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Autore: John Donnoway    05/05/2014    0 recensioni
Felice è un quasi trentenne alle prese con le novità del suo quartiere, una zona della città che si sta trasformando perché troppo vicina all'università. La sua è l'unica famiglia al Civico 11 ad essere rimasta, mentre tutti gli altri ex inquilini hanno affittato i propri appartamenti a studenti fuori sede. Insomma un romanzo satirico a puntate, pieno di cronaca contemporanea e non, leggende e luoghi comuni, denuncia delle problematiche sociali cittadine, che andrà avanti solo con l'affluenza ed i commenti dei visitatori.
Genere: Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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<< Sono io >>. Ed il portone si aprì al suono d’un tin, piano e pesante fu spinto verso l’atrio, ma un ostacolo quasi ne impedì il proseguimento, l’accesso libero e liberatorio stava per essere bloccato, arrestando così la solita lista di convenevoli compiuti giorno per giorno, minuto per minuto, da quando varchiamo la porta di casa a quando, finalmente, l’accostiamo, serrandola definitivamente con il chiavistello, in vestaglia. Il bagaglio rosso, un trolley nuovo di zecca, per poco non fece inciampare Felice, per poco la sua faccia non si stampò contro il pavimento appena lucidato - e per sua disgrazia! sì perché Carlone il portiere non iniziava mai le pulizie del palazzo, immaginiamo finire, portarle a termine – quando di scatto il bagaglio rosso fu spostato con maggior brio all’indietro. Un “ salve ” ricambiato scandì tutta la successione degli eventi, il guardare la proprietaria, una giovinetta tutta agghindata, fissando e studiando quella valigia rossa senza mai staccargli lo sguardo di dosso; ed il portone si chiuse al boom. Questa era veramente carina, non come quella che è arrivata ieri, tutta storta e con la sua mini valigia blu, chissà, forse si fermerà per poco; vuoi vedere che è soltanto una parente? Odiosi calabro. Pensò Felice mentre cliccava il bottone nero dell’ascensore per due piani di scale e vedeva prigioniera sulla porta l’immagine del bagaglio rosso. D’altronde era affaticato, fiacco perché la giornata di lavoro non gli aveva dato tregua: al lavoro – Felice faceva l'allenatore in una squadra femminile di pallavolo ( seconda divisione ) – aveva raccolto palloni su palloni di cuoio ammuffito, schiacciati ripetitivamente dalle ragazze durante gli allenamenti, e Felice le aveva sgridate, lusingate e poi mandate al diavolo per il tempo concesso; la mattinata era stata però più pesante: a lavoro – sì, perché il vero lavoro era il fattorino – Felice guidava un camion che trasportava birre, il collega l’aveva abbandonato, e così fu costretto a caricarsi tutte quante quelle casse da solo. La fiacchezza l’aveva rallentato, sì, la spossatezza era il suo peggior nemico e per questo Felice era divenuto uno di quei maledetti caffeinomani senza mai uno spiccio in tasca per l’occorrenza, pieno di banconote che a mano a mano sciupava con il mignolo umido, trattandole come monete, sperperandole qua e là senza alcun ritegno, freno, accartocciate uscivano lo stesso dalle tasche bucate. Doveva sbrigarsi: la festa sarebbe iniziata alle 9.30 e Felice era ancora alticcio per quelle due birre fuori con l’amico Gino. Rimaneva un’ora, un’ora sola per prepararsi e giungere alla festa di Mena, una lontana cugina, che in quel giorno s’era, anche lei, laureata. Chissà oggi quante feste ci saranno, quanti altri come Mena festeggeranno scontenti, ed i parenti e amici, insomma, gli invitati, elemosineranno solo quella festa per far un po’ di baldoria gratis, così da risparmiare qualche spiccio per il Venerdì sera. Felice detestava il venerdì sera allorché una mandria di studenti e ventenni s’aggregava nel suo quartiere, in una piazza non troppo famosa, ma ormai troppo vicina alla zona universitaria. Difatti, in tre anni, così Felice rimembrava, nel suo palazzo, il civico 11, tutti gli inquilini avevano affittato ai “ calabro “ ( termine che per Felice designava qualsiasi studente residente al di fuori delle Mura della Città ), a tal punto da essere rimasta solo la sua famiglia al civico 11, e far divenire una tra le poche piazze desertiche ed avanzate, una papabile meta per la sbronza del Venerdì sera, il venerdì degli studenti. Ora che l’ascensore si mostrava nel suo aspetto più indegno e macabro, Felice s’innervosiva ancor di più nel vedere deturpato il suo palazzo, la sua casa, il civico 11. Voci di corridoio scendevano le scale in ritardo alle orecchie del ragazzo. Eppure le invidiava, sentiva dolci ed acute strida di donna, sghignazzamenti a porte aperte e poi chiuse, dall’ultimo piano. E avrebbe voluto raggiungerle, cliccare il pulsante 8, per poter finalmente giungere a quell’Eden che ogni sera creava un via vai, un circolo di vestali e menadi prese ad aspettarlo nell’Harem, tutte abbigliate: l’ interno 16. Sfortunatamente il bottone 2 terminò quelle reveries spaesanti, vagheggiamenti irrisolti, confusi all’apparizione d’un vecchio ancora in pigiama, retto in piedi dalla porta, all’ingresso del ragazzo: << Ciao Zio >>. << Ma non avresti dovuto staccare più tardi?>>. << Sì, ma sono uscito prima..devo andare alla festa di Mena, non ricordi? >>. << Sta attento a te! I Pescirelli non mi son mai piaciuti, da quando non vennero al funerale.. >>. << Sì Zio lo so, non ti preoccupare! Ci vado solo perché Mena ha insistito >>. Chissà se questa volta il ragazzo aprirà finalmente gl’occhi e si troverà una bella donzella, pensava Zì Celio dentro quel pigiama che aveva fatto la Guerra; lo zio offrì al nipote il solito bicchierino d’amaro fatto in casa, e poi riprese i vagheggiamenti su quel fastidioso funerale, che Felice sapeva alla perfezione. Alla radio “ cìaina ” un pezzo di Sonny Terry accompagnava la frenesia di Felice, che ora se ne stava in camera davanti l’armadio, tutto bitorzoluto, scegliendo tra quelle solite quattro vesti sgualcite quale si addicesse meglio alla serata. Il Mercoledì è innocuo! È solo un giorno nel mezzo della settimana, sospeso tra l’equilibrio perfetto del fisico e le fantasie sul che farsene del fine settimana, contando i soldi racimolati in pochi giorni, vagliando i resti della giornata. Pensava Felice, sì, non era venerdì, eppure anche lui adesso era contento come tutti i calabro, assuefatto da quella serata gratuita. Quasi si vergognò di tale condivisione, ci mancò poco che rinunciasse alla meschina proposta, intenzione del mercoledì. Ma quelle due birre avevano dato un ritmo diverso alla giornata, avevano ricreato il ragazzo, e lo avevano fatto assai fin troppo bene. Un rigurgitino svociò il ricordo delle precedenti bionde al parco con Gino, l’amico delle 19.00, quello con il quale era solito oziare al fine d’ogni monotono dì. Al parco Felice gli aveva parlato d’un libro, un romanzo letto durante la precedente giornata lavorativa, una storia da poco su una ragazza ed il suo stupido orecchino, attaccata fino alla morte a quel fastidioso ed erotico orecchino; mentre Gino aveva farneticato qualcosa riguardo una delle tante discussioni con Mena fatte all’università: stranamente il discorso era sfociato sul modo con cui stare con il proprio compagno: Gino aveva fatto il prezioso, e Mena, sapendo che era fidanzato, non ci aveva messo niente a professare le sue credenze, opinioni sulla vita di coppia. Poi il pensiero si spostò su quel maledetto bagaglio rosso e sulla proprietaria intenta a trascinarlo così inconsapevolmente, che ci mancò poco a combinare un vero e proprio putiferio al civico11. La pedanteria dei pensieri di Felice s’arrestò d’improvviso sotto una doccia fredda e sul bagaglio rosso; l’altro coinquilino continuava il discorso su quel funerale, forse credendo che il ragazzo lo stesse ancora ascoltando, ma diavolo, il rumore dell’acqua si sentiva fin sotto le scale! Ma Zì Celio perdurava nell’ aprir l’acqua del rubinetto, perché, guarda caso, s’era deciso che la catasta di piatti sporchi, accumulata ormai da settimane, l’avrebbe lavata proprio quella sera. Tra insulti mai sentiti e piedi scalzi, tutto zuppo si ritirò in quella cameretta dove solo la radio “ cìaina ” lo ascoltava. Il fumo vagheggiava da una parete all'altra, ed erano già le 21.20 - diamine, si doveva sbrigare, si doveva dare una mossa o Mena non glielo avrebbe mai perdonato. Dalla chiostrina Felice udì le solite risatine e quella buona musica, e che diavolo, era mercoledì sera e quegli barbati sapevano comunque come divertirsi. No, non avrebbe dovuto pensarci, eppure non poteva farvi nulla. << Ancora quei maledetti? Ma quando studieranno? >>. Alle parole dello zio, Felice si infastidì molto, avrebbe voluto rispondergli male, contraddirlo, ma non poteva, non poteva perché la casa glielo impediva; e poi, mancavano si o no cinque minuti? Di corsa, facendo più trambusto possibile per le scale, quasi per non sentire il lontano richiamo della foresta, i tamburi, versi animaleschi provenienti dall’interno 16, Felice uscì dal portone, si diresse verso l’utilitaria di Celio, che non aveva più guidato dal giorno del maledetto funerale. Così Zì Celio si concesse quella pipa, i piedi scalzi poggiati sul tavolino, guardando alla tv ciò che i vecchi della nostra generazione ormai seguono, perdendo come i giovani d’oggi quella dignità, quel pudore pentito, risentito alfine nelle pause pubblicitarie La casa di Mena distava poco da quella del lontano cugino, ma Felice si dovette fermare a comperare le sigarette e fare un po’ di benzina. Ormai non sapeva neanche più come sono le feste, le feste d’oggi, confuso da quella matassa di storie e ricordi di Celio, e quei lavori, quelle gambe, i ridicoli romanzi su cui Gino studiava e gli prestava. No, no, fortuna che la fiaschetta stava sempre lì, sotto al sedile; la fiaschetta, quasi come la maledetta valigia rossa, per poco non lo fece uscire di strada nel prelevarla sotto al sedile. Ma sapeva che almeno la fiaschetta, anche se non rossa, gli avrebbe dato una mano, aperto un mondo, un nuovo mondo, bensì vecchio, lasciato ammorbidire dalla giornata, dagli innocui mercoledì sera, che ora scombussolavano gli schemi del ragazzo; e l’avventura s’apprestava a venire.. era stato l’invito a quella festa? Oppure quel bagaglio rosso? Questo Felice ancora non lo sapeva, ma Celio sì, Zì Cielo lo credeva guardando dritto a sé i piedi scalzi, ricordandosi di quando avevano vissuto mercoledì differenti e dove i medesimi calzini avevano poggiato giù per terra; così anche il nipote avrebbe avuto calze bucherellate, assopite su mattonelle di mille colori. Ormai era arrivato; la vetta del palazzo sembrava altissima, quasi a rigonfiare le nuvole; si fece coraggio cliccando il bottone rosso, l’ultimo bottone: Piscitelli. << Dai Sali! E muoviti! >>. Questa era stata la voce confusa tra tante voci e musiche distorte; sembravano gli stessi rumori della chiostrina, delle scale. Con curiosità maggiore s’apprestò a salire, aspettandosi chicchessia. Ma all’aprirsi della porta, tutto fu così chiaro e lampante: non era assolutamente l’interno 16. Sebbene vi fosse una matassa di ragazzi, musica, alcolici e stuzzichini o che le ragazze sembrassero le stesse, non era assolutamente l’interno 16: nessuna ragazza dalla valigia rossa l’avevo atteso alla porta. << Dai entra, su, sbrigati..sei in ritardo >>. Alle parole della cugina Felice si ridestò, dirigendosi verso quegli invitanti stuzzichini. Felice era un bel ragazzo, bèh un trentenne impettito, impacciato nei modi, uno di quelli che vorrebbero dire, fare, compiere determinati gesti, ma che alla fine si risolvono in scatti imbarazzanti; aveva uno sguardo penetrante, delle orecchie piccole e poi i capelli biondi; ma la postura..anzi, l’animo che trasudava sembrava essere quello d’un vecchio, quello di Celio; tutto ciò allettava le ragazze, forse proprio per quell’aria vintage che lo rendeva dissimile dagl’altri maschi effeminati. << Guarda Greta, lo devi proprio conoscere.. >>. << Si ma com’è? >>. << Bèh Felice è..è..è un tipo >>. Ma quello se ne stava di spalle, preso a tracannare il primo alcolico che la tavolozza propugnava. << Ciao cugino! Lei è Greta, una mia amica d’università >>. << Piacere >>. Piacere? Ma che diavolo.. va bene, si è capito, questo era Felice, un mediocre, “ svampitello ” che crede d’esser invisibile ed invece diventa il protagonista d’un mercoledì sera. Affascinante, veramente leggera e sinuosa, spregiudicata, la ragazzetta causò un urto assuefacente al giovine, maggiore di quello provocatogli dalla ragazza dal bagaglio rosso, e ancor maggiore perché senza valigia e perché ora uno smilzo la prelevava dalla presentazione, portandosela via, in grembo, e lei lì che se lo guardava trascinata via, dispiaciuta. A malincuore della cugina, il cugino se ne andò sulla terrazza a fumare; qui beccò Gino ad aspettarlo, preso anche lui nel fumar via la noia di quei lupi. << Allora Felice? Tutto bene? >>. << Sì, non c’è male. Carina la festa però >>. << Già..Ah, ho visto che hai conosciuto Greta.. >>. << Sì, me l’ha presentata Mena..carina anche lei >>. << Sì “ carina ”..all’università tutti le ronzano dietro >>. Sbaam: Doveva andarsene, non sopportava più tutta quell’agitazione, quegli effeminati che come scimmie ubriache raccoglievano noccioline per terra a ritmo d’una melodia sempre più ripetitiva, che “ dittava ” sui loro battiti, rendendoli sempre più ridicoli, sudati, spargendo ormoni in tutto lo zoo. Per arrivare alla macchina dovette attraversare quello spettacolo, seguito dall’amico, più allegro delle sette; ed eccoli pure lì; poggiati sulla sua auto i maledetti calabro intenti a guardarlo, lo sfidavano con la coda dell’occhio ( dato che non erano di città ), mentre dalla terrazza dell’ultimo piano il fegato rodente di Mena echeggiava per tutta la piazzola. Per la cugina era stato un vigliacco, un poveraccio, neanche l’aveva salutata, ma Felice non avrebbe potuto resistere un minuto di più. L’amico gli aveva chiesto se avrebbe potuto dormire da lui, e Felice aveva acconsentito perché tanto erano solo due inquilini. Così quando arrivarono, all’aprire la porta i due ragazzi videro il solito via vai di gente, di calabro scendere e salire; ma che cavolo, era solo un insignificante mercoledì! Il veleno nel corpo ribolliva sempre più, e Felice si lasciò alle spalle l’amico più giovane di dieci anni, deciso a salire fino all’interno 16. L’avvenimento stava per succedere. La porta era socchiusa, ed una luce rossa e gialla usciva dalle fessure, i buchi negli stipiti, lo spazietto lasciato aperto e fumeggiante luci e strani incensi. Il braccio teso, allungato, diede un colpetto alla porta, che lentamente si aprì, si aprì una scena, uno spettacolo curioso: non era come alla festa della cugina - tutto scontato, con quegli invitati snob tutti vestiti uguali perché romani, né la musica ed i colori; sì, il colorito delle fanciulle era diverso, era strano tutto l’ambaradan dell’appartamento: stavano schiacciati, l’uno contro l’altro, se l’avesse voluto neanche un topolino avrebbe potuto passarvi, ma spremuto avrebbe finito di squittire per l'ultima volta; e questo trambusto si promulgava dall’ingresso alla cucina, dal corridoio alla camera da letto che in fondo portava alla terrazza. Tutti gli invitati se ne stavano stretti nell’appartamento, tutti, perché tutti nel palazzo, tranne lui e Zì Celio, erano calabro. Tra la cucina e l’ingresso vi era una rientranza grande quanto la sua cameretta; lì stava seduto sopra un divano sfumato un tipo, accompagnato da due tipe. E Felice prese ad invidiarlo. Era lui, lui era lo studente proprietario di quell’appartamento. Ma il tizio al vederlo si alzò di scatto, scaraventando quelle due tizie contro il muro si avvicinò di corsa al ragazzo: << Che piacere! Finalmente sei arrivato. Ti aspettavo da parecchio..ma vieni, vieni di là >>. E Felice non stava capendo, più non capiva cosa diavolo ci facesse nell’interno 16, sì, quell’appartamento che l’aveva attirato come una calamita, stregato; e la cosa strana era proprio il sentirsi a suo agio, con le spalle coperte, come nel giorno di quel funerale.. << Sai che Felice è un nome molto diffuso giù al Mezzogiorno? >>.
  
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