“Se la musica è il nutrimento dell'amore, continuate a
sonare; datemene l'eccesso così che, abusandone, il mio desiderio ne ammali e
muoia. Ancora una volta quella melodia! Aveva una cadenza languida. Oh, essa
giungeva al mio orecchio come la dolce brezza che spira su una sponda di
violette, rubandone il profumo e diffondendolo attorno. Basta, cessate; adesso
non è più soave come prima... Oh spirito dell'amore, come sei vivo ed àlacre! Sebbene la tua immensità sia simile a quella del mare,
pure nulla può penetrarvi, qualunque ne sia la forza e l'eccellenza, senza
subire una diminuzione e un deprezzamento in un solo minuto! L'amore è così
pieno di forme mutevoli da esser lui solo fantasia suprema.”
[“La Dodicesima Notte”, Duca Orsino]
Gaara non
era mai stato un bambino.
Poteva
esserlo stato anagraficamente, ma dentro di sé mai davvero.
Gaara
spaventava gli altri bambini, perché nessuno capiva il motivo per cui non
sapesse ridere.
Certe volte
ci provava, a sorridere almeno, ma senza alcun risultato convincente.
Ad un certo
punto, Gaara si era stancato di provarci e aveva deciso che se proprio doveva
vivere, meglio rimanere da solo.
Era
mezzanotte, il giorno in cui ricorreva la commemorazione di sua madre, morta il
giorno in cui Lucifero aveva osato vedere per la prima volta la luce.
Midnight
(The clock is stopped)
Vivere in quel modo, comportava inevitabilmente dei
rischi.
Ma, d’altro canto, vivere in un altro modo per lui
equivaleva a non vivere affatto.
“Scendi da lì,
Gaara, ma sei impazzito?” Una voce allarmata che a stento riusciva a
controllare la nota d’isterismo impressa in un grido che non voleva
fuoriuscire.
Lui sorrise,
appena, e quel suo semplice gesto bastò a ribaltare la situazione. Adesso non
era più lui il bambino della situazione col capriccio di imprese impossibili,
ma lei che si preoccupava per delle sciocchezze. E sarebbe stato credibile, se
solo non fosse stato in bilico sulla balaustra del balcone al secondo piano.
“Gaara! Scendi
subito!” Ripeté la voce femminile di poco prima, sempre più vicina ad un
attacco nervoso che lui si sforzò di ignorare.
I piedi che passo
dopo passo percorrevano la linea sottile disegnata dalla ringhiera, incurante
del rischio enorme che stava correndo. Sarebbe bastato così poco – un piede messo in modo sbagliato
o una folata di vento improvvisa – a spezzare quel delicato equilibrio e a
buttarlo di sotto, in una caduta che rasentava la fine di Lucifero. Ma alla
fine era solo merito di quel rischio, se poteva sentire l’adrenalina mentre divampava
in lui come un fuoco, soffiando nelle vene, pompando nel cuore, esplodendo nei
polmoni. Erano tutte quelle sensazioni, tutte quelle emozioni a ricordargli di
esserci, di vivere. Che non era solo un inutile pezzo di carne e raziocinio.
Temari non poteva
capire. Troppo innamorata, troppo legata alla vita, per capire. Nessuno poteva
capire. Davvero. Non c’era nessuno che potesse comprenderlo.
“Oddio, Temari, ma
che ti urli così?” La voce stavolta era mascolina, strascicata e annoiata come
solo quella di suo fratello Kankuro sapeva essere.
Gaara sbuffò e
finalmente, con un salto, fu di nuovo sull’appiglio sicuro del balcone.
Ci mancava solo quell’altro mentecatto, non bastava sua sorella. Non aveva
voglia di sentirli, né di vederli. Voleva stare solo e per questo motivo,
rientrando in casa, puntò dritto alle chiavi della sua macchina.
Suo padre non
c’era. Troppo impegnato ad occuparsi degli altri per accorgersi dei problemi
familiari e i suoi fratelli fingevano una preoccupazione che probabilmente nemmeno
possedevano. Cos’è, erano preoccupati dell’immagine ricavata dal suo
comportamento? Come se non sapesse la verità. Quasi che non leggesse nei loro
occhi il rammarico per avergli portato via una famiglia, una madre.
“Dove vai?” Kankuro ingoiò amaro e si sforzò di fronteggiarlo quando lo
vide uscire di fretta in giardino.
Gaara si fermò
solo per un istante a guardarlo con un’espressione glaciale che come al solito
colpì nel segno. Il fratello indietreggiò di qualche passo e Temari, per quanto
si sforzasse di fare la dura, era sbiancata visibilmente. Lui ghignò,
soddisfatto dalla sensazione di vittoria nel vedere quei volti impauriti.
“Và a giocare con
le bambole, idiota.” Lo rimbeccò, saltando nella decapottabile
grigio metallizzato e mettendo in moto prima ancora che Kankuro
potesse metabolizzare l’offesa.
“Ehi, io non gioco
con le bambole!” L’ultima cosa che Gaara udì prima di sfrecciare via a razzo,
fu la voce indispettita di Kankuro e quella più scoglionata della sorella poi.
“Lascia stare, non
te la prendere.”
Ma avrebbe dovuto
prendersela. Sul serio, avrebbe dovuto prendersela e riempirlo di pugni. Invece
no, non faceva niente.
Perché è un cacasotto. Pensò mentre il
piede spingeva in modo incontrollato sull’acceleratore e il contachilometri
segnava i centonovanta.
La folle corsa,
che aveva visto le imprecazioni di quanti impauriti dalla sua velocità avevano
lasciato che li superasse inermi, terminò con una brusca frenata al limitare di
un alto dirupo. Pochi centimetri solo e sia lui che la macchina, sarebbero
finiti morti ammazzati tra la cascata di alberi al di sotto.
Altro rischio,
altra adrenalina, altra vita nel suo corpo impassibile.
Gaara scese dalla
vettura, richiuse con una botta lo sportello e saltò sul cofano.
Dalla tasca del
giubbotto di pelle estrasse una sigaretta – l’ennesima della giornata – e
recuperando l’accendino ispirò l’aria bruciata di nicotina. Gli occhi
acquamarina che vagavano cauti sull’orizzonte che splendido si profilava oltre
il burrone, ormai l’adrenalina si era pacata e un senso di vuoto risaliva dalle
viscere e veniva fuori come le boccate di fumo dalla sua bocca. E mentre il
sole si avviava alla fase del tramonto con i suoi caldi colori del bronzo,
Gaara si domandò ancora una volta cosa si provasse, a morire.
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Era abituato ad
essere evitato. Era abituato a vedere tutta quella manica di studenti modello a
girargli alla larga, al suo passaggio. Era abituato persino ai professori che
indugiavano di fronte alla sua espressione severa, quasi minacciosa.
Dopotutto era stato
lui ad imporre quel comportamento. Lui con le sue maniere brusche, i suoi modi
taglienti, il venire immediatamente alle mani – e quanti ne aveva pestati di
già? Boh, non se li ricordava mica più – e più in
generale, con la sua aria quasi demoniaca. Capelli rossi, occhi azzurri,
occhiaie sotto gli occhi…
Ciò a cui non era
affatto abituato, era sentire una dolce nenia provenire dall’aula inutilizzata
in fondo al corridoio che lui si era erogata per sé sin dal primo giorno. Una
volta un ragazzino del primo aveva provato a valicare quella porta e ne portava
ancora i segni sul volto. Il pivello di stavolta non avrebbe fatto eccezione.
Gaara aumentò
l’andatura, infastidito dal non essere snervato da quella tiritera di musica
classica. Da sempre si era rifugiato nel genere rock per eccellenza e le sue
orecchie non accettavano altra musica che quella. Avrebbe dovuto odiare, quindi
a ragione, quella lagna d’altri tempi ma per quanto si sforzasse non ci
riusciva. Gli piaceva. Quel bastardo che stava suonando avrebbe avuto vita
difficile.
E poi la vide.
Non era un
ragazzo, un principiante che non aveva ancora capito chi comandasse lì. Si
trattava di una ragazza invece. Stava suonando il violino, ad occhi chiusi.
Si fermò sulla
porta, come paralizzato dall’immagine che gli si parò davanti quasi fosse stata
una visione.
Non l’aveva mai
vista prima di allora, ne era certo. Sembrava più piccola di quanto in realtà
doveva essere con la sua bassa statura, ma le forme del fisico nonostante il
maglione largo a nasconderle parevano piuttosto formate. Ed era delicata, fragile, forse per via della pallida
carnagione d’avorio in netto contrasto con il nero dei suoi capelli.
Chissà perché,
senza alcuna ragione apparente, la voglia di menare era scomparsa. Eclissata.
Dissolta come sabbia al vento – impossibile da mantenere nel pugno chiuso della
mano.
Gaara aveva paura.
Non una paura concreta, di quelle che si realizzano in un oggetto o in un
animale. Era una paura astratta, irreale, quasi surreale la sua: paura di non
riuscire più a ritrovare se stesso. Si sentiva perso, come in balia di quella
musica a tratti persino malinconica ma mai inopportuna. Era una lontana
litania, persa nei meandri del tempo, una brezza fresca proveniente da oriente
o forse da occidente, ma che importava? Finché lei continuava a suonare senza
accorgersi di essere spiata, lui non riusciva a rimanerne disincantato. Era una
droga che lo trascinava via, infiltrandosi nelle vene e giù fino alle viscere,
e le contorceva, le mescolava, un guazzabuglio indefinito ma mansueto. Era
quella la pace? La tanto agognata pace?
La pace dei sensi, dello spirito…possibile che bastasse una ragazzina con delle
mani incantatrici a farlo sentire tanto disarmato? Mai, mai in vita sua lo era
stato. Mai aveva dimenticato il retrogusto amaro del tormento come in quei
pochi attimi di – sana – irrazionalità.
Poi la musica finì
e lui riaprì gli occhi, mentre lei si ostinava a mantenere chiusi i propri.
Si chiese cosa
stesse vedendo, o provando, ma non riuscì a trovare una risposta. Il tormento
di sempre, il dolore di una vita passata nel rancore e nell’odio era ritornato
a galla come un naufrago ferito e richiamava attenzione, esigeva attenzione. Attenzione che tuttavia lui non era in grado di
dargli, troppo occupato a catturare quel viso e a cercare di conservarlo con
sé, per rimembrarlo la notte quando l’orologio si fermava e le ferite
ritornavano a bruciare.
All’improvviso ma
in modo elegante – tutto in lei trasudava eleganza – le palpebre si sollevarono
e in un attimo Gaara sprofondò in una distesa infinita di bianco. Ma non ne
rimase affogato come i presupposti, perché l’aria non gli si mozzò nel petto e
il cuore batteva ancora con il solito ritmo. C’era piuttosto un illimitato
senso di benessere, di calma interiore, come se fosse caduto all’improvviso nel
Nirvana e adesso se ne sentiva totalmente assuefatto, incapace di riuscire a
distogliere lo sguardo nonostante il disagio sottoforma di rossore apparso
sulle gote altresì diafane di lei.
“S-Scusa, n-non
sapevo ci fosse q-qualcuno.” Balbettò dopo un tempo imprecisato lei, intanto
che con mani frettolose tentava di posare il violino nella custodia.
“Come ti chiami?”
Le chiese invece Gaara, senza riuscire a scostare lo sguardo dal suo viso a
cuore.
Lei allora alzò lo
sguardo, stupita dalla domanda, e per un istante una scia d’incredulità le si
affacciò negli occhi lattei. “H-Hinata.” Rispose
infine, cercando inutilmente di celare l’imbarazzo dietro gesti un po’ goffi ma
mai sgarbati.
Gaara non pensò a
dove avesse già udito quel nome, perché semplicemente sapeva di non averlo mai
sentito prima. Era un bel nome. Di certo se lo sarebbe ricordato un nome del
genere.
“Hinata.” Lo pronunciò piano, assaporandolo sulla punta
della lingua e gettandolo fuori in un unico fiato.
“M-Mi dispiace se
ti ho d-disturbato.” Mormorò poco dopo lei, ancora rossa in viso, il violino
ormai al suo posto. “M-Me ne vado subito.” Afferrò l’astuccio e abbassando
timida lo sguardo, scivolò tra i banchi deserti ed inutilizzati verso la porta.
“Tu non sai chi
sono io.” Non era una domanda, ma un’affermazione e non c’era alcuna traccia di
arroganza nel tono, era una semplice constatazione.
Hinata si bloccò sulla
porta, appena oltre le spalle di lui. “N-No, scusa. O-Oggi è il mio p-primo
giorno di scuola.”
Gaara girò appena
la testa, per vederla ancora in quelle iridi opalescenti. “Sono Gaara.”
Lei sorrise,
nonostante il rossore, e fece il gesto di allungare la mano. “P-Piacere di
conoscerti, G-Gaara.”
E lui stette un
attimo a pensare, come immobilizzato dal suono del suo nome pronunciato dalla
voce malferma di lei. Era strano. Sembrava più bello detto da lei.
“Piacere, Hinata.” Le strinse la mano e si sorprese di come fosse
piccola in confronto alla sua, sembrava mangiarsela. “Che canzone stavi
suonando prima?” Le domandò poi, alzando di nuovo lo sguardo su quel volto
piccolo.
“E-Era
“Sinfonia degli
Addii.” Ripeté a sua volta Gaara, come pregustandone il suono e il significato
delle parole. “Suonala.”
Lei arrossì
imbarazzata e subito scosse il capo, poco disinvolta. “N-Non sono molto brava.”
Lui la fissò, con
intensità crescente. “Suonala.” Disse, ancora, sicuro e senza la minima nota di
malignità, che avrebbe usato invece di solito quando voleva ottenere qualcosa.
Hinata alzò il capo e
vedendo quegli occhi le parve di scorgere qualcosa di nuovo, stavolta.
Sembrava…triste, ecco. Una profonda tristezza, infinita come il mare che si
celava in quelle iridi inestimabili.
“Va bene.” E
annuì, senza balbettare, mentre con mani sicure stavolta riprendeva uso del
violino.
La musica si
diffuse soave per l’aula, librandosi come il canto di un usignolo.
Hinata aveva chiuso gli
occhi e Gaara, appena poco dopo, l’aveva imitata fino a perdersi come lei – e
con lei – in quella languida sinfonia.
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Non c’era
un’immagine precisa che si ripeteva.
A volte vedeva il
mare, altre volte immaginava una distesa sconfinata di sabbia, altre ancora gli
pareva di sentire il profumo dolce delle violette – o forse era lei? – e ancora
un’altra infinità di paesaggi, di scene quasi pittoresche ma mai statiche che
si affacciavano senza logica precisa alla sua mente inebriata dalla melodia.
Eppure il suo
animo si adagiava al suono dolce del violino con estrema facilità, come non
aveva mai saputo fare, e si lasciava cullare dalla dolcezza un po’ melanconica
che si generava dall’incontro gentile dell’archetto con le corde.
Come alle
precedenti volte, la sinfonia si concluse prima ancora di vederne la fine.
Gaara riaprì gli occhi, seduto sul davanzale della finestra, e subito si
scontrò con le iridi nivee di Hinata. Era il suo
limite, quello; come continuasse lui non poteva saperlo perché lei non sapeva
rendere giustizia al resto del brano.
“Hinata.” La chiamò tuttavia, intenzionato a parlare di
altro.
Erano giorni che
ci pensava, che ci meditava su. Un mese, per la precisione. Il tempo che aveva
inizio quella bizzarra amicizia, se così si poteva definire il rapporto che
avevano instaurato in quella stanza.
“Sì?” Era
diventata un po’ meno insicura in tutto quel tempo, a fatica certo ma era pur
sempre una vittoria per lei.
Gaara indugiò per
un istante – anche se non era da lui – ma poi pensò che lei aveva il diritto di
saperlo nonostante che questo potesse portargliela via, e si sforzò di
continuare. “Non sono solo Gaara. Sono… Sono Sabaku
no Gaara e se chiedi in giro di me, nessuno ti dirà che sono un bravo ragazzo.
Pensavo dovessi saperlo, ecco.”
La vide
mordicchiarsi le labbra e per una volta non riuscì a decifrarne lo sguardo. Era
paura? Non gli sembrava, ma poteva anche esserlo ed era lui a non volerla
vedere. Non lo sapeva. Non voleva saperlo infondo.
“Gaara?” Per tutta
risposta, lei lo richiamò a sé, lo sguardo basso e tormentato.
“Uhm?”
Hinata si torturò le
mani, agitata, gli occhi che fissavano tutti tranne che lui – codarda. “N-Nemmeno io sono solo Hinata.”
L’affermazione lo
colpì più di uno schiaffo o di una sua eventuale fuga. “Che vuoi dire?”
Domandò, l’espressione sgranata.
“N-Non ho amici
perché fin’ora non ho mai frequentato una scuola.
M-Mio padre ha sempre v-voluto che avessi un insegnante, a c-casa. E-E sono
egoista. E c-codarda. Sì, sono c-codarda. N-Non sono degna del mio cognome, H-Hyuga.” Aveva ripreso a balbettare, segno che era agitata,
e aveva gli occhi lucidi, poteva vederlo anche da lì.
Gaara non credeva
di esserne capace, ma a giudicare dal lieve fastidio che avvertì alle guance,
doveva aver sorriso.
Prima ancora di
accorgersene, era già saltato giù dal davanzale e in pochi passi le si era
posto di fronte. Lei era così bassa a suo confronto, che aveva paura si
spaventasse di averlo vicino. Ma non stavolta.
Lentamente eppure
con gentilezza, le posizionò due dita sotto il mento e facendo una lieve
pressione la costrinse ad alzare lo sguardo. Come aveva percepito, gli occhi di
Hinata erano rossi. Le lacrime che insistenti
spingevano lungo gli spigoli per uscire.
“Non mi piace
quando piangi, Hinata. Le persone che ti fanno
soffrire non meritano le tue lacrime. Nessuno le merita.”
Lei annuì,
incapace di dire di no a quelle iridi preziose ma con un groppo alla gola
troppo grande per poter pensare di parlare.
Gaara la fissò,
con un’intensità disarmante, denudante.
“Nemmeno io.” Abbassò lo sguardo in una frazione di secondo prima di puntarlo
con più decisione di prima in quello di lei. “Non dovrai mai piangere per me, Hinata. Mai.”
###
Hinata mancava da quasi
due settimane, da scuola.
Gaara si era
sforzato di non farci caso, di ignorare il senso di nausea – di vuoto – allo stomaco nell’entrare in quell’aula desertica e non trovare il sorriso un po’
imbarazzato di lei ad accoglierlo. Non se n’era nemmeno accorto di come, con
quanta facilità, se ne fosse abituato. La presenza di lei era entrata nella sua
routine con una dolcezza ed un’eleganza sconfinata che nemmeno le principesse
sognavano di possedere, senza alcuna forzatura o prepotenza.
Gli mancava? Era
difficile. Non era bravo a decodificare quei sentimenti che, fino a poco tempo
addietro, non aveva sperato di possedere.
Ma adesso era
diverso. Si sentiva diverso. Forse era solo un’utopia, ma da quando l’aveva
conosciuta gli sembrava di aver visto parecchie porte aprirsi davanti ai suoi
occhi.
Era arrivata
trasportata dal suono ritmico e melodico di una sinfonia, come una ninfa che
arriva in una visione di luce.
Gli aveva regalato
il suo tempo, gli aveva sorriso e aveva messo da parte quel cognome che tanto
l’opprimeva, soffermandosi su aspetti e qualità di cui lui per primo non ne
sapeva l’esistenza. Adesso, semplicemente, non poteva uscire dalla sua vita
così, senza dire nulla. Solo perché era Hinata, non
poteva sperare di abbandonarlo e passarla liscia.
“Dove stai
andando?” La voce di sua sorella si affacciò dalla porta, dalla quale fece
capolino poi la sua testolina dorata e i soliti codini spinosi.
Il rosso la
ignorò, continuando piuttosto a trafficare con la tracolla alla ricerca delle
chiavi della sua auto.
“Gaara!” Lo
richiamò allora Temari, spazientita, e stavolta lui non la ignorò.
Nel momento in cui
sentì l’acquamarina addosso, lei sembrò persino pentirsi di essere entrata. Ciò
nonostante, si impose di rimanere ferma sulla soglia e di assumere un’aria
autoritaria, o che almeno sperava tale. Temari ci teneva – c’aveva sempre tenuto
– a mostrarsi come la donna di casa vista la mancanza che si registrava.
“Sto uscendo.”
Rispose, laconico come sempre.
Lei apparve
stupita per qualche istante, probabilmente perché si era aspettata che lui la
mandasse al diavolo anziché ricevere una risposta che seppure monosillabica,
rimaneva almeno tale.
“Ah bene.” Alla
fine si ricompose, dopotutto non era da Temari lasciarsi vedere debole per
troppo tempo. “Ti aspettiamo per cena, io e Kankuro?”
Domandò, mordicchiandosi un labbro mentre ne cercava lo sguardo in apprensione,
incerta se aver osato troppo oppure no.
Gaara esitò per un
istante, poi raccolse le chiavi – uscite da una tasca laterale – e si voltò a
fronteggiarla. “No.”
Temari annuì e,
nonostante apparisse ancora piuttosto esitante, dai suoi occhi una nuova
scintilla aveva preso a brillare. “D’accordo, allora.” Rimase ancora qualche
minuto sulla porta, come in tentennamento, e Gaara giurò che stava meditando se
aggiungere qualcos’altro o meno, ma alla fine decise di girare i tacchi e di accontentarsi
di quel briciolo di attenzione che perlomeno stavolta aveva ricevuto in cambio.
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“Tu chi saresti?”
Gaara non si
lasciò scomporre dallo sguardo severo che quella ragazzina dai capelli neri,
così inverosimilmente simile e diversa da Hinata, gli
rivolse e anche se lei finse di non saperlo, glielo si leggeva negli occhi che
aveva capito già dall’inizio con chi avesse a che fare. “Cerco Hinata.”
“Davvero?” Ne
parve sorpresa e per un istante gli occhi diafani si erano aperti in
un’espressione sgranata. Solo un istante, che già erano ritornati ad essere
quelli severi di sempre. “Non può riceverti.”
Lui non era mai
stato il tipo da tanti – anzi, da alcuno – formalismi. Qualcuno al suo posto
con ogni probabilità si sarebbe offeso di tanta arroganza ma non lui. Lui che
da anni era il maestro, nel trattare da schifo le persone.
“Non te l’ho
chiesto.” Le rispose, a tono.
Lei assottigliò
gli occhi e i lineamenti del viso ne acquistarono di rigidità. “No?”
Gaara la fissò,
freddo e calcolatore fino a farle sentire piccoli brividi lungo un corpo che
aveva imparato a tenere anestetizzato da troppo. “Non ho bisogno del permesso,
per vederla.” Sapeva di essere stato sgarbato tanto e forse più di lei, ma non
se ne curò. Non gli piaceva, quella ragazzina. Anche se assomigliava
esteriormente ad Hinata, dentro era agli antipodi.
La ragazzina lo
guardò bieca, ancora più scontrosa. “Hinata sta male.
Non puoi vederla.”
Per quanto non
volesse darle soddisfazione, l’affermazione non poté non sconvolgerlo. Lei
parve capirlo e, cavalcando l’onda, ne approfittò per farlo sentire inferiore –
o per sentirsi lei, superiore?
“Non te l’ha
detto?” Sembrò stupita, ma Gaara conosceva troppo bene quell’espressione
per non sapere che era solo la punta dell’iceberg. “Mia sorella è malata. Ha
una malformazione al cuore congenita.”
Il pungiglione
dello scorpione era affondato e il veleno, con una velocità disarmante, era
entrato in circolo fino quasi ad ucciderlo.
Gaara sentì solo
una botta mentre tutto attorno si faceva sfocato e privo di valore, ma non
seppe mai con sicurezza da che punto del suo petto fosse avvenuta l’esplosione.
“Chi è alla porta,
Hanabi?” Poi una voce severa a sgusciare
nell’indistinto groviglio accumulatosi nello stomaco.
Alzò lo sguardo,
quasi in trance, e non riuscì a stupirsi di trovare altri occhi di ghiaccio, un
altro Hyuga.
“Neji!” La ragazzetta arrossì impercettibilmente – ma non
alla vista divenuta improvvisamente più acuta di Gaara – quando una figura
allampanata fece il suo regale ingresso.
“Oh, Sabaku no Gaara.” Il nuovo venuto intanto aveva scorto lo
sconosciuto e con un ghigno quasi disgustato, aveva sputato il suo nome. “Che
sei venuto a fare?”
Gaara lo fissò,
incapace di riuscire a sibilare una risposta altamente velenosa e di cacciare
così le tossine iniettate dallo scorpione in circolo nelle sue vene. Lo
conosceva, ovviamente, di sfuggita perché era piuttosto popolare tra lo stuolo
di ragazzine petulanti che ogni tanto decidevano di erigere a idolo un bello e
impossibile. Anche perché, semplicemente, sarebbe stato impossibile non
ricordare una persona dall’aspetto incisivo come Neji.
“Niente.” Sibilò
infine il rosso, troppo stremato
dalla notizia per prenderlo a pugni come avrebbe fatto il vecchio se stesso.
Neji lo fissò con
astio e per un istante Gaara ci vide anche dell’altro in quello sguardo di
solito distaccato.
Sei geloso, Hyuga? Cos’è,
te ne sei innamorato?! Per questo mi disprezzi tanto?
In un’altra
occasione, un altro Gaara avrebbe agito d’impulso e iniziato così su due piedi
l’ennesima rissa, sicuro di ricevere indietro una controffensiva. Ma non
stavolta. Non sapendo di averci visto giusto, con Neji.
Si voltò e senza
cenni di saluto, si allontanò sotto lo sguardo inflessibile di due occhi di
ghiaccio.
Ma prima di arrivare
al cancello, prima di lasciarsi quella casa e quell’astio
alle spalle, captò qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Una finestra,
aperta. E un albero a farne da inconsapevole scala.
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La finestra era
aperta e la quercia secolare si protraeva fino a toccarla. Un invito a nozze,
per non coglierne l’occasione. Forse pericoloso, ma ad un amante del rischio
come lui non era certo un problema quello.
Si arrampicò con
invidiabile audacia e le mani trovarono i giusti appigli all’istante, quasi che
non avesse fatto altro per tutta la vita. In cima al ramo più grande, quello
che dava sull’unica finestra aperta, Gaara avanzò qualche passo deciso – sicuro
che stesse camminando a metri d’altezza?! – e in un attimo fu dentro.
Non aveva sperato
di trovare subito la camera che cercava e anzi si era aspettato una discreta
incursione in quella casa fin troppo solenne, ma Hinata
era distesa sul letto e lui capì di aver centrato senza volere l’obiettivo. Le
si avvicinò fino all’essere ad un passo dall’alcova, silenzioso come un gatto
che esplora la zona. Poi, una volta qui, quasi timoroso di svegliarla – se mai
stava dormendo – o di spaventarla, si fermò incerto sul da farsi ma per sua
fortuna fu lei a cancellare ogni dubbio.
“Te l’ha detto,
vero?” Aveva la voce rotta, forse stava piangendo.
Gaara abbassò il
capo, senza risponderle. Anche perché non era proprio una domanda, quella di Hinata. Sapeva più di una constatazione, ecco.
“M-Mi dispiace.
S-Scusa mia sorella. H-Hanabi è ancora così piccola e
n-non è colpa sua.” Era girata di schiena ma anche così non era difficile
immaginare il viso pallido irritato dalle lacrime.
Lui si sforzò di
mantenere la calma, di rimanere immobile nonostante i pugni chiusi in una morsa
serrata. Lei si scusava sempre. Si scusava anche quando non avrebbe dovuto –
lui invece non si scusava mai e basta.
“H-Ha ragione lei,
a-avrei dovuto d-dirtelo, ma n-non volevo che tu… Che avessi pena di me, c-come gli altri.” La balbuzie si era fatta più marcata
adesso, e sembrava intenzionata ad aumentare man mano che il discorso ne
acquistava d’importanza.
Gaara non era sicuro
di riuscire a sopportarlo, tuttavia ancora s’impose di non muoversi, nonostante
che tutto dentro di lui desiderasse solo di poter fuggire via da quella stanza.
“Morirai?” Domandò solo, a bruciapelo, incurante del peso che avrebbe avuto poi
la risposta.
Hinata sussultò in modo
inequivocabile, ma non si tirò indietro. “N-Non lo so.” Disse solo, ed era
sincera, ma d’altronde lei lo era sempre.
La sentì
singhiozzare e qualcosa dentro di lui ritornò a fare male, ricordandogli il
motivo per cui aveva sempre cacciato chiunque avesse tentato di avvicinarsi.
Con lei però era stato diverso, aveva saputo abbattere tutte le barriere con
una canzone dal retrogusto un po’ amaro, con un sorriso dal sapore dolce, con un’occhiata
dal valore inestimabile. Adesso voleva uscirne, ma con quale coraggio glielo
chiedeva? Era impossibile. Non gliel’avrebbe permesso, mai.
Lentamente ma con
decisione, Gaara riempì anche la breve distanza che li divideva. Il suo peso,
in opposizione a quello modesto di lei, fece sprofondare il materasso dalla sua
parte per un istante, prima di stabilizzarsi al centro esatto in cui giacevano
i loro corpi sdraiati. Le braccia muscolose e coperte dalla felpa avevano
cercato senza esitazione la vita sottile della ragazza e, trovata, l’avevano
stretta con una forza di per sé delicata fino a quando la schiena di lei non
combaciò alla perfezione con il suo petto, per non doverla lasciar andare più.
Percepì
distintamente i brividi smuovere quel corpo fragile come un cristallo e il
cuore battere più forte, nonostante gli abiti a frapporsi tra loro.
Era calda, Hinata. Come l’aveva sempre immaginata, mentre lui era
freddo e gelido come le notti d’inverno. Ed era piccola, lo stesso genere di
sensazione che aveva provato al primo incontro scovandola a suonare ad occhi
chiusi il suo amato violino.
Per un istante
Gaara temette di poterla spezzare, di poterla rompere, di succhiarle col suo
freddo anche quell’alone di vita rimastole. Ma lei
era forte. Molto più forte di quanto ci si aspettasse.
“S-Sei
arrabbiato?” Chiese all’improvviso la piccola Hyuga,
scalfendo il silenzio con la sua voce gentile – perché poteva essere gentile,
una voce, no?
“No.” Le rispose
incolore lui. “Dovrei?”
“S-Sto piangendo.”
Gli fece notare a quel punto lei, riportandogli alla mente una conversazione
avuta qualche tempo addietro proprio con lui.
Gaara sospirò, ma
non riuscì a dire niente. La verità era che la gola si era seccata e la voce
persa chissà dove. Avrebbe voluto dirle che non importava, che per lei stessa poteva piangere, tuttavia non ci
riusciva.
Così si limitò a
stringerla, a prendere ancora un po’ di quel calore sentendosi inevitabilmente
un egoista per averglielo rubato. Ma infondo lo era davvero. Avevano ragione
tutti, non era una montatura: era un dannato egoista.
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“Dov’è Temari?”
Gaara era entrato di prepotenza nella stanza, incurante dei risolini e delle
chiacchiere allegre provenienti dal suo interno.
Suo fratello Kankuro lo guardò male, seccato dall’interruzione non
richiesta, e in un attimo la ragazza tra le sue braccia era scivolata via.
“Vado in bagno.”
La castana era arrossita ma nel lasciare la stanza per concedere ai due ragazzi
di poter parlare in tutta tranquillità, non aveva perso nemmeno per un istante
la proverbiale decisione.
Rimasti soli, il
più grande si concesse un’altra occhiata imbronciata in direzione del più
piccolo. “Non si usa bussare?!” Lo sgridò, senza tuttavia risultare
autoritario, alzando gli occhi al cielo con aria melodrammatica.
Gaara lo ignorò.
“Dov’è Temari?” Ripeté, piuttosto, incrociando le braccia al petto sullo
stipite della porta.
“Non c’è, è
uscita.” Borbottò nervoso Kankuro, gettandosi a peso
morto sul letto. “Penso sia da qualche parte con testa d’ananas, tanto per
cambiare!”
“Chi è quella?”
Cambiò discorso il rosso, accennando con il capo alla ragazza che aveva scovato
in quel caos di camera.
“Tenten, la mia ragazza. Perché?” Ghignò Kankuro,
irriverente, e Gaara notò come da qualche tempo il fratello avesse cambiato
atteggiamento con lui. O forse, era lui ad essere cambiato.
“La ami?” Lo
domandò su due piedi, schiodandosi dalla porta per raggiungere la finestra,
sedersi al solito sul davanzale e accendersi l’ennesima sigaretta.
Il fratello per un
istante parve perdere tutta la sicurezza di cui si era animato, ma già l’attimo
dopo era ritornato il giocherellone di sempre. “Che razza di domande fai,
adesso?!”
“Rispondi. La
ami?” Insistette Gaara, spostando lo sguardo su di lui per essere sicuro che
non gli scappasse.
Lo vide arrossire,
appena, e scostare lo sguardo in un buffo imbarazzo – buffo, perché non era da lui esserlo. “Sì. Credo di sì. Ne sono
sicuro, anzi.”
Il fratello lo
fissò ancora per qualche istante, come se stesse soppesando qualcosa, prima di
continuare. “Come fai a dirlo?” Chiese infine, la voce priva di sfumature
particolari che potessero lasciar intendere il motivo di tanta insistenza.
Kankuro scrollò le
spalle. “Non lo so. Te lo senti alla fine. È un po’ difficile da spiegare.”
“Provaci.”
“O-Okay.” Il
ragazzone fece rotare lo sguardo per tutta la stanza, alla ricerca forse di un
punto di spunto da cui cominciare, prima di buttarsi in un discorso a lui del
tutto nuovo. “Vediamo, quando sono con Tenten mi
sento…boh, strano. Cioè, non voglio dire che è un
male, anzi, direi che è un bene. Mi fa sentire…libero. Come se la conoscessi da una vita ma senza averla mai
scoperta tutta. A volte mi sorride, o fa una smorfia particolare, e penso che
non troverò mai nessuna capace di fare altrettanto. E… E mi sento bene, in pace con me stesso, come direbbe
Temari. Sono migliore, con lei, ecco.”
L’aveva detto in
modo sconclusionato e perso in mille altri pensieri, o sensazioni, ma pure così
Gaara pensò di aver capito.
Buttò la cicca
dalla finestra e balzò in piedi, diretto alla porta. “Ho capito.” Disse solo,
prima di uscire definitivamente sotto lo sguardo perplesso di Kankuro e quello ancora leggermente imbarazzato di Tenten, in arrivo.
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Le incursioni
notturne in quella casa severa erano ormai diventate delle abitudini. Gaara
entrava sempre dalla finestra e Hinata lo aspettava
nel letto, dove lui le si allungava di fianco e l’abbracciava da dietro. A
volte lei si preoccupava per lui, per la sua incolumità a saltare su quell’albero troppo alto, ma la sera dopo lui lo rifaceva
comunque e alla fine aveva smesso di dirglielo.
Gaara se ne andava
solo alla mattina presto, quando il sole si affacciava ad oriente e la casa
iniziava ad animarsi un pochino, senza dire mai una parola, baciandole il capo
da dietro e sciogliendo poi la stretta per ritrovarla soltanto la notte
successiva.
Anche quella notte
era andato da lei. Aveva distinto subito la stretta delle sue braccia, il suo
respiro nei capelli e quell’amabile aroma forte nelle
narici. Ma anziché rimanere immobile nella sua posizione, vincendo il proprio
imbarazzo Hinata aveva osato poggiare delicatamente
una mano pallida su quelle intrecciate di lui.
“Mi devo operare.”
Disse solo, e anche così bastò a far gelare il sangue nelle vene del rosso.
Gaara rimase
immobile per qualche istante, a metabolizzare l’informazione, a cercare di
concretizzare le possibilità offerte da quella nuova situazione. Per quanto
volesse sperare che tutto si risolvesse per il meglio e che l’avrebbe di nuovo
ascoltata suonare la sua Sinfonia preferita, non poteva non pensare anche alla
parte negativa. Era sempre stato un tipo piuttosto pessimista, d’altronde, e il
peso incombente che gravava sulla vita stretta tra le sue braccia era
semplicemente troppo vivido per poterlo ignorare in quattro e quattro otto.
Si sentiva
impotente. Aveva sempre preso a pugni la vita, aveva sempre fatto ciò che
voleva, perché adesso non ci riusciva? Perché non poteva essere utile per
qualcuno?
Perché, non poteva
salvarla?
Dolcemente – come
lei gli stava insegnando ad essere – ma con decisione, la fece girare verso di
sé rompendo per una volta quel tacito accordo di rimanere di spalle e la guardò
con insistenza negli occhi.
La vide arrossire
appena e tentare di abbassare lo sguardo, tuttavia lui aveva già adocchiato una
ciocca in particolare che con un gesto naturale le tolse via dal volto.
Hinata era bellissima.
Forse poco appariscente, ma bellissima. Non era quel genere di bellezza
travolgente, del tipo a cui si era abituato a cercare in volti sconosciuti ma
perfetti che tuttavia la mattina dopo sfumavano nella realtà della luce del
sole.
Lei era molto di
più, di quello. Era un quadro ad arte, una creatura d’altri tempi più bella la
mattina di quanto avesse mai potuto esserlo nel buio, di quelle da tutti
reputate irreali. Ma Hinata era lì, tra le sue
braccia, ed era vera, viva. Gli
sembrò un miracolo. Che aveva fatto per meritarselo?
Istintivamente,
mosso da una calamita invisibile ed invitante, abbassò il capo nella sua
direzione soffermandosi con estrema calma ad osservare ogni minimo particolare
del viso, per lasciarlo nel cassetto dei ricordi come un marchio impresso nel
fuoco.
La sentì fremere,
il cuore fragile che batteva pericolosamente sempre più forte e le palpebre
deboli che coprivano due iridi opalescenti. Non era mai sta più bella e più
pura come in quel momento. Gaara immaginò di sentire la loro sinfonia
sollevarsi come per incanto sulle loro teste, vellutata e sensuale nella sua
triste andatura. Ed era così dolce, che avrebbe potuto riscontrarne il diabete,
oppure riaccendere un cuore morto nell’alba dei tempi.
Ma Gaara lo sentì
che non era solo illusione, che davvero qualcosa aveva ripreso a funzionare definitivamente, stavolta.
E quando la baciò,
quando le sue labbra vagabonde trovarono la calda sicurezza di quelle di Hinata, il mondo che prima era stato bianco e nero sembrò
colorarsi di nuove tonalità, di mille altre sfumature.
Si staccò da lei
repentinamente, quasi impaurito da se stesso e da tutte quelle nuove realtà
appena scoperte, però non la lasciò andare. La strinse un po’ più forte e lei,
incoraggiata, osò restituirgli l’abbraccio per una volta tanto. Gaara aveva
voglia di baciarla di nuovo e con più calma, stavolta, ma non poteva. Non
voleva spaventarla, non voleva forzarla né chiedere di più.
Con le altre non
ci sarebbero mai stati neppure, i baci. Con Hinata,
ne bastava uno per ricordarsi che il sangue scorre ancora nelle vene.
D’ora in avanti –
se lo ripromise mentre adagiava il mento sul capo di lei – avrebbe sempre
tenuto a mente quella sensazione di non essere morto, di vita.
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Era successo tutto
velocemente, o forse era stata solo una sua impressione.
Gaara non sapeva
dirlo con certezza e i ricordi delle ultime ore erano diventati quasi sfuocati.
L’aveva saputo per
caso, perché Tenten era arrivata a casa Sabaku di corsa, il volto arrossato e le guance rigate di
lacrime. Kankuro l’aveva abbracciata, Temari le aveva
riempito un bicchiere d’acqua e solo dopo che i singhiozzi si erano attenuati,
era riuscita a parlare. Gaara li aveva visti una volta per sbaglio, ma non si
era soffermato a pensare al tipo di legame che potesse avere con Neji, il cugino della sua
Hinata – erano amici e una volta persino qualcosa di
più.
Tenten l’aveva guardato
dritto negli occhi, a lui non a Kankuro, e
gliel’aveva detto in un sussurro rotto dai singhiozzi, che Hinata
era stata portata in ospedale quella mattina, per la sua operazione.
La corsa era stata
di quanto più folle potesse esserci, ma stavolta senza il brivido del rischio
ad animare i suoi movimenti.
Li aveva trovati
lì, buttati su delle anonime sedie rosse ad attendere che la luce smettesse di
lampeggiare, e non c’aveva visto più. Neji era finito
nella sua stretta prima ancora di riuscire a notarlo, il collo a rischio nella
mano che gli si era avvitata attorno. Gaara non aveva detto niente, aveva
soltanto alzato l’altra mano a pugno pronto a colpirlo, ma poi si era buttata di
mezzo quella ragazzina tanto simile e diversa insieme dalla sorella, Hanabi.
“Fermati, Gaara.
Fermati ti ho detto!” E la sua voce era rotta da un pianto che mai nessuno gli
aveva visto in volto, e da rimpianti e rimorsi che bruciavano troppo per
poterli cancellare con un colpo di spugna.
L’aveva lasciato e
si era accasciato sulla sedia, tremante, le mani nei capelli rossi proprio
mentre sopraggiungevano i suoi fratelli.
Poi non ricordava
più quanto tempo fosse passato, se qualcuno avesse osato muoversi o no. All’improvviso aveva i propri fratelli accanto come
silenziosi guardiani, aveva visto Shikamaru, la testa
d’ananas, e Tenten che abbracciava con affetto Neji. Infine tutto era sfumato sotto quella luce che si
ostinava a rimanere accesa e si era fermato a guardarla così forse per ore, per
giorni o per mesi, il tempo non esisteva più.
E l’orologio si
bloccò, semplicemente, quando infine si spense.
Mezzanotte.
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La macchina si
fermò con eleganza sul selciato, a qualche metro dal dirupo.
Gaara scese con
calma, richiuse con attenzione lo sportello e in un attimo aveva ritrovato il
suo posto sul cofano.
Non c’era un alito
di vento quel giorno eppure il profumo delle violette riusciva a raggiungerlo
anche così. Inebriante ed ubriacante. Non si sarebbe mai stancato di quel
profumo, per quanto poco consono a quello più forte che di solito usava.
Istintivamente,
prese a giocherellare con il cd tra le sue mani. Gliel’aveva consegnato Neji, assieme alla confessione di essere stata la cugina
stessa ad averlo pregato quel giorno di non chiamarlo. Gaara non aveva capito e
ancora non riusciva a capire il motivo di quella scelta, ma l’aveva ringraziato
come non aveva mai fatto con nessuno perché infondo a quegli occhi diafani
aveva letto lo stesso strazio, lo stesso tormento, appena un po’ più accentuato
– il dolore di un amore perso ma mai
corrisposto.
Poi aveva preso la
macchina ed era giunto fin lì, senza mai sfiorare i centoventi chilometri
orari, attento alla propria guida.
Adesso che aveva
in mano quel cd, tuttavia, la sensazione di ascoltarlo si era fatta impellente.
Non riusciva ad immaginare cosa potesse racchiudere. Aveva sempre pensato che Hinata gli avesse già dato tutto e troppo in quei mesi
trascorsi al suo fianco.
Riusciva sempre a
stupirlo, eh?
Sospirò e ritornò
alla macchina, per inserire il cd nello stereo. In automatico alzò il volume al
massimo e saltando sui sedili, raggiunse di nuovo la postazione di prima.
Si sdraiò sul
cofano e chiuse gli occhi, in attesa.
Il pacchetto
incolume di sigarette, lasciato da giorni a marcire sul sedile del passeggero.
Le prime note
erano incerte, quasi timorose. L’andatura dolce e melliflua. Eppure anche così,
Gaara distinse subito la composizione.
Gli occhi si
riempirono di lacrime nonostante che fossero chiusi e per una volta nella sua
vita, non si sentì arrabbiato con se stesso per quella debolezza.
Intanto la musica
si era fatta più decisa ma non per questo volgare. Le note si susseguivano con
precisione, il ritmo perfetto e incalzante. Gaara se ne sentì pieno quando la
sinfonia giunse all’apice, ma mai completamente sazio.
Desiderò soltanto
di potervi perdere dentro, di assimilarsi alle note e di fuggire via come
quelle. Immaginò di morirne, di essere trafitto dalle righe di uno spartito e
di raggiungere il cielo abbarbicato a quella nenia, prima di ritrovare l’unico
volto di cui avesse avuto davvero la voglia di vedere. Ma poi quello stesso
volto gli ricordò della promessa fatta e all’improvviso la musica non era più
bella come prima.
Era una tortura,
una freccia che lo trafiggeva mille volte e mille altre ancora.
Basta, basta, basta!
Invocò pietà,
invocò il silenzio, invocò la fine ma le note continuavano a ripetersi ad un
ritmo scrosciante, incuranti delle sue proteste. E non c’era più dolcezza, il
desiderio non era appagato. La nenia era divenuta una lagna, un suono
disperato, un richiamo alla vita che lui non voleva possedere – perché aveva
promesso?!
Basta…basta…
Riaprì gli occhi,
vacui, e la mano corse veloce al petto dove qualcosa aveva iniziato a bruciare.
Faceva male. Sanguinava. Perché faceva così male? Non aveva senso, non… Poi
capì.
La sinfonia. La
sinfonia continuava, proprio lì dove lei si era sempre interrotta. Continuava,
era un miracolo.
Allora per quanto
il bruciore, per quanto il dolore e le lacrime, un sorriso si allargò sulle
labbra. Era felicità, quella? Come poteva essere felice?
Hinata l’aveva finita.
Era andata avanti, vincendo gli
ostacoli, abbattendo i muri che le impedivano di arrivarci, e l’aveva finita.
L’aveva finita e Gaara lo sapeva che l’aveva fatto per lui. Anche se avrebbe
dovuto essere lui, a regalare qualcosa a lei per ciò che aveva fatto – per lui,
per la sua famiglia, per la sua vita – e non il contrario.
All’improvviso
come in un flash, capì ciò che lei aveva voluto evitargli. Il motivo per cui Hinata aveva impedito al cugino di contattarlo. Il motivo
per cui non gli aveva permesso di vederla per un’ultima volta.
Aveva voluto
lasciarlo come una ragazza viva, con il sorriso sulle labbra cosicché la notte
non avrebbe rivisto la paura di morire attraversare quelle iridi bianche –
maledettamente altruista, la sua Hinata.
La musica finì,
con dolcezza stavolta, come di dovere.
Gaara si mise a
sedere, il cuore in gola e una mano sugli occhi.
No, l’ultimo
regalo di Hinata non era stata la canzone, o l’amore
che gli aveva dato incondizionatamente. Adesso lo sapeva.
Hinata gli aveva
restituito la vita che lui si era stancato di tenere, gli aveva ridato due
fratelli che aveva sempre disprezzato per gelosia, gli aveva ridato la speranza
di poter essere anche lui un giorno importante per qualcuno.
Perché per lei lo
era stato. Era stato importante. Per Hinata, lo era
stato.
E lui si sentiva
cambiato, si sentiva diverso, nuovo. Libero.
Migliore, ecco.
E anche se faceva
male perché lei non c’era più, né ci sarebbe più stata, doveva farlo. Doveva
smetterla di rilegarla in quell’angolo di terra per
tenerla per sé, dannatamente egoista. Doveva lasciarla andare, come lei gli
aveva richiesto attraverso quell’andirivieni di note.
La Sinfonia degli Addii.
(The clock is started)
[Disclaimer: Naruto
© Kishimoto. “Sinfonia degli Addii” © Haydn.]
N/A
Toccata
e fuga. Ringrazio le giudici per la velocità e per i consigli, rivolgo i miei
sentiti complimenti alle altre partecipanti (è stato davvero utile potermi
confrontare con voi, sul serio! *-*) e in particolar modo alle podiste, e poi
volevo fare un ringraziamento personale alla mia Sae,
che anche questa volta mi ha dato il suo immancabile sostegno, da vera Taichi! Grazie,
tesoro.
Detto
ciò, devo proprio scappare! Il lavoro mi chiama, eh. Ah, personalmente mi
ritengo piuttosto soddisfatta di questa storia, ma ditemi anche voi se potete
cosa ne pensate, perché ci terrei in modo particolare, sì, sì.
Baci.
Memi
J