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Autore: Andrewthelord    29/04/2014    2 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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50 Saint Tail

 

Perché aveva voluto baciarlo? Ok, era un bacio innocente, ma perché proprio sulla fronte? Se lo domandò in quel frangente di secondo, mentre nascondeva alla vista della stanza un febbricitante Asuka spostando alcuni appendini dalle quali pendevano alcune tute da lavoro sporche. Era come baciare un bimbo malato. Il suo bimbo malato.

 

Lo avrebbe protetto da tutti, d’ora in avanti. Asuka però non era un bimbo a cui doveva asciugare il moccio. In genere se la cavava benissimo da solo. Ripensandoci, parecchio tempo dopo, rimase sorpresa del fatto che nemmeno si accorse di quel “Meimi” al posto di “Saint Tail”. Lo diede per scontato. In effetti, era proprio Meimi, che in quel momento interveniva.

 

Saltò sulla cima di un armadio, e guardò in basso, verso la macchia bianca in mezzo a quella parziale oscurità.

 

«Sei colpi, devi ricaricare». L’odio che provava l’aveva fatta divenire pure sarcastica. Se ne stupì.

 

«La famigerata Saint Tail», sorrise la Belva, incurante, mentre si infilava una mano in tasca per recuperare le pallottole e ricaricare il revolverino. «Che ci fai qui?».

 

«Di solito annuncio i miei colpi», continuò, più seria che mai, «e me ne scuso. Sono qui per rubare la Contessa e Asuka-kun».

 

«Rubare…», la Belva rise selvaggiamente. «Rubare. Tu non sai nemmeno che significa rubare».

 

«Io…», ma la Belva la interruppe. «Hai delle doti ragazzina. Sul serio», continuò, «ma sei completamente fuori strada». Proseguì, con l’atteggiamento di un vecchio so-tutto-io che vorrebbe spiegare a un giovane come va la vita. «La giustizia…», e sorrise amaramente, come se avesse pronunciato una bestemmia, «la giustizia…», ripeté, «per cui tu lotti, per cui tu rischi… è un’illusione. Non esiste».

 

«ESISTE!!!», urlò la ragazza.

 

«NO, NON ESISTE!», ringhiò la Belva, «NON ESISTE RAGAZZINA. COME NON ESISTE L’AMORE, NON ESISTE LA PACE, NON ESISTE L’AMICIZIA O IL RISPETTO. Sono illusioni. Illusioni che l’uomo si è dato nel corso della storia per controllare meglio il suo vicino. Homo Homini Lupus. È questo il mio credo».

 

Saint Tail aveva di fronte a sé l’emblema della malvagità. Ma si accorse che non era malvagio. Perché malvagio è colui che conoscendo il male lo fa scientemente. La Belva non era malvagia. Era al di sopra di ogni legge, al di sopra di un’umanità che disprezzava.

 

«Ragazzina. Ti do una notizia. Tu e io non siamo poi così diversi». Meimi provò un moto di disgusto. Ma non fu un disgusto così pieno come avrebbe potuto preventivare inizialmente.

 

«Anche tu vivi in questo mondo. E a un certo punto della tua vita le leggi che ti circondavano, che ti contenevano, che prima davi per scontate ti sono state strette. Così hai iniziato a rubare. Perché così volevi. Perché così potevi. Non è vero?».

 

«IO HO RUBATO SOLO PER LA GIUSTIZIA!!!» si giustificò Saint Tail. Ma stava gridando.

 

«No. Hai rubato per il tuo senso di giustizia, il che è diverso. Hai rubato perché una parte del tuo cervello ti diceva di farlo, e poi hai dato a quella parte di cervello il nome di giustizia. Sei come me ragazzina, perché di fronte alla voglia di fare qualcosa che l’ammasso di merdacce che ci circonda vorrebbe impedirci di fare, l’hai fatto lo stesso». Aveva ragione? Meimi arrivò al punto di domandarselo sul serio. «Una volta che ti ergi sulla massa, non sei più come prima. Questione di tempo e sarai come me. Anch’io sono partito come giustiziere, ai miei tempi». Era sincero, ma Saint Tail non poteva accettare di venire catturata in una spira logica così stringente.

 

«Io non sarò mai come te».

 

«Nella vita non esiste il giusto, non esiste lo sbagliato». Continuò, placido, infilando le pallottole nel caricatore della pistola.

 

«CHE MOTIVO AVEVI DI RIDURRE COSI’ QUEL RAGAZZO???», urlò Saint Tail, gonfia di rabbia e di disprezzo. Era l’appiglio più che logico per respingere i ragionamenti della Belva.

 

«Perché potevo. Ecco perché. E posso ancora». Un movimento improvviso. La Belva premette il grilletto.

 

Saint Tail, questa volta, non aveva nessuno da difendere, così potè far sfoggio di tutte le sue doti. Schivò e con un balzo era giù dall’armadio, mentre la pallottola andava ad incastonarsi nel soffitto di lastre prefabbricate. La Belva vide la sagoma della giovane ladra muoversi tra una fila di scrivanie, mobili da ufficio e lastre di vetro. Sparò alcuni colpi tra i mobili che la sfiorarono. A colpirla, però, ci pensarono alcune schegge di legno e alcuni pezzettini di vetro che si staccarono dagli oggetti colpiti. Una capriola ed era dietro una scrivania. Frugò nella borsa. “Queste”. Estrasse qualcosa e mise la testa fuori dalla scrivania. La Belva era guardinga, e si era posta, spalle al coperto, dietro l’armadio dove il calcio di Saint Tail, tre minuti prima, l’aveva fatta volare.

 

Si alzò di nuovo, e iniziò a correre tra le file disordinate di attrezzi. “È la mia unica possibilità”, ammise a sé stessa, sperando con tutto il cuore che con quell’oscurità la Belva non riuscisse a centrarla. Ma dopo pochi metri, si accorse con stupore che la Belva non stava cercando di spararle. Più dubbiosa di prima, continuò a correre lo stesso, raggiungendo i vari angoli della stanza e provando, il più possibile, a stare al di fuori del raggio d’azione della Belva. Ogni tanto, però, lasciava cadere a terra qualcosa.

 

“Ologrammi. Dovrebbero funzionare”. Altri prototipi del paparino debitamente lasciati in giro per la casa che si sarebbero potuti rivelare fondamentali. Meimi si cacciò sotto una delle scrivanie. Estrasse il solito magico smartphone, che di magico, in senso stretto, non aveva ovviamente niente, tranne l’aver fatto passare un’incazzatura fotonica al fu Steve Jobs per via dei costi più contenuti e delle maggiori funzionalità. Saint Tail avviò i prototipi.

 

Da questi aggeggini, poco più piccoli di una palla da tennis, uscì fuori una sorta di pompetta, che sparò nell’aria circostante una soluzione nebulizzata di vapor acqueo e altri pochi agenti chimici, che ricoprivano la stanza. Sempre dalla pompetta, all’unisono, uscirono dei raggi di luce. Lo smartphone, grazie a dei sensori di prossimità, calcolò le distanze dei sette proiettori che iniziarono a lavorare all’unisono. I raggi di luce si intensificarono, rifrangendosi contro gli schermi di vapore. La Belva si accorse con sgomento che non una, ma quattro Saint Tail correvano per la stanza. Una saltava, l’altra camminava, una correva in cerchio, un’altra balzava dalla cima di un armadio alla sommità di un cumulo di cianfrusaglie sopra una scrivania.

 

“Ora ti becco!” Saint Tail era più fiduciosa del solito. Le quattro Saint Tail iniziarono a muoversi su un perimetro molto più vicino alla posizione della Belva. Ma la Belva continuava a non sparare.

 

«It’s showtime!» sussurrò la vera Saint Tail. Non era lo slogan della maga tranquilla, ma le parole di chi stava per fare del male. Di chi voleva fare del male. Mentre le quattro Saint Tail fasulle si rincorrevano in una sorta di giostra rinascimentale, lei strisciò a terra, come un soldato della prima guerra mondiale in trincea sotto il filo spinato, e si ritrovò alle spalle della Belva. Fu un secondo: la mano sinistra si mosse velocemente, e, come una campionessa di softball, lanciò una sorta di sfera contro la nuca del criminale. Non fu sorpresa nel vedere che, mentre le micro bombole di gas a reazione rapida facevano dilatare i classici palloni, suoi cavalli di battaglia, che in teoria avrebbero dovuto avvolgere e immobilizzare il criminale, la Belva si girò improvvisamente, nella mano sinistra un coltellaccio appuntito, pronto a squarciare quel prodigio della tecnica.

 

Il gas continuò a uscire, ma il pallone fucsia non crebbe di un centimetro. Esalava dei buffi sospiri sollevato a mezz’aria come una sorta di enorme globulo rosso accoltellato al cuore.

 

«Non mi fotti ragazzina». La Belva buttò a terra quell’accozzaglia di gomma e si avventò sulla maga. Era grassoccio. Fisicamente aveva pure qualche chilo di troppo come il suo sosia inerme e impotente di fronte al mondo, ma la Belva aveva imparato nel corso degli anni a trasformare ogni centimetro cubo del suo corpo in un’arma mortale. Ossa, muscoli, persino il grasso, in caso di bisogno, potevano decretare la morte orribile dei suoi nemici. Così, invece di perdere tempo a ricaricare nuovamente la pistola, gettò a terra l’arma e con un semplice balzo fu sopra la giustiziera vestita di raso nero.

 

Saint Tail vide l’uomo che incombeva su di lei. Avrebbe voluto fare altrettanto, correre verso di lui per fargli del male, mordergli il collo, cavargli gli occhi con le unghie e strappargli i capelli fino a farlo sanguinare. Ma il briciolo di razionalità che le rimaneva la costrinsero a fare i conti con la realtà. Non sarebbe mai stata in grado, lei, esilissima ragazzina giapponese a tener testa fisicamente a quell’omazzo di stirpe mediterranea.   Era allenata, era forte, era pronta. Ma negli scontri ravvicinati, a un certo punto, a contare sono solo i chili. La lama del coltello della Belva era a pochi centimetri da lei quando si convinse a fare l’unica cosa in suo potere, in quel momento. Un cliché, certo, per una che si considerava, comunque, anche in quelle circostanze, un’artista dello spettacolo. Ma come le punizioni per Pirlo, il crescendo per Rossini e la battute dei politici che magnano per Pippo Franco, i tormentoni hanno sempre il loro fascino. E fu così che Saint Tail, con un veloce movimento della mano sinistra, attivò l’ennesimo fumogeno ad azione rapidissima.

 

Fece un balzo indietro per evitare di dare punti di riferimento alla Belva: avrebbe dovuto faticare per trovarla nuovamente. Intanto, frugando nella borsa e nel cervello, avrebbe trovato certamente altri trucchi per immobilizzare la Belva. Quello era il suo obbiettivo. Eppure non avrebbe scommesso un centesimo che, una volta immobilizzata la Belva, la faccenda si sarebbe conclusa lì. Anzi, si stava già immaginando certi possibili utilizzi di quelle ultime carte dai bordi taglienti che si era fatta procurare quando una colossale gomitata allo stomaco la riportò al pianeta terra. Credette di svenire. Sembrava che le interiora volessero uscirsene tutte dalla gola, tanto il colpo era stato violento. Pensava di essersi messa al sicuro, con la storia dei fumogeni. Eppure, in quel preciso istante, la maga imparò una lezione fondamentale che le sarebbe servita per il resto della sua vita: non puoi fregare qualcuno usando per due volte lo stesso trucco. Specie se lo usi due volte nel giro di poco meno di quattro minuti. La cosa però non finì lì.

 

Alla gomitata seguì un pugno al basso ventre. Certo, sapeva di aver di fronte pur sempre la Belva Umana. Certo, si era accorta che non si trattava di un omino gracile. Ma mai nella vita avrebbe pensato che fosse così forte. Se la gomitata sullo stomaco le era sembrata orribile, con quel pugno le parve di impazzire. Nemmeno una flebo di Ibuprofene l’avrebbe riportata alla normalità. Incolpevole, si ritrovò seduta a terra, le mani sulla pancia. Dov’era finita la sua rabbia?

 

«Muori, puttana!». Era la Belva, questa volta, la persona arrabbiata in quel consesso. “Non può farlo”. Ma lo fece. E con un atto di forza erculea, appoggiò le mani a uno dei tanti armadi pieni di inutilità di ogni tipo, rovesciandoglielo addosso. Pezzi di vetro, oggetti di metallo, libri e portapenne pieni di matite scalfite le piovvero addosso, seguite subito dall’armadio stesso. I pesanti scaffali di legno erano come dei tir che la investivano ripetutamente. Non era il dolore degli urti a farla star male: era il senso di soffocamento che la atterriva. Era ricoperta quasi del tutto: a fare capolino da quel disastro solo la testa e il braccio sinistro.

 

Sentì qualcosa sull’occhio. Bagnato? Acqua? Era uno sputo. Sentì la Belva sopra di sé.

 

«Confesso che mi hai fatto davvero incazzare, ragazzina. Non ti avevo presa in esame. Ma va bene così. Anche la rabbia mi fa bene, ogni tanto. Mi aiuta a riscoprire le mie radici. Ora però basta». Aveva il coltello in mano. «Chiudo prima la partita con te e poi con il tuo amichetto».

 

“Eh no”, pensò la ragazza, delusa con sé stessa come non mai. “Non può andare così”. Era una guerra di performance: si dimenticò persino che la sua vita in quel preciso istante era a concretissimo rischio. Non si accorse neppure che se la Belva l’avesse sgozzata, tempo tre minuti avrebbe sgozzato pure il suo amato Asuka-kun. Aveva solo un obiettivo: uscirsene fuori da lì e far soffrire la Belva. Non sconfiggerla, non fermarla, non punirla: fargli del male.

 

Aveva ancora un braccio libero. La Belva era inginocchiata su di lei. Provò con una mano a toccarsi l’interno della manica, quasi a cercare qualcosa, ma la Belva le sollevò la testa tirandola per il fiocco nero che aveva tra i capelli. Esibiva, minaccioso, il solito coltellaccio. L’avrebbe sgozzata lì, in quell’istante. La lama si stava avvicinando al collo sudato e sporco della fanciulla quando finalmente le punte delle dita trovarono l’aggeggio che cercavano disperatamente. L’ennesimo meccanismo di sicurezza che in condizioni normali chiunque avrebbe giudicato al limite della paranoia ma che in realtà era il minimo sindacale per chi rischiava la vita, di notte, avendo a che fare con criminali e furti dall’impossibile attuazione.

 

Dalla manica del tutù della ragazza uscì una corda robusta con in testa una specie di arpione. A rendere il tutto più pittoresco il fatto che questa corda non fosse in effetti altro che una sfilza di fazzoletti colorati legati stretti l’un l’altro. L’arpione ruppe alcuni vasi, squarciò alcune lamine di vetro, superò alcuni pannelli di legno e si andò ad assicurare a un solido armadio di legno. La Belva si girò improvvisamente verso il braccio, coltello alla mano, per tagliare i fazzoletti ma Saint Tail, questa volta, fu più svelta. Premette un altro bottoncino e l’argano riavvolse in fretta la fune colorata: la potenza del marchingegno fece scivolare la ragazza dal cumolo di detriti e la fece letteralmente volare dall’altra parte della stanza. Lontana dalle grinfie della Belva.

 

Non fu un viaggio di piacere: urtò sedie e altro mobilio d’ufficio, si tagliò ripetutamente con pezzi di vetro appuntito e si ritrovò a sbattere a 50 all’ora contro il solido armadio di legno. Provò a rialzarsi immediatamente, con una delle ennesime prove d’agilità che l’avrebbero resa una promessa in diverse discipline sportive se solo le avesse rese pubbliche. Ma semplicemente non riuscì. Il suo corpo le ricordò, con la voce del dolore, che persino il fisico più resistente e l’animo più tenace avevano dei limiti.

                                                                                                                                                  

Sentiva un peso fortissimo al petto, dovuto allo schiacciamento di pochi istanti prima. Ma faremmo molto prima ad elencare le parti del corpo che non le dolevano.

 

“Devo alzarmi, devo alzarmi, devo alzarmi”. Si girò verso sinistra. Era l’armadio ricoperto da tute di lavoro dove giaceva Asuka. Si guardò in avanti. La Belva procedeva, coltello in mano, verso di lei.

 

Poggiò una mano a terra, caricò il peso sul braccio. Pareva di pongo. Sollevò un ginocchio, inarcò la schiena. Stava per alzarsi. Ma era la forza della disperazione. La Belva non fiatava, e continuava a camminare. Secondi interminabili. La borsa ce l’aveva ancora. Erano le idee che le mancavano. Mise una mano dentro, nella speranza che toccando qualcosa di famigliare le sinapsi iniziassero a cantare. “Teleport”. Pensò Saint Tail, mentre cadeva a terra di nuovo. Il trucco più difficile del suo repertorio. Aveva salvato, due ore prima, centinaia di persone da una bomba. Avrebbe potuto salvare lei e Asuka? Sì, se fosse riuscita a creare un buon diversivo. Le bastava venti metri di distanza. Fuori da lì. O anche a un piano superiore. Il tempo per nascondersi, per chiamare di nuovo aiuto. Con le dita stava toccando qualcosa che le sarebbe servito, ma in quel momento rialzò per un istante la testa. E la Belva non c’era più.

 

“Oddio, no”. Questa volta si trattò di un regolare ceffone, uno di quelli che i padri violenti danno ai ragazzini indisciplinati. Ma molto, molto più forte. Meimi sentì come se i muscoli del collo gli si fossero strappati, mentre la testa gli girava verso sinistra. Bastò a farla cadere nuovamente a terra. E questa volta, difficilmente sarebbe riuscita a rialzarsi. Di nuovo a terra. Questa volta, a differenza di prima, non soffriva per la performance scadente. Ora aveva sì una paura fottuta di morire. E che Asuka soffrisse ancora. Gli occhi erano rivolti a quell’armadio, ma immediatamente, da dietro, sentì un colpo improvviso alle vertebre. La Belva le aveva appena sferrato un violento calcio alla schiena. Più che il dolore, questa volta, a farla soffrire il vuoto che sentì ai polmoni. Un altro calcio fortissimo, questa volta alle cosce. I muscoli irrigiditi dagli sforzi e dalle corse di quella sera vennero praticamente spezzati dalle scarpe di camoscio italiane del senzadio.

 

«Questa città mi ringrazierà», epigrammò implacabile la Belva, «sto mettendo la parola fine a un’impostura durata troppo a lungo».

 

Era la fine? La Belva era sopra di lei. E le sferrò l’ennesimo calcio. Questa volta, in bocca. Un labbro le si spezzò e sentì il sapore del sangue scorrerle tra la lingua. Tra le tute di lavoro, spalancati come quelli di un cerbiatto impaurito, gli occhi di Asuka-kun. Quanto aveva sofferto quella sera. E lei era lì, impotente, incapace di alzare un dito per impedire che dovesse soffrire ancora. Aveva già pianto quella sera: pensava di aver consumato tutte le lacrime secernibili in tutta una vita da un essere umano, eppure, tornarono a rigarle il viso, cadendo per terra dov’era riversa e accumulandosi tra la guancia e il pavimento sporco.

 

La Belva sollevò di nuovo il coltello. Diede due calcetti alla ragazza perché da una posizione a taglio passasse a quella supina. Voleva che lo guardasse in faccia mentre ne decretava la fine.

 

«FIGLIO DI PUTTANA!». Due mani afferrarono il coltello e lo gettarono via, verso il centro della stanza ridotta ormai come Napoli nel 2007[1]. Se ne era dimenticato? Lo aveva sottovalutato? Meimi voltò gli occhi. Asuka era in piedi di fronte alla Belva. Piccolo e stanco di fronte al criminale, si teneva in piedi solo grazie alla gamba destra, mentre teneva la gamba sinistra rigida ancorata al suolo. Il volto era chiarissimo: stava soffrendo le pene dell’inferno. Ma si era alzato comunque.

 

Meimi ne fu sconvolta. Il ragazzo l’amava così tanto non solo da rischiare la vita per lei, ma anche da ignorare le più basilari norme che regolano la fisiologia umana. «Asuka», lo chiamò. Ma il ragazzo continuava a guardare in alto, verso il feroce italiano, che seppur non fosse una montagna di statura, al confronto faceva passare il giovane detective nipponico per un ex-ministro italiano.

 

La Belva si girò verso il ragazzino, che in quel momento non aveva nemmeno la forza per fargli il solletico. Aveva la faccia di un impiegato statale raggiunto da una commissione a un minuto dal termine delle sue otto ore sindacali, che per uno come la Belva voleva dire avere il volto completamente sfigurato dalla rabbia.

 

«Ti avevo fatto una promessa», si limitò a dire, «e io le promesse le mantengo». La sua voce era grave, come quella di un capo barbaro seduto sul suo trono incastonato coi teschi degli avversari uccisi, da utilizzare al bisogno come coppa per speciali libagioni. «Questa volta dovrò fare un’eccezione».

 

La pistola l’aveva fatta cadere per scagliarsi su Saint Tail. Il coltello gliel’aveva buttato via Asuka Daiki Junior. Ma aveva ancora delle armi potentissime dalla sua. Le mani.

 

Afferrò il giovane detective per il collo e lo fece praticamente inginocchiare sul posto. Le dita si mossero verso la giugulare. Non voleva soffocarlo. Voleva – da gran maestro assassino qual era – squarciargli la gola, spezzargli la giugulare e forse addirittura torcergli le vertebre cervicali. Meimi vide i prodromi della scena e capì immediatamente l’antifona. La Belva sarebbe stato capace di decapitarlo senza l’utilizzo di alcun tipo di strumentazione. Lo stava già facendo.

 

«NOOOOO!!!», gridò con tutti i polmoni Meimi. Era a terra. Impotente. “Se ce l’ha fatta lui posso farcela anch’io”, si convinse. Qualcosa doveva pur fare. Anche solo per guadagnare alcuni istanti. Corde non ne aveva più. Fumogeni sarebbero stati perfettamente inutili: ormai il collo del ragazzo era tra le sue mani. Lo avrebbe ucciso sia vedendolo che non vedendolo. Con uno sforzo titanico mise la mano nella borsa. Toccò qualcosa di morbido. L’ultimo trucco che le sarebbe servito in quel momento.

 

“Il cappello dei ricordi”[2]. Era un cilindro soffice, schiacciato per rimanere nella borsa. Il trucco più cretino di suo padre, che evidentemente lo aveva concepito dopo aver fatto visita al suo amico di colore pieno di treccine e amante della musica reggae. Genichiro faceva indossare il cappello a uno degli spettatori. Il cappello produceva alcune piccole onde a microonde che stimolavano il cervello della “cavia” a recuperare i ricordi più belli del passato, a volte convincendolo addirittura che li stesse vivendo in quel momento. Ma gli spettatori di Las Vegas, giustamente, nel vedere un’anziana sul palco che rideva per i cartoni di Tom e Jerry visti negli anni ’50 o un professore del MIT raccontare nuovamente alla mamma di aver preso il massimo dei voti nella pagella di prima elementare, un po’ si scassavano le palle. Dunque il trucco venne dismesso, e recuperato da Saint Tail, che trattava i fallimenti del padre come si fa di norma con il maiale: non si butta mai niente.

 

Meimi era molto scettica nei confronti di quel trucco: la volta che l’aveva provato su di sé rimase tre ore in camera sua credendo di essere una poppante di un anno e pochi mesi, decisa a seguire l’aereoplanino con cui la nonna le faceva mangiare la pappa. Quando il cappello le cadde di testa se ne vergognò così tanto che non raccontò dell’incidente nemmeno alla fidata Seira. Gli effetti collaterali furono evidenti: per qualche giorno accusò dei fortissimi mal di testa ed ebbe anche dei gravi problemi ad alimentarsi correttamente senza macchiarsi i vestiti.

 

Ora però non era tempo di scherzare. Qualche altro istante e le dita della Belva si sarebbero fatte breccia nella pelle debole di Asuka-kun, squarciandola.

 

“O questo o niente”, pensò Meimi. L’idea era quella di attivare il cappello, lanciarlo addosso al criminale, nella speranza che rivivesse qualche bel ricordo dell’infanzia e si rincretinisse per alcuni secondi. Giusto il tempo per staccare Asuka da quella presa mortale e scappare da quell’inferno.

 

Premette il pulsantino sul retro del cappello, pregò tutte le formazioni angeliche e mise il cuore nel braccio. Aveva solo un tiro a disposizione.

 

Il cappello volò in aria, e planò, delicato come una piuma, sulla testa della Belva. Il criminale fece per toccarsi la testa e capire quello che stava succedendo ma si bloccò, improvvisamente.

 

Che diamine stava succedendo? Il senzadio era ancora lì. Quello era sicuramente il magazzino dell’acquario della Saitou Corporation. Nelle stanze vicine c’erano gli uomini di Kenzo e Sakura il Cesso. In un’altra stanza la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare attendeva solo che egli tornasse per digitare le password che gli avrebbero trasferito, in pochi istanti, ben 200 milioni di euro nei suoi conti offshore. Le scrivanie e gli armadi rigonfi di scatole di vernice erano tutti lì, al loro posto. Ma il ragazzino che stava strangolando non c’era più, e al suo fianco, a terra, non c’era più nemmeno la ragazzina che gli aveva quasi distrutto l’operazione in terra giapponese. Camminò per capire che diavolo stesse avvenendo. L’aria era cambiata, la luce era cambiata. Si avventurò nel corridoio interno, tra due file di armadi che parevano ancor più alti del solito. Il corridoio era davvero lungo. Ma stava succedendo sul serio? Era tutto più buio. Continuò a camminare. Improvvisamente svoltò a sinistra. E lei era lì.

 

Distesa su un letto matrimoniale, ricoperta da una semplice vestaglia bianca, lei era lì. Rosalia. Pallida come la neve. I capelli ricci le nascondevano il volto.

 

Lei era lì. Era così che l’aveva vista l’ultima volta. E quella volta lui era davvero felice per aver ucciso l’uomo di merda che l’aveva stuprata. Ma lei era lì. Che lo giudicava. L’unica persona che aveva amato lo stava giudicando. Gli stava dicendo, senza parlare, che non era quello l’amore che voleva. Che si era messo fuori dalla sua vita quando da timido liceale si era trasformato in un mostro. In una bestia. In una belva. Il criminale, forse per la prima volta dopo più di trent’anni, iniziò a tremare. Perché Rosalia ora non lo giudicava più solo per l’omicidio del capitano della squadra di calcio locale. Ora lo stava giudicando anche per la rapina di Düsseldorf, lo stava giudicando per la strage nella gioielleria di Monaco di Baviera, lo stava giudicando per Anne e Babette Brown, sedotte, abbandonate, tagliate a pezzi e sepolte, mescolate, in due valige diverse, lo giudicava persino per aver ucciso quel vecchio Vescovo, poche ore prima.

 

E ora – solo ora – si accorgeva che lo giudicava così ferocemente solo perché lo aveva amato tantissimo. Ma ora non poteva più amarlo. Ed era da quel volto che era fuggito per tutta la vita. Da quei capelli ricci, da quella pelle pallida, da quel silenzio imbarazzante. Ma più fuggiva, più l’ombra cresceva. Più scappava, più, muto e mai espresso, cresceva in quell’animo omicida il desiderio che in un altro universo Paolo stesse vivendo una banale vita da impiegato qualunque con una moglie dai capelli neri ed occhi azzurri qualunque. Trasparenti come il Mar di Sicilia.

 

Ma ora Rosalia era lì, a giudicarlo. Ed era lui che giudicava sé stesso. Che condannava sé stesso.

 

Non si pentì. Non poté pentirsi di fronte a quel tribunale cerebrale. Un’orgogliosa bestemmia dal profondo del cuore a suggello di una vita fallita trionfalmente. Ma era sé stesso che malediva.

 

-

 

Cadde sul posto. Con gli occhi che gli rotearono nelle orbite. Le mani cessarono la loro presa feroce sul collo di Asuka junior, che tossì vistosamente mentre si portava le mani in faccia. Poi cadde anche lui: la gamba destra, che aveva supplito stoicamente alle funzioni della sua gemella, cedette.

 

Meimi alzò gli occhi, incredula. La Belva era lì, come un sacco di patate, disteso goffamente sul pavimento. Inerme. Così impotente da assomigliare a Fracchia. Per un istante fu attanagliata da un feroce sospetto. “L’ho ucciso?”. Si accorse che respirava. Ampi movimento del petto le rivelarono che la Belva – fisicamente – era ancora lì con loro. In perfetta salute. Ma era come se fosse da tutt’altra parte.

 

Con stanchezza, con dolore, trovò nel giro di due minuti buoni l’energia per alzarsi. E la Belva era ancora lì. Era davvero tutto finito?

 

Dall’alto della finestra squarciata, che dava dal seminterrato al pian terreno, iniziò a sentire dei suoni di sirena. Poi di auto. Infine una voce gracchiante: «bbbzzz… ELVA… CONDETO… FUORI… TO… NON FERE CHE… TE. MA PORCA TROIA PERCHE’ NON MI FUNZIONA MAI NIENTE A ME? E ADESSO FUNZIONI CHE NON SERVI PIU’? MAVVEFFENCULO VE’. BEL… SEI CIR… bbzz. Bzz.. PUTTENA MALEDETTA!!!»

 

Non badò più a quel trambusto e si girò verso Asuka. Era ancora seduto a terra, una mano sul ginocchio e una sul dente. A tu per tu con il dolore. Ma era vivo. E allora fu lì che la paratia si aprì. E iniziò, di nuovo, con forza, a piangere come una fontana. Cadde sulle ginocchia. E piangeva, piangeva forte, singhiozzando, urlando, tirando su con il naso. Piangeva di dolore, piangeva di paura, piangeva di stanchezza, piangeva di imbarazzo, piangeva di gioia.

 

Tutto era pianto: e fu sorpresa dal sentire un’altra voce nella stanza. E non era la Belva. Era Asuka. Anche lui, con più calma, più sommessamente piangeva. E anche lui – era assodato – stava piangendo dal male, stava piangendo per lo stress, piangeva di rabbia e piangeva di beatitudine. Con una mano si asciugava le lacrime e ogni tanto singhiozzava.

 

Strisciando per terra, si trascinò verso di lui. Lo fece di getto, senza frenare, senza fermarsi a guardarlo. E posò il mento sulla sua spalla. Lo strinse con le braccia e continuò a piangere. E piansero insieme. Felici di tante lacrime.

 



[2] Ve lo ricordate? Ne ho parlato al capitolo 31.

   
 
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