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Autore: Paradichlorobenzene_    30/04/2014    1 recensioni
[Dolcetta][Lysandre][Armin][Castiel]
La pioggia scendeva ormai copiosa, un temporale che il cielo lo mandava. Le principesse non piangono. Le principesse non piangono. Parole, queste, che risuonavano continuamente nella mente di Erech mentre un’ultima lacrima le scendeva sul viso abilmente nascosta dalla pioggia. Sembrava fosse fatto apposta. La ragazza si alzò, i capelli fradici la seguirono in un’elegante onda, la mano passò sul viso, asciugandolo parzialmente. Si tirò il cappuccio del mantello, non del tutto bagnato, sugli occhi e riprese la strada per tornare al castello.
Adesso sapeva qual era il suo posto, il suo ruolo in tutta quella storia.
Storia scritta a quattro mani con Gozaru. Amate, onorate e rispettate quella ragazza.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin, Castiel, Dolcetta, Lysandro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le maschere che ci mettono addosso.

La mattina arrivava come una stilettata, perché il levar del sole era così malinconico da rievocare ricordi sordi al richiamo della notte. Eppure Erech non poteva fare altro che svegliarsi all’alba, sempre, da quand’era bambina. Puntualmente, ogni mattina, sentiva come se le mancasse qualcosa. La stessa sensazione di quando ci si accorge che un puzzle sarebbe completo se non mancasse un pezzo, e non si sa dove possa essere finito e lo cerchi ovunque, senza trovarlo. E rimane incompleto. Il giardino sembrava deserto. Non aveva mai visto quello ante stante al castello, si era sempre tenuta nascosta agli occhi di tutti, durante il giorno.
Avvolto nell’aura misteriosa del mattino, le sembrò splendido come le rose che si scorgevano quasi ovunque. Camminava incerta, come se qualcosa dovesse spezzare l’incanto in cui, inconsapevolmente, si era immersa fino a farne parte. Una rosa rossa giaceva per terra, lontana dalle altre e accarezzata dal vento. La ragazza la colse e notò che, nonostante abbia perso alcuni dei suoi petali, era ancora molto bella.
Erech era spaventosamente incline alla’autodistruzione, tutti se n’erano resi conto, o quasi, tranne lei. Ogni suoi comportamento era un insieme perfetto di tecnica, grazia e disagio. Perennemente tormentata da chissà quale ricordo, da chissà quale angoscia, che da anni ormai le toglieva le forze e le negava il sonno.
Ma ciò che tu chiami afflizione non è forse qualcosa di simile alla paura?
Si strinse al rosa al petto, come cercandovi un appiglio, incurante delle spine che le ferivano le dita. Rossa, come il sangue. Come il colore delle labbra dei bambini e della luce negli occhi dei malvagi. Come il fuoco, un colore caldo. Bello come il tramonto. Tramonto che, si diceva, piacesse solo alle persone tristi. Dunque, avrebbero pensato che lei era inconsapevolmente triste.
Non è forse il colore del sangue, il tuo preferito? Non è vero che, come le rose, sei destinata ad appassire?
Lei non ascoltava più nemmeno i suoi stessi pensieri. Era così satura di tormenti che non ne sentiva più gli effetti, le cause che derivavano dal soffrire, ma non aveva nemmeno ciò che chiamano pace interiore. A volte le sarebbe piaciuto provare quel che si sente ad essere cattivi, a non aver rispetto per nessuno, ad essere egoisti e pensare a se stessi e alla propria felicità. Ma poi ricordava l’animo corrotto nei nobili a corte, così egoisti nei loro palazzi dorati e così simili a lei, nelle emozioni e nei sentimenti, da farle provare solo pena, tristezza e infinita commiserazione per loro e per se stessa.  
Perché lei, al contrario di loro – o almeno così pensava che stessero le cose – , non aveva fatto nulla di male.
Si sedette, sospirando: non c’era niente che lei potesse fare per placare l’ansia che l’aveva invasa, uno strano presentimento.
Guardò un punto indefinito al di là dell’orizzonte, superando con lo sguardo le alte mura che circondavano il palazzo, la roccaforte dentro la quale si trovava il villaggio, tutti i paesi che formavano Calimon e tutti i suoi terreni fino a tornare, con la mente, ad Alyon.
Si chiese cosa stessero facendo i suoi genitori, se stessero ancora dormendo o se fossero già svegli, se dal giorno della sua fuga avessero mai pensato a lei con l’affetto che la mancanza scuote anche nei cuori più duri. Si chiese se l’avessero mai vista come figlia prima che come principessa del regno. Ripensò ai capelli biondi della madre, che le circondavano il viso invecchiato e gli occhi verdi e stanchi, quasi fosse sempre sul punto di piangere. Alle sue mani, dispensatrici di carezze delicate sul suo viso di bambina, e ai suoi gesti armonici. All’impeccabilità del suo portamento aggraziato e la perfezione del suo aspetto anche in età avanzata.
Corse velocemente sul ricordo del viso severo del padre, ai capelli neri ormai striati di bianco e a quegli occhi così simili ai suoi, dello stesso colore dell’oro nelle fonderie e altrettanto scintillante di luce fredda. Alla sua mano e al gesto imperioso che compiva quando voleva mettere a tacere qualcuno, e alla sua voce decisa e ferma quando dettava gli ordini.
Alla morbidezza dei vestiti di seta e al profumo di lavanda,alle pareti bianche della sua immensa stanza e alle colonne del castello, dietro le quali si divertita a giocare a nascondino.
Alle feste, ai balli, al villaggio, alle notti d’estate passate in giardino e alla corona, troppo pesante e troppo grande per lei. Da piccola le sembrava tutto così bello.
Un rumore attirò la sua attenzione, poco distante da lei. Si alzò e, silenziosa come un gatto si diresse verso la fonte del rumore.
 

Castiel si era svegliato presto. Per essere più precisi, non aveva praticamente dormito, troppo preso da ciò che era successo solo poche ore prima. La sua giornata era iniziata davvero male: tra la ferita della nuova leva delle sue file e quella Dichiarazione di Guerra inaspettata le cose gli sembravano sfuggirgli di mano. Ricoprendo un ruolo di comando, si era sforzato di controllare tutto ciò che fosse sotto la sua responsabilità, portando il suo carattere a mutare nell'uomo maturo che era oggi. Gli era quindi diventato difficile ignorare che, ben presto, i suoi uomini, i ragazzi che aveva cresciuto e addestrato, sarebbero andati a morire al fronte. Si era rigirato nel suo letto, tra le soffici lenzuola e seta che lo accarezzavano ad ogni movimento, riflettendo su una Guerra che, da tutti i punti di vista, non gli apparteneva affatto. I soldati, ancora ignari della Spada di Damocle che pendeva sopra le loro teste, riposavano nelle loro brandine scomode dalle coperte logore. Il tepore del sonno era tutto ciò che di più caloroso potevano ambire nella loro vita, quella che a breve avrebbero perso. La notizia dello Stato di Guerra non era trapelata dalle mura del castello prima che i banditori ufficiali ne fossero messi al correnti. I suddetti si svegliarono all'alba uscendo per le strade ad affiggere le nuove disposizioni del regno ad ogni porta e per allarmare e informare i cittadini sulla loro nuova condizione. Castiel aveva visto alcuni di loro dirigersi verso le città vicine al galoppo dei veloci destrieri allevati al castello ma non dette loro il giusto peso mentre vagava per i cortili interni. Aveva appuntamento con la nuova recluta, riflettendo se fosse davvero il caso di addestrarla per poi mandarla a morire. Il cortile era deserto e di lei non vi era nemmeno l'ombra, ma il ragazzo non ci fece troppo caso, non arrivando nemmeno a domandarsi come mai la ragazza, sempre puntuale, quel giorno sarebbe arrivata dopo di lui. Estrasse la sua spada dal fodero e si sedette su di un tronco tagliato, abbastanza alto da risultare comodo a chi avesse intenzione di usarlo come sedia. Puntò la punta della sua arma verso il terreno e, tenendo il tutto schiacciato con il palmo della mano verso terra, si fissò sulla lama appuntita che, assecondando i movimenti del suo polso, girava perforando il freddo terreno del mattino. Quasi non sentì i passi della giovane Erech quand'ella arrivò. Lei, dal suo canto, non disse niente. La mano ancora fasciata, ma nessuna spada al fianco: la sua non la trovava più, ignorando che fosse stata portata in armeria. Non che la cosa l'avesse toccata. Era un ricordo di famiglia; quella famiglia da cui aveva deciso di fuggire. Stette immobile a qualche passo dal Generale senza ch'egli le rivolgesse parola. Tra di loro vi era solo il freddo di una mattina che sembrava uguale a tutte le altre, ma con una pesantezza tutta sua, come se il mondo stesse ancora aspettando di svegliarsi per paura che quello che sembrava un incubo potesse avere ripercussioni sulla vita reale. «La vita, a volte, è così strana...» sospirò il ragazzo con lo sguardo sempre fisso verso la punta della sua spada ormai penetrata nella terra di un paio di dita. Erech, consapevole ch'egli aveva notato il suo imminente arrivo, non proferì comunque parola. Sapeva che quelle parole erano dirette a lei, ma non si sentiva comunque parte del discorso che stava per cominciare. Quello era un monologo tra Castiel e se stesso. «Ci si sveglia una mattina non riconoscendo più ciò che si ha intorno e sentendo in bocca il sapore del sangue. Il viso delle persone amiche sembra sfiorito e la terra si ghiaccia sotto ai nostri piedi, ad ogni passo.» Parole senza senso, frasi sconnesse di una coscienza turbata. Castiel pensava solamente a quanto potesse essere dura una guerra, ricollegandosi ai discorsi del nonno, ormai deceduto da tempo. Loro avevano vissuto in un regno di terrore, ma avevano saputo portare la pace. E lui? Lui non aveva mai preso parte che a delle simulazioni belliche, a degli addestramenti privi di realtà. Sarebbe mai riuscito ad affrontare la Guerra, quella vera? Alzò finalmente lo sguardo verso Erech. Gli sembrò bellissima nella pallida luce del mattino. Le sembrò un fiore al massimo dello suo splendore e, inevitabilmente, si chiese se anche lei sarebbe morta. Non voleva pensarci, ma non voleva nemmeno addestrarla per il fronte. Il suo cuore si spaccò in due, ripensando alle notti calde del Re, mentre lui si struggeva di solitudine nelle sue stanze. Era sicuro che con una compagna vicino si sarebbe sentito più forte, e immaginò uno sguardo dolce sul viso della giovane che, davanti a lui, ancora aspettava un mutamento di intenzioni. Lei era venuta per addestrarsi, non per prender parte a turbamenti profondi del suo comandante. Eppure si ritrovò in mezzo a qualcosa che non avrebbe mai potuto immaginare. Nella sua profonda indifferenza, Erech aveva assunto l'immagine di una donna, finalmente, da che era arrivata. Castiel si alzò in piedi, sovrastando la minuta figura della ragazza. «Va a riposarti.» le disse. Non era sicuro che ciò che stava per dirle fosse giusto o meno, ma doveva dirlo per se stesso: se quelle parole non fossero uscite dalla sua bocca, nemmeno lui ci avrebbe creduto. «Siamo in Guerra».
   
 
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