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Autore: memi    22/07/2008    9 recensioni
Gaara aveva paura. Non una paura concreta, di quelle che si realizzano in un oggetto o in un animale. Era una paura astratta, irreale, quasi surreale la sua: paura di non riuscire più a ritrovare se stesso. Si sentiva perso, come in balia di quella musica a tratti persino malinconica ma mai inopportuna. Era una lontana litania, persa nei meandri del tempo, una brezza fresca proveniente da oriente o forse da occidente, ma che importava? Finché lei continuava a suonare senza accorgersi di essere spiata, lui non riusciva a rimanerne disincantato. Era una droga che lo trascinava via, infiltrandosi nelle vene e giù fino alle viscere, e le contorceva, le mescolava, un guazzabuglio indefinito ma mansueto. Era quella la pace? La tanto agognata pace? La pace dei sensi, dello spirito…possibile che bastasse una ragazzina con delle mani incantatrici a farlo sentire tanto disarmato? Mai, mai in vita sua lo era stato. Mai aveva dimenticato il retrogusto amaro del tormento come in quei pochi attimi di – sana – irrazionalità.
Questa fanfic ha partecipato al concorso "Shakespeare meets Naruto" indetto da LalyBlackangel e Mala_Mela. Crack Pairing.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Sabaku no Gaara
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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“Se la musica è il nutrimento dell'amore, continuate a sonare; datemene l'eccesso così che, abusandone, il mio desiderio ne ammali e muoia

“Se la musica è il nutrimento dell'amore, continuate a sonare; datemene l'eccesso così che, abusandone, il mio desiderio ne ammali e muoia. Ancora una volta quella melodia! Aveva una cadenza languida. Oh, essa giungeva al mio orecchio come la dolce brezza che spira su una sponda di violette, rubandone il profumo e diffondendolo attorno. Basta, cessate; adesso non è più soave come prima... Oh spirito dell'amore, come sei vivo ed àlacre! Sebbene la tua immensità sia simile a quella del mare, pure nulla può penetrarvi, qualunque ne sia la forza e l'eccellenza, senza subire una diminuzione e un deprezzamento in un solo minuto! L'amore è così pieno di forme mutevoli da esser lui solo fantasia suprema.”
[“La Dodicesima Notte”, Duca Orsino]

 

 

 

Gaara non era mai stato un bambino.

Poteva esserlo stato anagraficamente, ma dentro di sé mai davvero.

 

Gaara spaventava gli altri bambini, perché nessuno capiva il motivo per cui non sapesse ridere.

Certe volte ci provava, a sorridere almeno, ma senza alcun risultato convincente.

 

Ad un certo punto, Gaara si era stancato di provarci e aveva deciso che se proprio doveva vivere, meglio rimanere da solo.

Era mezzanotte, il giorno in cui ricorreva la commemorazione di sua madre, morta il giorno in cui Lucifero aveva osato vedere per la prima volta la luce.

 

 

 

Midnight

(The clock is stopped)

 

 

Vivere in quel modo, comportava inevitabilmente dei rischi.

Ma, d’altro canto, vivere in un altro modo per lui equivaleva a non vivere affatto.

 

“Scendi da lì, Gaara, ma sei impazzito?” Una voce allarmata che a stento riusciva a controllare la nota d’isterismo impressa in un grido che non voleva fuoriuscire.

Lui sorrise, appena, e quel suo semplice gesto bastò a ribaltare la situazione. Adesso non era più lui il bambino della situazione col capriccio di imprese impossibili, ma lei che si preoccupava per delle sciocchezze. E sarebbe stato credibile, se solo non fosse stato in bilico sulla balaustra del balcone al secondo piano.

 

“Gaara! Scendi subito!” Ripeté la voce femminile di poco prima, sempre più vicina ad un attacco nervoso che lui si sforzò di ignorare.

I piedi che passo dopo passo percorrevano la linea sottile disegnata dalla ringhiera, incurante del rischio enorme che stava correndo. Sarebbe bastato così poco – un piede messo in modo sbagliato o una folata di vento improvvisa – a spezzare quel delicato equilibrio e a buttarlo di sotto, in una caduta che rasentava la fine di Lucifero. Ma alla fine era solo merito di quel rischio, se poteva sentire l’adrenalina mentre divampava in lui come un fuoco, soffiando nelle vene, pompando nel cuore, esplodendo nei polmoni. Erano tutte quelle sensazioni, tutte quelle emozioni a ricordargli di esserci, di vivere. Che non era solo un inutile pezzo di carne e raziocinio.

 

Temari non poteva capire. Troppo innamorata, troppo legata alla vita, per capire. Nessuno poteva capire. Davvero. Non c’era nessuno che potesse comprenderlo.

“Oddio, Temari, ma che ti urli così?” La voce stavolta era mascolina, strascicata e annoiata come solo quella di suo fratello Kankuro sapeva essere.

 

Gaara sbuffò e finalmente, con un salto, fu di nuovo sull’appiglio sicuro del balcone.

Ci mancava solo quell’altro mentecatto, non bastava sua sorella. Non aveva voglia di sentirli, né di vederli. Voleva stare solo e per questo motivo, rientrando in casa, puntò dritto alle chiavi della sua macchina.

 

Suo padre non c’era. Troppo impegnato ad occuparsi degli altri per accorgersi dei problemi familiari e i suoi fratelli fingevano una preoccupazione che probabilmente nemmeno possedevano. Cos’è, erano preoccupati dell’immagine ricavata dal suo comportamento? Come se non sapesse la verità. Quasi che non leggesse nei loro occhi il rammarico per avergli portato via una famiglia, una madre.

“Dove vai?” Kankuro ingoiò amaro e si sforzò di fronteggiarlo quando lo vide uscire di fretta in giardino.

 

Gaara si fermò solo per un istante a guardarlo con un’espressione glaciale che come al solito colpì nel segno. Il fratello indietreggiò di qualche passo e Temari, per quanto si sforzasse di fare la dura, era sbiancata visibilmente. Lui ghignò, soddisfatto dalla sensazione di vittoria nel vedere quei volti impauriti.

“Và a giocare con le bambole, idiota.” Lo rimbeccò, saltando nella decapottabile grigio metallizzato e mettendo in moto prima ancora che Kankuro potesse metabolizzare l’offesa.

 

“Ehi, io non gioco con le bambole!” L’ultima cosa che Gaara udì prima di sfrecciare via a razzo, fu la voce indispettita di Kankuro e quella più scoglionata della sorella poi.

“Lascia stare, non te la prendere.”

 

Ma avrebbe dovuto prendersela. Sul serio, avrebbe dovuto prendersela e riempirlo di pugni. Invece no, non faceva niente.

Perché è un cacasotto. Pensò mentre il piede spingeva in modo incontrollato sull’acceleratore e il contachilometri segnava i centonovanta.

 

La folle corsa, che aveva visto le imprecazioni di quanti impauriti dalla sua velocità avevano lasciato che li superasse inermi, terminò con una brusca frenata al limitare di un alto dirupo. Pochi centimetri solo e sia lui che la macchina, sarebbero finiti morti ammazzati tra la cascata di alberi al di sotto.

Altro rischio, altra adrenalina, altra vita nel suo corpo impassibile.

 

Gaara scese dalla vettura, richiuse con una botta lo sportello e saltò sul cofano.

Dalla tasca del giubbotto di pelle estrasse una sigaretta – l’ennesima della giornata – e recuperando l’accendino ispirò l’aria bruciata di nicotina. Gli occhi acquamarina che vagavano cauti sull’orizzonte che splendido si profilava oltre il burrone, ormai l’adrenalina si era pacata e un senso di vuoto risaliva dalle viscere e veniva fuori come le boccate di fumo dalla sua bocca. E mentre il sole si avviava alla fase del tramonto con i suoi caldi colori del bronzo, Gaara si domandò ancora una volta cosa si provasse, a morire.

 

###

 

Era abituato ad essere evitato. Era abituato a vedere tutta quella manica di studenti modello a girargli alla larga, al suo passaggio. Era abituato persino ai professori che indugiavano di fronte alla sua espressione severa, quasi minacciosa.

Dopotutto era stato lui ad imporre quel comportamento. Lui con le sue maniere brusche, i suoi modi taglienti, il venire immediatamente alle mani – e quanti ne aveva pestati di già? Boh, non se li ricordava mica più – e più in generale, con la sua aria quasi demoniaca. Capelli rossi, occhi azzurri, occhiaie sotto gli occhi…

 

Ciò a cui non era affatto abituato, era sentire una dolce nenia provenire dall’aula inutilizzata in fondo al corridoio che lui si era erogata per sé sin dal primo giorno. Una volta un ragazzino del primo aveva provato a valicare quella porta e ne portava ancora i segni sul volto. Il pivello di stavolta non avrebbe fatto eccezione.

Gaara aumentò l’andatura, infastidito dal non essere snervato da quella tiritera di musica classica. Da sempre si era rifugiato nel genere rock per eccellenza e le sue orecchie non accettavano altra musica che quella. Avrebbe dovuto odiare, quindi a ragione, quella lagna d’altri tempi ma per quanto si sforzasse non ci riusciva. Gli piaceva. Quel bastardo che stava suonando avrebbe avuto vita difficile.

 

E poi la vide.

Non era un ragazzo, un principiante che non aveva ancora capito chi comandasse lì. Si trattava di una ragazza invece. Stava suonando il violino, ad occhi chiusi.

 

Si fermò sulla porta, come paralizzato dall’immagine che gli si parò davanti quasi fosse stata una visione.

Non l’aveva mai vista prima di allora, ne era certo. Sembrava più piccola di quanto in realtà doveva essere con la sua bassa statura, ma le forme del fisico nonostante il maglione largo a nasconderle parevano piuttosto formate. Ed era delicata, fragile, forse per via della pallida carnagione d’avorio in netto contrasto con il nero dei suoi capelli.

 

Chissà perché, senza alcuna ragione apparente, la voglia di menare era scomparsa. Eclissata. Dissolta come sabbia al vento – impossibile da mantenere nel pugno chiuso della mano.

Gaara aveva paura. Non una paura concreta, di quelle che si realizzano in un oggetto o in un animale. Era una paura astratta, irreale, quasi surreale la sua: paura di non riuscire più a ritrovare se stesso. Si sentiva perso, come in balia di quella musica a tratti persino malinconica ma mai inopportuna. Era una lontana litania, persa nei meandri del tempo, una brezza fresca proveniente da oriente o forse da occidente, ma che importava? Finché lei continuava a suonare senza accorgersi di essere spiata, lui non riusciva a rimanerne disincantato. Era una droga che lo trascinava via, infiltrandosi nelle vene e giù fino alle viscere, e le contorceva, le mescolava, un guazzabuglio indefinito ma mansueto. Era quella la pace? La tanto agognata pace? La pace dei sensi, dello spirito…possibile che bastasse una ragazzina con delle mani incantatrici a farlo sentire tanto disarmato? Mai, mai in vita sua lo era stato. Mai aveva dimenticato il retrogusto amaro del tormento come in quei pochi attimi di – sana – irrazionalità.

 

Poi la musica finì e lui riaprì gli occhi, mentre lei si ostinava a mantenere chiusi i propri.

Si chiese cosa stesse vedendo, o provando, ma non riuscì a trovare una risposta. Il tormento di sempre, il dolore di una vita passata nel rancore e nell’odio era ritornato a galla come un naufrago ferito e richiamava attenzione, esigeva attenzione. Attenzione che tuttavia lui non era in grado di dargli, troppo occupato a catturare quel viso e a cercare di conservarlo con sé, per rimembrarlo la notte quando l’orologio si fermava e le ferite ritornavano a bruciare.

 

All’improvviso ma in modo elegante – tutto in lei trasudava eleganza – le palpebre si sollevarono e in un attimo Gaara sprofondò in una distesa infinita di bianco. Ma non ne rimase affogato come i presupposti, perché l’aria non gli si mozzò nel petto e il cuore batteva ancora con il solito ritmo. C’era piuttosto un illimitato senso di benessere, di calma interiore, come se fosse caduto all’improvviso nel Nirvana e adesso se ne sentiva totalmente assuefatto, incapace di riuscire a distogliere lo sguardo nonostante il disagio sottoforma di rossore apparso sulle gote altresì diafane di lei.

 

“S-Scusa, n-non sapevo ci fosse q-qualcuno.” Balbettò dopo un tempo imprecisato lei, intanto che con mani frettolose tentava di posare il violino nella custodia.

“Come ti chiami?” Le chiese invece Gaara, senza riuscire a scostare lo sguardo dal suo viso a cuore.

 

Lei allora alzò lo sguardo, stupita dalla domanda, e per un istante una scia d’incredulità le si affacciò negli occhi lattei. “H-Hinata.” Rispose infine, cercando inutilmente di celare l’imbarazzo dietro gesti un po’ goffi ma mai sgarbati.

Gaara non pensò a dove avesse già udito quel nome, perché semplicemente sapeva di non averlo mai sentito prima. Era un bel nome. Di certo se lo sarebbe ricordato un nome del genere.

 

Hinata.” Lo pronunciò piano, assaporandolo sulla punta della lingua e gettandolo fuori in un unico fiato.

“M-Mi dispiace se ti ho d-disturbato.” Mormorò poco dopo lei, ancora rossa in viso, il violino ormai al suo posto. “M-Me ne vado subito.” Afferrò l’astuccio e abbassando timida lo sguardo, scivolò tra i banchi deserti ed inutilizzati verso la porta.

 

“Tu non sai chi sono io.” Non era una domanda, ma un’affermazione e non c’era alcuna traccia di arroganza nel tono, era una semplice constatazione.

Hinata si bloccò sulla porta, appena oltre le spalle di lui. “N-No, scusa. O-Oggi è il mio p-primo giorno di scuola.”

Gaara girò appena la testa, per vederla ancora in quelle iridi opalescenti. “Sono Gaara.”

 

Lei sorrise, nonostante il rossore, e fece il gesto di allungare la mano. “P-Piacere di conoscerti, G-Gaara.”

E lui stette un attimo a pensare, come immobilizzato dal suono del suo nome pronunciato dalla voce malferma di lei. Era strano. Sembrava più bello detto da lei.

“Piacere, Hinata.” Le strinse la mano e si sorprese di come fosse piccola in confronto alla sua, sembrava mangiarsela. “Che canzone stavi suonando prima?” Le domandò poi, alzando di nuovo lo sguardo su quel volto piccolo.

 

“E-Era la S-Sinfonia degli Addii. D-Di Haydn.” Farfugliò imbarazzata Hinata, nascondendo lo sguardo per non dover incrociare quelle penetranti pozze acquamarina.

“Sinfonia degli Addii.” Ripeté a sua volta Gaara, come pregustandone il suono e il significato delle parole. “Suonala.”

 

Lei arrossì imbarazzata e subito scosse il capo, poco disinvolta. “N-Non sono molto brava.”

Lui la fissò, con intensità crescente. “Suonala.” Disse, ancora, sicuro e senza la minima nota di malignità, che avrebbe usato invece di solito quando voleva ottenere qualcosa.

 

Hinata alzò il capo e vedendo quegli occhi le parve di scorgere qualcosa di nuovo, stavolta. Sembrava…triste, ecco. Una profonda tristezza, infinita come il mare che si celava in quelle iridi inestimabili.

“Va bene.” E annuì, senza balbettare, mentre con mani sicure stavolta riprendeva uso del violino.

 

La musica si diffuse soave per l’aula, librandosi come il canto di un usignolo.

Hinata aveva chiuso gli occhi e Gaara, appena poco dopo, l’aveva imitata fino a perdersi come lei – e con lei – in quella languida sinfonia.

 

###

 

Non c’era un’immagine precisa che si ripeteva.

A volte vedeva il mare, altre volte immaginava una distesa sconfinata di sabbia, altre ancora gli pareva di sentire il profumo dolce delle violette – o forse era lei? – e ancora un’altra infinità di paesaggi, di scene quasi pittoresche ma mai statiche che si affacciavano senza logica precisa alla sua mente inebriata dalla melodia.

 

Eppure il suo animo si adagiava al suono dolce del violino con estrema facilità, come non aveva mai saputo fare, e si lasciava cullare dalla dolcezza un po’ melanconica che si generava dall’incontro gentile dell’archetto con le corde.

Come alle precedenti volte, la sinfonia si concluse prima ancora di vederne la fine. Gaara riaprì gli occhi, seduto sul davanzale della finestra, e subito si scontrò con le iridi nivee di Hinata. Era il suo limite, quello; come continuasse lui non poteva saperlo perché lei non sapeva rendere giustizia al resto del brano.

 

Hinata.” La chiamò tuttavia, intenzionato a parlare di altro.

Erano giorni che ci pensava, che ci meditava su. Un mese, per la precisione. Il tempo che aveva inizio quella bizzarra amicizia, se così si poteva definire il rapporto che avevano instaurato in quella stanza.

 

“Sì?” Era diventata un po’ meno insicura in tutto quel tempo, a fatica certo ma era pur sempre una vittoria per lei.

Gaara indugiò per un istante – anche se non era da lui – ma poi pensò che lei aveva il diritto di saperlo nonostante che questo potesse portargliela via, e si sforzò di continuare. “Non sono solo Gaara. Sono… Sono Sabaku no Gaara e se chiedi in giro di me, nessuno ti dirà che sono un bravo ragazzo. Pensavo dovessi saperlo, ecco.”

 

La vide mordicchiarsi le labbra e per una volta non riuscì a decifrarne lo sguardo. Era paura? Non gli sembrava, ma poteva anche esserlo ed era lui a non volerla vedere. Non lo sapeva. Non voleva saperlo infondo.

“Gaara?” Per tutta risposta, lei lo richiamò a sé, lo sguardo basso e tormentato.

“Uhm?”

 

Hinata si torturò le mani, agitata, gli occhi che fissavano tutti tranne che lui – codarda. “N-Nemmeno io sono solo Hinata.”

L’affermazione lo colpì più di uno schiaffo o di una sua eventuale fuga. “Che vuoi dire?” Domandò, l’espressione sgranata.

“N-Non ho amici perché fin’ora non ho mai frequentato una scuola. M-Mio padre ha sempre v-voluto che avessi un insegnante, a c-casa. E-E sono egoista. E c-codarda. Sì, sono c-codarda. N-Non sono degna del mio cognome, H-Hyuga.” Aveva ripreso a balbettare, segno che era agitata, e aveva gli occhi lucidi, poteva vederlo anche da lì.

 

Gaara non credeva di esserne capace, ma a giudicare dal lieve fastidio che avvertì alle guance, doveva aver sorriso.

Prima ancora di accorgersene, era già saltato giù dal davanzale e in pochi passi le si era posto di fronte. Lei era così bassa a suo confronto, che aveva paura si spaventasse di averlo vicino. Ma non stavolta.

Lentamente eppure con gentilezza, le posizionò due dita sotto il mento e facendo una lieve pressione la costrinse ad alzare lo sguardo. Come aveva percepito, gli occhi di Hinata erano rossi. Le lacrime che insistenti spingevano lungo gli spigoli per uscire.

 

“Non mi piace quando piangi, Hinata. Le persone che ti fanno soffrire non meritano le tue lacrime. Nessuno le merita.”

Lei annuì, incapace di dire di no a quelle iridi preziose ma con un groppo alla gola troppo grande per poter pensare di parlare.

Gaara la fissò, con un’intensità disarmante, denudante. “Nemmeno io.” Abbassò lo sguardo in una frazione di secondo prima di puntarlo con più decisione di prima in quello di lei. “Non dovrai mai piangere per me, Hinata. Mai.”

 

###

 

Hinata mancava da quasi due settimane, da scuola.

Gaara si era sforzato di non farci caso, di ignorare il senso di nausea – di vuoto – allo stomaco nell’entrare in quell’aula desertica e non trovare il sorriso un po’ imbarazzato di lei ad accoglierlo. Non se n’era nemmeno accorto di come, con quanta facilità, se ne fosse abituato. La presenza di lei era entrata nella sua routine con una dolcezza ed un’eleganza sconfinata che nemmeno le principesse sognavano di possedere, senza alcuna forzatura o prepotenza.

 

Gli mancava? Era difficile. Non era bravo a decodificare quei sentimenti che, fino a poco tempo addietro, non aveva sperato di possedere.

Ma adesso era diverso. Si sentiva diverso. Forse era solo un’utopia, ma da quando l’aveva conosciuta gli sembrava di aver visto parecchie porte aprirsi davanti ai suoi occhi.

 

Era arrivata trasportata dal suono ritmico e melodico di una sinfonia, come una ninfa che arriva in una visione di luce.

Gli aveva regalato il suo tempo, gli aveva sorriso e aveva messo da parte quel cognome che tanto l’opprimeva, soffermandosi su aspetti e qualità di cui lui per primo non ne sapeva l’esistenza. Adesso, semplicemente, non poteva uscire dalla sua vita così, senza dire nulla. Solo perché era Hinata, non poteva sperare di abbandonarlo e passarla liscia.

 

“Dove stai andando?” La voce di sua sorella si affacciò dalla porta, dalla quale fece capolino poi la sua testolina dorata e i soliti codini spinosi.

Il rosso la ignorò, continuando piuttosto a trafficare con la tracolla alla ricerca delle chiavi della sua auto.

“Gaara!” Lo richiamò allora Temari, spazientita, e stavolta lui non la ignorò.

 

Nel momento in cui sentì l’acquamarina addosso, lei sembrò persino pentirsi di essere entrata. Ciò nonostante, si impose di rimanere ferma sulla soglia e di assumere un’aria autoritaria, o che almeno sperava tale. Temari ci teneva – c’aveva sempre tenuto – a mostrarsi come la donna di casa vista la mancanza che si registrava.

“Sto uscendo.” Rispose, laconico come sempre.

 

Lei apparve stupita per qualche istante, probabilmente perché si era aspettata che lui la mandasse al diavolo anziché ricevere una risposta che seppure monosillabica, rimaneva almeno tale.

“Ah bene.” Alla fine si ricompose, dopotutto non era da Temari lasciarsi vedere debole per troppo tempo. “Ti aspettiamo per cena, io e Kankuro?” Domandò, mordicchiandosi un labbro mentre ne cercava lo sguardo in apprensione, incerta se aver osato troppo oppure no.

 

Gaara esitò per un istante, poi raccolse le chiavi – uscite da una tasca laterale – e si voltò a fronteggiarla. “No.”

Temari annuì e, nonostante apparisse ancora piuttosto esitante, dai suoi occhi una nuova scintilla aveva preso a brillare. “D’accordo, allora.” Rimase ancora qualche minuto sulla porta, come in tentennamento, e Gaara giurò che stava meditando se aggiungere qualcos’altro o meno, ma alla fine decise di girare i tacchi e di accontentarsi di quel briciolo di attenzione che perlomeno stavolta aveva ricevuto in cambio.

 

###

 

“Tu chi saresti?”

Gaara non si lasciò scomporre dallo sguardo severo che quella ragazzina dai capelli neri, così inverosimilmente simile e diversa da Hinata, gli rivolse e anche se lei finse di non saperlo, glielo si leggeva negli occhi che aveva capito già dall’inizio con chi avesse a che fare. “Cerco Hinata.”

“Davvero?” Ne parve sorpresa e per un istante gli occhi diafani si erano aperti in un’espressione sgranata. Solo un istante, che già erano ritornati ad essere quelli severi di sempre. “Non può riceverti.”

 

Lui non era mai stato il tipo da tanti – anzi, da alcuno – formalismi. Qualcuno al suo posto con ogni probabilità si sarebbe offeso di tanta arroganza ma non lui. Lui che da anni era il maestro, nel trattare da schifo le persone.

“Non te l’ho chiesto.” Le rispose, a tono.

Lei assottigliò gli occhi e i lineamenti del viso ne acquistarono di rigidità. “No?”

 

Gaara la fissò, freddo e calcolatore fino a farle sentire piccoli brividi lungo un corpo che aveva imparato a tenere anestetizzato da troppo. “Non ho bisogno del permesso, per vederla.” Sapeva di essere stato sgarbato tanto e forse più di lei, ma non se ne curò. Non gli piaceva, quella ragazzina. Anche se assomigliava esteriormente ad Hinata, dentro era agli antipodi.

La ragazzina lo guardò bieca, ancora più scontrosa. “Hinata sta male. Non puoi vederla.”

 

Per quanto non volesse darle soddisfazione, l’affermazione non poté non sconvolgerlo. Lei parve capirlo e, cavalcando l’onda, ne approfittò per farlo sentire inferiore – o per sentirsi lei, superiore?

“Non te l’ha detto?” Sembrò stupita, ma Gaara conosceva troppo bene quell’espressione per non sapere che era solo la punta dell’iceberg. “Mia sorella è malata. Ha una malformazione al cuore congenita.”

 

Il pungiglione dello scorpione era affondato e il veleno, con una velocità disarmante, era entrato in circolo fino quasi ad ucciderlo.

Gaara sentì solo una botta mentre tutto attorno si faceva sfocato e privo di valore, ma non seppe mai con sicurezza da che punto del suo petto fosse avvenuta l’esplosione.

 

“Chi è alla porta, Hanabi?” Poi una voce severa a sgusciare nell’indistinto groviglio accumulatosi nello stomaco.

Alzò lo sguardo, quasi in trance, e non riuscì a stupirsi di trovare altri occhi di ghiaccio, un altro Hyuga.

 

Neji!” La ragazzetta arrossì impercettibilmente – ma non alla vista divenuta improvvisamente più acuta di Gaara – quando una figura allampanata fece il suo regale ingresso.

“Oh, Sabaku no Gaara.” Il nuovo venuto intanto aveva scorto lo sconosciuto e con un ghigno quasi disgustato, aveva sputato il suo nome. “Che sei venuto a fare?”

 

Gaara lo fissò, incapace di riuscire a sibilare una risposta altamente velenosa e di cacciare così le tossine iniettate dallo scorpione in circolo nelle sue vene. Lo conosceva, ovviamente, di sfuggita perché era piuttosto popolare tra lo stuolo di ragazzine petulanti che ogni tanto decidevano di erigere a idolo un bello e impossibile. Anche perché, semplicemente, sarebbe stato impossibile non ricordare una persona dall’aspetto incisivo come Neji.

“Niente.” Sibilò infine il rosso, troppo stremato dalla notizia per prenderlo a pugni come avrebbe fatto il vecchio se stesso.

 

Neji lo fissò con astio e per un istante Gaara ci vide anche dell’altro in quello sguardo di solito distaccato.

Sei geloso, Hyuga? Cos’è, te ne sei innamorato?! Per questo mi disprezzi tanto?

In un’altra occasione, un altro Gaara avrebbe agito d’impulso e iniziato così su due piedi l’ennesima rissa, sicuro di ricevere indietro una controffensiva. Ma non stavolta. Non sapendo di averci visto giusto, con Neji.

 

Si voltò e senza cenni di saluto, si allontanò sotto lo sguardo inflessibile di due occhi di ghiaccio.

Ma prima di arrivare al cancello, prima di lasciarsi quella casa e quell’astio alle spalle, captò qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Una finestra, aperta. E un albero a farne da inconsapevole scala.

 

###

 

La finestra era aperta e la quercia secolare si protraeva fino a toccarla. Un invito a nozze, per non coglierne l’occasione. Forse pericoloso, ma ad un amante del rischio come lui non era certo un problema quello.

Si arrampicò con invidiabile audacia e le mani trovarono i giusti appigli all’istante, quasi che non avesse fatto altro per tutta la vita. In cima al ramo più grande, quello che dava sull’unica finestra aperta, Gaara avanzò qualche passo deciso – sicuro che stesse camminando a metri d’altezza?! – e in un attimo fu dentro.

 

Non aveva sperato di trovare subito la camera che cercava e anzi si era aspettato una discreta incursione in quella casa fin troppo solenne, ma Hinata era distesa sul letto e lui capì di aver centrato senza volere l’obiettivo. Le si avvicinò fino all’essere ad un passo dall’alcova, silenzioso come un gatto che esplora la zona. Poi, una volta qui, quasi timoroso di svegliarla – se mai stava dormendo – o di spaventarla, si fermò incerto sul da farsi ma per sua fortuna fu lei a cancellare ogni dubbio.

“Te l’ha detto, vero?” Aveva la voce rotta, forse stava piangendo.

 

Gaara abbassò il capo, senza risponderle. Anche perché non era proprio una domanda, quella di Hinata. Sapeva più di una constatazione, ecco.

“M-Mi dispiace. S-Scusa mia sorella. H-Hanabi è ancora così piccola e n-non è colpa sua.” Era girata di schiena ma anche così non era difficile immaginare il viso pallido irritato dalle lacrime.

Lui si sforzò di mantenere la calma, di rimanere immobile nonostante i pugni chiusi in una morsa serrata. Lei si scusava sempre. Si scusava anche quando non avrebbe dovuto – lui invece non si scusava mai e basta.

 

“H-Ha ragione lei, a-avrei dovuto d-dirtelo, ma n-non volevo che tu… Che avessi pena di me, c-come gli altri.” La balbuzie si era fatta più marcata adesso, e sembrava intenzionata ad aumentare man mano che il discorso ne acquistava d’importanza.

Gaara non era sicuro di riuscire a sopportarlo, tuttavia ancora s’impose di non muoversi, nonostante che tutto dentro di lui desiderasse solo di poter fuggire via da quella stanza. “Morirai?” Domandò solo, a bruciapelo, incurante del peso che avrebbe avuto poi la risposta.

 

Hinata sussultò in modo inequivocabile, ma non si tirò indietro. “N-Non lo so.” Disse solo, ed era sincera, ma d’altronde lei lo era sempre.

La sentì singhiozzare e qualcosa dentro di lui ritornò a fare male, ricordandogli il motivo per cui aveva sempre cacciato chiunque avesse tentato di avvicinarsi. Con lei però era stato diverso, aveva saputo abbattere tutte le barriere con una canzone dal retrogusto un po’ amaro, con un sorriso dal sapore dolce, con un’occhiata dal valore inestimabile. Adesso voleva uscirne, ma con quale coraggio glielo chiedeva? Era impossibile. Non gliel’avrebbe permesso, mai.

 

Lentamente ma con decisione, Gaara riempì anche la breve distanza che li divideva. Il suo peso, in opposizione a quello modesto di lei, fece sprofondare il materasso dalla sua parte per un istante, prima di stabilizzarsi al centro esatto in cui giacevano i loro corpi sdraiati. Le braccia muscolose e coperte dalla felpa avevano cercato senza esitazione la vita sottile della ragazza e, trovata, l’avevano stretta con una forza di per sé delicata fino a quando la schiena di lei non combaciò alla perfezione con il suo petto, per non doverla lasciar andare più.

Percepì distintamente i brividi smuovere quel corpo fragile come un cristallo e il cuore battere più forte, nonostante gli abiti a frapporsi tra loro.

 

Era calda, Hinata. Come l’aveva sempre immaginata, mentre lui era freddo e gelido come le notti d’inverno. Ed era piccola, lo stesso genere di sensazione che aveva provato al primo incontro scovandola a suonare ad occhi chiusi il suo amato violino.

Per un istante Gaara temette di poterla spezzare, di poterla rompere, di succhiarle col suo freddo anche quell’alone di vita rimastole. Ma lei era forte. Molto più forte di quanto ci si aspettasse.

 

“S-Sei arrabbiato?” Chiese all’improvviso la piccola Hyuga, scalfendo il silenzio con la sua voce gentile – perché poteva essere gentile, una voce, no?

“No.” Le rispose incolore lui. “Dovrei?”

“S-Sto piangendo.” Gli fece notare a quel punto lei, riportandogli alla mente una conversazione avuta qualche tempo addietro proprio con lui.

 

Gaara sospirò, ma non riuscì a dire niente. La verità era che la gola si era seccata e la voce persa chissà dove. Avrebbe voluto dirle che non importava, che per lei stessa poteva piangere, tuttavia non ci riusciva.

Così si limitò a stringerla, a prendere ancora un po’ di quel calore sentendosi inevitabilmente un egoista per averglielo rubato. Ma infondo lo era davvero. Avevano ragione tutti, non era una montatura: era un dannato egoista.

 

###

 

“Dov’è Temari?” Gaara era entrato di prepotenza nella stanza, incurante dei risolini e delle chiacchiere allegre provenienti dal suo interno.

Suo fratello Kankuro lo guardò male, seccato dall’interruzione non richiesta, e in un attimo la ragazza tra le sue braccia era scivolata via.

 

“Vado in bagno.” La castana era arrossita ma nel lasciare la stanza per concedere ai due ragazzi di poter parlare in tutta tranquillità, non aveva perso nemmeno per un istante la proverbiale decisione.

Rimasti soli, il più grande si concesse un’altra occhiata imbronciata in direzione del più piccolo. “Non si usa bussare?!” Lo sgridò, senza tuttavia risultare autoritario, alzando gli occhi al cielo con aria melodrammatica.

 

Gaara lo ignorò. “Dov’è Temari?” Ripeté, piuttosto, incrociando le braccia al petto sullo stipite della porta.

“Non c’è, è uscita.” Borbottò nervoso Kankuro, gettandosi a peso morto sul letto. “Penso sia da qualche parte con testa d’ananas, tanto per cambiare!”

 

“Chi è quella?” Cambiò discorso il rosso, accennando con il capo alla ragazza che aveva scovato in quel caos di camera.

Tenten, la mia ragazza. Perché?” Ghignò Kankuro, irriverente, e Gaara notò come da qualche tempo il fratello avesse cambiato atteggiamento con lui. O forse, era lui ad essere cambiato.

 

“La ami?” Lo domandò su due piedi, schiodandosi dalla porta per raggiungere la finestra, sedersi al solito sul davanzale e accendersi l’ennesima sigaretta.

Il fratello per un istante parve perdere tutta la sicurezza di cui si era animato, ma già l’attimo dopo era ritornato il giocherellone di sempre. “Che razza di domande fai, adesso?!”

“Rispondi. La ami?” Insistette Gaara, spostando lo sguardo su di lui per essere sicuro che non gli scappasse.

 

Lo vide arrossire, appena, e scostare lo sguardo in un buffo imbarazzo – buffo, perché non era da lui esserlo. “Sì. Credo di sì. Ne sono sicuro, anzi.”

Il fratello lo fissò ancora per qualche istante, come se stesse soppesando qualcosa, prima di continuare. “Come fai a dirlo?” Chiese infine, la voce priva di sfumature particolari che potessero lasciar intendere il motivo di tanta insistenza.

 

Kankuro scrollò le spalle. “Non lo so. Te lo senti alla fine. È un po’ difficile da spiegare.”

“Provaci.”

“O-Okay.” Il ragazzone fece rotare lo sguardo per tutta la stanza, alla ricerca forse di un punto di spunto da cui cominciare, prima di buttarsi in un discorso a lui del tutto nuovo. “Vediamo, quando sono con Tenten mi sento…boh, strano. Cioè, non voglio dire che è un male, anzi, direi che è un bene. Mi fa sentire…libero. Come se la conoscessi da una vita ma senza averla mai scoperta tutta. A volte mi sorride, o fa una smorfia particolare, e penso che non troverò mai nessuna capace di fare altrettanto. E… E mi sento bene, in pace con me stesso, come direbbe Temari. Sono migliore, con lei, ecco.”

 

L’aveva detto in modo sconclusionato e perso in mille altri pensieri, o sensazioni, ma pure così Gaara pensò di aver capito.

Buttò la cicca dalla finestra e balzò in piedi, diretto alla porta. “Ho capito.” Disse solo, prima di uscire definitivamente sotto lo sguardo perplesso di Kankuro e quello ancora leggermente imbarazzato di Tenten, in arrivo.

 

###

 

Le incursioni notturne in quella casa severa erano ormai diventate delle abitudini. Gaara entrava sempre dalla finestra e Hinata lo aspettava nel letto, dove lui le si allungava di fianco e l’abbracciava da dietro. A volte lei si preoccupava per lui, per la sua incolumità a saltare su quell’albero troppo alto, ma la sera dopo lui lo rifaceva comunque e alla fine aveva smesso di dirglielo.

Gaara se ne andava solo alla mattina presto, quando il sole si affacciava ad oriente e la casa iniziava ad animarsi un pochino, senza dire mai una parola, baciandole il capo da dietro e sciogliendo poi la stretta per ritrovarla soltanto la notte successiva.

 

Anche quella notte era andato da lei. Aveva distinto subito la stretta delle sue braccia, il suo respiro nei capelli e quell’amabile aroma forte nelle narici. Ma anziché rimanere immobile nella sua posizione, vincendo il proprio imbarazzo Hinata aveva osato poggiare delicatamente una mano pallida su quelle intrecciate di lui.

“Mi devo operare.” Disse solo, e anche così bastò a far gelare il sangue nelle vene del rosso.

 

Gaara rimase immobile per qualche istante, a metabolizzare l’informazione, a cercare di concretizzare le possibilità offerte da quella nuova situazione. Per quanto volesse sperare che tutto si risolvesse per il meglio e che l’avrebbe di nuovo ascoltata suonare la sua Sinfonia preferita, non poteva non pensare anche alla parte negativa. Era sempre stato un tipo piuttosto pessimista, d’altronde, e il peso incombente che gravava sulla vita stretta tra le sue braccia era semplicemente troppo vivido per poterlo ignorare in quattro e quattro otto.

Si sentiva impotente. Aveva sempre preso a pugni la vita, aveva sempre fatto ciò che voleva, perché adesso non ci riusciva? Perché non poteva essere utile per qualcuno?

Perché, non poteva salvarla?

 

Dolcemente – come lei gli stava insegnando ad essere – ma con decisione, la fece girare verso di sé rompendo per una volta quel tacito accordo di rimanere di spalle e la guardò con insistenza negli occhi.

La vide arrossire appena e tentare di abbassare lo sguardo, tuttavia lui aveva già adocchiato una ciocca in particolare che con un gesto naturale le tolse via dal volto.

 

Hinata era bellissima. Forse poco appariscente, ma bellissima. Non era quel genere di bellezza travolgente, del tipo a cui si era abituato a cercare in volti sconosciuti ma perfetti che tuttavia la mattina dopo sfumavano nella realtà della luce del sole.

Lei era molto di più, di quello. Era un quadro ad arte, una creatura d’altri tempi più bella la mattina di quanto avesse mai potuto esserlo nel buio, di quelle da tutti reputate irreali. Ma Hinata era lì, tra le sue braccia, ed era vera, viva. Gli sembrò un miracolo. Che aveva fatto per meritarselo?

 

Istintivamente, mosso da una calamita invisibile ed invitante, abbassò il capo nella sua direzione soffermandosi con estrema calma ad osservare ogni minimo particolare del viso, per lasciarlo nel cassetto dei ricordi come un marchio impresso nel fuoco.

La sentì fremere, il cuore fragile che batteva pericolosamente sempre più forte e le palpebre deboli che coprivano due iridi opalescenti. Non era mai sta più bella e più pura come in quel momento. Gaara immaginò di sentire la loro sinfonia sollevarsi come per incanto sulle loro teste, vellutata e sensuale nella sua triste andatura. Ed era così dolce, che avrebbe potuto riscontrarne il diabete, oppure riaccendere un cuore morto nell’alba dei tempi.

 

Ma Gaara lo sentì che non era solo illusione, che davvero qualcosa aveva ripreso a funzionare definitivamente, stavolta.

E quando la baciò, quando le sue labbra vagabonde trovarono la calda sicurezza di quelle di Hinata, il mondo che prima era stato bianco e nero sembrò colorarsi di nuove tonalità, di mille altre sfumature.

 

Si staccò da lei repentinamente, quasi impaurito da se stesso e da tutte quelle nuove realtà appena scoperte, però non la lasciò andare. La strinse un po’ più forte e lei, incoraggiata, osò restituirgli l’abbraccio per una volta tanto. Gaara aveva voglia di baciarla di nuovo e con più calma, stavolta, ma non poteva. Non voleva spaventarla, non voleva forzarla né chiedere di più.

Con le altre non ci sarebbero mai stati neppure, i baci. Con Hinata, ne bastava uno per ricordarsi che il sangue scorre ancora nelle vene.

D’ora in avanti – se lo ripromise mentre adagiava il mento sul capo di lei – avrebbe sempre tenuto a mente quella sensazione di non essere morto, di vita.

 

###

 

Era successo tutto velocemente, o forse era stata solo una sua impressione.

Gaara non sapeva dirlo con certezza e i ricordi delle ultime ore erano diventati quasi sfuocati.

 

L’aveva saputo per caso, perché Tenten era arrivata a casa Sabaku di corsa, il volto arrossato e le guance rigate di lacrime. Kankuro l’aveva abbracciata, Temari le aveva riempito un bicchiere d’acqua e solo dopo che i singhiozzi si erano attenuati, era riuscita a parlare. Gaara li aveva visti una volta per sbaglio, ma non si era soffermato a pensare al tipo di legame che potesse avere con Neji, il cugino della sua Hinata – erano amici e una volta persino qualcosa di più.

Tenten l’aveva guardato dritto negli occhi, a lui non a Kankuro, e gliel’aveva detto in un sussurro rotto dai singhiozzi, che Hinata era stata portata in ospedale quella mattina, per la sua operazione.

 

La corsa era stata di quanto più folle potesse esserci, ma stavolta senza il brivido del rischio ad animare i suoi movimenti.

Li aveva trovati lì, buttati su delle anonime sedie rosse ad attendere che la luce smettesse di lampeggiare, e non c’aveva visto più. Neji era finito nella sua stretta prima ancora di riuscire a notarlo, il collo a rischio nella mano che gli si era avvitata attorno. Gaara non aveva detto niente, aveva soltanto alzato l’altra mano a pugno pronto a colpirlo, ma poi si era buttata di mezzo quella ragazzina tanto simile e diversa insieme dalla sorella, Hanabi.

 

“Fermati, Gaara. Fermati ti ho detto!” E la sua voce era rotta da un pianto che mai nessuno gli aveva visto in volto, e da rimpianti e rimorsi che bruciavano troppo per poterli cancellare con un colpo di spugna.

L’aveva lasciato e si era accasciato sulla sedia, tremante, le mani nei capelli rossi proprio mentre sopraggiungevano i suoi fratelli.

 

Poi non ricordava più quanto tempo fosse passato, se qualcuno avesse osato muoversi o no. All’improvviso aveva i propri fratelli accanto come silenziosi guardiani, aveva visto Shikamaru, la testa d’ananas, e Tenten che abbracciava con affetto Neji. Infine tutto era sfumato sotto quella luce che si ostinava a rimanere accesa e si era fermato a guardarla così forse per ore, per giorni o per mesi, il tempo non esisteva più.

E l’orologio si bloccò, semplicemente, quando infine si spense.

Mezzanotte.

 

###

 

La macchina si fermò con eleganza sul selciato, a qualche metro dal dirupo.

Gaara scese con calma, richiuse con attenzione lo sportello e in un attimo aveva ritrovato il suo posto sul cofano.

Non c’era un alito di vento quel giorno eppure il profumo delle violette riusciva a raggiungerlo anche così. Inebriante ed ubriacante. Non si sarebbe mai stancato di quel profumo, per quanto poco consono a quello più forte che di solito usava.

 

Istintivamente, prese a giocherellare con il cd tra le sue mani. Gliel’aveva consegnato Neji, assieme alla confessione di essere stata la cugina stessa ad averlo pregato quel giorno di non chiamarlo. Gaara non aveva capito e ancora non riusciva a capire il motivo di quella scelta, ma l’aveva ringraziato come non aveva mai fatto con nessuno perché infondo a quegli occhi diafani aveva letto lo stesso strazio, lo stesso tormento, appena un po’ più accentuato – il dolore di un amore perso ma mai corrisposto.

Poi aveva preso la macchina ed era giunto fin lì, senza mai sfiorare i centoventi chilometri orari, attento alla propria guida.

 

Adesso che aveva in mano quel cd, tuttavia, la sensazione di ascoltarlo si era fatta impellente. Non riusciva ad immaginare cosa potesse racchiudere. Aveva sempre pensato che Hinata gli avesse già dato tutto e troppo in quei mesi trascorsi al suo fianco.

Riusciva sempre a stupirlo, eh?

 

Sospirò e ritornò alla macchina, per inserire il cd nello stereo. In automatico alzò il volume al massimo e saltando sui sedili, raggiunse di nuovo la postazione di prima.

Si sdraiò sul cofano e chiuse gli occhi, in attesa.

Il pacchetto incolume di sigarette, lasciato da giorni a marcire sul sedile del passeggero.

 

Le prime note erano incerte, quasi timorose. L’andatura dolce e melliflua. Eppure anche così, Gaara distinse subito la composizione.

Gli occhi si riempirono di lacrime nonostante che fossero chiusi e per una volta nella sua vita, non si sentì arrabbiato con se stesso per quella debolezza.

 

Intanto la musica si era fatta più decisa ma non per questo volgare. Le note si susseguivano con precisione, il ritmo perfetto e incalzante. Gaara se ne sentì pieno quando la sinfonia giunse all’apice, ma mai completamente sazio.

Desiderò soltanto di potervi perdere dentro, di assimilarsi alle note e di fuggire via come quelle. Immaginò di morirne, di essere trafitto dalle righe di uno spartito e di raggiungere il cielo abbarbicato a quella nenia, prima di ritrovare l’unico volto di cui avesse avuto davvero la voglia di vedere. Ma poi quello stesso volto gli ricordò della promessa fatta e all’improvviso la musica non era più bella come prima.

Era una tortura, una freccia che lo trafiggeva mille volte e mille altre ancora.

 

Basta, basta, basta!

Invocò pietà, invocò il silenzio, invocò la fine ma le note continuavano a ripetersi ad un ritmo scrosciante, incuranti delle sue proteste. E non c’era più dolcezza, il desiderio non era appagato. La nenia era divenuta una lagna, un suono disperato, un richiamo alla vita che lui non voleva possedere – perché aveva promesso?!

 

Basta…basta…

Riaprì gli occhi, vacui, e la mano corse veloce al petto dove qualcosa aveva iniziato a bruciare. Faceva male. Sanguinava. Perché faceva così male? Non aveva senso, non… Poi capì.

La sinfonia. La sinfonia continuava, proprio lì dove lei si era sempre interrotta. Continuava, era un miracolo.

 

Allora per quanto il bruciore, per quanto il dolore e le lacrime, un sorriso si allargò sulle labbra. Era felicità, quella? Come poteva essere felice?

Hinata l’aveva finita. Era andata avanti, vincendo gli ostacoli, abbattendo i muri che le impedivano di arrivarci, e l’aveva finita. L’aveva finita e Gaara lo sapeva che l’aveva fatto per lui. Anche se avrebbe dovuto essere lui, a regalare qualcosa a lei per ciò che aveva fatto – per lui, per la sua famiglia, per la sua vita – e non il contrario.

 

All’improvviso come in un flash, capì ciò che lei aveva voluto evitargli. Il motivo per cui Hinata aveva impedito al cugino di contattarlo. Il motivo per cui non gli aveva permesso di vederla per un’ultima volta.

Aveva voluto lasciarlo come una ragazza viva, con il sorriso sulle labbra cosicché la notte non avrebbe rivisto la paura di morire attraversare quelle iridi bianche – maledettamente altruista, la sua Hinata.

 

La musica finì, con dolcezza stavolta, come di dovere.

Gaara si mise a sedere, il cuore in gola e una mano sugli occhi.

 

No, l’ultimo regalo di Hinata non era stata la canzone, o l’amore che gli aveva dato incondizionatamente. Adesso lo sapeva.

Hinata gli aveva restituito la vita che lui si era stancato di tenere, gli aveva ridato due fratelli che aveva sempre disprezzato per gelosia, gli aveva ridato la speranza di poter essere anche lui un giorno importante per qualcuno.

 

Perché per lei lo era stato. Era stato importante. Per Hinata, lo era stato.

E lui si sentiva cambiato, si sentiva diverso, nuovo. Libero. Migliore, ecco.

 

E anche se faceva male perché lei non c’era più, né ci sarebbe più stata, doveva farlo. Doveva smetterla di rilegarla in quell’angolo di terra per tenerla per sé, dannatamente egoista. Doveva lasciarla andare, come lei gli aveva richiesto attraverso quell’andirivieni di note.

La Sinfonia degli Addii.

 

(The clock is started)

 

 

 

 

 

[Disclaimer: Naruto © Kishimoto. “Sinfonia degli Addii” © Haydn.]

 

 

 

N/A

Toccata e fuga. Ringrazio le giudici per la velocità e per i consigli, rivolgo i miei sentiti complimenti alle altre partecipanti (è stato davvero utile potermi confrontare con voi, sul serio! *-*) e in particolar modo alle podiste, e poi volevo fare un ringraziamento personale alla mia Sae, che anche questa volta mi ha dato il suo immancabile sostegno, da vera Taichi! Grazie, tesoro.

Detto ciò, devo proprio scappare! Il lavoro mi chiama, eh. Ah, personalmente mi ritengo piuttosto soddisfatta di questa storia, ma ditemi anche voi se potete cosa ne pensate, perché ci terrei in modo particolare, sì, sì.

Baci.

Memi J

 


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