Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Emily Kingston    02/05/2014    6 recensioni
“Dannazione, Pen," esclamò Allie, irritata. "Quando fai così vorrei non averti mai conosciuta!”
“Già,” rispose, dura. “Forse, a questo punto, sarebbe davvero stato meglio se non ci fossimo mai conosciute.”

[...]
“Da quando Allie esce con quelli?”
“Da quando t’interessa con chi esce Amanda Jackson?”
“Da quando è la mia migliore amica, Chloe.”
“La tua migliore amica? Amanda Jackson? Ma ti senti bene? Tu e Amanda non vi siete mai rivolte la parola. Non so cosa ti sia preso stamattina, ma lei non sa neanche che tu esisti... credo."
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Alle mie migliori amiche, le mie Amanda.
 
Hecate
 
1.
 
Il Museo di Arte Greca: l’ultima cosa che Pen aveva voglia di fare quella mattina.
Le ultime settimane erano state durissime ed era un miracolo se era riuscita a rimanere in completo possesso delle sue facoltà mentali. Gli esami per entrare al college avevano riempito ogni singolo minuto delle sue giornate, rendendola sempre più nervosa e irritabile, e l’atteggiamento irragionevole di sua madre non la aiutava.
Fosse stato per lei, avrebbe dovuto smettere di andare a scuola e dedicare la sua intera esistenza alla preparazione per quei test, ma Pen non aveva alcuna intenzione di dare un taglio così netto alla sua vita sociale.
Come se non bastasse, anche Allie stava passando un periodo d’inferno. Tra le continue lotte con sua madre e quelle con se stessa, erano più le volte in cui avrebbe avuto voglia di spaccare tutto che quelle in cui si lasciava andare a un sorriso.
L’unica che sembrava essere uscita dal tunnel della disperazione era Chloe, la quale aveva già dato gli esami che doveva dare, aveva smesso di litigare coi suoi e aveva fatto pace anche col suo ragazzo, dopo un periodo d’immense litigate senza fine. E, in tutto questo, era pure riuscita a entrare alla Brown.
Pen si sarebbe tagliata un braccio per essere al suo posto.
Ma non lo era. Era ancora bloccata in quel limbo di agitazione e insicurezza, consapevole che la terra sotto ai suoi piedi sarebbe potuta cadere da un momento all’altro. Era come quando, da bambina, andava nella casa in Colorado e sua nonna la portava a pattinare sul ghiaccio: doveva sempre stare attenta a dove metteva i piedi, non si poteva mai sapere dove il ghiaccio era più sottile e si poteva rompere sotto al suo peso.
Il fatto che anche Allie fosse sulla sua stessa barca non aiutava; anzi, aiutava la parte di lei che aveva voglia di prendersela col mondo, ma non la parte di lei che aveva bisogno dell’abbraccio familiare della sua migliore amica.
Ormai, però, Pen si era rassegnata al fatto che non poteva farci niente. L’unica cosa che avrebbe potuto sistemare il loro rapporto era mettere fine a quella parentesi di pazzia nella loro vita, riprendendo esattamente da dove si erano interrotte prima che il delirio avesse inizio.
Certo, quando Allie le urlava contro che lei non ne sapeva nulla di come si sentiva perché la sua vita era perfetta e lei le rispondeva che, se lei fosse stata meno indecisa, la sua vita avrebbe fatto meno schifo, questo pensiero non sembrava aiutare molto. Comunque, rimaneva lo stesso la migliore prospettiva che avessero.
“Potete almeno fare finta che la cosa vi interessi?”
La voce acuta della professoressa del corso di arte la face quasi sobbalzare.
Lei e un’altra decina di studenti si trovavano nell’ingresso del Museo di Arte Greca, un edificio in marmo che si trovava nel pieno di centro di Preaston Beach.
Quel museo, insieme alla spiaggia, all’acquario e a Starbucks, era una delle poche attrazioni di Preaston Beach, piccola cittadina sulla costa della Florida, probabilmente non segnata sulla cartina e sicuramente dimenticata da Dio.
Ogni tanto, quando sua madre non era sulla soglia della sua stanza a metterle pressione e lei poteva concedersi una piccola pausa dallo studio, Pen si chiedeva come avesse fatto a finire in un posto così inutile e noioso.
C’erano giorni, fin da quando era piccola, in cui si metteva alla finestra e fissava l’orizzonte, immaginando di vivere altrove, in un luogo a cui, in qualche modo, sentisse di appartenere.
Non sapeva come mai il Governo degli Stati Uniti avesse deciso di mettere qualche originale di statuaria greca proprio a Preaston Beach, ma, comunque, si trattava solo di opere minori di autori sconosciuti, mentre le statue più importanti erano delle mere riproduzioni.
La scuola, però, era a corto di fondi, quindi il massimo che la professoressa del corso di arte si era potuta permettere era stato portarli a vedere le ‘fantastiche riproduzioni’ del museo di Preaston Beach.
Suppongo sia meglio di niente, si disse Pen e seguì la professoressa all’interno del museo.
Pen si era iscritta al corso d’arte al secondo anno di liceo, più per ricevere qualche credito e non avere rogne da parte del corpo insegnanti che per altro, ma alla fine il corso era finito col piacerle. Si era ritrovata appassionata di arte antica e, soprattutto, di cultura e mitologia greche, arrivando perfino a pianificare un ipotetico viaggio in Grecia compiuti i diciotto anni – desiderio che, per il momento, era rimasto ben nascosto dentro al doppiofondo di qualche cassetto.
“Fermiamoci qui!” la voce della professoressa rimbombò per il museo quasi deserto e la classe si arrestò. “Sapete chi rappresenta questa statua?”
Nessuno rispose, l’unico suono udibile era quello dei tacchi di una degli addetti alla sicurezza sul marmo rilucente.
La professoressa sbuffò. “Si tratta di Ecate, conosciuta sia presso i greci che i romani come la dea degli incantesimi e degli specchi, capace di viaggiare liberamente tra il mondo degli Dei, quello degli uomini e il regno dei morti[1].” Di fronte ai volti disinteressati di molti alunni, la professoressa sospirò. “Va bene, facciamo così. Vi porto a vedere l’ultima opera e poi potrete fare quello che preferite per un’ora.”
Pen non seppe cosa fecero i suoi compagni, troppo concentrata ad osservare la statua di Ecate. La dea era rappresentata con tre corpi e recava in mano delle torce accese. E i suoi occhi, quei bianchi occhi di marmo, sembravano quasi scintillare di vita.
Cercò di farsi largo tra i suoi compagni per avvicinarsi e poter leggere il cartello con la descrizione dell’opera, che si trovava proprio ai piedi della statua, ma la classe in movimento le impedì il passaggio e la trasportò con sé verso la statua successiva.
La professoressa parlò per quella che a Pen sembrò un’eternità del ratto di Proserpina, la cui opera originale si trovava in qualche museo in Italia, mentre l’unica cosa che lei voleva fare era essere libera di tornare alla statua di Ecate. Non sapeva come mai, ma quel pezzo di marmo sapientemente lavorato l’attirava con insistenza.
“Ci vediamo qui tra un’ora,” sentenziò finalmente la professoressa, concludendo l’infinito elogio alla sapienza dello scultore dell’opera. “E siate puntuali!” Ma ormai, nessuno la stava più ascoltando.
La prima cosa che Pen fece, fu tornare alla statua di Ecate e leggere la descrizione che ne dava il museo, la quale non differiva poi molto da quanto detto dalla professoressa.
“Grazie per avermi piantata in asso,” esordì una voce alle sue spalle e Pen non seppe dire se ci fosse dell’ironia in quelle parole. “Bobby Jordan mi ha tampinata per dieci minuti buoni, continuando a ripetermi quanto fosse fantastico avere un museo così in città.”
Pen si voltò, ritrovandosi faccia a faccia con gli occhi chiari di Allie.
“Scusami,” disse, abbassando lo sguardo per una frazione di secondo. “Prima questa statua mi ha colpita e sono tornata qui senza pensare.”
Allie scosse leggermente il capo, come a dire che non importava. Mosse qualche passo in avanti, avvicinandosi a Pen per vedere la statua più da vicino.
La osservò in silenzio per diversi minuti, seguendo le venature del marmo su e giù per il corpo di Ecate, soffermandosi sui suoi tre volti e sulle torce accese.
“Cosa ci trovi di tanto speciale?” chiese. E non era una presa in giro o un commento pungente, ma una sincera domanda. “È uguale a tutte le altre.”
Pen fece un mezzo sorriso e alzò le spalle.
“Non lo so,” rispose sinceramente. “Mi ha colpita e basta. Credo che l’arte funzioni così. E poi ha quella sorta di bagliore negli occhi… Come un lampo di vita.”
Allie seguì il suo sguardo fino agli occhi di pietra della statua, ma non vide niente se non una pupilla cieca scavata nel marmo.
“Io non vedo niente.”
Per un momento, Pen fu tentata di spiegare quello che aveva visto con parole diverse, ma poi decise di lasciar perdere e di tenerselo per sé.
Anche Allie, come lei, si era unita al corso di arte per una semplice questione di crediti e grane scolastiche, solo che, a differenza sua, il motivo per cui continuava a frequentare il corso era sempre lo stesso;  perciò Pen pensò che forse neanche le interessava capire quello che aveva provato a dirle.
 “Come… Come sta andando a casa?” azzardò. Sapeva che probabilmente stava andando incontro all’ennesima lite, ma non poteva rimanere indifferente alla vita di Allie. Era pur sempre la sua migliore amica, litigate annesse.
“Come sempre,” rispose secca lei. Probabilmente non aveva una gran voglia di parlarne. “I tuoi studi invece?”
Pen si strinse nelle spalle.
“Vanno,” disse. “Mia madre si è evoluta in una versione ancora più rompiscatole di se stessa, ma la data dei test si avvicina, quindi suppongo che presto la tortura sarà finita.”
Allie le sorrise, il primo sorriso genuino da giorni, e Pen s’illuse che, forse, quel giorno sarebbe filato tutto liscio e non avrebbe dovuto aspettare sveglia le due di notte per poterla chiamare, o perché lei la chiamasse, per chiedersi scusa.
“Mi fa piacere per te,” commentò, ma nella sua voce c’era una venatura amara che Pen non poté ignorare. E forse fu proprio questo a tradirla.
“Vedrai che presto andrà tutto apposto,” disse, stringendole leggermente il braccio con una mano. “Passerà.”
Allie sospirò, reclinando la testa all’indietro per fissare il soffitto decorato del museo. Rimase in quella posizione per diversi minuti, in silenzio, e Pen si chiese cosa diavolo stesse facendo con il naso all’insù – su quel soffitto non c’era niente di così interessante da vedere – e quando fu sul punto di chiederglielo, Allie riabbassò il capo.
“Lo pensavo anche io,” iniziò, la voce leggermente incrinata. Ma non dal pianto o dalla frustrazione, da qualcosa che Pen non riuscì a identificare. “Ma ogni volta che torno a casa loro sono lì, ad aspettarmi, pronti per il terzo grado della giornata. ‘Allora, Amanda, ci hai ripensato?’, ‘Pensi che questa scelta sia utile per il tuo futuro o lo fai solo per pigrizia?’, ‘È per un ragazzo?’, ‘È per Penelope?’.
Ogni giorno le stesse identiche domande e la cosa che mi fa infuriare è che non capiscano che è per me che voglio farlo! È per prendere la scelta giusta!”
Pen si morse le labbra, non sapendo cosa dire. Aveva paura che qualsiasi cosa avrebbe detto, sarebbe stata la cosa sbagliata e avrebbe innescato l’ennesima bomba, pronta a far esplodere un pezzo della loro amicizia.
Quando Allie aveva comunicato ai suoi genitori di volersi prendere un anno di pausa dagli studi, per poter viaggiare e riflettere sul suo futuro, i suoi non l’avevano presa bene, anzi, non l’avevano presa proprio. Si erano completamente rifiutati di accettare la scelta della figlia, lottando ogni giorno contro di lei per farle cambiare idea e convincerla ad andare subito al college, credendo che Allie fosse solo pigra o condizionata da qualche amicizia. Non riuscivano proprio a concepire il fatto che potesse essere confusa, che potesse semplicemente avere paura.
E Dio solo sa quanto Pen avrebbe voluto poterle stare accanto a pieno, senza avere i suoi problemi a cui pensare e il proprio genitore contro cui lottare contro.
“Che darei per essere al tuo posto.”
A quelle parole, Pen si voltò di scatto.
“Per quanto le due cose siano diverse, non credere che la mia situazione sia migliore della tua,” rispose, cercando di essere il più cauta possibile. “Gli esami per entrare alla New York University non sono una passeggiata e mia madre che mi tratta come se non facessi abbastanza, come se non fossi abbastanza, non mi aiuta affatto. Casa mia è un delirio ultimamente.”
Allie sospirò, quasi rassegnata, e portò gli occhi verdemare in quelli blu di Pen.
“Sai,” iniziò, con amarezza, e Pen iniziò a prepararsi ad incassare il colpo. “Per una volta mi piacerebbe che tu mi ascoltassi e basta, senza tirare fuori anche i tuoi problemi.”
Pen poté quasi sentire quelle parole colpirla fisicamente e inarcò leggermente la schiena, come se le fossero arrivate sullo stomaco con un cazzotto.
Per quanto le parole di Allie fossero vere, Pen non poté fare a meno di pensare che fossero anche ingiuste. Perché doveva sempre essere lei a sacrificarsi? Perché non potevano fare un po’ per uno? Perché i suoi problemi dovevano sempre essere quelli da mettere in secondo piano, quelli meno importanti?
“Scusami se la mia vita non è tutta rose e fiori,” rispose, con una punta di acido sarcasmo.
“Possibile che tu non capisca che non mi serve a niente sentirmi dire che stai peggio di me?” ribatté Allie, alzando leggermente il tono della voce. “Quando le cose vanno uno schifo non serve a niente sapere che c’è a chi vanno di schifo quanto a te o anche di più, perché le tue cose continuano a essere uno schifo!”
Pen strinse i pugni, cercando di indirizzare la propria rabbia sui suoi palmi serrati piuttosto che sulla sua voce. Alcune teste avevano già iniziato a girarsi alle parole di Allie e l’ultima cosa che desiderava era essere sbattuta fuori dal museo e beccarsi una punizione. La signorina Hoffman sapeva essere tremenda quando voleva.
“E possibile che tu non capisca che io così non ce la faccio?” La voce le uscì più bassa di quanto volesse, sembrava quasi un sibilo appena udibile. “Dobbiamo fare a turno, Allie, io sorreggo te e tu sorreggi me, perché così io non ci riesco. Non ci riesco a sorreggere entrambe.”
Allie si voltò, dandole le spalle. Rimase in silenzio per diversi minuti e Pen si chiese cosa volesse dire quel gesto. Non voleva più parlarne? Aveva già iniziato a tenerle il muso?
“A-Allie,” azzardò, una strana paura che le stringeva lo stomaco in una morsa.
“E io non riesco a sorreggere te,” rispose, finalmente. “Devo cercare di sorreggere me stessa e uscire da questo maledetto casino.”
“Se tu fossi solo meno indecisa…” si pentì di quelle parole nell’esatto momento in cui le uscirono dalla bocca. Istintivamente, si coprì le labbra con le dita e spalancò gli occhi, ma ormai il danno era fatto e niente avrebbe potuto riportare indietro il tempo.
“Dannazione, Pen,” esclamò Allie, irritata. “Quando fai così vorrei non averti mai conosciuta!”
La mano che Pen si era portata alla bocca scivolò lentamente verso il basso, finché il braccio non le ricadde inerte lungo il fianco. Non poteva credere che Allie l’avesse detto davvero… Non poteva averlo detto davvero.
“Sembri…” continuò l’altra, mordendosi le labbra. “Sembri mia madre.”
Pen serrò le labbra, imponendosi di non piangere davanti a lei. L’avrebbe fatto dopo, chiusa nella sua stanza, lontana da tutto il resto.
“Già,” rispose, dura. “Forse, a questo punto, sarebbe davvero stato meglio se non ci fossimo mai conosciute.”
Silenzio.
Allie abbassò lo sguardo sul marmo del pavimento e Pen si concesse un’ultima occhiata alla statua di Ecate. Il luccichio nei suoi occhi era svanito.
“Cavolo, piove!”
Sia Allie che Pen si voltarono: a poca distanza da loro, sulla soglia del museo, Tessa Philips osservava la strada bagnata con disappunto.
“Forza ragazzi!” li esortò la signorina Hoffman. “Sbrighiamoci prima che il tempo peggiori ancora.”
La piccola classe del corso di arte si riunì nell’ingresso e poi, tutti insieme, uscirono sotto la pioggia.
Pen si mise a camminare da sola e notò, con la coda dell’occhio, che Allie era vicina a Bobby Jordan: probabilmente adesso le interessava sapere quanto fantastico fosse avere un museo così in città.
 
Quel pomeriggio, Pen rientrò in casa sbattendo la porta.
Era bagnata da capo a piedi e, probabilmente, se non fosse subito andata a farsi una doccia calda si sarebbe presa una polmonite. Ma non le importava.
Si tolse la giacca e l’attaccò all’attaccapanni, nonostante stesse sgocciolando sul parquet – cosa per la quale sua madre le avrebbe urlato contro per il resto della vita – e poi, con passi acquitrinosi, si avviò verso le scale.
“Ciao Penelope,” esordì la voce di sua sorella. “Grazie per avermi salutata con così tanto entusiasmo. Sì, sto bene, grazie, e sono felice di vederti.”
Pen si fermò, notando sua sorella Aylee seduta su una sedia della cucina.
“Ciao Lee,” rispose, sovrappensiero. “Scusami, ero… distratta.”
Aylee scosse il capo e sorrise.
“La mamma?” domandò infine Pen, sperando con tutta se stessa che fosse fuori o avesse di meglio da fare che tormentarla.
“È a letto con l’emicrania,” spiegò Aylee e Pen annuì, sospirando di sollievo; almeno una cosa per il verso giusto c’era andata quel giorno.  “Cavoli, ma sei fradicia!” esclamò poi, notando che si era portata dietro una scia di acqua piovana.
Pen si guardò i capelli gocciolanti e poi si strinse nelle spalle.
“Sono solo due gocce.”
“Due gocce?! Ma non avevi un ombrello con te?”
Pen inarcò le sopracciglia. “Tu che dici?”
L’altra ridacchiò appena, riconoscendo la stupidità della sua domanda.
“Vado a farmi una doccia calda,” annunciò Pen. “Ci vediamo a cena.”
Non seppe mai se sua sorella annuì, perché la prima cosa che fece fu imboccare le scale e sparire alla vista di chiunque.
Le gocce di acqua calda le scivolarono dolcemente sulla pelle, rinvigorendola e rifocillandola. Riuscirono a liberarla dal freddo dell’acqua piovana, ma non dal freddo che si era impossessato di lei da quando era uscita dal museo. Un freddo che partiva dalle ossa e poi si espandeva in tutto il resto del corpo, senza lasciare nulla di intoccato. 
Rimase sotto la doccia più tempo del solito, convinta di meritarsi una lunga pausa dal mondo reale e, durante quell’interminabile momento bagnato, si mise a pensare alla statua di Ecate a quanto l’avesse affascinata.
“Penelope è pronta la cena!”
Pen arricciò le labbra e, dopo aver gridato un forte ‘arrivo!’, uscì dalla doccia e s’infilò nell’accappatoio morbido.
Sua sorella e sua madre erano le uniche a chiamarla con il suo nome intero, Penelope, una cosa che Pen odiava da morire. Non sapeva come mai sua madre avesse scelto proprio quel nome, ma probabilmente l’aveva fatto per renderle la vita un inferno.
Tra le persone che frequentava, solo in pochi sapevano il suo vero nome, gli altri l’avevano sempre conosciuta solo come Pen.  
Si vestì di corsa, indossando subito il pigiama, e poi scese al piano di sotto, sperando che sua madre fosse abbastanza spossata da non voler cenare.
Pen aveva sempre voluto molto bene a sua madre e tra di loro si era instaurato un rapporto abbastanza amichevole dopo che i suoi avevano divorziato e suo padre era andato a vivere a New York, facendosi vedere una volta ogni diecimila anni. Ma, nonostante questo, quella donna riusciva comunque ad essere insopportabile quando si trattava del suo futuro.
Poiché lei non aveva avuto l’opportunità di finire il college a causa di problemi finanziari della sua famiglia, era come se Pen avesse dovuto farlo per lei. Come se Pen avesse dovuto vivere la vita che lei si era persa, senza capire che non aveva messo al mondo una figlia perché rimediasse ai suoi errori e vivesse i suoi sogni, ma perché vivesse i propri.
Fortunatamente, in cucina c’era solo Aylee e il tavolo era apparecchiato solo per due.
La cena si svolse in relativo silenzio e Pen cercò di mangiare il più velocemente possibile: fin da quando si era alzata, quella mattina, aveva anelato il momento in cui avrebbe potuto nuovamente infilarsi sotto le coperte, possibilmente con un buon libro da leggere.
Dopo aver salutato Aylee con un sorriso abbastanza realistico, Pen tornò a rintanarsi di sopra, pronta a vedere realizzato il sogno di quella giornata.
Quando fu sotto alle lenzuola con Ricordi di un vicolo cieco, però, si rese conto che tutto quello non sarebbe bastato a farle dimenticare le parole di Allie.
Vorrei non averti mai conosciuta.
Per quanto Pen si sforzasse di essere arrabbiata con lei e di ripetersi che non aveva alcun diritto di scaricare su di lei la propria frustrazione, non riusciva a ignorare la puntura dolorosa che le provocava il ricordo di quelle parole.
Cercò di buttarsi a capofitto nella lettura, concentrandosi sulle parole melodiose di Banana Yoshimoto e sui suoi racconti particolari, che la portavano inevitabilmente nel floreale Giappone.
Quando chiuse il libro e si voltò per guardare l’ora, erano quasi le due del mattino. Mancavano esattamente due minuti e pochi secondi.
Istintivamente, Pen guardò il cellulare posato sul comò: lo schermo era nero, nessun messaggio.
Avrebbe potuto aspettare, in fondo mancavano solo due minuti. Avrebbe potuto…
Scosse il capo, sciogliendo i lunghi capelli castani tenuti insieme, fino a pochi istanti prima, da un vecchio elastico nero, e poi portò la mano sull’interruttore.
Guardò il telefono un’ultima volta e poi, stringendo le labbra, spense la luce.
Questa volta non avrebbe aspettato. Se Allie avesse voluto scusarsi, l’avrebbe fatto a un orario normale come le persone normali.
Lei non l’avrebbe aspettata. Era stanca di aspettare. 






Emi's corner
Allooora, ultimamente ho in cantiere un bel po' di originali e questa mini-long è la prima che ho deciso di pubblicare. Essendo, appunto, una mini-long non sarà molto lunga, sei-sette capitoli al massimo, ma spero comunque che qualcuno possa apprezzarla. 
In questi giorni ho dato uno sguardo alle altre originali che ho postato sul sito e a quelle mai pubblicate e credo che, in questo campo, io sia cresciuta molto, perciò mi farebbe molto piacere avere una vostra opinione in merito a questa storia, senza lasciarvi ingannare da lei. Chiedo solo, a coloro che leggeranno questo capitolo e saranno indecisi se continuare o meno per paura che sia la 'solita storia', di fidarvi un pochino di me. Se poi vi deluderò, siete autorizzati a venire sotto casa mia a picchiarmi a sangue e tagliarmi le mani, cosicché io non possa scrivere più nulla! 
Scherzi a parte, chiunque la leggerà mi renderà felice, che lasci o meno una recensione (anche se fanno sempre piacere, negative o positive che siano). Quindi ringrazio tutti coloro che sono arrivati fino a qui, perché per me è già molto :)
Spero di ritrovarvi nel prossimo capitolo (che arriverà tra una settimanella) e di avervi incuriosite/i un po'. 
Un bacio a tutti,
Emily ^^ 



[1] Definizione presente su Wikpedia riguardo Ecate nella mitologia
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Emily Kingston