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Autore: albaTH    02/05/2014    0 recensioni
Titolo pensato quando avevo appena compiuto 11 anni, perdonatemi se è così osceno.
Mia vecchia storia del 2011, trovata rovistando fra le cartelle.
Strana, il cui inizio è andato perduto, ma ci terrei a conoscere ugualmente la vostra opinione per decidere se riprenderla in mano e sistemarla.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi ero finalmente liberata da me stessa. La nuova Lara era fiorita. Non avevo più paura: avevo il mondo in tasca. Potevo fare quello che volevo, senza temere nessuno. Il quartiere doveva prepararsi a ricevermi completamente cambiata. Per prima cosa, niente più passeggiatine nel parco. Non da sola, perlomeno. Mi sarei trovata delle nuove amiche. Ecco la scelta giusta: un metodo sicuro ed efficacie. Ci sarei riuscita: il mio nuovo io avrebbe sbalordito tutti, me stessa compresa.
Però, proprio in quel momento mi accorsi dello sbaglio che avevo fatto da sempre: l’unica cosa di cui avevo avuto paura da tempo immemore, ero sempre stata, solo e soltanto io.
Avevo paura di me stessa, di non essere perfetta, di essere sempre bersaglio dell’ilarità di tutti per le mie stravaganze ed il mio carattere particolare..
Tutto questo non sarebbe successo più, no di certo.
Dopo tanto tempo, sorrisi. Non me ne resi neppure conto. Il mio viso si contrasse in un solco profondo di chiara felicità. Volevo andarmene, scappare. Decisi che volevo ribellarmi, e quale modo migliore di scappare di casa! Volevo andare lontana, forse, addirittura, se fosse stato possibile, viaggiare in altri mondi.
Tutte le riflessioni che avevo fatto un attimo prima, mi parvero subito incredibilmente stupide.
 Ma non era ancora il momento. Avrei aspettato un po’, il tempo per organizzare tutto in grande.
Era tutta la vita che non spendevo un centesimo dei miei soldi e settimana dopo settimana, paghetta dopo paghetta, avevo racimolato una piccola fortuna. Pensai con gratitudine ai miei adorati nonni. Erano le uniche due persone che mi capivano. Per prima cosa, prima di fuggire, sarei andata a salutarli per un’ultima volta. Loro avrebbero capito i miei sentimenti confusi, ne ero certa.
 
Quella notte non dormii: progettai la mia fuga. Era tutto perfetto, finalmente sarei evasa da quel posto che, non so perché, mi ostinavo a chiamare casa, ma che in realtà era una prigione; l’unica differenza era che almeno lì non c’erano i lucchetti alla porta e le sbarre alle finestre. Ma era ugualmente un carcere ai miei occhi: chiusa lì, perennemente al buio, con come uniche amiche le furtive e minuscole creature che rimanevano acquattate nell’ombra del mio letto, in cerca di un rifugio.
Ormai sapevo come me ne sarei andata: vivevo sulla sponda di un bellissimo lago dall’acqua cristallina,che sognavo da anni di attraversare, ma non mi era concesso. Non mi mancava nulla: ora avevo grinta a volontà per soddisfare qualsiasi mio progetto e come mezzo di trasporto avrei dato un paio di aggiustatine alla logora e muffita barca con le travi marce che era ancorata sulla riva del lago ormai da parecchi mesi, popolata di topi e piccoli rettili.
Lentamente però, nella notte senza luna, sentivo gli occhi pesanti, e all’alba non ce la feci più. Mi addormentai con la testa china sulle carte nautiche e su quella della rosa dei venti. Nessuno venne a svegliarmi, perciò rimasi lì addormentata, in balia dei sogni, infervorata dai miei desideri di avventura, di conoscenza, di sapere.
Mi risvegliai dal mio sonno movimentato da insensati sogni, tardi, molto tardi. Alzai in un movimento molto ingenuo la testa. Un dolore atroce mi assalì. Avevo la spina dorsale completamente paralizzata e le gambe aggranchite. Mi alzai in piedi e mi stiracchiai un  attimo, dopodichè, sfinita, mi gettai sotto le mie morbide coperte fresche, che non avevo toccato per tutta la mia notte praticamente insonne.
Non feci neanche in tempo ad addormentarmi, che, dopo un secondo netto, una voce roca e decisamente amareggiata filtrò dalla spessa, chiusa, porta di mogano.
- Svegliati, il sole è già sorto da un bel pezzo.
Non risposi. Quel tono non mi piaceva affatto e non aveva assolutamente niente di dolce. Mi alzai a malincuore: mi era passata la voglia di vivere. E già da un bel pezzo, anche.
Fuori pioveva. La scuola mi attendeva per cominciare un altro monotono lunedì mattina.
Non me la sentivo proprio di andarci. Decisi che avrei marinato la scuola. C’è sempre una prima volta per tutto e poi non avevo paura. Niente mi importava più ormai, e, in fondo, avrei avuto un'intera giornata libera da passare per me. Esclusivamente per me. Solamente per me. Totalmente per me. Completamente per me. Avrei comperato l’occorrente per cominciare il mio impervio e periglioso viaggio verso la felicità. Sì, sarei stata felice un giorno. E se non fosse stato così per qualche oscuro motivo? Tutte le mi fatiche sarebbero state inutili? Cacciai dalla mia mente offuscata da mille idee, progetti, domande, quel brutto pensiero.
Mi stropicciai gli occhi, appiccicosi come quelli di chi ha passato una notte insonne e simili a quelli di chi ha dormito sulla nuda terra, e mi armai di martello. Pezzi di porcellana rosa che fino a poco tempo addietro costituivano un porcellino-salvadanaio, erano sparsi sul pavimento.
 
Sapevo che i soldi un giorno mi sarebbero serviti, perciò li avevo tenuti sempre da parte, resistendo alla tentazione di acquistare ninnoli inutili nel primo negozio in cui mettevo piede. Non ero mai andata al centro commerciale con le mie amiche. Ma forse questo perché di amiche effettivamente non ne avevo neanche l’ombra. Non avevo mai speso un centesimo in vita mia, neppure per comprarmi un gelato nelle giornate estive o una cioccolata calda in quelle dicembrine. No, tutti i miei risparmi erano sempre stati lì, in quel maialino rosa acceso, inevitabilmente ormai in pezzi sul freddo pavimento gelato. Ma ormai avevo deciso. E non si può tornare indietro.
 
"Vendo" era un nome proprio strano per un negozio. Non si può sapere cosa mai si può trovare in un cadente botteghino polveroso e sporco con un’insolita insegna a neon ormai obsoleta e coperta da un dito di polvere. Sono sempre stati proprio quelli, i negozi che mi hanno sempre attirata, forse per la loro aria antica e preziosa o forse per l’anormalità in cui erano avvolti, quella sottile coltre di magia in cui erano immersi. Comunque sia, quella baracca in pezzi non stonava affatto nel centro commerciale, anzi, nell’atmosfera moderna, riceveva un pizzico di originalità in più delle solite e banali bancarelle variopinte. Non so come o perché mi ci ritrovai dentro, improvvisamente.
L’interno si addiceva proprio alla curiosa facciata esterna: perfino i vetri non erano più trasparenti, anzi, assumevano un buffo colorito arancio-marrone. Non dovevano essere stati lavati da anni.
Un signore calvo e con degli occhiali che gli coprivano tutto il viso, sedeva al bancone. Con voce decisamente ubriaca, tossicchiò un paio di volte prima di parlare.
- Posso esserti utile? - singhiozzò brillo.
Abbozzai un sorriso, sforzandomi di renderlo un po’meno falso e perverso.
- Grazie mille, ma sto solo dando un' occhiata. Se mi serve qualcosa la chiamo, non si preoccupi.
Dopo di che mi misi a frugare negli stracolmi cassetti pieni di cianfrusaglie di falsissima plastica.
C’era un orologio bellissimo, che sembrava quasi fatto di platino, da quanto brillava. Era ornato, ai margini del quadrante, con degli sfavillanti brillantini. Me lo rigirai fra le mani: non aveva un singolo graffio. Stavo quasi per acquistarlo, quando purtroppo, in un angolino, notai la comune scritta “Made in China”. Rimisi delusa l’orologio nel cassetto.
Qualcosa di utile lo trovai comunque. Dopo circa un quarto d’ora posai alla cassa un’originale bussola in metallo e vetro, una curiosa borraccia simile a quella dei beduini, fatta probabilmente con lo stomaco di una pecora e delle cartine del lago. Pensai saggiamente di cercare un’ultima volta, per sicurezza. In quel momento, scorsi un piccolo cassetto su una credenza in legno di ciliegio, che non avevo notato. Mi avvicinai, incuriosita dall’aria austera e semplice che possedeva. Tirai la minuscola maniglia d’ottone. Era chiuso a chiave. Disperatamente, non stando più nella pelle dall’emozione, cercai invano di forzare la serratura. Dopo qualche infruttuoso tentativo, mi arresi e mi diressi affranta verso l’ometto tossicchiante, proprietario del negozietto.
- Mi scusi, potrebbe cortesemente aprire quel piccolo cassetto? Sì, quello lì nell’angolo…
- Certamente, ma gli oggetti che sono lì dentro sono molto costosi.
Si fermo per tossire.
- Va bene, tanto per i soldi non c’è problema, ne ho una quantità.
Mi accorsi di aver fatto un errore dicendo quelle parole. Vidi infatti accendersi un avaro brillio negli occhi del furbo commerciante. Tirò fuori un piccola chiavetta ( in proporzione alla serratura del cassetto) che aveva appesa al collo e si avvicino a me con passo veloce, ma inciampando sui suoi piedi.
 
Dentro il cassetto, gozzoviglie varie trasbordavano dagli argini. A me parvero oggetti antiquati e privi di valore. C’era uno strano ciondolo dorato, con il vetro opaco, su cui era incisa con l’inchiostro viola una spirale. Il negoziante mi spiegò che un tempo era appartenuto ad un grande ipnotista. E infatti qualcosa di veramente ipnotico lo possedeva. Fissai attonita quello strano pendolo. L’effetto ottico era talmente forte che sembrava che la spirale si muovesse veramente. Mi faceva andare in confusione. Barcollando, frustrata da quel malefico aggeggio, lo rimisi senza esitazione nel cassetto.
Dopo qualche minuto, dopo aver scartato dal gruppo di cose utili per il mio viaggio un nave in miniatura imbottigliata e un rozzo astuccio in cuoio, ebbi una sorpresa inaspettata.
 
Arrivata a casa, mi rintanai in camera mia e chiusi la porta. Quella strana collana a forma di stella aveva un’aria davvero insolita, particolare, inusuale…
Insomma, era un oggetto strano, in apparenza completamente inutile, ma se lo comprai, ci fu veramente un motivo. Non era ipnotico come il ciondolo, ma aveva qualcosa di magico, che mi faceva avvertire un brivido lungo la schiena. Era antico, anormale, forse era un manufatto alieno. 
Già, non ci sono prove dell’esistenza di organismi intelligenti su altri pianeti. Mi domando che strana sensazione sarebbe incontrare il proprio clone, perfetto, identico, speculare. Forse sarebbe solo come guardarsi allo specchio o forse si avvertirebbe una morsa allo stomaco, al pensiero di possedere un gemello identico. Chissà quante altre persone hanno il mio stesso nome. Non ne ho la più pallida idea. Io comunque so, che laggiù, nell’universo infinito, c’è un’altra Lara. Mi immagino a sfiorarle le dita, a parlare con lei con gesti e segnali non capendo la sua lingua, ad osservare i suoi capelli biondi e stopposi identici ai miei …
Mi immagino a giocare a nascondino con lei, là, su una stella, abbagliate dalla luce della luna a guardare le galassie e i buchi neri, inventandoci avventure fantastiche da passare insieme.
E invece no, ciò non mi accadrà mai. L’altra me sarebbe la mia unica amica, ma in questo momento non ho neanche il sostegno morale di me stessa. Sono sola, sto per partire, per non ritornare, forse mai più e questo proposito, lo confesso, mi fa rabbrividire.
 
Mi piace viaggiare leggera, senza pesi che intralcerebbero soltanto. Nel mio unico zaino di tessuto giallo, ficcai dentro la mia T-shirt preferita, una felpa, un paio di pantaloni leggeri e dei pantaloni pesanti. In più stipai dentro tutti gli oggetti comprati da “ Vendo”. Ero pronta a partire. Scesi in cucina a prepararmi un panino al prosciutto: avevo molta fame.
Ma  il mezzo di trasporto!?
Ebbi un improvviso tuffo al cuore. Come avevo fatto a dimenticare una cosa così importante?  
Scesi svelta in riva al lago. La mia imbarcazione ( se così si può chiamare), era completamente a pezzi. Con quel rottame non avrei potuto attraversare neanche un metro quadrato d’acqua. Mi tolsi dalla testa l’idea di  poterla utilizzare e con questo proposito mi diressi verso casa.
Salii i gradini a quattro a quattro e arrivai in camera mia. Il suolo era ancora cosparso di cocci rosa. Mi avvicinai al portamonete e lo aprii. Tirai un sospiro di sollievo. Sì, i soldi bastavano. E soddisfatta mi diressi verso il negozio sportivo.
 
“Sport & Sport” diceva l’insegna. Era un negozio  moderno, pulito e splendente, non aveva nessuna somiglianza con l’antico “Vendo”, anche se aveva un nome meno originale.
Nella vetrina erano esposte tute subacquee, racchette da tennis e scarpe da calcio, ma ciò che mi colpì fu la canoa rossa fiammante, maestosa, che sembrava aspettasse proprio me. Entrai decisa.
- Ciao!
Dietro il bancone sedeva un giovinetto biondo, alto e con un perenne sorriso stampato sulle labbra carnose.
- Prendo quella canoa vermiglia, non mi interessa il prezzo.
Subito dopo mi accorsi che forse ero stata un po’scortese.
Il ragazzo gentile, mi disse cordiale che dal momento che ero solo una ragazzina e pagavo con i miei soldi, mi avrebbe fatto un buono sconto.
Ringraziai, imbarazzata: era la prima volta che qualcuno si comportava in un modo così spontaneo, naturale e dolce con me, ma quello strano formicolio che avvertivo era piacevole.
- Mi scusi, è possibile scrivere sulla fiancata della canoa una scritta? - domandai.
- Certamente - rispose quello, - ma cosa vuoi scriverci?
- La chiamerò Libertà - risposi fiera e orgogliosa.
 
Dopo due giorni, mi incamminai con la mia Libertà sottobraccio verso il lago.
Quando giunsi a riva, l’acqua era immobile e silenziosa, non c’era una sola onda, non l’esile testolina di un pesce d’acqua dolce increspava la quieta superficie.
In quel momento, solo in quel momento, mi venne un “ piccolissimo” dubbio.
Quella insignificante canoa (anche se per me aveva un valore affettivo inestimabile), sarebbe riuscita a farmi uscire incolume dal mio pericoloso viaggio?
Me ne tornai a casa, affranta. La mia voglia di avventura era alle stelle, ma non ero certo così ingenua da poter pensare di affrontare una traversata così lunga con una semplice canoa.
Arrivai a casa e mi chiusi  in camera, triste. Dal salotto arrivavano le grida dei miei fratelli, perennemente in litigio.
Chiusi gli occhi e stringendo il ciondolo a forma di stella che avevo attorno al collo, desiderai con tutto il mio cuore di diventare piccola piccola, così da non riuscire a vedermi, per sfuggire alle occhiate penetranti e di fuoco di parenti e conoscenti. Quando aprii gli occhi, il mio punto di vista era cambiato, ma cambiato completamente.
 
I mobili, attorno a me, si fecero improvvisamente enormi. Mi parve di precipitare, cadere giù, giù, giù. Tutto divenne così grande, immenso e gigantesco, che avvertii una forte nausea, mi sembrava che il mondo si fosse capovolto. Poi, mi accorsi dell’equivoco: non era la stanza ad ingrandirsi, ero io che mi stavo miniaturizzando a vista d’occhio. Dopo un paio di minuti divenni piccola come un chicco di caffé, ma non ero spaventava. Capii subito che quella trasformazione era merito della collana con la stella. Era magica, per questo mi aveva tanto attirata. Sorrisi, estasiata. Al mio collo, il ciondolo brillava di una luce nuova, diversa, da quella che aveva quando lo avevo comprato, più particolare, ma quel cambiamento la aveva migliorato, ora era ancora più bello, splendente e luminoso.
Stringendo la stella, desiderai di tornare alla mia grandezza originaria. E così successe: il ciondolo esaudiva i desideri.
In quel momento, un momento qualsiasi, come mille altri, davanti a me si spalancò una nuova porta, una nuova via. Con quel oggetto magico avrei potuto realizzare i miei obiettivi: Libertà, Avventura, MAGIA. E avevo già un’idea di come farli avverare tutti e tre insieme.
Mi diressi verso la cucina: era deserta. Sfiorai con le dita il mio piccolo sole e la mia canoa divenne microscopica: a stento si leggeva ancora sulla sua fiancata la parola Libertà. Posai l’imbarcazione su uno scaffale, di fianco all’acquario. Era un acquario grande, dall’acqua limpida e pulita, nel quale gli unici inquilini erano cinque pesci rossi: tre erano mastodontici e praticamente incolori, che nuotavano lenti come tartarughe di terra e quel loro andamento, quasi a rallentatore, dava loro l’aspetto di pesci stanchi, che sbadigliano. Gli altri due erano minuscoli e di un vivo rosso cremisi, con delle macchiette bianche sui fianchi. Piccoli, si muovevano veloci e con agilità, a scatti, sul fondale di sassolini blu cobalto, scoloriti dal tempo passato a mollo nell’acqua.
Aprii un cassetto e vi tirai fuori un sottile filo di nastro, colorato, leggero, ma molto resistente e ordinai alla collana di rimpicciolirmi.
Saltando agile, arrivai sopra il tavolino. Da quel punto di vista, la parete di vetro dell’acquario pareva un muro trasparente e non scalabile e gli innocui pesci sembravano degli squali affamati e pericolosi e i loro movimenti eleganti ed aggraziati sembravano sinistre e minacciose manovre. Dallo spavento quasi caddi dal tavolino di legno, ma poi mi ricordai che gli occhi miopi dei pesci non sarebbero riusciti a scorgermi.
Lanciai il nastro e lo agganciai saldamente alla liscia superficie di vetro spesso e resistente e con la canoa saldamente in mano e con stupefacente agilità, arrivai velocemente al capolinea. Sembrava avessi delle ventose sotto i piedi. Appoggiai la barchetta, carica di provviste anch’esse diventate piccole, sull’acqua agitata e tenendola ferma con una mano, mi ci sedetti dentro.
Ero molto emozionata, quello era l’inizio di un’avventura misteriosa, probabilmente mai vissuta prima dall’essere umano. E chi potrebbe biasimare questo proposito: non credo che qualcun altro abbia attraversato in canoa l’acquario dei propri pesci rossi.
Chissà, forse avrei trovato un tesoro o comunque qualcosa di speciale.
Sognando ad occhi aperti, fantasticando su cosa avrei potuto trovare, mi addormentai, sdraiata sull’imbarcazione, mentre mi lasciavo dolcemente trasportare, in balia delle ondine artificiali create inavvertitamente dal depuratore. Dondolavo, sognavo e non  mi curavo dell’ambiente circostante, cosicché non mi accorsi che stava completamente cambiando.
 
Quando mi svegliai, mi stropicciai gli occhi stanchi. Vedevo tutto sfocato, ma mi accorsi immediatamente, pur semicosciente, che nulla aveva più il colore blu oltremare dell’acqua torbida del quieto mare cristallino.
Aprii gli occhi di scatto. La barca era immobile, ancorata in qualche maniera ad una spiaggia.
I granelli sottilissimi e dorati, quando toccai incredula il suolo, si infiltrarono piacevolmente fra le dita dei miei piedi. Rimasi a bocca spalancata per lo stupore, fissando inebetita le palme da noci di cocco che crescevano rigogliosamente, fitte, sull’isolotto sperduto in mezzo all’acqua dolce.
Mi incamminai sbalordita da tutta quella natura incontaminata, da tutto quel verde spontaneo, dalla mancanza di vita umana, almeno in quella isola magica. Davanti a me, si ergeva una fitta boscaglia di piante tropicali, alcuni tipi non erano neppure segnati sui libri di botanica che, la sera, in mancanza di letture più adatte alla mia età, divoravo vorace, affamata di sapere.
 Era una vera e propria foresta pluviale in miniatura. Inspirai la pura freschezza di quel luogo. L’aria pulita mi penetrò nei polmoni, salmastra.
A quel punto, scrutando curiosa fra gli arbusti verdeggianti, vidi nell’ombra delle palme, una sagoma scura, semiumana, che si muoveva eretta su due piedi, anzi, correva, mi inseguiva. Mi misi a correre anch’io, spaventata da quella comparsa inaspettata. La creatura mi si avvicinò: aveva praticamente la mia altezza. Era una ragazza. Selvaggia, aveva i lunghi capelli castani scarmigliati, raccolti in una coda di cavallo sostenuta da un elastico di giunco, solido e pratico. Sulla schiena aveva una faretra di frecce costruite artigianalmente con rametti e selci.
Magra, slanciata, quasi ossuta a dire il vero. Possedeva un viso di forma molto allungata, con gli zigomi sporgenti e uno sguardo penetrante. Mi si avvicinò ancora, ancora di più, potei scorgere nei suoi occhi color castagna, un brillio di paura, ma la curiosità prevaleva sul resto delle emozioni. Mi tese la mano. La punta dei nostri indici si sfiorarono con timore. La ragazza mi rivolse una specie di sorriso, ma ritrasse svelta la mano, preoccupata.
- Dai, avvicinati.
Cercai di comunicare invano con la mia coetanea, credendola incapace di comprendere il mio linguaggio. Dal canto suo, essa mi guardava stranita, domandandosi, probabilmente, se per caso fossi impazzita. Infatti, quei gesti che facevo per farmi capire, dovevano essere proprio buffi. La ragazza si grattò pensierosa la testa, cercando di interpretare i miei assurdi segnali.
- Chissà se è diventata pazza per la fame…- si domandò a voce alta.
- Ma allora sai parlare!- esclamai stralunata.
- Ma certo che sì – rispose beffarda e notevolmente offesa la strana ragazza.
La guardai sbalordita e avvertii la sensazione di aver fatto una figuraccia.
Mi invitò a sedermi sulla sabbia e poi, perfettamente a suo agio, come se io non fossi lì ad osservarla e con magnifica abilità, accese un allegro e scoppiettante fuocherello, sfregando due bastoncini.
- Come sei finita qui? – domandai imbarazzata dalle mie stesse parole.
Lei sospirò, ma comunque rispose, con il volto in lutto, che era l’unica sopravvissuta ad un naufragio.
- Mio padre era un ricco mercante – mi annunciò tristemente – e io lo avevo tanto pregato di poterlo accompagnare, almeno una volta, in uno dei suoi fantastici viaggi in giro per il mondo. E fu l’ultima volta che lo vidi.
Una lacrima le sgorgò dagli occhi più salata dell’acqua marina, rigandole il viso. Lei, forte, se la asciugò con la logora manica della giacca di feltro, lurida e bucherellata.
- Ma bisogna dimenticare il passato – aggiunse, di nuovo col sorriso sulle labbra – e pensare al presente.
La guardai, ammirata dalla sua forza d’animo, continuando assorta ad ascoltare la sua tristissima storia. Raccontava meglio di un cantastorie.
Poi, fu il mio turno di raccontare la mia avventura e quando finii, lei mi chiese di portarla con me. Non seppi dire no, che, comunque, non rientrava nelle mie intenzioni: anch’io volevo che lei venisse con me, perché, con il suo caratterino completamente diverso dal mio, mi era stata immediatamente simpatica. La mia nuova amica mi guardò con gratitudine. Aveva bisogno di fare ritorno alla civiltà, entrare nel mondo dell’essere umano, non poteva più convivere solo con gli animali.
- Però, posso chiederti una cosa? – mi chiese speranzosa - Posso portare con noi Ananas?
E pronunciando queste parole, si ficcò le dita in bocca ed emise un lungo fischio. Svolazzando, dalla folta radura comparve un variopinto pappagallo, enorme, che le si posò con delicatezza, quasi da leggiadra rondine, sulla spalla.
La ragazza castana si alzò in piedi e mi strinse la mano.
- Piacere, Vanessa. - disse amichevolmente, scandendo bene le parole, fiera.
Rimasi subito colpita da quel nome, esotico, tropicale.
- Io sono Lara. Felice di conoscerti.
Non potei fare a meno di notare, affranta, l’enorme differenza tra i due nomi. Il mio suonava spento e scialbo, comune.
- E’ora di andare, lo sai. - le dissi, e lei, accarezzando per l’ultima volta la terra su cui era vissuta e cresciuta, mi seguì verso la mia modesta canoa, abbandonando, praticamente il Paradiso, per una comunissima giungla di cemento.
Vanessa si accomodò felice, con il fedele pappagallo Ananas sulla spalla e, così, partimmo.
Spinsi lentamente e con tutte le mie forze, la barca a pelo d’acqua, ed essa, partì dolcemente, dondolando.
- Hai fame? - domandai, tendendole una pesca rosata ed invitante.
Lei guardò il frutto, famelica, e poi, non resistendo alla tentazione, me la prese dalle mani, per poi addentarla con estrema voracità. Sembrava non mangiasse da tanto, tanto tempo.
- Questa pesca è uguale a quelle dell’albero di casa mia. - mugolò, con la bocca piena, - Me la ricordo, sai, la mia casa e anche i miei genitori. Mio padre era la persona più coraggiosa che io abbia mai conosciuto e mia madre era una mamma dolcissima, mi ricordo il tè al gelsomino che mi preparava quando stavo male…
Con queste ultime parole, si addormentò serena, sorridendo al piacevole ricordo dei suoi cari.
La guardai. Mi faceva tenerezza. Mi distesi sulla canoa anch’io e mi lasciai trascinare nel bellissimo mondo dei sogni, ingenua. E come avrei potuto sapere che la mia avventura non era ancora terminata, non ancora …
 
Dopo qualche ora, mi svegliai sbadigliando e subito mi balenarono in testa i fatti di quegli ultimi due giorni. Non stavo sognando: Vanessa mi stava scuotendo, nel vano tentativo di svegliarmi.
- Oh, no, sei una di quelle fastidiosissime persone mattiniere …
-E cosa ti aspettavi? Sono vissuta per ben cinque anni in un’isola popolata solo da bestie feroci, non potevo mica perdere tempo dormicchiando fino alle 9.00 di mattina, anche se avessi voluto.
- Forse hai ragione …
- Senza forse. Tu non sai cosa significhi vivere isolata, parlando solo con un pappagallo, per quanto amichevole e simpatico possa essere.
Non ebbi il coraggio di ribattere a tanta logica.
Per un po’continuammo a conversare, fino a quando non udimmo una forte scossa, e dall’acqua emerse la testa pezzata, enorme, di un pesce. Vanessa, con sangue freddo, si sfilò una freccia dalla faretra e tese l’arco.
- No! Ferma! Non puoi colpire i miei pesci rossi! - esclamai.
- O loro o noi - mi disse semplicemente, - non sono cattivi, questo lo so, ma non sanno quello che fanno.
E aveva ragione. Mi misi una mano davanti agli occhi mentre Vanessa scoccava tre frecce, abbattendo i pesci sbadiglianti. Quando aprii gli occhi, l’acqua era diventata vermiglia, rossa sangue, ma non sangue umano, ovviamente. Trassi un respiro profondo, per mantenere la calma, ma non ce la feci, ed urlai.
- Capisco il tuo dolore. Perdonami.
- So perché l’hai fatto, e sono d’accordo con te. – dissi, con il viso rigato dalle lacrime.
Almeno Vanessa aveva risparmiato i piccoli pesci cremisi, che si erano nascosti, spaventati ed innocui sul fondo dell’acquario.
 
Finalmente, dopo giorni e giorni, riuscimmo ad arrivare incolumi fino allo spesso vetro dell’acquario e quando uscimmo di lì, non ero mai stata così felice e avevo il terrore che fosse tutto un sogno, frutto della mia fervida immaginazione, ma non fu così.  Gli anni passarono. Io e vanessa vivemmo come sorelle e migliori amiche. Le trovai un rifugio dove stare: era un piccolo appartamento, con vista lago; lei era abituata ad arrangiarsi e a vivere da sola, e quindi si adattò in fretta. Io ogni pomeriggio, quando finivo la scuola, andavo a trovarla: parlavamo un po’ e poi io, senza però alcun successo, tentavo invano a insegnarle a leggere e a scrivere, ma lei, completamente analfabeta, non capiva nulla di tutto ciò che dicevo e mi  sembrava sempre che non mi desse neanche retta. Poi era il suo turno di insegnarmi a tirare con l’arco, ma senza alcun miglioramento, come i miei tentativi di renderla più colta. Insieme combinavamo scherzi di tutti i colori: ci divertivamo come non mai insieme e per la prima volta in vita mia mi sentivo felice. Crescevamo come due ragazze normali, e ormai l’isola di Vanessa veniva appena accennata e basta: era un ricordo passato. Non accadde più niente di così simile all’impossibile, fino a quando, in un negozio…
 
Vanessa mi stava aspettando lì fuori, vicino alla tenda dello sporchissimo camerino.
- Ma uffa, quanto ci metti!
-  Mi dispiace, ma questa è la prima volta che vado a fare shopping con le amiche, devo rifarmi. Ti prego, porta ancora un attimo di pazienza! – cercai di convincerla.
- Sì, perché nelle isole deserte è pieno di negozi d'abbigliamento, no?
Feci finta di non ascoltare le sue verissime parole, e continuai ad osservare il vestito turchino che indossavo, che mi donava particolarmente. Strano, perché, con i miei occhi di una tonalità grigio-verde e i miei capelli color acqua di palude, a parte la mia ribelle T-shirt rossa con la scritta             “ Questa maglietta è nera” e i soliti jeans con i buchi appositamente architettati da me, nessun abito mi stava veramente bene.
Il camerino in cui mi trovavo era minuscolo e su tre lati su quattro era specchio.
Se mi osservavo, mi vedevo moltiplicata per infinite volte, c’erano un mondo di ragazze uguali a me, che compivano i miei stessi identici movimenti. Mi tornarono in mente i ragionamenti che avevo fatto poco tempo prima, su dei cloni alieni uguali a me. A questo pensiero, sorrisi, accorgendomi di quanto fossi cambiata grazie alla comparsa di Vanessa. Ricordai, in pochi secondi, la mia avventura nell’acquario dei pesci rossi, il mio primo incontro con Vanessa, il nostro breve dialogo imbarazzato.
Quando mi risvegliai da quella breve trance, mi ritrovai, davanti allo specchio, bella. Mi osservai più attentamente, confusa. Capelli biondi e lunghi e occhi color sabbia? Chi era la ragazza alta e slanciata che mi era davanti?
Mi accorsi che l’espressione che aveva era tutto il contrario che felice. Aveva uno sguardo caldo, che però si stava lentamente spegnendo nel gelo dello specchio. Era spaventata, mi guardava implorante, batteva a pugni chiusi sulla liscia superficie di vetro riflettente. Respirava affannosamente. Dalla sua bocca uscivano mugolii confusi e nuvolette che appannavano il vetro per l’improvviso freddo, perciò, la sfortunata sconosciuta cercava invano di scaldarsi con la forza d’attrito, strofinandosi il corpo snello con le scheletriche braccia. Non potevo lasciarla lì. Un brivido gelido mi corse lungo la schiena: dovevo di nuovo avere la responsabilità di qualcuno. Rivolsi alla ragazza un ultimo sguardo da “ Che Facciooo?!” prima di uscire svelta dallo spogliatoio.
- Oh, finalmente sei uscita!
Vanessa mi urlava dietro, spazientita.
- Scusa, ma non è proprio il momento: è questione di vita o di morte!
- Scusa, ma non credi di esagerare? Quel vestito non ti sta poi così male!
Andai avanti. Avrei raccontato dopo a Vanessa cosa avevo visto.
Accelerai il passo e poi, vidi finalmente ciò che faceva al caso mio.
Mi chinai e raccolsi con fatica il pesante ferma porta di sasso decorato con dei tulipani incollati accuratamente e tornai al camerino, in cui entrai lesta.
- Aspetta ancora un attimo! – dissi a bassa voce, più per tranquillizzare me, che la ragazza.
Alzai il sasso e prendendo la rincorsa, lo lanciai contro il vetro.
Udii un suono pietrificante, come un urlo, sembrava il suono di cento aghi che cadono per terra contemporaneamente, stridulo e acutissimo, ma è difficile descrivere un rumore così inusuale e terrificante. Poi, immediatamente, captai che qualcosa di fragile si era rotto e poi un tonfo sordo. Mentre i cocci di vetro schizzavano via, mi coprii il viso con le braccia. Quando mi liberai il volto incolume, vidi la ragazza stesa in terra, si teneva le mani al collo, sembrava fosse la prima volta che riusciva a respirare. La guardai, in preda al panico.
- Grazie – furono le uniche e lente parole che riuscì a pronunciare, dopodichè, svenne.
Spostai con delicatezza i frammenti di vetro dal suo viso e poi la cominciai a scuotere, credendola morta.
- Dai, svegliati! – tentai, ma senza buoni risultati.
Le poggiai l’orecchio al petto: il cuore batteva regolare, come dei tamburi all’unisono in una musica jazz. Sospirai di sollievo.
Varcai con la testa la tenda del camerino.
- Vanessa – urlai – portami dell’acqua!
- Ma guarda che se hai sete l’acqua te la puoi prendere da sola. – disse offesa.
- Ma no, l’acqua non è per me! Se vieni dentro ti faccio vedere.
Lei entrò, pensierosa.
- Lara, secondo me tu hai qualcosa che non…
 Ma quando vide la ragazza stesa in terra, immobile, che respirava a fatica, si bloccò.
- Chi è quella?! – urlò spaventata, indicando il corpo immobile della sconosciuta.
- E’ una lunga storia. – dissi ferma. – ti spiegherò tutto dopo, se hai un po’ di pazienza. Adesso va a prendere dell’acqua e non discutere come al solito.
Dissi così, ma Vanessa comunque non avrebbe potuto obiettare: era rimasta paralizzata e non riuscì a spiccicar parola. Uscì dal camerino, sbalordita e con la bocca aperta per lo stupore.
 
Quando rientrò teneva in mano una brocca colma d’acqua cristallina e aveva ancora dipinta sul volto una maschera di paura e di incomprensione. Io prontamente le strappai la caraffa di mano e la rovesciai addosso alla sconosciuta. Lei subito si sveglio, fradicia, e ansimando. Mi guardò inerme. Non aveva più occhi vacui, ma uno sguardo alle che sprizzava felicità da tutti i pori. Da sdraiata, mi buttò le braccia al collo e quasi mi strozzò: sembrava esile e delicata, ma aveva la forza di un uomo adulto.
Appena riuscì di nuovo a respirare, guardai Vanessa; mi sembrava sospettosa. Poi riguardai la ragazza bionda.
 - Chi sei?
Era una domanda un po’inadatta alle circostanze parecchio strane, ma lei, cordiale, rispose ugualmente al mio interrogatorio.
- Sono Silvia - disse, e quelle parole, dette con tanta sicurezza, mi ricordarono per la seconda volta in pochi minuti il mio incontro con Vanessa.
“Accidenti!” pensai, “Qui hanno tutti nomi meravigliosi a parte me.”
Scacciai questo strano pensiero dalla mia testa occupata da mille altre preoccupazioni e ritornai a parlare con Silvia.
- Come sei finita dentro allo specchio?- Ero a disagio.
Lei si guardò intorno guardinga e alla fine disse:
- Non qui. Siamo osservati.
E detto questo uscì dal camerino come se nulla fosse e si diresse all’uscita del negozio. Io e vanessa la seguivamo mute, scambiandoci eloquenti sguardi interrogativi.
 - Dove possiamo andare a parlare in pace? – domandò Silvia.
Ci riflettei un poco, poi iniziai tranquilla a camminare verso casa, consapevole che lì nessuno sarebbe mai venuto a cercarmi.
Quando ci arrivammo, Silvia si sedette sul mio letto e cominciò a raccontare.
- Fui imprigionata… - cominciò a dire.
- E da chi? – chiesi curiosa e stupita, ma Vanessa mi azzittì portandosi un dito alla bocca e sussurrandomi di non interrompere più il racconto.
La ragazza continuò.
- Fui imprigionata – riprese, - da una strega malvagia di nome Oscura. Anch’io sono una strega e più precisamente la regina del regno. E questo spiegava la strana tiara d’oro che solo ora avevo notato sul suo capo.
Non aveva un tono orgoglioso o vanitosa, semplicemente diceva la verità, anche se una punta di nostalgia o, chissà, forse rimpianto si udiva nelle sue parole.
Riuscii a stento a soffocare un singulto di stupore, come Vanessa, del resto, sapendo di parlare con una maga, e regina, per di pi, cosa che accresceva, se possibile, l’incredibilità dell’affermazione.
- Ma io sono una strega buona e che ha pochissimi poteri,che tutti, anche le streghe più negate posseggono, ma ugualmente la strega nera mi rinchiuse in uno specchio, perché non voleva che nessuna persona con poteri magici ostacolasse il suo desiderio di possedere il trono del regno di Gaia. Ero lì imprigionata da parecchi anni e l’incantesimo della strega narrava che solo una strega di incredibile potere e dai capelli d’oro avrebbe potuto salvarmi. E così è stato.
Detto questo si inginocchiò per terra e si inchinò davanti a me. Il mio stomaco si contrasse e fece una capriola. Per la potente fitta mi piegai un poco, nauseata.
- No, ti prego, mi metti in imbarazzo, su alzati. E poi, io, una strega? E coi capelli d’oro per giunta?
Mi lisciai con le dita i miei capelli di paglia,  nuovamente a disagio.
- Tutto quello che vuoi – disse Silvia, e si alzò dal pavimento. –mi hai salvato da quel luogo orribile, ti devo il mio più grande rispetto.
- Ma io non sono una strega! – urlai, quasi arrabbiata.
- E allora mi vuoi spiegare come hai fatto a rimpicciolirti fino ad entrare nell’acquario, quando hai incontrato Vanessa? - mi interrogò Silvia, che  inaspettatamente sapeva del mio viaggio perché aveva la facoltà di conoscere il passato e il futuro di ogni persona.
- Avevo un ciondolo magico… - mugolai, ma mi zittii e lasciai che parlasse lei.
- No - continuò, - la collana non era magica. Era un semplice ciondolo di vetro e non aveva alcun potere. Eri TU che gli conferivi la magia, anche se a tua insaputa.
E si inchinò nuovamente a me.
Troppe emozioni per me… mi poggiai sul sofà polveroso, e con il cuore in gola mi addormentai.
Dopo, probabilmente ore, che mi sembrarono pochi minuti, mi svegliai e vidi il viso di Vanessa davanti a me. La abbracciai.
 - Oh, non sai che sogno terribile e strano ho fatto. Io e te eravamo al centro commerciale e poi…
Vidi Silvia in un angolo della mia stanza e urlai. Lei rimase impassibile, mentre invece Vanessa mi dette uno schiaffo. Smisi immediatamente di gridare e mi ammutolii d’improvviso.
- Smettila di urlare! - mi aveva intanto ammonita Vanessa, ma non ce n’era bisogno: ormai non avevo più fiato in gola e ogni tentativo di spiccicar parola era vano.
Silvia arrivò accanto a me e mi si accoccolò vicino. Sussurrando piano, probabilmente un incantesimo, mi persuase a mettermi a sedere sul freddo pavimento di legno e mi sentii quasi rilassata.
- Grazie - riuscii a dire, ma subito lei cominciò:
- Se ora sei riuscita a riprenderti dallo shock, posso chiederti un immenso favore, a nome anche dei miei fedeli sudditi, che non si sono sottomessi al volere di  Oscura. Anche perché appartieni tu stessa al popolo delle streghe, devi aiutarmi con la tua magia a liberare il regno di Gaia.
Io annuii, attonita e spaventata dall’autorità della nuova venuta. E poi, più consapevole delle mie azioni, anche se ancora sotto incantesimo dissi:
 - Ti aiuterò. Anche se fatico a crederlo, appartengo al tuo popolo, e non lascerò che la nostra razza cada sotto il dominio di Oscura.
 C’era sicurezza nei miei verbi, nei miei movimenti, e, per una volta nella vita, sentti di essere l’unica a poter prendere le redini di leader. Queste furono la parole più solenni e più determinate che io avessi mai pronunciato da quando avevo imparato a parlare. Mia madre mi raccontava sempre di quale sciocca e strana neonata fossi stata.
- Facevi cose strane – quasi sempre spaventata o allarmata al solo ricordo. La mia prima parola non fu “mamma”, come tutti i bambini del mondo, ma anzi fu proprio “ma…gia”. Sicuramente non una cosa normale per una dolce e minuscola infante gracile e fragile, come rimarcava sempre quella esagerata della mia timorosa madre.
Il sorriso di Silvia mi riportò alla realtà, allontanandomi da  strani ricordi sfuocati. Un sorriso caldo, solare. In esso vidi riflesso anche quello di tutte le streghe che stavo salvando e mi sentii colma di gioia e di coraggio.
Tesi una mano aperta davanti a me e gridai:
- Per quanto potrà essere difficile… - ma non riuscii a trovare parole abbastanza adatte a quella circostanza importante, ma ugualmente le altre due capirono immediatamente. Sentivo già un’amicizia speciale che andava via via formandosi…
Subito Silvia aggiunse anche la sua mano, sempre sorridendo gioiosa e confortante.
Infine anche Vanessa, benché un po’incerta, aggiunse la sua mano. Sentivo che il cuore mi esplodeva di gioia e di felicità: ero una strega ( e la più potente!!!), stavo per salvare Gaia, con le mie due amiche, e soprattutto stavo vivendo un’alta emozionante avventura senza fine.
- Partiamo ora.- annunciai.
- E si può sapere come ci arriveremo? - Vanessa mi pareva nervosa.
- Con il teletrasporto. Io non possiedo questa facoltà, ma tu Lara sì.
Un’altra scoperta strabiliante.
Sorrisi al pensiero di possedere anche questo potere, ma allontanai preoccupata un sottile velo di malizia, che non mi apparteneva.
- Non nascondere il tuo orgoglio – mi disse Silvia, - non ne hai bisogno. Sei una strega coraggiosa ed intrepida, e un pizzico di vanità è naturale, da parte di chi ha appena scoperto di possedere tutti i poteri del mondo.
Arrossii.
- Scusa, puoi fare a meno di leggermi nel pensiero? Mi rende nervosa il pensiero che tu possa percepire tutti i miei ragionamenti segreti.
Silvia annuii. E poi col suo sguardo di ghiaccio, ci comunicò silenziosamente che era giunta l’ora di partire. Una forte emozione mi catturò. Il mio cuore esplodeva in milioni di battiti, mi pareva che potesse scoppiarmi in petto da un momento all’altro.
- Attaccatevi al mio braccio - le parole mi uscirono involontarie della bocca.
Al che, le mie amiche, mi si aggrapparono saldamente. Chiusi gli occhi e pensai ardentemente a dove volevo andare.
- Gaia, Gaia, Gaia,… - mi ripetevo in continuazione, nella testa, e continuai così per almeno cinque minuti.
Ma quando aprii gli occhi, ero nuovamente nella mia cameretta spoglia.
- Non essere affranta - mi rassicurò Silvia, - è la prima volta che provi compiere una magia volontariamente, e nulla riesce al primo tentativo.
Mi sentii più vigorosa, e ricominciai pensare ancora con più convinzione al regno di Silvia.
E aprendo gli occhi, mi trovai a piedi scalzi sulla sponda di un laghetto dall’acqua gelida, che mi bagnava fino alle caviglie. Era piccolo, e magico; l’acqua era immobile e cristallina, e mi parve che neanche l’incidente di una petroliera avrebbe potuto inquinare tanta bellezza e tanto splendore
Tutto intorno vi era una fitta foresta di aloe, cocchi e altre piante tropicali.
Mi girai verso le mie due accompagnatrici.
- Ce l’ho fatta! – continuavo a gridare, entusiasta.
Vanessa sorrideva. Ma mi accorsi che qualcosa attorno a noi, si muoveva. Era un  qualcosa di alto e snello, che si muoveva guardingo in mezzo alla boscaglia.
Poi però, qualcosa lo colpì, e uscì allo scoperto.
- Regina Silvia! - gridò, e si avvicinò a noi. Era sbalordito, dalla sua espressione pareva non credere ai suoi occhi.
- Ciao Manuel … - ma il ragazzo non la lasciò parlare.  Il suo volto era estasiato, ma allo stesso tempo cercava di contenere la felicità per… Cominciare a raccontare tutte le sciagure che stavano accadendo a Gaia, di quanto stesse sfruttando il popolo delle streghe e anche il suo…
- Il tuo popolo? – domandai.
Lui finalmente si accorse di noi due, che prima non aveva visto per l’eccitazione, e ci fece un inchino aggraziato.
- Non sono un essere umano, - pronunciò quella parola quasi con disprezzo, e sembrava molto offeso che io e Vanessa non avessimo notato la differenza.- e non sono neanche dotato di magia ( le streghe sono tutte femmine).
Silvia ci disse che nel suo regno vivevano anche altre popolazioni e io già mi immaginavo quali altre fantastiche creature vivessero in quel posto magico e mi sentivo scoppiare di curiosità e impazienza.
- Appartengo alla tribù degli elfi – annunciò infatti, e così dicendo si spostò i lunghi capelli castani dal viso, scoprendo due grandi orecchie a punta. Non riuscii a trattenere un’esclamazione, da quanto ero stupita, e come avrei potuto non esserlo! Gli elfi. Credevo fossero creature mitologiche, ma non lo dissi: certo, dopo aver parlato con una strega, e addirittura essendo io stessa una maga!
 
Piano piano, mi accorsi stranita che Manuel e Vanessa si lanciavano strane occhiate d’intesa, ma appena si accorsero dei miei occhi puntati su di loro, lo distolsero immediatamente. Anche Silvia sicuramente se ne era accorta, ma, come me, preferiva tacere per non entrare in conversazioni imbarazzanti.
Passammo la serata al limitare di un bosco a parlare: inventare strategie contro la malvagia strega Oscura ci parve  anche se incoscientemente secondario e pensammo di discuterci con più calma – in fondo, avevamo appena conosciuto Manuel. Parlammo invece dei nostri luoghi d’origine; Vanessa raccontò della sua esperienza nell’isola deserta e noi, dopo averla ascoltata, raccontammo ognuno della nostra casa e delle persone che vivevano con noi.
Quando finii la descrizione della mia famiglia, Manuel e Silvia non si trattennero dal ridere. Li guardai sconcertata, mentre loro due, dalle risate, avevano le lacrime agli occhi.
- Si può sapere cosa ci trovate di così esilarante? – ero offesa dalla risata inaspettata.
Silvia si asciugò una lacrima e tornò seria.
- Mi dispiace, - disse, - ma sentendo con quali strane creature convivi, non abbiamo resistito…
E giù di nuovo a ridere.
Strane creature? I miei genitori e i miei fratelli? Ed erano un elfo ed una strega a dirlo?
Mi sentii ribollire di rabbia, e probabilmente diventai tutta rossa, perché le risate si placarono.
- Che c’è? – L’indifferenza di Manuel fu la goccia che fece traboccare il  vaso.
- Vado a farmi un giro -  sbottai, e mi allontanai. Dietro a me si ergeva un silenzio, appena appena rotto dal bisbigliare sommesso di Silvia e Manuel.
Ma perché mi sembrava tanto importante difendere la mia famiglia? Sì, proprio loro, che mi avevano ignorato e si erano presi gioco di me e dei miei sentimenti. Mi accorsi che volevo loro ben in fondo. Solo un pochino, anche se avrei preferito mangiare uno degli intrugli rigurgitanti che Manuel aveva preparato con bacche e radici mentre eravamo attorno al fuoco.
 
Camminai per non so quanto tempo. Ma non ero stanca, non sentivo dolore, ma solo la rabbia che non si raffreddava, ma mi restava lì, nel cuore, pesante e camminare mi sbollentava e riduceva, anche se in quantità minima il mio rossore purpureo. Arrivai al laghetto sul quale eravamo atterrati, e tuffai brusca i piedi in acqua.
Come avevano potuto offendermi in quel modo? E nuovamente sentii di provare odio per quelle due persone. Mi accoccolai in riva al lago. Avevo i piedi congelati, ma grazie al gracidio sommesso dei rospi, ugualmente riuscii ad addormentarmi, con gli occhi colmi di lacrime amare che non volevano scendere.
 
La mattina mi svegliai, alla prima luce del sole. Avevo il corpo indurito e i capelli adorni di foglie. Mi alzai in piedi e, barcollando dal sonno ripresi la direzione verso il nostro accampamento. Speravo ardentemente che quei due si fossero preoccupati vedendo che non tornavo, e dentro di me c’era il forte desiderio di fare pace con loro.
Il ritorno al campo fu quasi allegro; tutto attorno a me si ergevano piante dagli alti fusti, che all’andata, per la mia arrabbiatura non avevo notato, e l’aria era popolata di squittii, e cinguettii di strane specie di minuscoli uccelli variopinti. Il sentiero era largo, solcato dalle ruote dei carri, e in terra battuta e spaccata dal sole cocente. Dal caldo una goccia di sudore mi imperlò la fronte: strano, era autunno, e per terra il suolo era cosparso di foglie morte.
Giunsi al campo e restai di sasso. Il fuoco era freddo e i giacigli abbandonati. Tutto era coperto da una sottile coltre di magia nera e non si udiva alcun rumore, a parte il leggero gracchiare di un corvo appollaiato sinistramente sul ramo di una quercia secca.
Non potevano avermi abbandonato. No, non l’avrebbero fatto, anche se avevamo avuto una discussione. C’era un’unica spiegazione: dovevano essere stati rapiti da qualcosa di malvagio.
Improvvisamente, il corvo ammutolì il suo lamento. Tutto taceva. Un brivido gelido mi pervase e mi congelò la spina dorsale, ormai interamente paralizzata dall’assurdo terrore cieco. Sentii un rumore inquietante, e mi girai di scatto. Sì, c’era, l’avevo udito sottile sottile, ma esistente e non frutto della mia immaginazione presa in ostaggio dalla paura folle. E poi lo vidi.
Nell’angolino buio, tenebroso, quella piccola figurina maligna e silenziosa acquattata nell’ombra, stranamente respirava. Quel ammasso denso e fluttuante di ectoplasma respirava veramente, come respirano le creature prive di vita, in un uggiolio straziante e ansimante.
I buchetti concavi, quali gli occhi, in mancanza di palpebre, restavano ininterrottamente spalancati, aggiungendo all’ immagine, già terrificante, un aspetto ancora più inquietante. Mi rammentai di possedere una torcia: la sfilai con cautela dalla tasca e la puntai contro di esso. L’essere assorbiva la luce. Feci gesto di scappare. Silenziosamente, feci dei passi all’indietro, fissando sempre con raccapriccio quella figurina semitrasparente. Non avrei dovuto farlo. Non dovevo farlo. Troppo tardi, era giunta la mia ora. Un bastoncino, sotto il mio piede, scricchiolò in un debole fruscio. Anche solo con quel lieve rumore appena udibile, il fantasma si destò. Vidi comparire nelle orbite nere e vuote degli occhi, le pupille rosso fuoco, indiavolate, rabbiose. Ero semplicemente spacciata. Il fantasma si diresse verso di me. Mi attraversò il corpo con il suo, totalmente inesistente e praticamente invisibile. Mi paralizzai dalla testa ai piedi. Caddi in ginocchio. Il mio respiro si fermò. Sentivo il mio cuore continuare instancabile a battere, sempre più debole. Si fermò improvvisamente. Dopo di che, non sentii più nulla.
Dopo pochi secondi, ma forse ore, mi svegliai. Il fantasma era lì di fianco a me, mi fissava, mi scrutava con quella sua occhiata perfida. Gridai. O forse pensai di farlo e stetti invece zitta. Ma comunque mi alzai in piedi e iniziai invano a correre, e mai, mai, corsi con tanto affanno come quel giorno, mai ebbi la sensazione così incombente di urlare. Di nascondermi. Ma il fato aveva deciso di essermi nemico. Rovinai a terra: stupido sasso a punta. Attorno a me, sangue. Mio? Non lo so, ma ne avevo fradice le mani, e pian piano che arrancavo sul suolo ghiacciato lasciavo dietro a me una scia macabra di liquido rosso, e non si trattava di certo di succo di ciliegia. Tutto era zitto, a parte il mio cuore, che mi esplodeva in petto, scoppiava dal terrore, dalla pazzia di quel momento. Il peggiore della vita mia. E il cuore cessò il suo suono. Sicuramente non fu così, ma non feci più caso la suo battito: ero troppo impegnata a tentare di svegliarmi da quel sogno orrendo. Mi pizzicai un braccio e urlai di dolore. Non era un incubo era realtà. Mai più. Mai più mi sarei svegliata. Mai più. Mai più non avrei sentito il canto del gallo. Finiva lì, la mia corsa. Il destino aveva deciso di farmi finire lì. Ecco a voi la fine di Lara, adolescente incompresa. Basta , basta! Testa che scoppia, orecchie pulsanti. Riuscii a captare il mio respiro affannoso, e poi… eccolo lì. Davanti alla mia faccia l’essere spettrale si ergeva in tutto il suo tetro volto inumano, assassino. Porse avanti a me una… mano. Sì, capite cosa intendo. Una specie di sporgenza dal resto dell’ectoplasma, che possedeva delle dita. Mai vidi unghie così affilate, taglienti e sporche di sangue. Sembrava uccidesse una povera vittima innocente ogni sera. Da quanto eravamo fermi così? Non ne ho idea, ma io ero paralizzata sul terreno, inerme, mortalmente pallida di orrore. E la creatura diabolica, con quelle sue unghie terrificanti, si sporse sempre più verso me, mentre io arrancavo. Lui aperse la bocca, e in ululo si allontanò a me di qualche metro. Io, che ancora percepivo l’ormai inesistente fiato putrido del fantasma, feci ricorso ad ogni mia forza e mi eressi in piedi.
- Tu! - urlai, inconsapevole di quello a cui stavo andando in contro. - Dove hai portato i miei amici?
Il fantasma parve stupefatto, e con la sua voce roca e flebile, tipica dei non viventi, mi parlò.
- Chi sei, straniera? Tu che osi parlare al mio cospetto senza inchinarti a esseri superiori a te?
I suoi gemiti erano pietrificanti, ma ormai non avevo più paura.
- Dove hai portato i miei amici? - insistei col dire.
Lui, sul momento, parve zittirsi, ma poi continuò il suo monologo spaventoso.
 
 

Mi ero finalmente liberata da me stessa. La nuova Lara era fiorita. Non avevo più paura: avevo il mondo in tasca. Potevo fare quello che volevo, senza temere nessuno. Il quartiere doveva prepararsi a ricevermi completamente cambiata. Per prima cosa, niente più passeggiatine nel parco. Non da sola, perlomeno. Mi sarei trovata delle nuove amiche. Ecco la scelta giusta: un metodo sicuro ed efficacie. Ci sarei riuscita: il mio nuovo io avrebbe sbalordito tutti, me stessa compresa.
Però, proprio in quel momento mi accorsi dello sbaglio che avevo fatto da sempre: l’unica cosa di cui avevo avuto paura da tempo immemore, ero sempre stata, solo e soltanto io.
Avevo paura di me stessa, di non essere perfetta, di essere sempre bersaglio dell’ilarità di tutti per le mie stravaganze ed il mio carattere particolare..
Tutto questo non sarebbe successo più, no di certo.
Dopo tanto tempo, sorrisi. Non me ne resi neppure conto. Il mio viso si contrasse in un solco profondo di chiara felicità. Volevo andarmene, scappare. Decisi che volevo ribellarmi, e quale modo migliore di scappare di casa! Volevo andare lontana, forse, addirittura, se fosse stato possibile, viaggiare in altri mondi.
Tutte le riflessioni che avevo fatto un attimo prima, mi parvero subito incredibilmente stupide.
 Ma non era ancora il momento. Avrei aspettato un po’, il tempo per organizzare tutto in grande.
Era tutta la vita che non spendevo un centesimo dei miei soldi e settimana dopo settimana, paghetta dopo paghetta, avevo racimolato una piccola fortuna. Pensai con gratitudine ai miei adorati nonni. Erano le uniche due persone che mi capivano. Per prima cosa, prima di fuggire, sarei andata a salutarli per un’ultima volta. Loro avrebbero capito i miei sentimenti confusi, ne ero certa.
 
Quella notte non dormii: progettai la mia fuga. Era tutto perfetto, finalmente sarei evasa da quel posto che, non so perché, mi ostinavo a chiamare casa, ma che in realtà era una prigione; l’unica differenza era che almeno lì non c’erano i lucchetti alla porta e le sbarre alle finestre. Ma era ugualmente un carcere ai miei occhi: chiusa lì, perennemente al buio, con come uniche amiche le furtive e minuscole creature che rimanevano acquattate nell’ombra del mio letto, in cerca di un rifugio.
Ormai sapevo come me ne sarei andata: vivevo sulla sponda di un bellissimo lago dall’acqua cristallina,che sognavo da anni di attraversare, ma non mi era concesso. Non mi mancava nulla: ora avevo grinta a volontà per soddisfare qualsiasi mio progetto e come mezzo di trasporto avrei dato un paio di aggiustatine alla logora e muffita barca con le travi marce che era ancorata sulla riva del lago ormai da parecchi mesi, popolata di topi e piccoli rettili.
Lentamente però, nella notte senza luna, sentivo gli occhi pesanti, e all’alba non ce la feci più. Mi addormentai con la testa china sulle carte nautiche e su quella della rosa dei venti. Nessuno venne a svegliarmi, perciò rimasi lì addormentata, in balia dei sogni, infervorata dai miei desideri di avventura, di conoscenza, di sapere.
Mi risvegliai dal mio sonno movimentato da insensati sogni, tardi, molto tardi. Alzai in un movimento molto ingenuo la testa. Un dolore atroce mi assalì. Avevo la spina dorsale completamente paralizzata e le gambe aggranchite. Mi alzai in piedi e mi stiracchiai un  attimo, dopodichè, sfinita, mi gettai sotto le mie morbide coperte fresche, che non avevo toccato per tutta la mia notte praticamente insonne.
Non feci neanche in tempo ad addormentarmi, che, dopo un secondo netto, una voce roca e decisamente amareggiata filtrò dalla spessa, chiusa, porta di mogano.
- Svegliati, il sole è già sorto da un bel pezzo.
Non risposi. Quel tono non mi piaceva affatto e non aveva assolutamente niente di dolce. Mi alzai a malincuore: mi era passata la voglia di vivere. E già da un bel pezzo, anche.
Fuori pioveva. La scuola mi attendeva per cominciare un altro monotono lunedì mattina.
Non me la sentivo proprio di andarci. Decisi che avrei marinato la scuola. C’è sempre una prima volta per tutto e poi non avevo paura. Niente mi importava più ormai, e, in fondo, avrei avuto un'intera giornata libera da passare per me. Esclusivamente per me. Solamente per me. Totalmente per me. Completamente per me. Avrei comperato l’occorrente per cominciare il mio impervio e periglioso viaggio verso la felicità. Sì, sarei stata felice un giorno. E se non fosse stato così per qualche oscuro motivo? Tutte le mi fatiche sarebbero state inutili? Cacciai dalla mia mente offuscata da mille idee, progetti, domande, quel brutto pensiero.
Mi stropicciai gli occhi, appiccicosi come quelli di chi ha passato una notte insonne e simili a quelli di chi ha dormito sulla nuda terra, e mi armai di martello. Pezzi di porcellana rosa che fino a poco tempo addietro costituivano un porcellino-salvadanaio, erano sparsi sul pavimento.
 
Sapevo che i soldi un giorno mi sarebbero serviti, perciò li avevo tenuti sempre da parte, resistendo alla tentazione di acquistare ninnoli inutili nel primo negozio in cui mettevo piede. Non ero mai andata al centro commerciale con le mie amiche. Ma forse questo perché di amiche effettivamente non ne avevo neanche l’ombra. Non avevo mai speso un centesimo in vita mia, neppure per comprarmi un gelato nelle giornate estive o una cioccolata calda in quelle dicembrine. No, tutti i miei risparmi erano sempre stati lì, in quel maialino rosa acceso, inevitabilmente ormai in pezzi sul freddo pavimento gelato. Ma ormai avevo deciso. E non si può tornare indietro.
 
"Vendo" era un nome proprio strano per un negozio. Non si può sapere cosa mai si può trovare in un cadente botteghino polveroso e sporco con un’insolita insegna a neon ormai obsoleta e coperta da un dito di polvere. Sono sempre stati proprio quelli, i negozi che mi hanno sempre attirata, forse per la loro aria antica e preziosa o forse per l’anormalità in cui erano avvolti, quella sottile coltre di magia in cui erano immersi. Comunque sia, quella baracca in pezzi non stonava affatto nel centro commerciale, anzi, nell’atmosfera moderna, riceveva un pizzico di originalità in più delle solite e banali bancarelle variopinte. Non so come o perché mi ci ritrovai dentro, improvvisamente.
L’interno si addiceva proprio alla curiosa facciata esterna: perfino i vetri non erano più trasparenti, anzi, assumevano un buffo colorito arancio-marrone. Non dovevano essere stati lavati da anni.
Un signore calvo e con degli occhiali che gli coprivano tutto il viso, sedeva al bancone. Con voce decisamente ubriaca, tossicchiò un paio di volte prima di parlare.
- Posso esserti utile? - singhiozzò brillo.
Abbozzai un sorriso, sforzandomi di renderlo un po’meno falso e perverso.
- Grazie mille, ma sto solo dando un' occhiata. Se mi serve qualcosa la chiamo, non si preoccupi.
Dopo di che mi misi a frugare negli stracolmi cassetti pieni di cianfrusaglie di falsissima plastica.
C’era un orologio bellissimo, che sembrava quasi fatto di platino, da quanto brillava. Era ornato, ai margini del quadrante, con degli sfavillanti brillantini. Me lo rigirai fra le mani: non aveva un singolo graffio. Stavo quasi per acquistarlo, quando purtroppo, in un angolino, notai la comune scritta “Made in China”. Rimisi delusa l’orologio nel cassetto.
Qualcosa di utile lo trovai comunque. Dopo circa un quarto d’ora posai alla cassa un’originale bussola in metallo e vetro, una curiosa borraccia simile a quella dei beduini, fatta probabilmente con lo stomaco di una pecora e delle cartine del lago. Pensai saggiamente di cercare un’ultima volta, per sicurezza. In quel momento, scorsi un piccolo cassetto su una credenza in legno di ciliegio, che non avevo notato. Mi avvicinai, incuriosita dall’aria austera e semplice che possedeva. Tirai la minuscola maniglia d’ottone. Era chiuso a chiave. Disperatamente, non stando più nella pelle dall’emozione, cercai invano di forzare la serratura. Dopo qualche infruttuoso tentativo, mi arresi e mi diressi affranta verso l’ometto tossicchiante, proprietario del negozietto.
- Mi scusi, potrebbe cortesemente aprire quel piccolo cassetto? Sì, quello lì nell’angolo…
- Certamente, ma gli oggetti che sono lì dentro sono molto costosi.
Si fermo per tossire.
- Va bene, tanto per i soldi non c’è problema, ne ho una quantità.
Mi accorsi di aver fatto un errore dicendo quelle parole. Vidi infatti accendersi un avaro brillio negli occhi del furbo commerciante. Tirò fuori un piccola chiavetta ( in proporzione alla serratura del cassetto) che aveva appesa al collo e si avvicino a me con passo veloce, ma inciampando sui suoi piedi.
 
Dentro il cassetto, gozzoviglie varie trasbordavano dagli argini. A me parvero oggetti antiquati e privi di valore. C’era uno strano ciondolo dorato, con il vetro opaco, su cui era incisa con l’inchiostro viola una spirale. Il negoziante mi spiegò che un tempo era appartenuto ad un grande ipnotista. E infatti qualcosa di veramente ipnotico lo possedeva. Fissai attonita quello strano pendolo. L’effetto ottico era talmente forte che sembrava che la spirale si muovesse veramente. Mi faceva andare in confusione. Barcollando, frustrata da quel malefico aggeggio, lo rimisi senza esitazione nel cassetto.
Dopo qualche minuto, dopo aver scartato dal gruppo di cose utili per il mio viaggio un nave in miniatura imbottigliata e un rozzo astuccio in cuoio, ebbi una sorpresa inaspettata.
 
Arrivata a casa, mi rintanai in camera mia e chiusi la porta. Quella strana collana a forma di stella aveva un’aria davvero insolita, particolare, inusuale…
Insomma, era un oggetto strano, in apparenza completamente inutile, ma se lo comprai, ci fu veramente un motivo. Non era ipnotico come il ciondolo, ma aveva qualcosa di magico, che mi faceva avvertire un brivido lungo la schiena. Era antico, anormale, forse era un manufatto alieno. 
Già, non ci sono prove dell’esistenza di organismi intelligenti su altri pianeti. Mi domando che strana sensazione sarebbe incontrare il proprio clone, perfetto, identico, speculare. Forse sarebbe solo come guardarsi allo specchio o forse si avvertirebbe una morsa allo stomaco, al pensiero di possedere un gemello identico. Chissà quante altre persone hanno il mio stesso nome. Non ne ho la più pallida idea. Io comunque so, che laggiù, nell’universo infinito, c’è un’altra Lara. Mi immagino a sfiorarle le dita, a parlare con lei con gesti e segnali non capendo la sua lingua, ad osservare i suoi capelli biondi e stopposi identici ai miei …
Mi immagino a giocare a nascondino con lei, là, su una stella, abbagliate dalla luce della luna a guardare le galassie e i buchi neri, inventandoci avventure fantastiche da passare insieme.
E invece no, ciò non mi accadrà mai. L’altra me sarebbe la mia unica amica, ma in questo momento non ho neanche il sostegno morale di me stessa. Sono sola, sto per partire, per non ritornare, forse mai più e questo proposito, lo confesso, mi fa rabbrividire.
 
Mi piace viaggiare leggera, senza pesi che intralcerebbero soltanto. Nel mio unico zaino di tessuto giallo, ficcai dentro la mia T-shirt preferita, una felpa, un paio di pantaloni leggeri e dei pantaloni pesanti. In più stipai dentro tutti gli oggetti comprati da “ Vendo”. Ero pronta a partire. Scesi in cucina a prepararmi un panino al prosciutto: avevo molta fame.
Ma  il mezzo di trasporto!?
Ebbi un improvviso tuffo al cuore. Come avevo fatto a dimenticare una cosa così importante?  
Scesi svelta in riva al lago. La mia imbarcazione ( se così si può chiamare), era completamente a pezzi. Con quel rottame non avrei potuto attraversare neanche un metro quadrato d’acqua. Mi tolsi dalla testa l’idea di  poterla utilizzare e con questo proposito mi diressi verso casa.
Salii i gradini a quattro a quattro e arrivai in camera mia. Il suolo era ancora cosparso di cocci rosa. Mi avvicinai al portamonete e lo aprii. Tirai un sospiro di sollievo. Sì, i soldi bastavano. E soddisfatta mi diressi verso il negozio sportivo.
 
“Sport & Sport” diceva l’insegna. Era un negozio  moderno, pulito e splendente, non aveva nessuna somiglianza con l’antico “Vendo”, anche se aveva un nome meno originale.
Nella vetrina erano esposte tute subacquee, racchette da tennis e scarpe da calcio, ma ciò che mi colpì fu la canoa rossa fiammante, maestosa, che sembrava aspettasse proprio me. Entrai decisa.
- Ciao!
Dietro il bancone sedeva un giovinetto biondo, alto e con un perenne sorriso stampato sulle labbra carnose.
- Prendo quella canoa vermiglia, non mi interessa il prezzo.
Subito dopo mi accorsi che forse ero stata un po’scortese.
Il ragazzo gentile, mi disse cordiale che dal momento che ero solo una ragazzina e pagavo con i miei soldi, mi avrebbe fatto un buono sconto.
Ringraziai, imbarazzata: era la prima volta che qualcuno si comportava in un modo così spontaneo, naturale e dolce con me, ma quello strano formicolio che avvertivo era piacevole.
- Mi scusi, è possibile scrivere sulla fiancata della canoa una scritta? - domandai.
- Certamente - rispose quello, - ma cosa vuoi scriverci?
- La chiamerò Libertà - risposi fiera e orgogliosa.
 
Dopo due giorni, mi incamminai con la mia Libertà sottobraccio verso il lago.
Quando giunsi a riva, l’acqua era immobile e silenziosa, non c’era una sola onda, non l’esile testolina di un pesce d’acqua dolce increspava la quieta superficie.
In quel momento, solo in quel momento, mi venne un “ piccolissimo” dubbio.
Quella insignificante canoa (anche se per me aveva un valore affettivo inestimabile), sarebbe riuscita a farmi uscire incolume dal mio pericoloso viaggio?
Me ne tornai a casa, affranta. La mia voglia di avventura era alle stelle, ma non ero certo così ingenua da poter pensare di affrontare una traversata così lunga con una semplice canoa.
Arrivai a casa e mi chiusi  in camera, triste. Dal salotto arrivavano le grida dei miei fratelli, perennemente in litigio.
Chiusi gli occhi e stringendo il ciondolo a forma di stella che avevo attorno al collo, desiderai con tutto il mio cuore di diventare piccola piccola, così da non riuscire a vedermi, per sfuggire alle occhiate penetranti e di fuoco di parenti e conoscenti. Quando aprii gli occhi, il mio punto di vista era cambiato, ma cambiato completamente.
 
I mobili, attorno a me, si fecero improvvisamente enormi. Mi parve di precipitare, cadere giù, giù, giù. Tutto divenne così grande, immenso e gigantesco, che avvertii una forte nausea, mi sembrava che il mondo si fosse capovolto. Poi, mi accorsi dell’equivoco: non era la stanza ad ingrandirsi, ero io che mi stavo miniaturizzando a vista d’occhio. Dopo un paio di minuti divenni piccola come un chicco di caffé, ma non ero spaventava. Capii subito che quella trasformazione era merito della collana con la stella. Era magica, per questo mi aveva tanto attirata. Sorrisi, estasiata. Al mio collo, il ciondolo brillava di una luce nuova, diversa, da quella che aveva quando lo avevo comprato, più particolare, ma quel cambiamento la aveva migliorato, ora era ancora più bello, splendente e luminoso.
Stringendo la stella, desiderai di tornare alla mia grandezza originaria. E così successe: il ciondolo esaudiva i desideri.
In quel momento, un momento qualsiasi, come mille altri, davanti a me si spalancò una nuova porta, una nuova via. Con quel oggetto magico avrei potuto realizzare i miei obiettivi: Libertà, Avventura, MAGIA. E avevo già un’idea di come farli avverare tutti e tre insieme.
Mi diressi verso la cucina: era deserta. Sfiorai con le dita il mio piccolo sole e la mia canoa divenne microscopica: a stento si leggeva ancora sulla sua fiancata la parola Libertà. Posai l’imbarcazione su uno scaffale, di fianco all’acquario. Era un acquario grande, dall’acqua limpida e pulita, nel quale gli unici inquilini erano cinque pesci rossi: tre erano mastodontici e praticamente incolori, che nuotavano lenti come tartarughe di terra e quel loro andamento, quasi a rallentatore, dava loro l’aspetto di pesci stanchi, che sbadigliano. Gli altri due erano minuscoli e di un vivo rosso cremisi, con delle macchiette bianche sui fianchi. Piccoli, si muovevano veloci e con agilità, a scatti, sul fondale di sassolini blu cobalto, scoloriti dal tempo passato a mollo nell’acqua.
Aprii un cassetto e vi tirai fuori un sottile filo di nastro, colorato, leggero, ma molto resistente e ordinai alla collana di rimpicciolirmi.
Saltando agile, arrivai sopra il tavolino. Da quel punto di vista, la parete di vetro dell’acquario pareva un muro trasparente e non scalabile e gli innocui pesci sembravano degli squali affamati e pericolosi e i loro movimenti eleganti ed aggraziati sembravano sinistre e minacciose manovre. Dallo spavento quasi caddi dal tavolino di legno, ma poi mi ricordai che gli occhi miopi dei pesci non sarebbero riusciti a scorgermi.
Lanciai il nastro e lo agganciai saldamente alla liscia superficie di vetro spesso e resistente e con la canoa saldamente in mano e con stupefacente agilità, arrivai velocemente al capolinea. Sembrava avessi delle ventose sotto i piedi. Appoggiai la barchetta, carica di provviste anch’esse diventate piccole, sull’acqua agitata e tenendola ferma con una mano, mi ci sedetti dentro.
Ero molto emozionata, quello era l’inizio di un’avventura misteriosa, probabilmente mai vissuta prima dall’essere umano. E chi potrebbe biasimare questo proposito: non credo che qualcun altro abbia attraversato in canoa l’acquario dei propri pesci rossi.
Chissà, forse avrei trovato un tesoro o comunque qualcosa di speciale.
Sognando ad occhi aperti, fantasticando su cosa avrei potuto trovare, mi addormentai, sdraiata sull’imbarcazione, mentre mi lasciavo dolcemente trasportare, in balia delle ondine artificiali create inavvertitamente dal depuratore. Dondolavo, sognavo e non  mi curavo dell’ambiente circostante, cosicché non mi accorsi che stava completamente cambiando.
 
Quando mi svegliai, mi stropicciai gli occhi stanchi. Vedevo tutto sfocato, ma mi accorsi immediatamente, pur semicosciente, che nulla aveva più il colore blu oltremare dell’acqua torbida del quieto mare cristallino.
Aprii gli occhi di scatto. La barca era immobile, ancorata in qualche maniera ad una spiaggia.
I granelli sottilissimi e dorati, quando toccai incredula il suolo, si infiltrarono piacevolmente fra le dita dei miei piedi. Rimasi a bocca spalancata per lo stupore, fissando inebetita le palme da noci di cocco che crescevano rigogliosamente, fitte, sull’isolotto sperduto in mezzo all’acqua dolce.
Mi incamminai sbalordita da tutta quella natura incontaminata, da tutto quel verde spontaneo, dalla mancanza di vita umana, almeno in quella isola magica. Davanti a me, si ergeva una fitta boscaglia di piante tropicali, alcuni tipi non erano neppure segnati sui libri di botanica che, la sera, in mancanza di letture più adatte alla mia età, divoravo vorace, affamata di sapere.
 Era una vera e propria foresta pluviale in miniatura. Inspirai la pura freschezza di quel luogo. L’aria pulita mi penetrò nei polmoni, salmastra.
A quel punto, scrutando curiosa fra gli arbusti verdeggianti, vidi nell’ombra delle palme, una sagoma scura, semiumana, che si muoveva eretta su due piedi, anzi, correva, mi inseguiva. Mi misi a correre anch’io, spaventata da quella comparsa inaspettata. La creatura mi si avvicinò: aveva praticamente la mia altezza. Era una ragazza. Selvaggia, aveva i lunghi capelli castani scarmigliati, raccolti in una coda di cavallo sostenuta da un elastico di giunco, solido e pratico. Sulla schiena aveva una faretra di frecce costruite artigianalmente con rametti e selci.
Magra, slanciata, quasi ossuta a dire il vero. Possedeva un viso di forma molto allungata, con gli zigomi sporgenti e uno sguardo penetrante. Mi si avvicinò ancora, ancora di più, potei scorgere nei suoi occhi color castagna, un brillio di paura, ma la curiosità prevaleva sul resto delle emozioni. Mi tese la mano. La punta dei nostri indici si sfiorarono con timore. La ragazza mi rivolse una specie di sorriso, ma ritrasse svelta la mano, preoccupata.
- Dai, avvicinati.
Cercai di comunicare invano con la mia coetanea, credendola incapace di comprendere il mio linguaggio. Dal canto suo, essa mi guardava stranita, domandandosi, probabilmente, se per caso fossi impazzita. Infatti, quei gesti che facevo per farmi capire, dovevano essere proprio buffi. La ragazza si grattò pensierosa la testa, cercando di interpretare i miei assurdi segnali.
- Chissà se è diventata pazza per la fame…- si domandò a voce alta.
- Ma allora sai parlare!- esclamai stralunata.
- Ma certo che sì – rispose beffarda e notevolmente offesa la strana ragazza.
La guardai sbalordita e avvertii la sensazione di aver fatto una figuraccia.
Mi invitò a sedermi sulla sabbia e poi, perfettamente a suo agio, come se io non fossi lì ad osservarla e con magnifica abilità, accese un allegro e scoppiettante fuocherello, sfregando due bastoncini.
- Come sei finita qui? – domandai imbarazzata dalle mie stesse parole.
Lei sospirò, ma comunque rispose, con il volto in lutto, che era l’unica sopravvissuta ad un naufragio.
- Mio padre era un ricco mercante – mi annunciò tristemente – e io lo avevo tanto pregato di poterlo accompagnare, almeno una volta, in uno dei suoi fantastici viaggi in giro per il mondo. E fu l’ultima volta che lo vidi.
Una lacrima le sgorgò dagli occhi più salata dell’acqua marina, rigandole il viso. Lei, forte, se la asciugò con la logora manica della giacca di feltro, lurida e bucherellata.
- Ma bisogna dimenticare il passato – aggiunse, di nuovo col sorriso sulle labbra – e pensare al presente.
La guardai, ammirata dalla sua forza d’animo, continuando assorta ad ascoltare la sua tristissima storia. Raccontava meglio di un cantastorie.
Poi, fu il mio turno di raccontare la mia avventura e quando finii, lei mi chiese di portarla con me. Non seppi dire no, che, comunque, non rientrava nelle mie intenzioni: anch’io volevo che lei venisse con me, perché, con il suo caratterino completamente diverso dal mio, mi era stata immediatamente simpatica. La mia nuova amica mi guardò con gratitudine. Aveva bisogno di fare ritorno alla civiltà, entrare nel mondo dell’essere umano, non poteva più convivere solo con gli animali.
- Però, posso chiederti una cosa? – mi chiese speranzosa - Posso portare con noi Ananas?
E pronunciando queste parole, si ficcò le dita in bocca ed emise un lungo fischio. Svolazzando, dalla folta radura comparve un variopinto pappagallo, enorme, che le si posò con delicatezza, quasi da leggiadra rondine, sulla spalla.
La ragazza castana si alzò in piedi e mi strinse la mano.
- Piacere, Vanessa. - disse amichevolmente, scandendo bene le parole, fiera.
Rimasi subito colpita da quel nome, esotico, tropicale.
- Io sono Lara. Felice di conoscerti.
Non potei fare a meno di notare, affranta, l’enorme differenza tra i due nomi. Il mio suonava spento e scialbo, comune.
- E’ora di andare, lo sai. - le dissi, e lei, accarezzando per l’ultima volta la terra su cui era vissuta e cresciuta, mi seguì verso la mia modesta canoa, abbandonando, praticamente il Paradiso, per una comunissima giungla di cemento.
Vanessa si accomodò felice, con il fedele pappagallo Ananas sulla spalla e, così, partimmo.
Spinsi lentamente e con tutte le mie forze, la barca a pelo d’acqua, ed essa, partì dolcemente, dondolando.
- Hai fame? - domandai, tendendole una pesca rosata ed invitante.
Lei guardò il frutto, famelica, e poi, non resistendo alla tentazione, me la prese dalle mani, per poi addentarla con estrema voracità. Sembrava non mangiasse da tanto, tanto tempo.
- Questa pesca è uguale a quelle dell’albero di casa mia. - mugolò, con la bocca piena, - Me la ricordo, sai, la mia casa e anche i miei genitori. Mio padre era la persona più coraggiosa che io abbia mai conosciuto e mia madre era una mamma dolcissima, mi ricordo il tè al gelsomino che mi preparava quando stavo male…
Con queste ultime parole, si addormentò serena, sorridendo al piacevole ricordo dei suoi cari.
La guardai. Mi faceva tenerezza. Mi distesi sulla canoa anch’io e mi lasciai trascinare nel bellissimo mondo dei sogni, ingenua. E come avrei potuto sapere che la mia avventura non era ancora terminata, non ancora …
 
Dopo qualche ora, mi svegliai sbadigliando e subito mi balenarono in testa i fatti di quegli ultimi due giorni. Non stavo sognando: Vanessa mi stava scuotendo, nel vano tentativo di svegliarmi.
- Oh, no, sei una di quelle fastidiosissime persone mattiniere …
-E cosa ti aspettavi? Sono vissuta per ben cinque anni in un’isola popolata solo da bestie feroci, non potevo mica perdere tempo dormicchiando fino alle 9.00 di mattina, anche se avessi voluto.
- Forse hai ragione …
- Senza forse. Tu non sai cosa significhi vivere isolata, parlando solo con un pappagallo, per quanto amichevole e simpatico possa essere.
Non ebbi il coraggio di ribattere a tanta logica.
Per un po’continuammo a conversare, fino a quando non udimmo una forte scossa, e dall’acqua emerse la testa pezzata, enorme, di un pesce. Vanessa, con sangue freddo, si sfilò una freccia dalla faretra e tese l’arco.
- No! Ferma! Non puoi colpire i miei pesci rossi! - esclamai.
- O loro o noi - mi disse semplicemente, - non sono cattivi, questo lo so, ma non sanno quello che fanno.
E aveva ragione. Mi misi una mano davanti agli occhi mentre Vanessa scoccava tre frecce, abbattendo i pesci sbadiglianti. Quando aprii gli occhi, l’acqua era diventata vermiglia, rossa sangue, ma non sangue umano, ovviamente. Trassi un respiro profondo, per mantenere la calma, ma non ce la feci, ed urlai.
- Capisco il tuo dolore. Perdonami.
- So perché l’hai fatto, e sono d’accordo con te. – dissi, con il viso rigato dalle lacrime.
Almeno Vanessa aveva risparmiato i piccoli pesci cremisi, che si erano nascosti, spaventati ed innocui sul fondo dell’acquario.
 
Finalmente, dopo giorni e giorni, riuscimmo ad arrivare incolumi fino allo spesso vetro dell’acquario e quando uscimmo di lì, non ero mai stata così felice e avevo il terrore che fosse tutto un sogno, frutto della mia fervida immaginazione, ma non fu così.  Gli anni passarono. Io e vanessa vivemmo come sorelle e migliori amiche. Le trovai un rifugio dove stare: era un piccolo appartamento, con vista lago; lei era abituata ad arrangiarsi e a vivere da sola, e quindi si adattò in fretta. Io ogni pomeriggio, quando finivo la scuola, andavo a trovarla: parlavamo un po’ e poi io, senza però alcun successo, tentavo invano a insegnarle a leggere e a scrivere, ma lei, completamente analfabeta, non capiva nulla di tutto ciò che dicevo e mi  sembrava sempre che non mi desse neanche retta. Poi era il suo turno di insegnarmi a tirare con l’arco, ma senza alcun miglioramento, come i miei tentativi di renderla più colta. Insieme combinavamo scherzi di tutti i colori: ci divertivamo come non mai insieme e per la prima volta in vita mia mi sentivo felice. Crescevamo come due ragazze normali, e ormai l’isola di Vanessa veniva appena accennata e basta: era un ricordo passato. Non accadde più niente di così simile all’impossibile, fino a quando, in un negozio…
 
Vanessa mi stava aspettando lì fuori, vicino alla tenda dello sporchissimo camerino.
- Ma uffa, quanto ci metti!
-  Mi dispiace, ma questa è la prima volta che vado a fare shopping con le amiche, devo rifarmi. Ti prego, porta ancora un attimo di pazienza! – cercai di convincerla.
- Sì, perché nelle isole deserte è pieno di negozi d'abbigliamento, no?
Feci finta di non ascoltare le sue verissime parole, e continuai ad osservare il vestito turchino che indossavo, che mi donava particolarmente. Strano, perché, con i miei occhi di una tonalità grigio-verde e i miei capelli color acqua di palude, a parte la mia ribelle T-shirt rossa con la scritta             “ Questa maglietta è nera” e i soliti jeans con i buchi appositamente architettati da me, nessun abito mi stava veramente bene.
Il camerino in cui mi trovavo era minuscolo e su tre lati su quattro era specchio.
Se mi osservavo, mi vedevo moltiplicata per infinite volte, c’erano un mondo di ragazze uguali a me, che compivano i miei stessi identici movimenti. Mi tornarono in mente i ragionamenti che avevo fatto poco tempo prima, su dei cloni alieni uguali a me. A questo pensiero, sorrisi, accorgendomi di quanto fossi cambiata grazie alla comparsa di Vanessa. Ricordai, in pochi secondi, la mia avventura nell’acquario dei pesci rossi, il mio primo incontro con Vanessa, il nostro breve dialogo imbarazzato.
Quando mi risvegliai da quella breve trance, mi ritrovai, davanti allo specchio, bella. Mi osservai più attentamente, confusa. Capelli biondi e lunghi e occhi color sabbia? Chi era la ragazza alta e slanciata che mi era davanti?
Mi accorsi che l’espressione che aveva era tutto il contrario che felice. Aveva uno sguardo caldo, che però si stava lentamente spegnendo nel gelo dello specchio. Era spaventata, mi guardava implorante, batteva a pugni chiusi sulla liscia superficie di vetro riflettente. Respirava affannosamente. Dalla sua bocca uscivano mugolii confusi e nuvolette che appannavano il vetro per l’improvviso freddo, perciò, la sfortunata sconosciuta cercava invano di scaldarsi con la forza d’attrito, strofinandosi il corpo snello con le scheletriche braccia. Non potevo lasciarla lì. Un brivido gelido mi corse lungo la schiena: dovevo di nuovo avere la responsabilità di qualcuno. Rivolsi alla ragazza un ultimo sguardo da “ Che Facciooo?!” prima di uscire svelta dallo spogliatoio.
- Oh, finalmente sei uscita!
Vanessa mi urlava dietro, spazientita.
- Scusa, ma non è proprio il momento: è questione di vita o di morte!
- Scusa, ma non credi di esagerare? Quel vestito non ti sta poi così male!
Andai avanti. Avrei raccontato dopo a Vanessa cosa avevo visto.
Accelerai il passo e poi, vidi finalmente ciò che faceva al caso mio.
Mi chinai e raccolsi con fatica il pesante ferma porta di sasso decorato con dei tulipani incollati accuratamente e tornai al camerino, in cui entrai lesta.
- Aspetta ancora un attimo! – dissi a bassa voce, più per tranquillizzare me, che la ragazza.
Alzai il sasso e prendendo la rincorsa, lo lanciai contro il vetro.
Udii un suono pietrificante, come un urlo, sembrava il suono di cento aghi che cadono per terra contemporaneamente, stridulo e acutissimo, ma è difficile descrivere un rumore così inusuale e terrificante. Poi, immediatamente, captai che qualcosa di fragile si era rotto e poi un tonfo sordo. Mentre i cocci di vetro schizzavano via, mi coprii il viso con le braccia. Quando mi liberai il volto incolume, vidi la ragazza stesa in terra, si teneva le mani al collo, sembrava fosse la prima volta che riusciva a respirare. La guardai, in preda al panico.
- Grazie – furono le uniche e lente parole che riuscì a pronunciare, dopodichè, svenne.
Spostai con delicatezza i frammenti di vetro dal suo viso e poi la cominciai a scuotere, credendola morta.
- Dai, svegliati! – tentai, ma senza buoni risultati.
Le poggiai l’orecchio al petto: il cuore batteva regolare, come dei tamburi all’unisono in una musica jazz. Sospirai di sollievo.
Varcai con la testa la tenda del camerino.
- Vanessa – urlai – portami dell’acqua!
- Ma guarda che se hai sete l’acqua te la puoi prendere da sola. – disse offesa.
- Ma no, l’acqua non è per me! Se vieni dentro ti faccio vedere.
Lei entrò, pensierosa.
- Lara, secondo me tu hai qualcosa che non…
 Ma quando vide la ragazza stesa in terra, immobile, che respirava a fatica, si bloccò.
- Chi è quella?! – urlò spaventata, indicando il corpo immobile della sconosciuta.
- E’ una lunga storia. – dissi ferma. – ti spiegherò tutto dopo, se hai un po’ di pazienza. Adesso va a prendere dell’acqua e non discutere come al solito.
Dissi così, ma Vanessa comunque non avrebbe potuto obiettare: era rimasta paralizzata e non riuscì a spiccicar parola. Uscì dal camerino, sbalordita e con la bocca aperta per lo stupore.
 
Quando rientrò teneva in mano una brocca colma d’acqua cristallina e aveva ancora dipinta sul volto una maschera di paura e di incomprensione. Io prontamente le strappai la caraffa di mano e la rovesciai addosso alla sconosciuta. Lei subito si sveglio, fradicia, e ansimando. Mi guardò inerme. Non aveva più occhi vacui, ma uno sguardo alle che sprizzava felicità da tutti i pori. Da sdraiata, mi buttò le braccia al collo e quasi mi strozzò: sembrava esile e delicata, ma aveva la forza di un uomo adulto.
Appena riuscì di nuovo a respirare, guardai Vanessa; mi sembrava sospettosa. Poi riguardai la ragazza bionda.
 - Chi sei?
Era una domanda un po’inadatta alle circostanze parecchio strane, ma lei, cordiale, rispose ugualmente al mio interrogatorio.
- Sono Silvia - disse, e quelle parole, dette con tanta sicurezza, mi ricordarono per la seconda volta in pochi minuti il mio incontro con Vanessa.
“Accidenti!” pensai, “Qui hanno tutti nomi meravigliosi a parte me.”
Scacciai questo strano pensiero dalla mia testa occupata da mille altre preoccupazioni e ritornai a parlare con Silvia.
- Come sei finita dentro allo specchio?- Ero a disagio.
Lei si guardò intorno guardinga e alla fine disse:
- Non qui. Siamo osservati.
E detto questo uscì dal camerino come se nulla fosse e si diresse all’uscita del negozio. Io e vanessa la seguivamo mute, scambiandoci eloquenti sguardi interrogativi.
 - Dove possiamo andare a parlare in pace? – domandò Silvia.
Ci riflettei un poco, poi iniziai tranquilla a camminare verso casa, consapevole che lì nessuno sarebbe mai venuto a cercarmi.
Quando ci arrivammo, Silvia si sedette sul mio letto e cominciò a raccontare.
- Fui imprigionata… - cominciò a dire.
- E da chi? – chiesi curiosa e stupita, ma Vanessa mi azzittì portandosi un dito alla bocca e sussurrandomi di non interrompere più il racconto.
La ragazza continuò.
- Fui imprigionata – riprese, - da una strega malvagia di nome Oscura. Anch’io sono una strega e più precisamente la regina del regno. E questo spiegava la strana tiara d’oro che solo ora avevo notato sul suo capo.
Non aveva un tono orgoglioso o vanitosa, semplicemente diceva la verità, anche se una punta di nostalgia o, chissà, forse rimpianto si udiva nelle sue parole.
Riuscii a stento a soffocare un singulto di stupore, come Vanessa, del resto, sapendo di parlare con una maga, e regina, per di pi, cosa che accresceva, se possibile, l’incredibilità dell’affermazione.
- Ma io sono una strega buona e che ha pochissimi poteri,che tutti, anche le streghe più negate posseggono, ma ugualmente la strega nera mi rinchiuse in uno specchio, perché non voleva che nessuna persona con poteri magici ostacolasse il suo desiderio di possedere il trono del regno di Gaia. Ero lì imprigionata da parecchi anni e l’incantesimo della strega narrava che solo una strega di incredibile potere e dai capelli d’oro avrebbe potuto salvarmi. E così è stato.
Detto questo si inginocchiò per terra e si inchinò davanti a me. Il mio stomaco si contrasse e fece una capriola. Per la potente fitta mi piegai un poco, nauseata.
- No, ti prego, mi metti in imbarazzo, su alzati. E poi, io, una strega? E coi capelli d’oro per giunta?
Mi lisciai con le dita i miei capelli di paglia,  nuovamente a disagio.
- Tutto quello che vuoi – disse Silvia, e si alzò dal pavimento. –mi hai salvato da quel luogo orribile, ti devo il mio più grande rispetto.
- Ma io non sono una strega! – urlai, quasi arrabbiata.
- E allora mi vuoi spiegare come hai fatto a rimpicciolirti fino ad entrare nell’acquario, quando hai incontrato Vanessa? - mi interrogò Silvia, che  inaspettatamente sapeva del mio viaggio perché aveva la facoltà di conoscere il passato e il futuro di ogni persona.
- Avevo un ciondolo magico… - mugolai, ma mi zittii e lasciai che parlasse lei.
- No - continuò, - la collana non era magica. Era un semplice ciondolo di vetro e non aveva alcun potere. Eri TU che gli conferivi la magia, anche se a tua insaputa.
E si inchinò nuovamente a me.
Troppe emozioni per me… mi poggiai sul sofà polveroso, e con il cuore in gola mi addormentai.
Dopo, probabilmente ore, che mi sembrarono pochi minuti, mi svegliai e vidi il viso di Vanessa davanti a me. La abbracciai.
 - Oh, non sai che sogno terribile e strano ho fatto. Io e te eravamo al centro commerciale e poi…
Vidi Silvia in un angolo della mia stanza e urlai. Lei rimase impassibile, mentre invece Vanessa mi dette uno schiaffo. Smisi immediatamente di gridare e mi ammutolii d’improvviso.
- Smettila di urlare! - mi aveva intanto ammonita Vanessa, ma non ce n’era bisogno: ormai non avevo più fiato in gola e ogni tentativo di spiccicar parola era vano.
Silvia arrivò accanto a me e mi si accoccolò vicino. Sussurrando piano, probabilmente un incantesimo, mi persuase a mettermi a sedere sul freddo pavimento di legno e mi sentii quasi rilassata.
- Grazie - riuscii a dire, ma subito lei cominciò:
- Se ora sei riuscita a riprenderti dallo shock, posso chiederti un immenso favore, a nome anche dei miei fedeli sudditi, che non si sono sottomessi al volere di  Oscura. Anche perché appartieni tu stessa al popolo delle streghe, devi aiutarmi con la tua magia a liberare il regno di Gaia.
Io annuii, attonita e spaventata dall’autorità della nuova venuta. E poi, più consapevole delle mie azioni, anche se ancora sotto incantesimo dissi:
 - Ti aiuterò. Anche se fatico a crederlo, appartengo al tuo popolo, e non lascerò che la nostra razza cada sotto il dominio di Oscura.
 C’era sicurezza nei miei verbi, nei miei movimenti, e, per una volta nella vita, sentti di essere l’unica a poter prendere le redini di leader. Queste furono la parole più solenni e più determinate che io avessi mai pronunciato da quando avevo imparato a parlare. Mia madre mi raccontava sempre di quale sciocca e strana neonata fossi stata.
- Facevi cose strane – quasi sempre spaventata o allarmata al solo ricordo. La mia prima parola non fu “mamma”, come tutti i bambini del mondo, ma anzi fu proprio “ma…gia”. Sicuramente non una cosa normale per una dolce e minuscola infante gracile e fragile, come rimarcava sempre quella esagerata della mia timorosa madre.
Il sorriso di Silvia mi riportò alla realtà, allontanandomi da  strani ricordi sfuocati. Un sorriso caldo, solare. In esso vidi riflesso anche quello di tutte le streghe che stavo salvando e mi sentii colma di gioia e di coraggio.
Tesi una mano aperta davanti a me e gridai:
- Per quanto potrà essere difficile… - ma non riuscii a trovare parole abbastanza adatte a quella circostanza importante, ma ugualmente le altre due capirono immediatamente. Sentivo già un’amicizia speciale che andava via via formandosi…
Subito Silvia aggiunse anche la sua mano, sempre sorridendo gioiosa e confortante.
Infine anche Vanessa, benché un po’incerta, aggiunse la sua mano. Sentivo che il cuore mi esplodeva di gioia e di felicità: ero una strega ( e la più potente!!!), stavo per salvare Gaia, con le mie due amiche, e soprattutto stavo vivendo un’alta emozionante avventura senza fine.
- Partiamo ora.- annunciai.
- E si può sapere come ci arriveremo? - Vanessa mi pareva nervosa.
- Con il teletrasporto. Io non possiedo questa facoltà, ma tu Lara sì.
Un’altra scoperta strabiliante.
Sorrisi al pensiero di possedere anche questo potere, ma allontanai preoccupata un sottile velo di malizia, che non mi apparteneva.
- Non nascondere il tuo orgoglio – mi disse Silvia, - non ne hai bisogno. Sei una strega coraggiosa ed intrepida, e un pizzico di vanità è naturale, da parte di chi ha appena scoperto di possedere tutti i poteri del mondo.
Arrossii.
- Scusa, puoi fare a meno di leggermi nel pensiero? Mi rende nervosa il pensiero che tu possa percepire tutti i miei ragionamenti segreti.
Silvia annuii. E poi col suo sguardo di ghiaccio, ci comunicò silenziosamente che era giunta l’ora di partire. Una forte emozione mi catturò. Il mio cuore esplodeva in milioni di battiti, mi pareva che potesse scoppiarmi in petto da un momento all’altro.
- Attaccatevi al mio braccio - le parole mi uscirono involontarie della bocca.
Al che, le mie amiche, mi si aggrapparono saldamente. Chiusi gli occhi e pensai ardentemente a dove volevo andare.
- Gaia, Gaia, Gaia,… - mi ripetevo in continuazione, nella testa, e continuai così per almeno cinque minuti.
Ma quando aprii gli occhi, ero nuovamente nella mia cameretta spoglia.
- Non essere affranta - mi rassicurò Silvia, - è la prima volta che provi compiere una magia volontariamente, e nulla riesce al primo tentativo.
Mi sentii più vigorosa, e ricominciai pensare ancora con più convinzione al regno di Silvia.
E aprendo gli occhi, mi trovai a piedi scalzi sulla sponda di un laghetto dall’acqua gelida, che mi bagnava fino alle caviglie. Era piccolo, e magico; l’acqua era immobile e cristallina, e mi parve che neanche l’incidente di una petroliera avrebbe potuto inquinare tanta bellezza e tanto splendore
Tutto intorno vi era una fitta foresta di aloe, cocchi e altre piante tropicali.
Mi girai verso le mie due accompagnatrici.
- Ce l’ho fatta! – continuavo a gridare, entusiasta.
Vanessa sorrideva. Ma mi accorsi che qualcosa attorno a noi, si muoveva. Era un  qualcosa di alto e snello, che si muoveva guardingo in mezzo alla boscaglia.
Poi però, qualcosa lo colpì, e uscì allo scoperto.
- Regina Silvia! - gridò, e si avvicinò a noi. Era sbalordito, dalla sua espressione pareva non credere ai suoi occhi.
- Ciao Manuel … - ma il ragazzo non la lasciò parlare.  Il suo volto era estasiato, ma allo stesso tempo cercava di contenere la felicità per… Cominciare a raccontare tutte le sciagure che stavano accadendo a Gaia, di quanto stesse sfruttando il popolo delle streghe e anche il suo…
- Il tuo popolo? – domandai.
Lui finalmente si accorse di noi due, che prima non aveva visto per l’eccitazione, e ci fece un inchino aggraziato.
- Non sono un essere umano, - pronunciò quella parola quasi con disprezzo, e sembrava molto offeso che io e Vanessa non avessimo notato la differenza.- e non sono neanche dotato di magia ( le streghe sono tutte femmine).
Silvia ci disse che nel suo regno vivevano anche altre popolazioni e io già mi immaginavo quali altre fantastiche creature vivessero in quel posto magico e mi sentivo scoppiare di curiosità e impazienza.
- Appartengo alla tribù degli elfi – annunciò infatti, e così dicendo si spostò i lunghi capelli castani dal viso, scoprendo due grandi orecchie a punta. Non riuscii a trattenere un’esclamazione, da quanto ero stupita, e come avrei potuto non esserlo! Gli elfi. Credevo fossero creature mitologiche, ma non lo dissi: certo, dopo aver parlato con una strega, e addirittura essendo io stessa una maga!
 
Piano piano, mi accorsi stranita che Manuel e Vanessa si lanciavano strane occhiate d’intesa, ma appena si accorsero dei miei occhi puntati su di loro, lo distolsero immediatamente. Anche Silvia sicuramente se ne era accorta, ma, come me, preferiva tacere per non entrare in conversazioni imbarazzanti.
Passammo la serata al limitare di un bosco a parlare: inventare strategie contro la malvagia strega Oscura ci parve  anche se incoscientemente secondario e pensammo di discuterci con più calma – in fondo, avevamo appena conosciuto Manuel. Parlammo invece dei nostri luoghi d’origine; Vanessa raccontò della sua esperienza nell’isola deserta e noi, dopo averla ascoltata, raccontammo ognuno della nostra casa e delle persone che vivevano con noi.
Quando finii la descrizione della mia famiglia, Manuel e Silvia non si trattennero dal ridere. Li guardai sconcertata, mentre loro due, dalle risate, avevano le lacrime agli occhi.
- Si può sapere cosa ci trovate di così esilarante? – ero offesa dalla risata inaspettata.
Silvia si asciugò una lacrima e tornò seria.
- Mi dispiace, - disse, - ma sentendo con quali strane creature convivi, non abbiamo resistito…
E giù di nuovo a ridere.
Strane creature? I miei genitori e i miei fratelli? Ed erano un elfo ed una strega a dirlo?
Mi sentii ribollire di rabbia, e probabilmente diventai tutta rossa, perché le risate si placarono.
- Che c’è? – L’indifferenza di Manuel fu la goccia che fece traboccare il  vaso.
- Vado a farmi un giro -  sbottai, e mi allontanai. Dietro a me si ergeva un silenzio, appena appena rotto dal bisbigliare sommesso di Silvia e Manuel.
Ma perché mi sembrava tanto importante difendere la mia famiglia? Sì, proprio loro, che mi avevano ignorato e si erano presi gioco di me e dei miei sentimenti. Mi accorsi che volevo loro ben in fondo. Solo un pochino, anche se avrei preferito mangiare uno degli intrugli rigurgitanti che Manuel aveva preparato con bacche e radici mentre eravamo attorno al fuoco.
 
Camminai per non so quanto tempo. Ma non ero stanca, non sentivo dolore, ma solo la rabbia che non si raffreddava, ma mi restava lì, nel cuore, pesante e camminare mi sbollentava e riduceva, anche se in quantità minima il mio rossore purpureo. Arrivai al laghetto sul quale eravamo atterrati, e tuffai brusca i piedi in acqua.
Come avevano potuto offendermi in quel modo? E nuovamente sentii di provare odio per quelle due persone. Mi accoccolai in riva al lago. Avevo i piedi congelati, ma grazie al gracidio sommesso dei rospi, ugualmente riuscii ad addormentarmi, con gli occhi colmi di lacrime amare che non volevano scendere.
 
La mattina mi svegliai, alla prima luce del sole. Avevo il corpo indurito e i capelli adorni di foglie. Mi alzai in piedi e, barcollando dal sonno ripresi la direzione verso il nostro accampamento. Speravo ardentemente che quei due si fossero preoccupati vedendo che non tornavo, e dentro di me c’era il forte desiderio di fare pace con loro.
Il ritorno al campo fu quasi allegro; tutto attorno a me si ergevano piante dagli alti fusti, che all’andata, per la mia arrabbiatura non avevo notato, e l’aria era popolata di squittii, e cinguettii di strane specie di minuscoli uccelli variopinti. Il sentiero era largo, solcato dalle ruote dei carri, e in terra battuta e spaccata dal sole cocente. Dal caldo una goccia di sudore mi imperlò la fronte: strano, era autunno, e per terra il suolo era cosparso di foglie morte.
Giunsi al campo e restai di sasso. Il fuoco era freddo e i giacigli abbandonati. Tutto era coperto da una sottile coltre di magia nera e non si udiva alcun rumore, a parte il leggero gracchiare di un corvo appollaiato sinistramente sul ramo di una quercia secca.
Non potevano avermi abbandonato. No, non l’avrebbero fatto, anche se avevamo avuto una discussione. C’era un’unica spiegazione: dovevano essere stati rapiti da qualcosa di malvagio.
Improvvisamente, il corvo ammutolì il suo lamento. Tutto taceva. Un brivido gelido mi pervase e mi congelò la spina dorsale, ormai interamente paralizzata dall’assurdo terrore cieco. Sentii un rumore inquietante, e mi girai di scatto. Sì, c’era, l’avevo udito sottile sottile, ma esistente e non frutto della mia immaginazione presa in ostaggio dalla paura folle. E poi lo vidi.
Nell’angolino buio, tenebroso, quella piccola figurina maligna e silenziosa acquattata nell’ombra, stranamente respirava. Quel ammasso denso e fluttuante di ectoplasma respirava veramente, come respirano le creature prive di vita, in un uggiolio straziante e ansimante.
I buchetti concavi, quali gli occhi, in mancanza di palpebre, restavano ininterrottamente spalancati, aggiungendo all’ immagine, già terrificante, un aspetto ancora più inquietante. Mi rammentai di possedere una torcia: la sfilai con cautela dalla tasca e la puntai contro di esso. L’essere assorbiva la luce. Feci gesto di scappare. Silenziosamente, feci dei passi all’indietro, fissando sempre con raccapriccio quella figurina semitrasparente. Non avrei dovuto farlo. Non dovevo farlo. Troppo tardi, era giunta la mia ora. Un bastoncino, sotto il mio piede, scricchiolò in un debole fruscio. Anche solo con quel lieve rumore appena udibile, il fantasma si destò. Vidi comparire nelle orbite nere e vuote degli occhi, le pupille rosso fuoco, indiavolate, rabbiose. Ero semplicemente spacciata. Il fantasma si diresse verso di me. Mi attraversò il corpo con il suo, totalmente inesistente e praticamente invisibile. Mi paralizzai dalla testa ai piedi. Caddi in ginocchio. Il mio respiro si fermò. Sentivo il mio cuore continuare instancabile a battere, sempre più debole. Si fermò improvvisamente. Dopo di che, non sentii più nulla.
Dopo pochi secondi, ma forse ore, mi svegliai. Il fantasma era lì di fianco a me, mi fissava, mi scrutava con quella sua occhiata perfida. Gridai. O forse pensai di farlo e stetti invece zitta. Ma comunque mi alzai in piedi e iniziai invano a correre, e mai, mai, corsi con tanto affanno come quel giorno, mai ebbi la sensazione così incombente di urlare. Di nascondermi. Ma il fato aveva deciso di essermi nemico. Rovinai a terra: stupido sasso a punta. Attorno a me, sangue. Mio? Non lo so, ma ne avevo fradice le mani, e pian piano che arrancavo sul suolo ghiacciato lasciavo dietro a me una scia macabra di liquido rosso, e non si trattava di certo di succo di ciliegia. Tutto era zitto, a parte il mio cuore, che mi esplodeva in petto, scoppiava dal terrore, dalla pazzia di quel momento. Il peggiore della vita mia. E il cuore cessò il suo suono. Sicuramente non fu così, ma non feci più caso la suo battito: ero troppo impegnata a tentare di svegliarmi da quel sogno orrendo. Mi pizzicai un braccio e urlai di dolore. Non era un incubo era realtà. Mai più. Mai più mi sarei svegliata. Mai più. Mai più non avrei sentito il canto del gallo. Finiva lì, la mia corsa. Il destino aveva deciso di farmi finire lì. Ecco a voi la fine di Lara, adolescente incompresa. Basta , basta! Testa che scoppia, orecchie pulsanti. Riuscii a captare il mio respiro affannoso, e poi… eccolo lì. Davanti alla mia faccia l’essere spettrale si ergeva in tutto il suo tetro volto inumano, assassino. Porse avanti a me una… mano. Sì, capite cosa intendo. Una specie di sporgenza dal resto dell’ectoplasma, che possedeva delle dita. Mai vidi unghie così affilate, taglienti e sporche di sangue. Sembrava uccidesse una povera vittima innocente ogni sera. Da quanto eravamo fermi così? Non ne ho idea, ma io ero paralizzata sul terreno, inerme, mortalmente pallida di orrore. E la creatura diabolica, con quelle sue unghie terrificanti, si sporse sempre più verso me, mentre io arrancavo. Lui aperse la bocca, e in ululo si allontanò a me di qualche metro. Io, che ancora percepivo l’ormai inesistente fiato putrido del fantasma, feci ricorso ad ogni mia forza e mi eressi in piedi.
- Tu! - urlai, inconsapevole di quello a cui stavo andando in contro. - Dove hai portato i miei amici?
Il fantasma parve stupefatto, e con la sua voce roca e flebile, tipica dei non viventi, mi parlò.
- Chi sei, straniera? Tu che osi parlare al mio cospetto senza inchinarti a esseri superiori a te?
I suoi gemiti erano pietrificanti, ma ormai non avevo più paura.
- Dove hai portato i miei amici? - insistei col dire.
Lui, sul momento, parve zittirsi, ma poi continuò il suo monologo spaventoso.
 
 
 
 




Se siete arrivati qui avete davvero un alto tasso di sopportazione dello schifo, complimenti.
 
 
  
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