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Autore: Roxy_182    01/05/2014    0 recensioni
Una ragazza, il suo sogno di fare luce su un passato che le è oscuro. E forse qualcosa di soprannaturale ha a che fare con questo mistero...
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Recati alla Vecchia Dimora questa sera alle 23.00. Dovrai essere sola”.
Evelyn non riusciva a smettere di fissare quelle parole scritte in un corsivo ordinato.
“La Vecchia Dimora?” pensò cercando di fare ordine in quelle poche idee confuse che aveva, corrucciando le sopracciglia. “E perché mai dovrei recarmi in un posto così lugubre e malandato?”.
 Seppur dubbiosa, Evelyn non avrebbe certo sprecato un’occasione come quella per avere un po’ più chiara la sua storia.
Non aveva mai conosciuto i suoi genitori. In diciotto anni di vita le uniche informazioni che era riuscita a strappare dalle bocche dei nonni al riguardo erano pressoché vaghe: “Un grave incidente… Non ne sono usciti vivi…” e qui le parole venivano troncate dai singhiozzi. Ma senza volerlo, le si creava un sospetto nella testa, il dubbio che non fosse andata esattamente così.
Ogni notte, poi, quel sogno: un popolo in fuga, disperato, tra pianti e urla. Ma non erano gambe, le loro. Sembravano piuttosto…beh, in realtà non era mai riuscita ad avere chiaro quel dettaglio; il resto, però, era tutto così chiaro e nitido, le sembrava di essere lì con loro. Ma ogni mattina si svegliava all’improvviso, con piccole gocce di sudore che le colavano sulla fronte, facendole capire che non era stato altro che un brutto sogno. Inoltre, ogni persona portava sul braccio un marchio, una conchiglia stilizzata.
Per non parlare di quella sensazione di vertigine che provava ogni volta che osava entrare in acqua; era stata umiliata fin troppe volte dai compagni per questo suo problema, ma questi sembravano non capire. Con il dito puntato contro di lei, la scimmiottavano ridendo, con quel ghigno beffardo che stonava sui lineamenti paffuti di un bambino.
Le 23.00 arrivarono in fretta; chiuse la porta di camera sua a chiave e sgattaiolò fuori dalla finestra, stando attenta che non ci fosse nessuno nei dintorni.
La strada era buia, qualche vecchio lampione solitario piazzato qua e là riusciva solo a rendere l’atmosfera più inquietante; l’aria fredda di fine novembre le penetrò nelle ossa, facendola rabbrividire. Arrivò davanti alla Vecchia Dimora: una facciata cupa e spoglia, metà della quale era ricoperta da una pioggia di edera che, articolandosi sul muro, sembrava volersi appropriare dell’edificio.
Il vento ululava minaccioso; d’istinto Evelyn si coprì il capo con le mani e lo girò di scatto. L’occhio le cadde su qualcosa appoggiato al muro: non era quella la bicicletta  che era misteriosamente scomparsa l’estate precedente? Quel giorno, le era sembrato di vederla allontanarsi, come se volesse che la seguisse, ma, dando la colpa al vento che in quella settimana stava superando anche le aspettative dei meteorologi, non ci aveva dato troppo peso.
Non volle però perdere tempo; il portone che le stava dinnanzi era imponente, di un color verde muschio, a sprazzi scrostato, facendo intravedere il legno ormai marcio. Vide che era accostato, perciò lo aprì lentamente; quando se lo chiuse alle spalle, una sensazione di panico la pervase. Dopo un attimo di esitazione decise di addentrarsi nell’oscurità; i suoi passi risuonavano tra quelle pareti come presenze nemiche. Le sembrò di essere finita in un film, dove il protagonista si avventurava in quelle case stregate immerse nel buio e nell’ignoto; trovarcisi, però, era tutta un’altra faccenda.
Distogliendola dai suoi pensieri, una voce la chiamò, ma le arrivò come un pensiero, che rimbombò nella sua mente. D’istinto Evelyn gridò, con la sensazione che quella casa la stesse facendo diventare pazza. Chi c’era lì insieme a lei? Assieme a quelle grida uscirono anche lacrime, che corsero veloci giù per le rosse gote, fino ad arrivare al mento e cadere sul pavimento lucido. C’era rabbia e tristezza in quelle lacrime, l’impotenza di non poter capire cosa stava accadendo. Ma non c’era più tempo per i pianti, adesso; era arrivata fin lì e finalmente aveva l’opportunità di fare luce sul suo passato, e non aveva intenzione di tirarsi indietro. Si asciugò il viso e si ricompose determinata. Quando udì ancora quella voce, non c’era più stupore o spavento sul suo volto; con fare deciso marciò nella direzione dalla quale essa proveniva, con una punta di curiosità. In fondo al corridoio trovò delle scalette arrugginite; senza pensarci due volte, le salì, ma dopo qualche scalino si ritrovò a sbattere la testa contro un vetro. Tastandosi il capo dolente con una mano, con l’altra cercava un modo per aprire quella botola.
“Ecco, una maniglia!” esultò dentro di sé la ragazza. Quando la aprì si accorse che era arrivata sul tetto dell’edificio. Provò una sensazione di sollievo nel vedere quel manto blu punteggiato di lucine gialle. Da piccola, quando d’estate andava nella baita in montagna coi nonni, passava intere nottate ad
 
 
ammirare quello spettacolo, e se una stella cadente le passava davanti agli occhi, questi le luccicavano e il desiderio andava sempre a finire sui suoi genitori.
Salì quindi sulle tegole. Nel buio, si accorse che in un punto ne mancava una e al suo posto c’era una grossa pietra rotonda, incastrata tra le altre tegole. Si avvicinò e notò che su di essa era inciso il marchio che le appariva sempre in sogno; come d’istinto si posizionò sopra di esso: in quell’istante un cilindro di luce azzurrina partì dalla conchiglia fino ad arrivare all’altezza della testa.
“Evelyn!”. La voce adesso pronunciò il suo nome con decisione e chiarezza.
Come un ologramma apparve di fronte a lei colei che le stava parlando: una donna di rara bellezza, con lineamenti talmente fini e aggraziati che avrebbero fatto invidia ad una dea; negli occhi, acquemarine incastonate in un viso di porcellana, si rispecchiava lo sguardo incantato della ragazza, che aveva trovato un nonsochè di familiare in lei. Notò poi che all’altezza dei fianchi, la pelle aveva ceduto il posto a scaglie argentee, che con il chiaro di luna creavano un magnifico gioco di colori e riflessi. Al posto delle gambe, sembrava avere un’unica grande coscia, che si restringeva poi in una coda.
“Evelyn, finalmente!” i suoi occhi si addolcirono. “Evelyn, la nostra gente ha bisogno di te! Lo so che è difficile da capire, ma devi credermi!”.
Lentamente le tese la mano, come per invitarla. La donna, vedendo che la ragazza esitava, le spiegò con più calma, come a rassicurarla: “Il nostro popolo ha bisogno di un’erede, e tu sei destinata a salire sul trono. Il mio tempo è finito, ora tocca a te!”.
Evelyn si sentì scaldata da quelle parole e per la prima volta dopo tanto tempo si sentì a casa, accanto a lei; sul suo viso si increspò un sorriso e allungò la mano verso quella della donna. Senza più aggiungere una parola, la sirena la trascinò nel suo mondo, sicura che le avrebbe perdonato  la sua lunga assenza.
  
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