagli
oggetti colpiti. Una capriola ed era dietro una scrivania. Frugò nella borsa.
“Queste”. Estrasse qualcosa e mise la testa fuori dalla scrivania. La Belva era
guardinga, e si era posta, spalle al coperto, dietro l’armadio dove il calcio
di Saint Tail, tre minuti prima, l’aveva fatta volare.
Si alzò di nuovo, e iniziò a
correre tra le file disordinate di attrezzi. “È la mia unica possibilità”,
ammise a sé stessa, sperando con tutto il cuore che con quell’oscurità la Belva
non riuscisse a centrarla. Ma dopo pochi metri, si accorse con stupore che la
Belva non stava cercando di spararle. Più dubbiosa di prima, continuò a correre
lo stesso, raggiungendo i vari angoli della stanza e provando, il più
possibile, a stare al di fuori del raggio d’azione della Belva. Ogni tanto,
però, lasciava cadere a terra qualcosa.
“Ologrammi. Dovrebbero funzionare”.
Altri prototipi del paparino debitamente lasciati in giro per la casa che si
sarebbero potuti rivelare fondamentali. Meimi si cacciò sotto una delle
scrivanie. Estrasse il solito magico smartphone, che di magico, in senso
stretto, non aveva ovviamente niente, tranne l’aver fatto passare un’incazzatura
fotonica al fu Steve Jobs per via dei costi più contenuti e delle maggiori
funzionalità. Saint Tail avviò i prototipi.
Da questi aggeggini, poco più
piccoli di una palla da tennis, uscì fuori una sorta di pompetta, che sparò
nell’aria circostante una soluzione nebulizzata di vapor acqueo e altri pochi
agenti chimici, che ricoprivano la stanza. Sempre dalla pompetta, all’unisono,
uscirono dei raggi di luce. Lo smartphone, grazie a dei sensori di prossimità,
calcolò le distanze dei sette proiettori che iniziarono a lavorare all’unisono.
I raggi di luce si intensificarono, rifrangendosi contro gli schermi di vapore.
La Belva si accorse con sgomento che non una, ma quattro Saint Tail correvano
per la stanza. Una saltava, l’altra camminava, una correva in cerchio, un’altra
balzava dalla cima di un armadio alla sommità di un cumulo di cianfrusaglie
sopra una scrivania.
“Ora ti becco!” Saint Tail era più
fiduciosa del solito. Le quattro Saint Tail iniziarono a muoversi su un
perimetro molto più vicino alla posizione della Belva. Ma la Belva continuava a
non sparare.
«It’s showtime!» sussurrò la vera
Saint Tail. Non era lo slogan della maga tranquilla, ma le parole di chi stava
per fare del male. Di chi voleva fare del male. Mentre le quattro Saint Tail
fasulle si rincorrevano in una sorta di giostra rinascimentale, lei strisciò a
terra, come un soldato della prima guerra mondiale in trincea sotto il filo
spinato, e si ritrovò alle spalle della Belva. Fu un secondo: la mano sinistra
si mosse velocemente, e, come una campionessa di softball, lanciò una sorta di
sfera contro la nuca del criminale. Non fu sorpresa nel vedere che, mentre le
micro bombole di gas a reazione rapida facevano dilatare i classici palloni,
suoi cavalli di battaglia, che in teoria avrebbero dovuto avvolgere e
immobilizzare il criminale, la Belva si girò improvvisamente, nella mano
sinistra un coltellaccio appuntito, pronto a squarciare quel prodigio della
tecnica.
Il gas continuò a uscire, ma il
pallone fucsia non crebbe di un centimetro. Esalava dei buffi sospiri sollevato
a mezz’aria come una sorta di enorme globulo rosso accoltellato al cuore.
«Non mi fotti ragazzina». La Belva
buttò a terra quell’accozzaglia di gomma e si avventò sulla maga. Era
grassoccio. Fisicamente aveva pure qualche chilo di troppo come il suo sosia
inerme e impotente di fronte al mondo, ma la Belva aveva imparato nel corso
degli anni a trasformare ogni centimetro cubo del suo corpo in un’arma mortale.
Ossa, muscoli, persino il grasso, in caso di bisogno, potevano decretare la
morte orribile dei suoi nemici. Così, invece di perdere tempo a ricaricare
nuovamente la pistola, gettò a terra l’arma e con un semplice balzo fu sopra la
giustiziera vestita di raso nero.
Saint Tail vide l’uomo che
incombeva su di lei. Avrebbe voluto fare altrettanto, correre verso di lui per
fargli del male, mordergli il collo, cavargli gli occhi con le unghie e
strappargli i capelli fino a farlo sanguinare. Ma il briciolo di razionalità
che le rimaneva la costrinsero a fare i conti con la realtà. Non sarebbe mai
stata in grado, lei, esilissima ragazzina giapponese a tener testa fisicamente
a quell’omazzo di stirpe mediterranea.
Era allenata, era forte, era pronta. Ma negli scontri ravvicinati, a un
certo punto, a contare sono solo i chili. La lama del coltello della Belva era
a pochi centimetri da lei quando si convinse a fare l’unica cosa in suo potere,
in quel momento. Un cliché, certo, per una che si considerava, comunque, anche
in quelle circostanze, un’artista dello spettacolo. Ma come le punizioni per
Pirlo, il crescendo per Rossini e la battute dei politici che magnano per Pippo
Franco, i tormentoni hanno sempre il loro fascino. E fu così che Saint Tail,
con un veloce movimento della mano sinistra, attivò l’ennesimo fumogeno ad
azione rapidissima.
Fece un balzo indietro per evitare
di dare punti di riferimento alla Belva: avrebbe dovuto faticare per trovarla
nuovamente. Intanto, frugando nella borsa e nel cervello, avrebbe trovato
certamente altri trucchi per immobilizzare la Belva. Quello era il suo
obbiettivo. Eppure non avrebbe scommesso un centesimo che, una volta
immobilizzata la Belva, la faccenda si sarebbe conclusa lì. Anzi, si stava già
immaginando certi possibili utilizzi di quelle ultime carte dai bordi taglienti
che si era fatta procurare quando una colossale gomitata allo stomaco la
riportò al pianeta terra. Credette di svenire. Sembrava che le interiora
volessero uscirsene tutte dalla gola, tanto il colpo era stato violento.
Pensava di essersi messa al sicuro, con la storia dei fumogeni. Eppure, in quel
preciso istante, la maga imparò una lezione fondamentale che le sarebbe servita
per il resto della sua vita: non puoi fregare qualcuno usando per due volte lo
stesso trucco. Specie se lo usi due volte nel giro di poco meno di quattro
minuti. La cosa però non finì lì.
Alla gomitata seguì un pugno al
basso ventre. Certo, sapeva di aver di fronte pur sempre la Belva Umana. Certo,
si era accorta che non si trattava di un omino gracile. Ma mai nella vita
avrebbe pensato che fosse così forte. Se la gomitata sullo stomaco le era
sembrata orribile, con quel pugno le parve di impazzire. Nemmeno una flebo di
Ibuprofene l’avrebbe riportata alla normalità. Incolpevole, si ritrovò seduta a
terra, le mani sulla pancia. Dov’era finita la sua rabbia?
«Muori, puttana!». Era la Belva,
questa volta, la persona arrabbiata in quel consesso. “Non può farlo”. Ma lo
fece. E con un atto di forza erculea, appoggiò le mani a uno dei tanti armadi
pieni di inutilità di ogni tipo, rovesciandoglielo addosso. Pezzi di vetro,
oggetti di metallo, libri e portapenne pieni di matite scalfite le piovvero
addosso, seguite subito dall’armadio stesso. I pesanti scaffali di legno erano
come dei tir che la investivano ripetutamente. Non era il dolore degli urti a
farla star male: era il senso di soffocamento che la atterriva. Era ricoperta
quasi del tutto: a fare capolino da quel disastro solo la testa e il braccio
sinistro.
Sentì qualcosa sull’occhio.
Bagnato? Acqua? Era uno sputo. Sentì la Belva sopra di sé.
«Confesso che mi hai fatto davvero
incazzare, ragazzina. Non ti avevo presa in esame. Ma va bene così. Anche la
rabbia mi fa bene, ogni tanto. Mi aiuta a riscoprire le mie radici. Ora però
basta». Aveva il coltello in mano. «Chiudo prima la partita con te e poi con il
tuo amichetto».
“Eh no”, pensò la ragazza, delusa
con sé stessa come non mai. “Non può andare così”. Era una guerra di
performance: si dimenticò persino che la sua vita in quel preciso istante era a
concretissimo rischio. Non si accorse neppure che se la Belva l’avesse sgozzata,
tempo tre minuti avrebbe sgozzato pure il suo amato Asuka-kun. Aveva solo un
obiettivo: uscirsene fuori da lì e far soffrire la Belva. Non sconfiggerla, non
fermarla, non punirla: fargli del male.
Aveva ancora un braccio libero. La
Belva era inginocchiata su di lei. Provò con una mano a toccarsi l’interno
della manica, quasi a cercare qualcosa, ma la Belva le sollevò la testa
tirandola per il fiocco nero che aveva tra i capelli. Esibiva, minaccioso, il
solito coltellaccio. L’avrebbe sgozzata lì, in quell’istante. La lama si stava
avvicinando al collo sudato e sporco della fanciulla quando finalmente le punte
delle dita trovarono l’aggeggio che cercavano disperatamente. L’ennesimo
meccanismo di sicurezza che in condizioni normali chiunque avrebbe giudicato al
limite della paranoia ma che in realtà era il minimo sindacale per chi
rischiava la vita, di notte, avendo a che fare con criminali e furti
dall’impossibile attuazione.
Dalla manica del tutù della ragazza
uscì una corda robusta con in testa una specie di arpione. A rendere il tutto
più pittoresco il fatto che questa corda non fosse in effetti altro che una
sfilza di fazzoletti colorati legati stretti l’un l’altro. L’arpione ruppe
alcuni vasi, squarciò alcune lamine di vetro, superò alcuni pannelli di legno e
si andò ad assicurare a un solido armadio di legno. La Belva si girò
improvvisamente verso il braccio, coltello alla mano, per tagliare i fazzoletti
ma Saint Tail, questa volta, fu più svelta. Premette un altro bottoncino e
l’argano riavvolse in fretta la fune colorata: la potenza del marchingegno fece
scivolare la ragazza dal cumolo di detriti e la fece letteralmente volare
dall’altra parte della stanza. Lontana dalle grinfie della Belva.
Non fu un viaggio di piacere: urtò
sedie e altro mobilio d’ufficio, si tagliò ripetutamente con pezzi di vetro
appuntito e si ritrovò a sbattere a 50 all’ora contro il solido armadio di
legno. Provò a rialzarsi immediatamente, con una delle ennesime prove d’agilità
che l’avrebbero resa una promessa in diverse discipline sportive se solo le
avesse rese pubbliche. Ma semplicemente non riuscì. Il suo corpo le ricordò,
con la voce del dolore, che persino il fisico più resistente e l’animo più
tenace avevano dei limiti.
Sentiva un peso fortissimo al
petto, dovuto allo schiacciamento di pochi istanti prima. Ma faremmo molto
prima ad elencare le parti del corpo che non le dolevano.
“Devo alzarmi, devo alzarmi, devo
alzarmi”. Si girò verso sinistra. Era l’armadio ricoperto da tute di lavoro
dove giaceva Asuka. Si guardò in avanti. La Belva procedeva, coltello in mano,
verso di lei.
Poggiò una mano a terra, caricò il
peso sul braccio. Pareva di pongo. Sollevò un ginocchio, inarcò la schiena.
Stava per alzarsi. Ma era la forza della disperazione. La Belva non fiatava, e
continuava a camminare. Secondi interminabili. La borsa ce l’aveva ancora.
Erano le idee che le mancavano. Mise una mano dentro, nella speranza che
toccando qualcosa di famigliare le sinapsi iniziassero a cantare. “Teleport”.
Pensò Saint Tail, mentre cadeva a terra di nuovo. Il trucco più difficile del
suo repertorio. Aveva salvato, due ore prima, centinaia di persone da una
bomba. Avrebbe potuto salvare lei e Asuka? Sì, se fosse riuscita a creare un
buon diversivo. Le bastava venti metri di distanza. Fuori da lì. O anche a un
piano superiore. Il tempo per nascondersi, per chiamare di nuovo aiuto. Con le
dita stava toccando qualcosa che le sarebbe servito, ma in quel momento rialzò
per un istante la testa. E la Belva non c’era più.
“Oddio, no”. Questa volta si trattò
di un regolare ceffone, uno di quelli che i padri violenti danno ai ragazzini
indisciplinati. Ma molto, molto più forte. Meimi sentì come se i muscoli del
collo gli si fossero strappati, mentre la testa gli girava verso sinistra.
Bastò a farla cadere nuovamente a terra. E questa volta, difficilmente sarebbe
riuscita a rialzarsi. Di nuovo a terra. Questa volta, a differenza di prima,
non soffriva per la performance scadente. Ora aveva sì una paura fottuta di
morire. E che Asuka soffrisse ancora. Gli occhi erano rivolti a quell’armadio,
ma immediatamente, da dietro, sentì un colpo improvviso alle vertebre. La Belva
le aveva appena sferrato un violento calcio alla schiena. Più che il dolore,
questa volta, a farla soffrire il vuoto che sentì ai polmoni. Un altro calcio
fortissimo, questa volta alle cosce. I muscoli irrigiditi dagli sforzi e dalle
corse di quella sera vennero praticamente spezzati dalle scarpe di camoscio
italiane del senzadio.
«Questa città mi ringrazierà»,
epigrammò implacabile la Belva, «sto mettendo la parola fine a un’impostura
durata troppo a lungo».
Era la fine? La Belva era sopra di
lei. E le sferrò l’ennesimo calcio. Questa volta, in bocca. Un labbro le si
spezzò e sentì il sapore del sangue scorrerle tra la lingua. Tra le tute di
lavoro, spalancati come quelli di un cerbiatto impaurito, gli occhi di
Asuka-kun. Quanto aveva sofferto quella sera. E lei era lì, impotente, incapace
di alzare un dito per impedire che dovesse soffrire ancora. Aveva già pianto
quella sera: pensava di aver consumato tutte le lacrime secernibili in tutta
una vita da un essere umano, eppure, tornarono a rigarle il viso, cadendo per
terra dov’era riversa e accumulandosi tra la guancia e il pavimento sporco.
La Belva sollevò di nuovo il
coltello. Diede due calcetti alla ragazza perché da una posizione a taglio
passasse a quella supina. Voleva che lo guardasse in faccia mentre ne decretava
la fine.
«FIGLIO DI PUTTANA!». Due mani
afferrarono il coltello e lo gettarono via, verso il centro della stanza
ridotta ormai come Napoli nel 2007[1].
Se ne era dimenticato? Lo aveva sottovalutato? Meimi voltò gli occhi. Asuka era
in piedi di fronte alla Belva. Piccolo e stanco di fronte al criminale, si
teneva in piedi solo grazie alla gamba destra, mentre teneva la gamba sinistra
rigida ancorata al suolo. Il volto era chiarissimo: stava soffrendo le pene
dell’inferno. Ma si era alzato comunque.
Meimi ne fu sconvolta. Il ragazzo
l’amava così tanto non solo da rischiare la vita per lei, ma anche da ignorare
le più basilari norme che regolano la fisiologia umana. «Asuka», lo chiamò. Ma
il ragazzo continuava a guardare in alto, verso il feroce italiano, che seppur
non fosse una montagna di statura, al confronto faceva passare il giovane
detective nipponico per un ex-ministro italiano.
La Belva si girò verso il
ragazzino, che in quel momento non aveva nemmeno la forza per fargli il
solletico. Aveva la faccia di un impiegato statale raggiunto da una commissione
a un minuto dal termine delle sue otto ore sindacali, che per uno come la Belva
voleva dire avere il volto completamente sfigurato dalla rabbia.
«Ti avevo fatto una promessa», si
limitò a dire, «e io le promesse le mantengo». La sua voce era grave, come
quella di un capo barbaro seduto sul suo trono incastonato coi teschi degli
avversari uccisi, da utilizzare al bisogno come coppa per speciali libagioni.
«Questa volta dovrò fare un’eccezione».
La pistola l’aveva fatta cadere per
scagliarsi su Saint Tail. Il coltello gliel’aveva buttato via Asuka Daiki
Junior. Ma aveva ancora delle armi potentissime dalla sua. Le mani.
Afferrò il giovane detective per il
collo e lo fece praticamente inginocchiare sul posto. Le dita si mossero verso
la giugulare. Non voleva soffocarlo. Voleva – da gran maestro assassino qual
era – squarciargli la gola, spezzargli la giugulare e forse addirittura
torcergli le vertebre cervicali. Meimi vide i prodromi della scena e capì
immediatamente l’antifona. La Belva sarebbe stato capace di decapitarlo senza
l’utilizzo di alcun tipo di strumentazione. Lo stava già facendo.
«NOOOOO!!!», gridò con tutti i
polmoni Meimi. Era a terra. Impotente. “Se ce l’ha fatta lui posso farcela
anch’io”, si convinse. Qualcosa doveva pur fare. Anche solo per guadagnare
alcuni istanti. Corde non ne aveva più. Fumogeni sarebbero stati perfettamente
inutili: ormai il collo del ragazzo era tra le sue mani. Lo avrebbe ucciso sia
vedendolo che non vedendolo. Con uno sforzo titanico mise la mano nella borsa.
Toccò qualcosa di morbido. L’ultimo trucco che le sarebbe servito in quel
momento.
“Il cappello dei ricordi”[2].
Era un cilindro soffice, schiacciato per rimanere nella borsa. Il trucco più cretino
di suo padre, che evidentemente lo aveva concepito dopo aver fatto visita al
suo amico di colore pieno di treccine e amante della musica reggae. Genichiro
faceva indossare il cappello a uno degli spettatori. Il cappello produceva
alcune piccole onde a microonde che stimolavano il cervello della “cavia” a
recuperare i ricordi più belli del passato, a volte convincendolo addirittura
che li stesse vivendo in quel momento. Ma gli spettatori di Las Vegas,
giustamente, nel vedere un’anziana sul palco che rideva per i cartoni di Tom e
Jerry visti negli anni ’50 o un professore del MIT raccontare nuovamente alla
mamma di aver preso il massimo dei voti nella pagella di prima elementare, un
po’ si scassavano le palle. Dunque il trucco venne dismesso, e recuperato da
Saint Tail, che trattava i fallimenti del padre come si fa di norma con il
maiale: non si butta mai niente.
Meimi era molto scettica nei
confronti di quel trucco: la volta che l’aveva provato su di sé rimase tre ore
in camera sua credendo di essere una poppante di un anno e pochi mesi, decisa a
seguire l’aereoplanino con cui la nonna le faceva mangiare la pappa. Quando il
cappello le cadde di testa se ne vergognò così tanto che non raccontò
dell’incidente nemmeno alla fidata Seira. Gli effetti collaterali furono
evidenti: per qualche giorno accusò dei fortissimi mal di testa ed ebbe anche
dei gravi problemi ad alimentarsi correttamente senza macchiarsi i vestiti.
Ora però non era tempo di
scherzare. Qualche altro istante e le dita della Belva si sarebbero fatte
breccia nella pelle debole di Asuka-kun, squarciandola.
“O questo o niente”, pensò Meimi.
L’idea era quella di attivare il cappello, lanciarlo addosso al criminale,
nella speranza che rivivesse qualche bel ricordo dell’infanzia e si
rincretinisse per alcuni secondi. Giusto il tempo per staccare Asuka da quella
presa mortale e scappare da quell’inferno.
Premette il pulsantino sul retro
del cappello, pregò tutte le formazioni angeliche e mise il cuore nel braccio.
Aveva solo un tiro a disposizione.
Il cappello volò in aria, e planò,
delicato come una piuma, sulla testa della Belva. Il criminale fece per
toccarsi la testa e capire quello che stava succedendo ma si bloccò,
improvvisamente.
Che diamine stava succedendo? Il
senzadio era ancora lì. Quello era sicuramente il magazzino dell’acquario della
Saitou Corporation. Nelle stanze vicine c’erano gli uomini di Kenzo e Sakura il
Cesso. In un’altra stanza la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare attendeva
solo che egli tornasse per digitare le password che gli avrebbero trasferito,
in pochi istanti, ben 200 milioni di euro nei suoi conti offshore. Le scrivanie
e gli armadi rigonfi di scatole di vernice erano tutti lì, al loro posto. Ma il
ragazzino che stava strangolando non c’era più, e al suo fianco, a terra, non
c’era più nemmeno la ragazzina che gli aveva quasi distrutto l’operazione in
terra giapponese. Camminò per capire che diavolo stesse avvenendo. L’aria era
cambiata, la luce era cambiata. Si avventurò nel corridoio interno, tra due
file di armadi che parevano ancor più alti del solito. Il corridoio era davvero
lungo. Ma stava succedendo sul serio? Era tutto più buio. Continuò a camminare.
Improvvisamente svoltò a sinistra. E lei era lì.
Distesa su un letto matrimoniale,
ricoperta da una semplice vestaglia bianca, lei era lì. Rosalia. Pallida come
la neve. I capelli ricci le nascondevano il volto.
Lei era lì. Era così che l’aveva
vista l’ultima volta. E quella volta lui era davvero felice per aver ucciso
l’uomo di merda che l’aveva stuprata. Ma lei era lì. Che lo giudicava. L’unica
persona che aveva amato lo stava giudicando. Gli stava dicendo, senza parlare,
che non era quello l’amore che voleva. Che si era messo fuori dalla sua vita
quando da timido liceale si era trasformato in un mostro. In una bestia. In una
belva. Il criminale, forse per la prima volta dopo più di trent’anni, iniziò a
tremare. Perché Rosalia ora non lo giudicava più solo per l’omicidio del
capitano della squadra di calcio locale. Ora lo stava giudicando anche per la
rapina di Düsseldorf, lo
stava giudicando per la strage nella gioielleria di Monaco di Baviera, lo stava
giudicando per Anne e Babette Brown, sedotte, abbandonate, tagliate a pezzi e
sepolte, mescolate, in due valige diverse, lo giudicava persino per aver ucciso
quel vecchio Vescovo, poche ore prima.
E ora – solo ora – si accorgeva che
lo giudicava così ferocemente solo perché lo aveva amato tantissimo. Ma ora non
poteva più amarlo. Ed era da quel volto che era fuggito per tutta la vita. Da
quei capelli ricci, da quella pelle pallida, da quel silenzio imbarazzante. Ma
più fuggiva, più l’ombra cresceva. Più scappava, più, muto e mai espresso,
cresceva in quell’animo omicida il desiderio che in un altro universo Paolo
stesse vivendo una banale vita da impiegato qualunque con una moglie dai
capelli neri ed occhi azzurri qualunque. Trasparenti come il Mar di Sicilia.
Ma ora Rosalia era lì, a
giudicarlo. Ed era lui che giudicava sé stesso. Che condannava sé stesso.
Non si pentì. Non poté pentirsi di
fronte a quel tribunale cerebrale. Un’orgogliosa bestemmia dal profondo del
cuore a suggello di una vita fallita trionfalmente. Ma era sé stesso che
malediva.
-
Cadde sul posto. Con gli occhi che
gli rotearono nelle orbite. Le mani cessarono la loro presa feroce sul collo di
Asuka junior, che tossì vistosamente mentre si portava le mani in faccia. Poi
cadde anche lui: la gamba destra, che aveva supplito stoicamente alle funzioni
della sua gemella, cedette.
Meimi alzò gli occhi, incredula. La
Belva era lì, come un sacco di patate, disteso goffamente sul pavimento.
Inerme. Così impotente da assomigliare a Fracchia. Per un istante fu
attanagliata da un feroce sospetto. “L’ho ucciso?”. Si accorse che respirava.
Ampi movimento del petto le rivelarono che la Belva – fisicamente – era ancora
lì con loro. In perfetta salute. Ma era come se fosse da tutt’altra parte.
Con stanchezza, con dolore, trovò
nel giro di due minuti buoni l’energia per alzarsi. E la Belva era ancora lì.
Era davvero tutto finito?
Dall’alto della finestra
squarciata, che dava dal seminterrato al pian terreno, iniziò a sentire dei
suoni di sirena. Poi di auto. Infine una voce gracchiante: «bbbzzz… ELVA…
CONDETO… FUORI… TO… NON FERE CHE… TE. MA PORCA TROIA PERCHE’ NON MI FUNZIONA
MAI NIENTE A ME? E ADESSO FUNZIONI CHE NON SERVI PIU’? MAVVEFFENCULO VE’. BEL…
SEI CIR… bbzz. Bzz.. PUTTENA MALEDETTA!!!»
Non badò più a quel trambusto e si
girò verso Asuka. Era ancora seduto a terra, una mano sul ginocchio e una sul
dente. A tu per tu con il dolore. Ma era vivo. E allora fu lì che la paratia si
aprì. E iniziò, di nuovo, con forza, a piangere come una fontana. Cadde sulle
ginocchia. E piangeva, piangeva forte, singhiozzando, urlando, tirando su con
il naso. Piangeva di dolore, piangeva di paura, piangeva di stanchezza,
piangeva di imbarazzo, piangeva di gioia.
Tutto era pianto: e fu sorpresa dal
sentire un’altra voce nella stanza. E non era la Belva. Era Asuka. Anche lui,
con più calma, più sommessamente piangeva. E anche lui – era assodato – stava
piangendo dal male, stava piangendo per lo stress, piangeva di rabbia e
piangeva di beatitudine. Con una mano si asciugava le lacrime e ogni tanto
singhiozzava.
Strisciando per terra, si trascinò verso
di lui. Lo fece di getto, senza frenare, senza fermarsi a guardarlo. E posò il
mento sulla sua spalla. Lo strinse con le braccia e continuò a piangere. E
piansero insieme. Felici di tante lacrime.