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Autore: hollien    04/05/2014    6 recensioni
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Hanamichi Sakuragi lavora come cameriere in un bar nel centro della prefettura di Kanagawa insieme al suo inseparabile migliore amico, Yohei Mito.
Il Monkey’s room, questo è il nome del bar, è gestito dai genitori di Yohei, i quali hanno voluto offrire un posto ad Hanamichi in modo da poterlo aiutare a sostenere le spese per poter continuare a frequentare l’accademia di belle arti. Nonostante la sua vita sia stata caratterizzata da un periodo oscuro di cui tutt’ora non va fiero, Hanamichi cerca di lasciarsi alle spalle le sue brutte esperienze passate rifugiandosi nell’arte, nel lavoro e nel presunto amore che ha per la sorella minore di un suo collega ed amico: Haruko Akagi. Quello che non sa è che tanto altro l’aspetta, primo tra tutti un individuo, o meglio, la narcolessia fatta persona, dal carattere gelido ed intrattabile che gli procurerà non pochi problemi.  
[Slam Dunk - HanaRuHana, Altri pairing]
Il rating potrebbe alzarsi nel corso della storia!
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Akira Sendoh, Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa, Yohei Mito
Note: AU, Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scleri pre-capitolo: Allora, come sappiamo tutti - perché tutti ci passiamo, è un dato di fatto - non è mai facile quando si entra in un nuovo fandom. Purtroppo sono una ragazza particolarmente frignona emotiva perciò, se mi dovesse capitare di cominciare a sclerare per solo Kami-sama sa, non vi preoccupate, è normale. Tralasciando flippe che immagino vi interessino quanto un cactus nelle mutande di Hanamichi (povera la mia scimmietta), volevo dirvi che era da una vita che desideravo pubblicare qualcosa su un capolavoro come Slam Dunk - e sulla mia OTP, of course. Purtroppo per voi non vi dirò se la storia sarà RuHana o HanaRu, gumen. ;w;
In ogni caso, è solo grazie a Slam Dunk se tutt'ora amo i manga spokon e ho rimpianto sino ad oggi di non avervi mai scritto nulla. Tuttavia, finalmente, mi sono decisa a pubblicare una long-fic dopo una fruttuosa riflessione mangiando patatine e chili di nutella tipo eremita dei boschi. (?) Ho voluto cominciare con qualcosa di soft (credo), comico, ma anche introspettivo con qualche accenno angst. Btw, vi informo che la sottoscritta è tutto fuorché amante della serietà. PRO IDIOZIE FOREVER. Avrò tempo per sfogarmi più in là, non temiate.
Non mi resta altro da dire se non che spero apprezziate questa mia piccola chicca e che mi facciate sapere cosa ne pensate tramite una piccola recensione. Non chiedo niente di più!
Disclaimer: I personaggi di Slam Dunk non mi appartengono, ma se mi appartenessero avrei donato un cervello a quella babbuina di Haruko Akagi, oppure le avrei dato fuoco. Mi sarebbe comodo estirparla per sempre, ecco. (◕‿◕✿)

N.B: Non metto la nota OOC perché spero con tutto il mio cuore di non cadervi. Ai fini della storia tutti personaggi che conosciamo avranno sulla ventina d’anni. Il nostro Rukawuccio, forse, potrebbe essere più talkative del normale.
hollie.
 
 
 
 
 
Monkey’s room
Chapter 1: Di inizi inaspettati e prospettive non proprio rosee



Il risveglio di quella mattina, come da routine, era stato un completo disastro. Non sapeva perché, anzi, non era vero, lo sapeva benissimo perché ogni sacro santo giorno si svegliava con l’umore nero e la voglia di uccidere la prima persona che gli capitava a tiro.
Tutto partiva dal suono dell’aggeggio che se ne stava sul suo comodino accanto al letto – che ora si trovava a terra dopo averlo casualmente preso e scaraventato involontariamente contro il muro della stanza senza alcuna pietà. Come da suo compito, l’oggetto malefico si era messo a scampanellare alle 9:00 precise del mattino, distruggendo la sua già poca pazienza e la sua facile irritabilità con un continuo drin drin che il ragazzo dai folti capelli rossi aveva percepito come tanti piccoli aghi infilzati nelle orecchie. Una tortura, in pratica.
In sintesi, si svegliava puntualmente con le palle girate perché non riusciva ad impedirsi di non far finire una sveglia fracassata sul pavimento, e ciò che lo faceva incazzare il doppio, invece, era che stupidamente continuava a comprarne di nuove per riuscire a superare quel duro ostacolo chiamato “risveglio con il botto”.
Tirando le somme, Hanamichi Sakuragi e le sveglie erano due mondi completamente diversi che non avrebbero mai potuto trovare un punto di incontro, tuttavia gli era necessario averne una accanto perché, altrimenti, rischierebbe ogni volta di tirare avanti a dormire fino ad un orario improponibile, per il quale non sarebbe mai stato perdonato dai suoi due cani da guardia – o anche conosciuti come mamma e Yo.
Con lentezza degna di un bradipo si era levato le coperte calde di dosso, dopodiché aveva appoggiato entrambe le piante dei piedi sul pavimento cercando di ricordare come diamine si facesse ad alzare il culo dal letto e riuscire a camminare. C’era voluto più di qualche istante prima che il cervello gli desse una risposta soddisfacente.
Una volta raccolte le forze necessarie si era diretto verso il bagno, spogliandosi e buttandosi in doccia nella speranza di risvegliare i muscoli tonici e la mente che ancora stavano navigando nel mondo dei sogni.
Così non era stato, tanto per cambiare.
Fortunatamente ci aveva pensato la colazione bella carica preparata da sua madre prima di andare al lavoro a dargli quella botta di vita che lo avrebbe salvato per il resto della giornata. Nel suo metro e cinquantanove di altezza, Sakuragi Mariko era una piccola grande cuoca di cui Hanamichi andava molto fiero.
Era giunto alla conclusione che senza di lei sarebbe morto di fame, proprio per questo non aveva ancora preso in considerazione la possibilità di andare ad abitare da solo. Non ne sarebbe uscito vivo.
Finito di divorare l’ultima ciotola di riso bianco si era diretto nuovamente in camera sua, sostituendo alla canottiera e ai suoi vergognosi pantaloncini bianchi a pois rossi una comoda maglia bianca a maniche corte e un paio di jeans chiari larghi al punto giusto. Le scarpe da ginnastica del medesimo colore del primo indumento le sarebbe dovute andare a raccattare nel genkan, per questo optò prima di darsi una veloce lavata ai denti e una pettinata ai capelli, poi vestirsi con il pesante giaccone blu, infilando nelle tasche chiavi e cellulare, ed infine recuperare le scarpe nello spazio apposito della casa.
Era uscito dalla propria dimora di corsa per evitare di perdere il bus, combattendo il freddo che, dannazione, quella mattina si era fatto sentire più che mai. Tra sé e sé, in quel momento, aveva pensato che non si sarebbe meravigliato se, durante il tragitto, i suoi piedi si fossero ghiacciati e gli avessero impedito di proseguire.
Dopotutto la sfiga lo amava così tanto, perché non giocargli un altro dei suoi scherzi molto simpatici?
Con sua immensa gioia era riuscito ad infiltrarsi nel bus senza incidenti di percorso prima che l’autista gli sbattesse le porte in faccia, trovando pure da sedere – ma quello era dovuto soprattutto al fatto che la gente, spaventata dall’aria da teppista che emanava con i suoi assurdi capelli rossi e i suoi tratti fin troppo marcati per un giapponese, gli lasciasse appositamente il posto per non stargli troppo vicino.
Alcuni avrebbero potuto pensare che fosse triste esser giudicati prima di aver dato dimostrazione della propria vera essenza, Hanamichi no. Ci aveva fatto l’abitudine, e l’idea che le persone si facevano di lui non era poi completamente sbagliata.
Il tragitto era durato dieci minuti nei quali Sakuragi si era gongolato pensando a cosa lo avrebbe aspettato una volta giunto a destinazione – escludendo una strigliata per uno dei suoi soliti ritardi.
Aveva abbandonato il bus dopo sei fermate e, una volta sceso, la sua vista era stata immediatamente accolta da un’insegna argentea applicata su una grande struttura bianca latte.
“Monkey’s room”, c’era scritto in caratteri lineari e ben coincisi.
Sì. Chiunque sapesse anche solo un minimo di inglese avrebbe pensato che era da idioti dare un nome tanto stupido e senza senso ad un bar. Si addiceva più che altro al nome di uno zoo.
Hanamichi non si era mai interrogato sulla natura di quella denominazione, né tanto meno era interessato a sapere quale storia mastodontica vi fosse dietro. L’unica cosa che gli interessava era lavorarvici come faceva già da qualche mese.
Aveva buttato un’occhiata all’orologio da polso, accorgendosi di esser in ritardo di soltanto una mezz’ora. Un super record per un ritardatario come lui.
Se l’era risa sotto i baffi mentre aveva girato l’angolo nella via che affiancava il bar per potervi entrare dall’esterno, evitando la strada peggiore ovvero quella di entrare dall’ingresso ed esser preso di mira dai suoi colleghi che l’avrebbero fatto sgobbare il doppio per fargliela pagare.
Superato il cancelletto notò parcheggiato nel piccolo giardino retrostante uno squallido motorino rosa shocking, riconoscendo immediatamente di chi fosse dato che solo una persona in tutta Kanagawa aveva il coraggio di girarvi per le strade.
“E’ già arrivato”, constatò con amarezza. Giurò su chiunque che prima o poi – più poi che prima – avrebbe anticipato tutti quanti, lasciandoli a bocca aperta. 
Costringendosi a non sputare su quel catorcio ambulante e passare avanti, Sakuragi salì tre scalini e aprì la porta che divideva l’interno dall’esterno, cercando di far rumori limitati, quasi inudibili, reprimendo la voglia di fare una delle sue solite entrate in scena. Così facendo avrebbe potuto sgattaiolare in bagno ed inventarsi la scusa di esser presente già da un pezzo ma che, avendo avuto dei problemi urgenti allo stomaco, si era potuto mostrare solo in quell’istante.
“E’ un piano perfetto”, confermò a se stesso, lodando la sua tattica. Peccato non avesse messo in preventivo, una volta varcata la soglia, di trovarsi davanti ad un armadio molto più alto e grosso di lui con le mani poggiate sui fianchi e lo sguardo da serial killer.
Hanamichi levò lo sguardo a tratti, pregando cieli e terre che non fosse chi pensava che fosse.
«Akagi…senpai?», domandò con finta innocenza quando i suoi occhi selvatici incontrarono due iridi nere come la pece, sforzando un sorriso che chiedeva pietà.
Nel novanta per cento dei casi l’avrebbe sbudellato vivo. Nel restante dieci per cento dei casi l’avrebbe preso di forza e fatto volare dall’altra parte della città.
L’espressione di Akagi Takenori si indurì ancor di più quando udì quell’onorifico ridicolo accompagnato al suo cognome, soprattutto perché proveniva dalle labbra di Hanamichi, colui che la parola rispetto, almeno nei suoi confronti, non sapeva nemmeno che cosa volesse significare.
Le probabilità di rimanere illeso per i prossimi dieci secondi, constatò il rosso facendosi sempre più piccolo, si erano abbassate vertiginosamente allo 0,05 per cento.
«Pessimo modo per cercare di salvarti le chiappe, Sakuragi. Non convinceresti nessuno con quel tono da ragazzina vergine.»
L’altro alzò gli occhi al cielo grugnendo, spalmandosi contro la parete. «Apprezza lo sforzo Gori. Ha fatto senso anche a me chiamarti senpai, non credere.»
Ad Akagi si allargarono pericolosamente le narici, il che voleva significare solo una cosa: era fottuto. Accidenti a lui e alla sua lingua che se ne andava per conto suo.
Al contrario di ciò che si aspettava, però, il Gorilla se ne rimase buono, liquidandolo con un semplice: «Muoviti a cambiarti che abbiamo il pienone stamattina.»
La faccia di Hanamichi navigò tra lo stupore, il disappunto e la delusione.
Gori che non sbraitava e non gli rinfacciava di esser un inutile idiota senza cervello? Gori che non lo prendeva a mazzate per le sue solite prese per il culo? Gori che si stava allontanando senza più aggiungere un’altra parola?
«Sei sicuro?», domandò ad voce alta grattandosi la nuca. Forse stava ancora dormendo e quello era solo un sogno. Non poteva esistere una realtà in cui Akagi Takenori non lo pestava per cercare di vedere se una botta in testa, magari, gli avrebbe donato un po’ di intelligenza in più. «Non è che non ti senti bene?», ma Akagi se ne era già sparito nel salone principale, ignorandolo bellamente.
«Cosa ne sarà della mia vita ora?», si chiese tristemente Sakuragi mentre si dirigeva nello spogliatoio per potersi cambiare ed indossare la divisa da lavoro.
Conosceva Akagi da ormai un anno e mai, ma proprio mai una volta si era lasciato sfuggire la possibilità di insegnargli le buone maniere. Il rosso si divertiva a vederlo andare su tutte le furie e scappare prima che riuscisse ad acchiapparlo e stringerlo nella sua famosa mossa “la morsa del Gorilla”. Se poi lo riusciva ad acchiappare beh, quella era un’altra storia – molto più dolorosa.
Teatralmente si appoggiò allo stipite della porta con l’aria distrutta, pregando Kami-sama di ridargli indietro il Gori di sempre e non quella specie di amorfo che aveva preso il suo posto.
«Hanamichi?», venne chiamato improvvisamente da una nuova presenza dalla voce meno roca di Akagi ma non meno bassa e mascolina. Non dovette nemmeno girarsi per poter riconoscere a chi appartenesse. «Cosa staresti facendo esattamente?»
Sakuragi si voltò lentamente, l’aria di uno che aveva ricevuto la notizia più brutta della sua intera esistenza.
«Gori…», piagnucolò, recitando in maniera drammatica davvero pessima. «Gli hanno fatto il lavaggio del cervello, Yo!»
Yohei Mito, il povero martire, o anche conosciuto come il migliore amico della testa rossa, scosse il capo, constatando che la carriera d’attore shakespeariano non faceva per lui.
«Vorrei vedere te. Se provi a dare un’occhiata in sala ti renderai conto del perché è rigido come un pezzo di legno.»
Sakuragi smise immediatamente di fare l’idiota patentato e si mise in moto per dare una sbirciata alla situazione come gli aveva consigliato Yo. Una volta tornato indietro i suoi occhi avevano assunto una forma a palla.
«Stai scherzando vero?», interrogò con il tono incrinato. Il suo intuito gli stava suggerendo di scappare. «Ti prego, dimmi che stai scherzando Yohei. Sono solo le 10:30 del mattino, com’è possibile…?»
«Abbiamo delle special guest», spiegò Mito sbrigativo, incrociando le braccia al petto leggermente su di giri. Anche lui era rimasto stupefatto quando aveva visto tutta quella baraonda di ragazze urlanti spingersi, tirarsi i capelli e strisciare a terra per poter raggiungere gli oggetti di adorazione che avevano fatto ingresso nel suo bar.
A quanto aveva capito erano due modelli che stavano spopolando tra le teenagers e le giovani donne negli ultimi tempi. Lui, disinteressato a certe porcherie come giornaletti e riviste di moda, non li aveva mai sentiti nominare.
«Moriremo», gli fece notare Sakuragi, sovrastandolo in altezza e afferrandolo per le spalle. «Lo capisci?»
Yohei si liberò in fretta della presa per evitare che Hanamichi cominciasse a fracassargli le ossa dalla disperazione, dandogli delle pacche sulla schiena, incoraggiandolo con un ghigno. «Dai che con tutte le ragazze che ci sono forse un po’ di figa la trovi anche tu. Sarebbe anche l’ora a vent’anni.»
Venne subito fulminato da uno sguardo castano assassino, ma, per volere del fato, non venne colpito da una testata. Strano, quel giorno sembrava che tutto funzionasse all’incontrario.
«Il mio cuore è solo per la mia Harukina cara. Delle altre galline mestruate non me ne importa niente», mise in chiaro per l’ennesima volta, professando indirettamente il suo eterno amore per la sorellina minore di Akagi – che, tra parentesi, lo vedeva come l’amico a cui confidare ogni cosa. Altro che prossimo fidanzato!
Era ammirevole Hanamichi da quel punto di vista. Quando qualcosa gli piaceva, che fosse una persona o una passione, non mollava mai, neanche quando sapeva di non avere speranze. Così era stato con Haruko, così era stato con l’accademia delle belle arti che tutt’ora stava frequentando.
Una qualità che Mito non possedeva e che invidiava al suo migliore amico da quando erano bambini.
«Va bene, va bene». Non osò ribattere altrimenti una testata, questa volta, non gliela avrebbe risparmiata. «Ora torno dentro che altrimenti Noma, Okusu e Takamiya impazziscono. Takamiya ha rischiato lo svenimento per un calo di zuccheri poco fa, tra l’altro.»
Sakuragi strabuzzò gli occhi incredulo. «Ma se è sempre dietro a mangiare quel maiale!»
Yohei fece spallucce. «Si vede che stavolta non ha mangiato le quantità giuste», se esistevano delle quantità di cibo sufficienti per Takamiya, poi, era un mistero. «Scappo, tu muoviti!»
E così sparì, affrontando con coraggio la clientela che di sicuro lo avrebbe assalito.
Hanamichi non scappò anche se la tentazione era tanta.
Non era un granché come cameriere, era più bravo a starsene dietro il bancone ad aspettare che le persone pagassero il conto – almeno ci pensava la cassa a fare i calcoli per lui; ma quella volta avrebbe dovuto per forza stanarsi dal suo recinto di protezione e prendere le ordinazioni affiancando Yohei, il resto dell’armata, Gori e Megane (Kogure), magari evitando di fare i suoi soliti teatrini da megalomane.
Era più forte di lui però. Cosa poteva farci se era un genio e doveva esternare tutta la sua magnificenza al mondo intero?
Accantonò quei pensieri rifugiandosi nello stanzino apposito per cambiarsi, togliendosi gli indumenti comodi, appallottolandoli e gettandoli dentro l’armadietto, dopodiché indossò la divisa da cameriere: camicia bianca a righe bordeaux abbottonata fino al collo, cravatta, pantaloni e scarpe nere. Il grembiule fu la ciliegina sulla torta.
«Sono pronto», affermò ad alta voce, ravvivandosi i capelli a fiamma e dirigendosi verso il salone principale.
Avrebbe combattuto il male - rappresentato dalle ragazze carine ma starnazzanti quanto delle galline più il resto dei clienti estranei all’evento - e ne sarebbe uscito vincitore come ogni volta.
Era un Tensai dopotutto.
Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, dopodiché entrò come un soldato valoroso farebbe nel momento in cui sa che sta per andare in guerra a combattere contro il nemico.
Tutto proseguì in modo pressoché liscio, così liscio che trovò il coraggio di aprire piano le palpebre e rendersi conto che tutte le ragazze erano accumulate lungo il bancone, arrapate quanto potrebbe esserlo una donna che non vede un uomo da più di vent’anni. Possibile che gli ospiti famosi di cui parlava Yohei fossero di una bellezza così accecante da esser addirittura delle calamite per gli ormoni femminili?
«Queste sono possedute», disse un Okusu perplesso, apparendo improvvisamente alla sua destra.
Anche Noma lo affiancò repentino, gli occhi che sembravano volersi mangiare ogni donna presente nel bar. «Vorrei essere al posto di quei due ragazzi. Un harem solo per me…»
L’ultimo a comparire fu Takamiya con in mano del cibo – tanto per cambiare. Si era ripreso in fretta dal mancamento. «Aspetta e spera, Noma. Non raggiungerai la loro bellezza nemmeno tra due vite.»
Hanamichi li fissò uno dopo l’altro, aspettandosi un saluto. Niente. Gli erano accanto e non avevano nemmeno avuto la decenza di dire un “ciao”.
«Buongiorno anche a voi!», tuonò quindi, attirando la loro attenzione su di sé. Odiava essere invisibile, lui era il tensai! Nessuno si poteva permettere di ignorarlo.
«Buongiorno anche a te, Hanamichi», risposero in coro, tutti e tre come se niente fosse. «In ritardo come sempre eh?»
Sakuragi annuì svogliatamente, rimpiangendo di non essersene rimasto a letto. Ora la situazione sembrava abbastanza gestibile, ma quando avrebbero cominciato ad ordinare sarebbe stato una tragedia per tutti.
«Le avete già affrontate?», domandò lanciando un’occhiata all’Armata, non specificando i soggetti. Avrebbero capito comunque.
Okusu scosse la testa, arrovellandosi i baffetti. «Nessuno ne ha il coraggio. Neppure Akagi. Si è limitato a prendere le ordinazioni degli altri clienti.»
Noma confermò. «Yohei invece è insieme a Megane-kun nelle cucine a preparare il tè e sfornare altre brioche.»
«Ci vorrebbe qualcuno che fosse abbastanza coraggioso da richiamare all’ordine le bisbetiche e che cerchi di recuperare quei due poverini che sono stati accerchiati.»
Non seppe perché ma Hanamichi si trovò repentinamente a sostenere lo sguardo supplicante di tre persone.
Oh no. Non volevano mica che…
«State dicendo che dovrei essere io quella persona coraggiosa?!» sbraitò, non nascondendo il suo disagio.
Non se ne parlava. Ci teneva alla pelle. Quelle pazze lo avrebbero fatto a pezzi e messo in padella piuttosto che ascoltarlo.
I loro occhi si fecero ancora più grandi e supplichevoli, le mani incrociate per pregarlo. «Non c’è nessuno meglio di te che potrebbe farcela», lo lusingò apposta Noma per ammorbidirlo, facendo l’occhiolino agli altri due per cercare del sostegno morale.
«Esatto. Quelhlo con le pallfe qufi sei vu Hanamifi», si aggiunse Takamiya, parlando - sputando - mentre aveva ancora la bocca piena di patatine.
«E poi…», Okusu prese in mano le redini giocandosi l’ultima carta, «sei o non sei il Tensai
Sbam.
Fu come se un secchio d’acqua gelata gli fosse appena stato rovesciato addosso.   
Era vero. Come poteva lui, colui che andava in giro ad autoproclamarsi il genio assoluto, avere paure di quattro ragazze – la matematica non era mai stata il suo forte – in balia degli ormoni? Gliel’avrebbe fatta vedere. Col cazzo che si tirava indietro.
Noma aveva ragione: nessuno meglio di lui era adatto per un compito simile. Akagi e Yohei non erano altro che due cagasotto al suo confronto.
«Mi avete convinto», decretò, snudando i denti in un sorriso che trasudava superiorità. «Andrò lì e farò in modo che si diano una calmata quelle squinternate. Quando do la mia parola niente può fermarmi.»
I tre membri della Guntai alzarono il pollice in segno di vittoria, complimentandosi per il loro impeccabile piano riuscito. Ora non gli restava che guardare che fine avrebbe fatto il loro capo; già avevano aperto delle scommesse su come lo avrebbero malmenato.
«Vado eh», annunciò di nuovo Hanamichi, convincendo loro ma anche se stesso a non mollare, facendo un passo dopo l’altro in maniera meccanica, inspirando, se non tutto, quasi tutto l’ossigeno presente nell’aria.
Mille domande gli si stavano affacciando nell’anticamera del cervello mentre si avvicinava al gruppo delle ragazze assatanate: cosa faccio se mi attaccano? Qualcuno verrà al mio funerale? Come farà il mondo senza la mia genialità?
Ormai era troppo tardi per darsi una risposta. Tutti i clienti che si trovavano in disparte, l’Armata, Akagi, Kogure e Yohei avevano gli occhi puntati su di lui, curiosi di scoprire come sarebbe andata a finire.
Hanamichi fece un paio di colpi di tosse e, dopo aver attirato la loro attenzione e gonfiato i polmoni, cominciò ad urlare: «Scusatemi se vi interrompo ma state creando un gran casino all’interno del bar! Capisco che vogliate leccare i piedi alle super star lì davanti ma vi pregherei di accomodarvi ai tavoli! Qui dobbiamo lavorare! Se non siete interessate a prendere nulla allora vi chiederei gentilmente di andarvene!» O vi assicuro che ci penserò io a farvi scappare, omesse.  
Calò un silenzio generale in tutto il salone – a patto di Yohei e il resto dell’armata che si stavano trattenendo dal ridere; si protese per diversi istanti finché una voce, anzi, un canto angelico non si fece sentire in mezzo al gruppo illuminandogli gli occhi di una luce nuova: «ragazze, quest’uomo ha ragione. Abbiamo creato una grande confusione fino ad adesso, è ora di placare i nostri animi e comportarci da persone civili.»
Partì un bisbiglio generale che si dissolse in grugniti, cenni di disappunto ed amarezza, insieme allo sciogliersi dell’ammassamento che si era creato intorno al bancone. Alcune rimasero all’interno del bar, sedendosi nei tavoli vuoti, altre invece se ne andarono. Evidentemente non avevano soldi per potersi prendere anche solo un caffè quelle ingrate.
Ce l’aveva fatta. Aveva combattuto il male e tutto questo grazie anche a…
«Haruko-san!», esclamò felice come una pasqua, andando incontro al suo raggio di sole con il cuore nel petto che batteva a mille.
«Sakuragi-kun!», ricambiò la ragazza dai capelli castani, sorridendogli come solo lei sapeva fare.
Era dolce e carina la sua Haruko: proprio come un angelo venuto dal cielo lei lo aveva salvato.
«Grazie per aver preso le mie difese Harukina cara, anche se il Tensai ce l’avrebbe fatta comunque a tenergli testa».
Scoppiò in una risata sguaiata, il suo famoso marchio di fabbrica che fece ridere, di conseguenza, anche lei. 
«Figurati! Anzi, mi dispiace Sakuragi-kun. Ho perso il controllo anche io quando ho saputo che beh, ecco, loro, anzi, lui era qui.» Il sangue le affluì violentemente nelle gote, rendendole di un colorito quasi purpureo. «Insomma, n-non capita spesso di incontrare il tuo idolo nello stesso posto in cui lavora tuo fratello.» Si afferrò il viso tra le mani, indirizzando un’occhiata verso una parte del bar, precisamente dove prima le ragazze erano accavallate l’una sopra l’altra in modo più concentrato.
Seguì la linea immaginaria del suo sguardo fino a che non incontrò un paio di iridi blu elettriche che lo stavano fissando in maniera non proprio carina, quasi con fare annoiato ed innervosito allo stesso tempo.
Quel tipo era il “lui” per cui la Akagi era arrossita fino alla punta dei capelli.
Hanamichi si prese un attimo per mettere a fuoco la figura che ora gli stava puntando un dito contro: corti capelli corvini accompagnati dalla frangia che ricadeva sul viso ovale, lunghe ciglia che mettevano in risalto quegli occhi dal colore intenso come la notte, labbra sottili e ben delineate, pelle pallida come la neve, corpo slanciato e decisamente cesellato; dai tratti non sembrava mostrare alcuna imperfezione. Sakuragi si trovò stupidamente a pensare che avrebbe potuto benissimo eguagliare statue che rappresentavano gli dei dell’antica Grecia talmente era perfetto.
Il David di Michelangelo gli avrebbe fatto un baffo, a confronto.
«Tu» venne chiamato con tono sufficiente, quasi stesse parlando ad uno scarafaggio. «Vieni qui e prendi il mio ordine.»
Le regolari sopracciglia di Sakuragi si abbassarono pericolosamente. Sperava di aver capito male. «Come prego?»
Il moretto alzò gli occhi al cielo. Già detestava esser finito in quel buco di posto, in più gli toccava ripetere la stessa affermazione per la seconda volta quando odiava sprecare parole inutili. «Sei idiota? Ho detto di venire qui. Devo ordinare. Aspetto da mezz’ora.»
I nervi di Hanamichi saltarono uno dietro l’altro come corde di violino, scatenando in lui la voglia di spiaccicargli quel faccino furbo sul tavolo o, peggio ancora, prenderlo a testate con la stessa crudeltà di un tempo.
Chi pensava di essere quello? Nessuno poteva permettersi di trattarlo come un imbecille, al di là del fatto che tizio fosse famoso e lui no.
Possibile che alla sua Haruko piacessero dei tipi del genere? Lanciando un’occhiata rapida alla ragazza con la bavetta alla bocca decretò che sì, gli piacevano eccome.
«Gumen gumen!», intervenne la figura al fianco del pallone gonfiato, rivelandosi essere la seconda special guest della giornata. Fu di aiuto ad Hanamichi spostare la propria attenzione su quella nuova presenza dalla faccia sorridente. Assomigliava in maniera impressionante ad un Buddha, forse un po’ più magro e dai capelli dall’acconciatura decisamente singolare - parlava lui - ma l’aura che lo circondava era la stessa.
Trasmetteva uno strano senso di pace interiore e calma: ad occhio e croce sembrava più alto rispetto a quell’altro, il corpo meno snello per merito della muscolatura più pronunciata.
«Il mio amico è sempre un po’scorbutico, lascialo perdere.»
Faccia da schiaffi mugugnò un “mh” tra le labbra, mantenendo quell’aria da chi stava sopra a tutto e a tutti.
Non sapeva manco chi fosse ma già lo stava facendo incazzare come una bestia; in più, come se non bastasse, la sua Harukina aveva ancora lo sguardo venerante puntato su di lui.
«Potremmo ordinare?», chiese con cortesia Mister stinco di santo, concedendosi una breve risata.
Pareva uno di quei serial killer da film horror che ti ammazzano con il sorriso.
Hanamichi, alla fine, annuì, lasciandosi sfuggire un suono gutturale ad indirizzo dello schiavista affianco. Peccato avesse già smesso di guardarlo facendosi i fatti propri.
Abbandonò con tristezza Haruko per dirigersi dietro al bancone in legno a fare ciò per cui veniva pagato, seguito da delle grosse risate da parte dell’Armata che si stava gustando la scena da lontano.
In risposta Hanamichi si voltò per un breve attimo verso di loro, facendogli segno che nella pausa pranzo li avrebbe conciati per le feste. Un deglutire generale tra i tre lo fece sentire molto meglio.
«Dici che Sakuragi avrà bisogno di una mano, Mito-kun?», interrogò Kogure, spiando la situazione dalla cucina.
Non aveva mosso un solo dito in precedenza solo perché gli era stato imposto da Akagi. “Deve capire che non può più permettersi di comportarsi da adolescente, è un uomo ormai”, gli aveva spiegato il suo compagno, convincendolo con quelle parole a far in modo che non intervenisse.
«Se la caverà», affermò Mito in un sorriso fiducioso. «Anche Gori è d’accordo con me», e proprio in quell’attimo Akagi si era girato, lanciando un’occhiata d’intesa a quest’ultimo.
Kogure, nonostante il tono tranquillo di Yohei, si sentì di fargli notare che Sakuragi stava fumando dalla rabbia per colpa di uno dei due ospiti.
«Non è più un ragazzino, Kogure-san. Ha imparato a controllare la sua impulsività nelle situazioni che lo richiedono.» E anche io, materializzò nella sua mente.       
A quel punto, al castano, non restò che rimanersene in silenzio a finire di scottare le cialde ed imbottire i krapfen con la crema, nella speranza che Mito ed Akagi avessero ragione. Si fidava del loro giudizio.
«Allora, signori», disse Hanamichi con tono educato, palesemente forzato dalle circostanze, «che cosa vi posso portare?»
Capelli a punta diede un’ultima occhiata al menù prima di decidere in via definitiva. «Una tazza di tè verde e una ciambella, possibilmente al cioccolato», rivolse poi l’attenzione al ghiacciolo, «tu…Rukawa?».
“Si chiama Rukawa dunque” memorizzò la testa rossa, annotandosi su un foglietto l’ordinazione appena richiesta.
«Mh. Un bicchiere di latte», esalò l’altro con pigrizia, appoggiando il gomito sul bancone per sostenere il peso della testa.
Sakuragi si lasciò sfuggire una bassa risata derisoria.
Sembrava uno di quegli adolescenti che credevano che bevendo latte sarebbero cresciuti in altezza in un batter d’occhio; anche l’aumento del volume nella regione in mezzo alle gambe sarebbe stato compreso nel pacchetto.
«Ti conviene ordinare un caffè», consigliò l’amico con l’immancabile sorriso sornione, appoggiandogli la mano sulla spalla. «Lo vedo lontano un miglio che stai per addormentarti.»
Il tipo chiamato Rukawa lanciò uno sguardo di disapprovazione al palmo appoggiato su di sé, ammiccamento glaciale che l'altro sembrò ignorare. «Prendo quello che mi pare, Sendoh.»
Ecco svelata l’identità anche di testa a punta, il quale, sghignazzando, cominciò a colpire il frigido con delle pacche sulla schiena, come se gli avessero appena raccontato una battuta. «Sei sempre il solito, Rukawa.»
«Scusate se vi interrompo», Hanamichi si premurò di attirare l’attenzione su di sé, alquanto infastidito. «Latte o caffè allora? Non ho tutto il giorno.»
Rukawa lo fulminò con i suoi occhi blu, visibilmente irritato dal comportamento di quella testa fulva.
Odiava chi non capiva al volo ciò che voleva, non gli sembrava di aver chiesto nulla di troppo complicato.
«Latte», rispose quel Sendoh al posto suo, bloccando sul nascere un commento poco rispettoso dell’amico. «Grazie.»
Sakuragi scrisse con calligrafia orribile il suo ordine, come se così avesse potuto fare indirettamente un dispetto a Mister “meno mi sforzo di parlare meglio è”.
Prima di andare a consegnare il biglietto a Yohei, però, si sentì in dovere di ricambiare la cortesia del Buddha.
«Figurati, Porcospino.»
E si ritirò, lasciando dietro di sé un Sendoh completamente sbigottito a causa di quel nomignolo assurdo. Rukawa, dal canto suo, aveva osservato il rosso idiota per qualche istante, dopodiché aveva incrociato le braccia sulla superficie in legno, nascondendovi il viso impastato dal sonno.
«Se non l’ho ammazzato è già tanto», dichiarò Hanamichi, sbattendosi dietro la porta della cucina, staccando l’ordinazione e dandola a Yohei. «L’hai sentito quel coso?! Mi ha chiamato idiota!»
Mito, in fondo, se l’aspettava una sfuriata del genere.
§ Il suo migliore amico aveva imparato con il tempo a non saltare in aria come una bomba ad orologeria, ma in compenso si scatenava quando aveva raggiunto una distanza abbastanza consistente per i suoi parametri per scoppiare in una serie di epiteti poco carini.
Prese il biglietto che gli fu consegnato da Sakuragi, cominciando a preparare il necessario. Nel frattempo si sentì solo in grado di rispondergli con un: «In questo caso ha ragione.»
Al rosso morì in gola un nuovo insulto per poter rivolgere uno sguardo infuocato al suo amico più fidato. Da che parte stava?
«Mi stai dicendo che sono davvero idiota, Yo?»
«No…», forse un pochettino, «ha ragione perché è il cliente.»
«Tsk, bizzeffe», asserì Hanamichi, mordendosi l’unghia del pollice dal nervoso. «Mi ci pulisco il culo con questi detti. Non ha diritto di par-»
Non riuscì a concludere la frase perché un pugno ben assestato lo colpì sulla testa, zittendo le sue lamentele sul nascere.
«Se hai tempo per brontolare hai tempo anche per lavorare imbecille che non sei altro!», esclamò Akagi, comportandosi esattamente come farebbe una mamma con il suo bambino – togliendo la parte sull’imbecille ecc…- capriccioso.
«Gori!» Hanamichi tornò ad esser baldanzoso, rasserenato nel rivedere il Gorilla di sempre rimproverarlo. Non riuscì nemmeno a prendersela nonostante, ora, gli dolesse il capo.
«Tieni Sakuragi: ciambella al cioccolato, tè verde e bicchiere di latte scremato.» Kogure gli aveva dato tutto il necessario, ridacchiando a causa alla scena appena tenutasi. «Ce la fai a portar tutto o vuoi una mano?»
Con maestria gli fece vedere che non c’erano limiti per un Genio come lui. Riuscì tranquillamente, in un modo o nell’altro, ad afferrare tutte e tre le ordinazioni delle simpatie che lo stavano aspettando là fuori.
«Spero se ne vadano in fretta così potremo star tranquilli», affermò con convinzione, ricevendo in cambio dei cenni di approvazione. «Voi pensate all’altra gente.»
Riuscì a farsi spazio grazie all’aiuto di Yohei che era accorso ad aprirgli gentilmente la porta, ma quando tornò nel salone principale notò una scena piuttosto incomprensibile; o meglio, bizzarra.
Era apparsa - da non si sa dove - una ragazza dai lunghi capelli castano scuro e dall’aria molto furiosa, simile ad una belva feroce che aveva appena avvistato il nemico.
Hanamichi poteva affermare con sicurezza che avesse circa la sua età.
Ciò che non si spiegava, però, era perché avesse preso il frigido per un orecchio e stesse cercando di trascinarlo via dal suo posto.
«Stupido Kaede!», cominciò ad inveire, incattivendo lo sguardo scuro come il carbone. «Ho dovuto cercarti in lungo e in largo! Ti sei forse dimenticato che oggi hai un set fotografico? Se non ti avessi trovato mi avrebbero spennata viva!»
«Ayako…», sillabò lui con la stessa energia di un orso in letargo, senza nemmeno provare a difendersi.
«Ayako niente! Andiamo immediatamente. Come tua manager poi la colpa diventa sempre mia!»
Faccia da Buddha guardava la scena ridendosela di gusto, ma presto venne chiamato anche lui sull’attenti dalla dittatrice.
«Akira è meglio che ti muovi anche tu se non vuoi che Koshino ti spezzi le gambe!»   
Sendoh, obbligato dalle circostanze a non poter rifiutare il suo consiglio, si alzò dallo sgabello, ma prima rivolse un’occhiata alla testa rossa che aveva ancora le loro ordinazioni tra le mani. Quasi gli dispiacque di aver causato trambusto in quel bar. Non sapeva perché ma gli piaceva parecchio come posto.
Si avvicinò al bancone e si premurò di lasciare su di esso 2000 yen (20 euro), chiedendo scusa per il loro disturbo e per avergli fatto perdere tempo per nulla.
«Tieni il resto», gli disse con nonchalance, avvicinandosi un po’ di più per poter bisbigliare senza esser sentito: «te li meriti visto che ci hai liberati da tutte quelle ragazze. Anche Rukawa ringrazia.» Si allontanò nuovamente, facendogli un gesto di saluto. «Ci vediamo!»
Hanamichi fissò in un punto imprecisato della stanza, la mente in tilt a causa di un surriscaldamento dei nervi.
Mentre osservava i tre abbandonare il Monkey’s sarebbe voluto esplodere come una bomba atomica, altro che una semplice bomba ad orologeria.
Appoggiò gli ingombri che aveva tra le mani sulla superficie in legno, tranne il bicchiere di latte. Quello se lo bevve lui tutto in un sorso, costringendosi a calmarsi e tenere la sua rabbia ben sigillata in un angolo remoto della sua testa.
«Vaffanculo» ruggì piano, appoggiando il bicchiere vuoto sul banco con il chiaro tentativo di spaccarlo.
Quello che lo preoccupava più di tutto era quel ‘ci vediamo’ detto dal Porcospino.
Intendeva che non sarebbe stata l’ultima volta che li avrebbe visti?
Non sapeva spiegarselo ma aveva come l’impressione che da lì in poi ogni cosa sarebbe andata di male in peggio. 




 
   
 
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