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Autore: littlelouder_    02/05/2014    3 recensioni
“Fisso davanti a me. E nel muro bianco intravedo i due occhi azzurri di Joe Peterson che mi guardano in cagnesco, rossi per il troppo alcool e fumo.
"Perché l'avete fatto? Non potevate lasciarmi qua? Vi dava troppo fastidio vedermi in libertà?" urlo. Ho le mani che mi tremano tantissimo, il fiato corto, il petto che si alza e si abbassa velocemente.
"Lo facciamo perché tu non possa essere un pericolo per altri. Lo facciamo perché ti vogliamo bene, Michael."
Ingoio le lacrime.
"Un.. p-pericolo?" chiedo.
"Lo sai di cosa sto parlando, Michael." la sua voce era melodiosa e ammaliante.”
Una storia drammatica di un ragazzo che nasconde un segreto più grande di lui; ma quando la sua vita incontra ne incontra delle altre, inizierà per lui un'avventura tra amicizie, amori, tradimenti, e segreti inconfessabili nascosti nel loro più profondo cuore.
Genere: Azione, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo primo



Non avrei mai pensato che il pezzo di carta tra le mie mani potesse cambiarmi la vita. O almeno i tre mesi estivi. Mi chiamo Michael Bolitar, secondo anno di liceo e con dei genitori alquanto strani. 
Il pezzo di carta tra le mie mani è ruvido, ma piegato perfettamente bene, e ricoperto di scritte in corsivo con ichiostro nero puro. Non sa di niente. Di solito profumano i fogli di carta, come quelli dei libri. Ma questo no. C'è decisamente qualcosa che non va.
Fisso ancora sbalordito il foglio, cercando di trovare una risposta. Non la trovo. L'unico mio pensiero è rivolto ai miei genitori. Come hanno potuto farmi questo, senza neanche avvisarmi? Insomma, siamo nel ventunesimo secolo, i cellulari esistono per uno scopo, no? 
Niente. Assolutamente niente. Neanche una telefonata, uno stupido sms, una mail.. mi sarei accontentato pure di un messaggio da un piccione viaggiatore. E poi mi chiedono perché non li sopporto. Lascio cadere sul mio letto il foglio e prendo l'opuscolo che era assieme al primo. Liscio, rettangolare e verde.
Io odio il verde. Faccio finta di niente, e lo apro. Mi aspettano di nuovo numero scritto nere, ma stavolta ci sono anche delle foto. Ritraggono un campus all'aria aperta, con un edificio enorme a tre piani color crema. Attorno ad esso si estendono dei giardini verdi pieni di alberi, giochi per bambini, fontane di tutti i tipi e chi ne ha più ne metta.
In un'altra foto ci sono dei ragazzi che giocano assieme, che ridono e che si lanciano la palla a vicenda. Per caso i miei genitori mi stanno mandando in un campus di orsetti del cuore? Sono tutti felici, allegri, con il sorriso sempre stampato sulla faccia. Mi viene il volta stomaco solo a pensarci.
   La fine dell'opuscolo è riservata per lo studio. Ci sono cordi di lingue, lettere, musica, architettura, arte e anche delle attività sportive. I miei mi vogliono morto, penso infine.
Butto l'opuscolo sul letto e vado direttamente in bagno. Il getto d'acqua mi schizza in faccia, ma non mi da fastidio, anzi, mi piace tantissimo. Mi lavo il viso, e sembra che l'acqua gelida mi riattivi un po'. Poi, commetto l'errore più grande.
   Mi guardo allo specchio.
La verità, i ricordi sepolti per troppo tempo, il vero me, ritornano a galla. Riesco a intravedere nei miei occhi castani quel brillio che qualche tempo fa non c'era. Le labbra si trasformano in un ghigno alquanto mostruoso con un solo piccolo ricordo. Le dita afferrano il bordo del lavandino fino a farmi diventare le nocche bianche e fino a sentire il sangue ribollire nel cervello per la troppa tensione e adrenalina. Rimango così, sospeso tra il passato e il presente; poi mi stacco e do un pugno allo specchio. Questo non si rompe, per fortuna, ma compare solo una minuscola crepa al centro, un po' verso sinistra, nel punto dove ho sferrato il colpo.
   Ho il fiatone. Mi porto la mano destra al petto, vicino al cuore, e sento i battiti farsi sempre più forti, veloci, come una macchina a duecento chilometri orari in una strada dritta. Ho paura di esplodere come un petardo.
Rimango così per poco, perché sento dei passi provenire dalle scale. Apro di scatto la porta e mi ritrovo davanti il viso rugoso di mio nonno che mi guarda confuso e preoccupato.
"Giovanotto, stai bene?" mi chiede.
"Alla grande." mento.
Poi, senza aspettare un'altra sua domanda mi fiondo in camera e chiudo a chiave la porta.


Dice Brancusi: "Quando non siamo più fanciulli siamo già morti." Ecco come mi sento io. Avrei preferito essere per sempre come Peter Pan, ma non è possibile? Allora cosa posso fare? Cosa posso essere per farmi accettare dagli altri? Sono sempre stato il classico ragazzo silenzioso e osservatore, quello che ha un buona media a scuola, quel ragazzo che non ha ancora baciato una ragazza, neanche per scherzo al gioco della bottiglia. Non ricordo il mio ultimo amico.
Forse risaliva alle elementari. Le superiori? Sono gli incubi di ogni adolescente con molti problemi di autostima come me. Mi hanno sempre deriso, parlato male di me; mi prendevano in giro per il modo di vestire, per la mia voce cupa e per il tono troppo basso. Ma nessuno ha mai capito quanto io ci stavo male per questo. I miei genitori non l'hanno mai saputo, e io non ho intenzione di dirglielo. Tanto le cose non cambierebbero lo stesso. Continuerebbero ad essere freddi, rigidi ed egoisti nei miei confronti. Come se io ci stessi così male. Alla fine mi ci sono abituato.
   Il mio occhi cade sull'opuscolo che è rimasto sul letto. Lo prendo e mi accorgo solo adesso del nome del campus: "C.R.D.T." ovvero "Campus per Ragazzi Diversamente Tranquilli."
E' uno scherzo vero?, penso sotto shock con l'opuscolo in mano. Adesso capisco tutto. Prendo il foglio di carta e leggo la data di arrivo. E' fra due giorni. Tutto mi è più chiaro.
I miei genitori mi vogliono mandare in un campus per persone.. come me? Esiste una tale follia?, mi chiedo sconcertato. Da cosa dice l'opuscolo, il campus non sembra male.. forse potrei anche pensarci.
Forse.
Se non avessi così tanti pensieri nella testa; così tanti che mi confondono le giornate e io non capisco se è giorno o notte.
Alcune mattine mi alzo aspettando che la porta si apri, e che compaia la figura slanciata ma allo stesso tempo esile di mia madre, con i suoi capelli rosso fiammeggianti come le Ferrari, e che mi dia un bacio sulla fronte. Aspetto sempre con ansia le partite di basket, sperando che mio padre esca dalla cucina con i pop corn e cone le bibite appena tolte dal frigo e un sorriso smagliante sul volto. Ogni inverno, dopo scuola, mi fermo davanti alle vetrine dei negozi, pensando a quale regalo fare ai miei genitori. Se il classico per mamma, ovvero un profumo che sa di ciliege, le sue preferite. O anche un vestito che le snellisca le gambe, come ha sempre voluto. Mi fermavo davanti alle sartorie, pensando di regalare a mio padre tutte quelle camicie e pantaloni che si scucì tre anni fa.
E cinque secondi dopo, il sorriso mi moriva dalle labbra. La vita era ingiusta. Ho solo capito questo fino ad ora.
Nonostante il bene che ti vogliano i tuoi genitori, se fai un passo sbagliato, posso rivoltarsi contro di te. Possono dimenticarti, abbandonarti, non sentirti più, rompere per sempre i legami, e ricominciare una nuova vita senza di te. E poi ci sei tu, reietto come non mai, che non sai dove andare, che fare. Non c'è niente dove puoi aggrapparti per tenerti su, cercando di non cadere nello strampiombo.
Quinidi la vita è solo un'inganno della mente. Ti fa vedere cose che non vuoi vedere, e ti lascia da solo, a marcire tra i tuoi ricordi.
   Mi ritrovo a vagare con il cervello in un universo di incertezze quando bussano alla porta.
Una voce femminile, ma che scricchiola come una porta mal funzionante. Mia nonna.
"Mick, sbrigati, è pronto a tavola." mi dice.
Annuisco, anche se  so che non può vedermi. Riluttante, mi alzo dal letto e, scalzo come sempre, scendo le scale per andare in cucina.
Non mangio quasi nulla, a dire la verità. In questo periodo sono dimagrito un po' troppo. Il mio viso è leggermente scavato, la mia palle più pallida; questo mi rende ancora più terrificante.
Sto per uscire dalla stanza quando un rumore squillante mi perfora le orecchie. Il telefono. Mia nonna mi passa affianco e afferra il telefono nero appoggiato sul tavolino in soggiorno.
I suoi occhi grigi si rabbuiano di scatto, in pochissimo tempo; poi, dopo avermi detto "E' per te." si dilegua di nuovo in cucina. Afferro la cornetta e ascolto. Prendo il filo tutto arrotolato e inizio a rigirarmelo tra le dita della mano destra.
"Pronto?" rispondo io titubante.
"Michael." dice la voce e il mio cuore perde un battito. Pensavo di essermela scordata; la risata cristallina, la voce fresca come l'inverno, molto calda da scaldarti il petto.
"Mamma?" sono incerto, a dirla tutta.
Già la immagino annuire, assottigliando gli occhi, come suo solito.
"Immagino che tu abbia ricevuto la lettera insieme all'opuscolo, no?" ma la sua voce ritorna fredda come sempre. Come due anni fa.
"Sì."
Pausa.
"Quindi? Hai già preparato tutto?"
"Ehm.." balbetto.
"Michael!" esclama lei.
"Sì?"
"Mi ascolti o no, testa vuota?"
Sospiro, rassegnato.
"Certo." le dico per accontentarla.
"Hai già fatto la valigia o almeno scelto cosa portarti, immagino." riprende.
Sbatto le palpebre e stringo più forte la cornetta.
"Perchè dovrei?" chiedo.
Sento un rumore dall'altra parte: forse mia madre ha sbattuto il piede a terra per il nervoso. A volte lo fa.
"Come perché? Non lo sai che ci devi andare?" e la sua voce si alza di un'ottava.
Mi irrigidisco e inizio a rigirarmi il filo del telefono più velocemente tra le dita.
"Posso anche decidere di non farlo, o sbaglio?"
Lei ride. Ma non una vera risata come le capitava ogni estate, sotto le pinete, dopo le batutte di zio Richard. Questa era un misto di frustrazione e nervosismo.
So già che siamo quasi alla fine della telefonata.
"Certo che ti sbagli, Michael. E' obbligatorio questo campus. Perché credi che io e tuo padre l'abbiamo scelto?"
Fisso davanti a me.
E nel muro bianco intravedo i due occhi azzurri di Joe Peterson che mi guardano in cagnesco, rossi per il troppo alcool e fumo.
"Perché l'avete fatto? Non potevate lasciarmi qua? Vi dava troppo fastidio vedermi in libertà?" urlo. Ho le mani che mi tremano tantissimo, il fiato corto, il petto che si alza e si abbassa velocemente.
"Lo facciamo perché tu non possa essere un pericolo per altri. Lo facciamo perché ti vogliamo bene, Michael."
Ingoio le lacrime.
"Un.. p-pericolo?" chiedo.
"Lo sai di cosa sto parlando, Michael." la sua voce era melodiosa e ammaliante.
"Tu sai solo quello che tu sola vuoi sapere. Non hai mai saputo niente di niente di quello che successe.." continuo, ma vengo fermato.
"Michael tu non sai quello che hai fatto!" questa volta ha veramente gridato. "Hai rovinato delle famiglie intere e.." 
La sua voce si incrina.
"A te interessa solo della tua di famiglia che io ho rovinato. Non è così?" insisto.
Lei sospira, sfinita.
"Tu non capisci. Sei solo un bambino." dice a bassa voce "Fra due giorni Marie ti accompagnerà in quel campus. Le darò io l'indirizzo, quindi non stressarti per trovarlo."
"Aspetta un secondo.." tento di fermarla, ma è troppo tardi. La telefonata è finita.
Abbasso la cornetta, confuso come non mai.



La canzone finisce, e io rimango a pancia in su sul letto, con una mano sul ventre scoperto. Guardo il soffitto. Sono stanco, a causa della telefonata con mia madre. Pensavo avesse chiamato per scusarsi, o per salutarmi o per qualsiasi altra cosa che non riguardasse il campus.
   Ma mi sbagliavo. Non gli sono mancato; si è messa ad urlare, accusandomi di cose non vere.. per metà, almeno.
Sospiro.
Cerco di non chiudere gli occhi, non ho voglia di dormire. Ma il sonno ha la meglio, e così, riluttante, mi addormento, sapendo che l'indomani mattina non ci sarà mia madre a svegliarmi con un bel bacio delicato sulla fronte.
Non ci sarà nessuno.
Perché ormai adesso sono solo al mondo.










*Nota autrice*
Grazie per aver letto il capitolo, davvero :) Spero vi sia piaciuto. Vi aspetto con tante recensioni!

Ps. mi scuso per errori grammaticali e altro: sono frutto di distrazione, alcune volte non controllo prima di pubblicare.

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