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Autore: Some kind of sociopath    07/05/2014    3 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Sequiturque patrem non passibus aequis.
(E segue il padre, ma non con passi eguali.)

Virgilio, Eneide.

La prima impressione fu quella di essere annegato – una fine oltremodo dolce, nonostante tutto – e catapultato nel mondo dei morti, poiché ero circondato da una spessa coltre di assoluto nulla, la vista sul mondo di un condannato a morte con il sacco sulla testa. La quiete era assoluta, un silenzio buio e gelido, pesante, che mi attanagliava le viscere formando una morsa alla bocca dello stomaco, un grosso peso nel petto che cresceva e s'intricava a ogni secondo passato. Quello doveva essere l'inferno, viste le mie malefatte. Allora perché non c'erano le fiamme? Perché nessun dannato avvoltoio mi sbranava le palle come punizione eterna?
– In piedi! – Sentii una gelida punta metallica colpirmi il costato senza farmi granché male, quindi grugnii. Quasi sicuramente era una spada. Ironico, la mia condanna sarebbe stata quella di combattere per la maledetta eternità. O fuggire da un avversario armato. Ero sempre stato un dannato codardo, e almeno il mietitore lo sapeva. – Andiamo ragazzo, non ti mangio mica! La colazione di Emily m'è rimasta sullo stomaco, purtroppo, ma direi che per te è una fortuna, no? Su. In piedi!
Con un piede, qualcuno mi rivoltò sulla schiena e, quando misi a fuoco i contorni del mio avversario, la sensazione di pesantezza tra le costole crebbe. I capelli lunghi, biondi e assolutmente disordinati mi fecero venire le lacrime agli occhi, ma più di tutto, i suoi occhi azzurri, familiari e caldi nonostante fossero venati di spietatezza mi provocarono una serie di lancinanti fitte al petto, come se stessi soffocando o fossi sul punto di avere un attacco di cuore. – Forza. Tirati su.
Mi tese la mano per sollevarmi da terra, come aveva fatto innumerevoli volte quand'era vivo e l'afferrai, aiutandomi per riassumere una posizione eretta. – Ecco qua. Bravo, ragazzo. Adesso raccogli la tua spada.
La necessità, più che la voglia vera e propria, di piangere si stava facendo inarrestabile. E come altrimenti avrei dovuto reagire?
Insomma, mettetevi nei miei panni.
Mio padre, morto trent'anni fa davanti ai miei occhi, si stagliava davanti a me come il faro che era sempre stato nella mia vita e mi chiedeva di raccogliere la spada per combattere.
Mio padre. Edward Kenway. E mi aveva chiamato ragazzo.
Mi voltai per andare a raccogliere la spada abbandonata in un angolo della stanza dei giochi – Cristo santo, quella era la mia stanza dei giochi! Con tutto quanto al suo posto ma senza le pareti, un tappeto di parquet che svaniva in un'oscurità apparentemente lontanissima.
– Oh, Dio... – Afferrai la spada corta e la sollevai, studiandone lama ed elsa. Non era la spada corta comprata a Boston, era la spada corta che mi aveva regalato mio padre, quella nascosta in un astuccio in legno dietro la Bibbia, incassata nelle pareti coperte di scaffali che qui sfumavano nel buio, invisibili, quella perduta nello scontro con Miko. – Che cos'è questo...? – chiesi voltandomi.
Prima che avessi tempo di finire la domanda, mio padre sferrò una stoccata da manuale, rapido come un polpo nell'infilare i tentacoli dentro un mollusco. Ma io non avevo più dieci maledetti anni, e avevo fatto le mie esperienze, direi. Sollevai il braccio rapidamente e indietreggiai di mezzo passo per l'impatto, ma ero preparato. Dopo tutti quegli anni, il suo furioso stile di combattimento mi scaldò il cuore come una vecchia ninna nanna. Aveva una sola sciabola in mano, di quelle britanniche, lunghe, dritte e lucide. Sorrisi mentre respingevo i suoi attacchi con tutto l'ardore che riuscivo a mettere insieme, parando e respingendo quando potevo. Se mi concentravo sul suo corpo, con un'arma in mano era come un qualsiasi avversario. Studiavo le sue mosse e prontamente vi rispondevo, valutando i suoi punti di forza e sfruttando quelli deboli, come lo spietato assassino che ero, ma appena sollevavo lo sguardo e i miei occhi incontravano i suoi lineamenti così familiari, il mento in avanti, l'atteggiamento fiero, il sorriso di sfida, i denti scoperti come quelli di uno squalo, e gli occhi!, Cristo santo, quegli occhi azzurri, orgogliosi, capaci di grande amore come di totale mancanza di scrupoli e pietà, così vivi nonostante lo avessi visto morire davanti ai miei occhi, e...
La spada precipitò con un clangore nel buio nulla oltre il legno, come in un baratro, appena l'acciaio di mio padre stoccò contro il mio. Avrei dovuto tenere la guardia più alta e tendere il braccio, tenere duro mentre colpiva vicino all'elsa, ma mi ero lasciato andare, colto dalla nostalgia alla vista di quello sguardo cangiante e così dannatamente intenso, ero come tornato bambino. Io potevo batterlo, avrei potuto persino ucciderlo, volendo. Da piccolo avevo ucciso un uomo con il suo addestramento. Avrei potuto affondare la spada fino all'elsa anche nei suoi occhi, nelle sue cervella. Persino allora, forse.
Era sempre stato lui a fermarmi, lui come personalità. Troppo forte, schiacciante, autoritario senza mai essere ingiusto, troppo onesto. Non avevo pensato mai, per tutta la mia vita, che essere suo figlio sarebbe potuto essere difficile. Non mi ero mai sentito come Jenny, ma ne coglievo il peso in quell'istante.
Dove avevano trovato le palle di ucciderlo, quei bastardi? Nemmeno Reginald le aveva avute. Aveva mandato dei sicari, e poteva inventare qualsiasi scusa per questo, ma, inclinando il capo da una parte come un ragazzino basito davanti a un giocattolo nuovo e strano che non può avere, intoccabile, stavo comprendendo che non l'aveva ucciso di persona perché lo conosceva troppo bene per non essere ammaliato. Come me. Per quei bastardi – bastardi che, in fin dei conti, erano membri dell'Ordine, o qualcosa che vi andava vicino – era un cadavere come un altro. Solo un uomo. Solo un mucchio di carne, ossa, gelatina e sangue.
– Sei migliorato, figliolo – disse passandosi il palmo sulla fronte sudata. – Non c'è quasi più gusto a batterti. – Fissò la spada come se non ne avesse mai brandita una, strofinando i polpastrelli sul metallo dritto della sciabola nel tentativo di scacciare chissà quale alone, quindi scrollò le spalle e la gettò alle proprie spalle, lasciando che, come la mia, svanisse nell'oscurità.
Mi osservò con le mani sulle ginocchia e un sorrisetto, lo sguardo di un pirata, senza ombra di dubbio, e allora ricordai in un colpo solo tutto l'odio che avevo provato per la sua incondizionata fiducia in Reginald. Non so di preciso che cosa avessi intenzione di dirgli, se volessi inveire contro di lui o semplicemente abbracciarlo ed essere cullato dalla sua presa finché non fosse sopraggiunta la morte, ma non me lo permise. Mi voltò di scatto le spalle, prendendo a camminare avanti e indietro per la stanza con un cipiglio preoccupato in volto. Si passò una mano sulla faccia, il pollice che correva lungo la cicatrice a mezzaluna sulla guancia, quindi grugnì una sola parola, un altro stupido mucchietto di lettere che bastava a far diventare il mio cuore un maledetto macigno. – Jenny.
Gli risposi con un gran sospiro e un’altra parola soltanto, il sangue che ribolliva al solo pronunciarla. – Reginald. – Era a metà tra un ringhio e un singulto scocciato, perché non era così che avrei voluto rispondere. Detestavo non riuscire a dirgli le cose in faccia, cagandomi sotto come un poppante, esattamente come mi avevano infastidito le parole di William Johnson quando l’avevo fatto fuori.
Scrollò le spalle, come se per tutti quegli anni se lo fosse aspettato. – Lo sospettavi? – chiesi azzardando un passo verso di lui. Eccola, la mia occasione per sputargli in faccia che eravamo stati stupidi, tutti quanti, e lui più di tutti, perché se davvero aveva qualche piccola avvisaglia il suo unico dovere era quello di scappare, portarci lontani da Londra sani e salvi.
Ma lui non era me. Quello era ciò che avrei fatto io. Una mossa da codardo. Mio padre era stato un pirata, un Assassino, probabilmente anche un omicida, dunque, ma di certo non era un codardo. Strinsi la mascella insieme con i pugni. No, lui non era un codardo. Non aveva paura di dire le cose in faccia. – Sapevi che voleva ucciderti?
L’immagine di mio padre tentennò. – Mi aveva avvisato – disse con un tono più pacato del solito. – Non gli ho dato ascolto. Avrei dovuto?
Risposi con un grugnito. – Saresti morto comunque, no?
Edward Kenway, o il suo fantasma, ridacchiò. – Sì. Ritengo che me l’abbia detto proprio perché sapeva che non gli avrei dato ascolto.
– Un libro – replicai levando gli occhi al cielo. – Tutto per un dannato libro. Sui Precursori.
Sorrise ancora. Sembrava davvero infinitamente più felice, da morto. Quand’era in vita pareva quasi che gli tornassero in mente i giorni in cui era un giovane scavezzacollo, in cui poteva ancora divertirsi e scolare grog dalla mattina alla sera senza nessuna preoccupazione tolta quella di razziare il possibile in compagnia degli altri pirati, arrampicarsi sugli alberi delle navi e cavalcare le onde. – Ah Tabai. Il mio Mentore mi diede quel libro. Per capire di più sulla mia vita. – Sospirò, recuperando da chissà dove la sua redingote azzurra. Lo stesso colore dei suoi occhi, mi accorsi. Lo stesso del mar dei Caraibi. – Non ti ho mai raccontato nulla. Dovevi essere al sicuro. Con tua madre, tua sorella, e…
– Perché ti fidavi di lui? – Avevo raccolto il coraggio a due mani e gliel'avevo chiesto. Nonostante fossero parole dure, spinte con prepotenza su per la gola e verso di lui, era quella l'unica cosa che volevo sapere da lui. Non m'importavano le lezioni di scherma o i motivi per cui Reginald aveva fatto ciò che sapevamo entrambi. Quelli li conoscevo a sufficienza. Volevo solo sentirmi dire che aveva sbagliato, che gli dispiaceva e che avrebbe dato la vita per tornare da me, con mia madre e Jenny e la nostra vecchia casa nella piazza della Regina Anna. 
Si fermò e mi guardò con tanto d’occhi. Non era reale. Lo sapevo. Eppure non mi era mai sembrato tanto vicino, tanto vero. Dicevo a me stesso che non avevo più paura di guardare quegli occhi colmi di ricordi, senso di colpa e sfrontato coraggio represso a stento, che non ero più un bambino, e dunque questo avrebbe dovuto renderlo meno iconico, ma lo sguardo che mi rivolse in quel momento, però, era tanto intenso che dovetti sforzarmi per non spostare il mio su qualcos’altro. – Che domande – rispose pacato, continuando a guardarmi. – Perché c’era. Perché mi ha aiutato quando sono tornato in Inghilterra. – Chinò la testa da una parte, osservandomi con un sorrisetto di sfida. Eccola lì, la faccia del brigante, del malfattore senza scrupoli. – Non è quello che fai anche tu, in fondo? Sei come me. – Incrociò le braccia sul petto e mi squadrò con estremo interesse, come un vascello spagnolo da depredare.
Aprii la bocca per replicare, emettendo un grugnito di stizza e rabbia, ma, come sempre, mi resi conto che aveva ragione. Dannato imbecille. E, per una volta, era riferito a me.
Lui si era fidato di Reginald esattamente come io stavo riponendo fiducia in Charles, in Benjamin e in Thomas. Tenendo conto, oltretutto, del fatto che quei tre mi avevano tradito. La peggiore mossa che potessi fare, ma perché continuavo a confidarci, a rifugiarmici come nel petto di mia madre?
Calmati. Non pensarci. Avrei potuto fare la sua fine. Era forse per quello che lo facevo, per dimostrare ancora una volta che ero più forte di qualcuno, persino di lui, dell'unico che non ero e non sarei mai riuscito ad ammazzare? Sarei, nonostante tutto, morto per mano di Charles Lee o uno degli altri? Del mio stesso figlio?
Mi proponevo di non permetterlo. Non in questa vita, figli di puttana.
Scosse la testa e sorrise, sollevando la redingote per indossarla con un gesto teatrale che il suo carisma rese ammaliante. E il paesaggio attorno a noi cambiò di colpo. Stavamo salendo le scale di una taverna interamente costruita in legno e in condizioni di semi-abbandono. L’insegna ciondolante diceva Old Avery, e il puzzo che ristagnava nell’aria non era quello di Boston, né tantomeno quello di Londra. L’odore del mare invadeva le narici, pesante, persistente, salmastro e così piacevole al tempo stesso. Anche mio padre sembrava diverso, guardandolo bene. Aveva gli occhi lucidi come un ubriaco e non indossava la sua redingote, ma un abito più particolare. Rosso, beige e grigio, quasi tendente al blu. Non era più l’Edward Kenway che avevo conosciuto io, l’affascinante imprenditore londinese, ma Edward Kenway, capitano della Jackdaw e pirata del mar dei Caraibi.
Passò un braccio attorno alle mie spalle in un gesto confidenziale, quasi fraterno. Dio. – Nassau. Ti piacerà, ragazzo. La vera Libertalia. – Scoppiò a ridere con una mano sul ventre. – Stronzate! – esclamò stringendosi al corrimano. – Stronzate.
Non sapevo bene che cosa replicare, e lui mi condusse fino al bancone. Era una taverna costruita su una vasta terrazza quasi interamente coperta da una tettoia di paglia secca, completamente vuota. Tavoli circolari affacciati su un paesaggio che non mi era familiare ma appariva sinceramente bello.
Schioccò la lingua per richiamare la mia attenzione e sollevò uno sgabello caduto a terra. Ci si abbandonò, battendo un pugno sul legno mentre lo raggiungevo. – Il solito, irlandese! – strepitò con una smorfia allegra.
Una giovane donna con i capelli rossi e un vestito che consentiva una gran bella vista sul suo decolleté ci rivolse un gran sorriso prima di tirare fuori due bicchieri e colmarli di liquore. Rum. Ne sentivo l’odore inebriante. – Tieni, stupido gallese che non sei altro – rispose facendogli l’occhiolino, come fosse un vecchio gioco tra di loro. Era un occhiolino alla Reginald. Lascivo. Sperai che i sogni non funzionassero come la realtà, altrimenti, be’, sarebbero potuti scattare meccanismi che non avevo ansia di mostrare davanti a mio padre. In fondo, da quanto tempo una donna non mi guardava in quel modo? Abbassai lo sguardo sul cavallo dei miei calzoni e sospirai. Tutto a posto, per fortuna.
Mentre io ero distratto da pensieri strettamente maschili su quella giovane cameriera, mio padre ingollò il liquore e si umettò le labbra. – Era mio amico. Reginald – grugnì, la voce resa roca dall’alcool. – Li ho visti morire tutti. Uno dopo l’altro. – Batté il bicchiere sul bancone e l’avvenente rossa glielo riempì nuovamente di rum. Mio padre, avvolto in quella che ad un’occhiata più attenta sembrava proprio una tunica da Assassino, mandò giù con un gran sospiro e allargò la mano. Mi lanciò un’occhiata appannata e cominciò a contare. – Il primo è stato Barbanera. Ed Thatch. – Si passò un dito sulla gola, da orecchio a orecchio. – Sgozzato davanti ai miei occhi. Poi Ben Hornigold. Mary Read. – Scoppiò a ridere tirandosi il medio. Una sfilza di nomi senza significato, i suoi migliori amici. Oppure, da come i suoi occhi erano diventati lucidi, qualcosa di più, in certi casi. – O James Kidd, come preferisci chiamarla. John Rackham, meglio noto come Calico Jack. – Sogghignò di nuovo, poggiando il viso sul palmo della mano. – Quel bel culetto là gli occupava il letto minimo tre sere a settimana, te lo dico io – biascicò con una strizzata d’occhio, indicando la cameriera. – Anne Bonny. Bonny, Bonny, Bonny. Booooonny. – Rise. – Forza, bevi! – sbottò puntando il mio bicchiere. – È rum! Non ti piace il rum? Anne! Un altro giro!
– Prenditelo in quel posto il rum, Kenway! – replicò Anne Bonny con un sorrisone, tutta intenta a pulire uno dei tavoli vuoti.
Mio padre rise di rimando e si girò sullo sgabello, la schiena poggiata al bancone, per lasciar vagare lo sguardo sull’orizzonte. Così quella era Nassau. Cielo azzurro, un puzzo in grado di far impallidire i canali di scolo di Londra e capanne accatastate l’una sull’altra. I topi scappavano come greggi al passaggio della folla, lungo le strade, come cittadini in preda al panico quando una salva di cannone apre una breccia nelle mura. – Bella vista, eh? – disse bevendo ancora. Stringeva tra le mani una bottiglia. – Dov’ero arrivato? Ah, Calico. Giusto. Poi ci fu Charles Vane. Steeeede… Bonnet. Lui, il vecchio Bonnet. Idiota. – Sospirò, intimandomi con un altro cenno di vuotare il bicchiere. – Tutti morti, in un modo o nell’altro. Ho cercato di tenermi stretto l’unico nuovo amico che mi restava. Ora capisci. Giusto?
Abbassai lo sguardo sulle assi malferme dell’Old Avery. Sì. Lo capivo. Era solo e si era fidato di Reginald, proprio come io mi ero appoggiato a Thomas nonostante avesse violentato Tiio e facesse parte di quel dannato gioco il cui unico obiettivo era uccidermi. Fedele a me, ma c’era anche lui davanti alla mia forca. Solo che vi era una certa differenza tra Thomas e Reginald. – È la madre di Jenny? – sviai, indicando Anne Bonny con un cenno e bevendo. L’alcool sembrava non avere alcun effetto su di me, ma nemmeno Anne l’aveva avuto. E posso dire con certezza che, be’, se non fosse stato un sogno il mio corpo sarebbe stato di certo meno indifferente a entrambi.
Lui rischiò di soffocarsi con il rum, scoppiando a ridere come un folle. – Oh, Cristo, dici sul serio? – Il rum gli era uscito dal naso e stava tossendo con una mano sul petto. Quando si sollevò aveva il singhiozzo. – Oh, Dio, no. Caroline. Parli di Caroline. – Socchiuse gli occhi con un mezzo sorriso dolce, acquoso e sbronzo. Quelli che rivolgeva a mia madre erano simili, ma non sapevano di alcool. – Caroline Scott. Hawkins Lane, Bristol. L’Auld Shillelag. Non compete con questo posto, ma quasi. – Mostrò di nuovo il ghigno, bevve altro rum. – Hai mai fatto a botte in una taverna, figliolo?
Figliolo. Da quando non mi sentivo chiamare così? Forse fu a causa del rum, ma sentii le lacrime salirmi agli occhi. – In una taverna no – risposi frettolosamente. Credo di aver imparato più in una notte di dicembre, quando avevo quasi dieci anni, a dire il vero. Non ero abbastanza forte per qualcosa di più che pensare quelle parole. – Però ho avuto le mie occasioni. Credimi. – Portai di nuovo il bicchiere alle labbra e il rum mi scaldò le viscere. Pensai che Nassau non sarebbe stato un brutto posto in cui vivere. Ecco perché quei pirati vi aspiravano tanto. Com’è che l’aveva chiamata mio padre?, Libertalia.
– Oh, non lo è – biascicò lui come se potesse leggermi nella mente. – Ci sono i topi e questa dannata puzza, ma il mare è ineguagliabile. E il cielo? Dio, Bristol non è mai stata così. Caroline la rende bella. Caroline e… mamma, e papà. Soprattutto Caroline. Caroline Scott. E la sua bella casa a Bristol. – Strinse la bottiglia tra le gambe, passandosi i pugni sugli occhi. – È morta mentre ero qui. E mi ha mandato Jennifer. – Scostò le dita, le iridi azzurre puntate su di me tra le fessure. – Tu… tu non sei Jennifer, giusto?
Sorrisi, gettando uno sguardo al bicchiere di rum quasi vuoto. – No, papà. – Mi tornò in mente il suo aspetto l’ultima volta che l’avevo vista. Sciupata, con i vestiti di una serva, il cipiglio (o sguardo fumoso che lo si voglia chiamare) contornato da occhiaie profonde, le guance incavate e le mani divenute callose, ma la stessa fierezza negli occhi. Si capiva che era stata una donna di un certo livello, una vita prima.
Correva, lei, che a malapena a casa muoveva le mani per fare il ricamo, fasciata da quel dannato vestito che la intralciava. Trascinavo Holden, ma ero comunque più veloce di lei. Non ricordavo, non facevo caso ai suoi sensi indubbiamente meno fini dei miei: non riconosceva il rumore di un moschetto caricato, non collegava il passo degli eunuchi al momento in cui avrebbero sparato.
Fui stupido. Ed egoista. Mi voltai con gli occhi sgranati sentendo il coro di spari, una nube di fumo e Jenny nel mezzo. Non poté fare altro che buttarsi a terra, sperare di essere più veloce del piombo.
Non lo fu. Lo sapete.
Cadde prona con una mezza dozzina di fori sanguinanti nella schiena, il vestito sporco di polvere e rosso. Un eunuco era sbucato dal fumo e la trapassò con la baionetta, affondandogliela nella schiena.
Seduto all’Old Avery con il fantasma pirata di mio padre ebbi lo stesso sussulto che mi aveva spezzato vedendo Jenny morta.
L’unico motivo che avevo per vivere era Holden. Immagino fosse reciproco. Lui si prese cura di me e io feci lo stesso per quanto mi fu possibile, ma non bastò.
Non avevo mai più appeso abiti su quelle corde.
– No, papà – ripetei portando il rum alle labbra. – È morta anche lei. Jenny, mamma. Sono morte tutte e due. – Strinsi i denti mandando giù. – Sono morti tutti.
Sorrise tristemente. – Lo so, Haytham. – Mi porse la bottiglia indicò uno dei tavoli dell’Old Avery, un lampo di sobrietà negli occhi. – Lo so. Ora le vedo. Ci sono loro… e i miei amici. Sono felici, figliolo. E la senti la musica? Questa canzone… – Mi strappò la bottiglia dalle labbra, facendomi sputacchiare rum con un’imprecazione, e se la strinse al ventre. – Una delle mie preferite. Here’s a health to the company and one to my lass, let us drink and be merry, all out of one glass… – Interruppe il canto ridacchiando e si passò la mano sulla fronte. – Questo posto puzza davvero come una sentina, eh? – Grugnì scuotendo la testa come un cavallo, si rigirò sullo sgabello e spinse la bottiglia sul bancone. Troppo in là. Cadde dall’altra parte con lo squillo dei vetri rotti. – Argh, ‘fanculo – borbottò accasciandosi sul legno, abbandonato come sul punto di svenire. Un attimo dopo si rimise dritto, il suo petto si sollevò di scatto per il singhiozzo. – Sai che facevo prima di prendere il mare, Haytham? – disse sorridendo appena. – L’allevatore di pecore.
Per poco non mi strozzai con il liquore. Questa mi mancava. Lui, pirata e abile commerciante… un ex allevatore di pecore? Gesù Cristo. – Dici sul serio?
– Com’è vero che son vivo e respiro. – Si passò le mani sugli occhi con un grugnito quando, un attimo dopo, ricordò di essere morto. – Sì. Un allevatore. E tu sei mai stato in una fattoria? Sai com’è che muoiono i cani, quando bisogna abbatterli? Quando sono troppo violenti, abbaiano forte e spaventano il bestiame? – Sospirò. – Una bella pietra sulla testa finché non sono stecchiti. E – singhiozzò – i maiali? I maiali strillano dalla paura, si agitano e piangono fino all’arrivo di un bravo ragazzo che li sgozzi. Le pecore. Lo sai come muoiono le pecore? Silenziosamente. Però mordono. Hanno bei denti. Le pecore. Una volta ce ne hanno ammazzate due. Durante la notte. Non hanno fatto un fiato. Le pecore sono… sono brave a morire, lo sai? – Un altro singhiozzo gli sollevò bruscamente il petto. – Ho vissuto come un cane e sono morto come una pecora. Mordendo. E in silenzio. – Tracannò, probabilmente per nascondere gli occhi lucidi. – Mi dispiace. Non sarebbe dovuto accadere, ma è andata così. Dicevamo? Be’, gli alligatori invece sono bastardi. Bastardi coi fiocchi. Quelli non crepano senza combattere, e quando si decidono a morire lanciano un ultimo urletto. – Lo vidi mettersi una mano davanti alla bocca per reprimere un rutto e non riuscii a trattenere un sorriso. – Allevavo pecore e sono morto come una di loro. – Abbassò gli occhi colmi di tristezza e guardò il fondo del bicchiere vuoto. – Cristo, sto per svenire.
Decisi che, per non portare entrambi alla depressione e a un conseguente suicidio, fosse meglio cambiare discorso. – Allora, tu… tu puoi vedere Jenny, vero? – Bravo, bravo, così si rincuora il proprio padre morto, parlando della sua figlia morta! Una medaglia, presto!
Lui scrollò le spalle. – Sì. E Bristol. L’Auld Shillelagh – ripeté con un sorriso triste e gli occhi chiusi. – Ti salutano, Haytham. Lei e… e Tessa.
Ridacchiai, abbassando lo sguardo sui fondi del rum. – Sono ancora troppo basso per capire la tua vita di pirata e Assassino, ai suoi occhi?
– Emmett – rispose mio padre con un sorrisetto stanco. – Mi ricordava tanto Emmett, con quelle parole. Tanto suo nonno. – Imprecò a mezza voce. – Ci siamo quasi. Salta. Nell’Oceano.
Mi voltai di nuovo verso il panorama di Nassau e d’improvviso non eravamo più lì. Quello su cui poggiavo i piedi era il ponte di una nave, un brigantino, per l’esattezza. La Jackdaw. – Devi andare, Haytham. – Mio padre era accasciato sul timone, ancora sbronzo, ancora sorridente, le gambe molli. – Vedi la costa? Le colonie. Quella è la… come la chiamano, Pennsylvania? – Indicò una direzione con il dito e lo seguii con lo sguardo. Nemmeno troppo lontano da lì potevo  scorgere un promontorio, un porto pieno di persone e vita, l’avanzare delle giubbe rosse e l’andirivieni dei mercanti tutti presi dai loro guadagni. E una barchetta a remi con un paio di pescatori a bordo in avvicinamento. Riuscivo a sentire l’odore della salsedine nell’aria. Un odore completamente diverso da quello di Nassau. – Vai, Haytham. Riesci a vedere quella barca? È vicina.
– Davvero? – grugnii con il solito sarcasmo al quale lui non doveva essere abituato, visto che durante il nostro ultimo vero incontro avevo dieci anni e riuscivo solo a chinare la testa per le lusinghe sue e di Reginald.
Sghignazzò comunque, prima di ricominciare a cantare con la voce ridotta a un mugugno. – For we may or might never all meet here again…
Istintivamente, come se non avessi fatto altro tutta la vita, mi arrampicai sul parapetto e allargai le braccia. Cercai il suo sguardo un’ultima volta, accogliendo la sua occhiata di approvazione mista ad ebbrezza con un gran sorriso, come quand’ero bambino.
Poi spiccai il volo, saltando verso le acque di Philadelphia, decisamente meno invitanti di quelle dei Caraibi, con le braccia aperte. Come ali. Come il degno figlio di un Assassino.
Quando risalii in superficie, dopo l’impatto iniziale con l’acqua salata, la Jackdaw era scomparsa. Insieme a lui. Forse per sempre, per sempre davvero.
La barca a remi era davvero vicina, come aveva detto lui. Troppo vicina, pareva essere a pochi pollici dalla mia fronte. Eccola lì, proprio sul punto di sbattermi contro la faccia.
– Merda – dissi, ma non riuscii a trattenere un mezzo sorriso colmo di gioia. 

– Ahi! Merda! – ringhiai passandomi una mano sulla faccia. La gioia aveva preso il volo velocemente, dopo aver davvero sbattuto contro la poppa di una barca a remi. Avevo ancora le dita strette alle assi della botte, che lasciai immediatamente andare per aggrapparmi alla lancia. – Ehi! C’è un uomo in mare, da queste parti – sbraitai con la voce roca di chi ha passato qualche tempo a respirare più salsedine che aria.
– Gesù Cristo e tutti i santi! – sbottò uno degli uomini sulla barchetta, sporgendosi per guardare l’uomo appeso ad un barile che aveva appena tamponato la sua imbarcazione. Lo disse come fosse una parola sola, gesùccristoettuttisanti. – E voi che ci fate lì? State… state bene? – Era un uomo sui trentacinque, rasato di fresco e con il viso costellato di troppe rughe per la sua età. Un uomo di mare. – Frank, dammi una mano a tirarlo su, presto!
Pochi attimi dopo Frank e il suo compagno mi avevano issato sulla barca, guardandomi con stupore. Avevo ancora tutte le dita – tutte e nove, almeno – e nonostante tutte le ore che dovevo aver passato in acqua i miei muscoli non erano nemmeno intorpiditi, i polpastrelli lisci come se non fossi mai entrato in acqua. Ero solo fradicio dalla testa ai piedi. – Ehi. Grazie – borbottai con un mezzo sorriso, ignorando le loro domande da ragazzine agitate. – Quella è Philadelphia, vero?
Frank, il più giovane dei due, sorrise appena. – L’unica e sola, signore. Benvenuto nella Provincia di Pennsylvania. – Non gli avrei dato più di diciassette anni, e stringeva in mano un arpione con estrema sicurezza, i capelli biondicci e impastati dalla salsedine. Sul viso abbronzato, una spruzzata di lentiggini gli dava un’aria particolarmente stupida, ma non feci commenti. Mi avevano pur sempre salvato la vita.
– Fantastico – sussurrai. – E che giorno è?
Frank guardò l’altro grattandosi la testa. – Accidenti, non lo so. Che giorno è, Kevin?
Il trentenne sospirò. – Sedici giugno, mi pare.
– Cristo! – sbottai rizzandomi in piedi. – Potreste accompagnarmi al porto? Vi… – Emisi un ringhio scocciato, ricordando che non avevo più un soldo bucato in tasca. – Vi sarei enormemente grato, signori. E un giorno vi ripagherò, lo prometto.
Frank e Kevin si lanciarono un’occhiata d’intesa e annuirono. – D’accordo. Se insistete tanto. – Kevin mi porse un remo e mi guardò con estremo stupore. – Voi dovete essere benedetto da Dio, signore. Siete maledettamente fortunato, sapete? Qualcuno lassù tiene davvero a voi.
Sospirai. – Già – brontolai immergendo il remo in acqua. Chissà, papà, forse è merito tuo.
– O forse no.
– Cristo santo! – Non era passato molto dall’ultima volta che avevo sentito Minerva e Giunone mugugnare dietro la mia fronte, ma mi fecero comunque prendere un bel coccolone.
Frank mi scoccò un’occhiata colma di preoccupazione. Non potevo biasimarlo, visto il caso umano che aveva appena preso a bordo. Povero, naufrago e pure pazzo. Gran bell’acquisto. – Ehm, niente – grugnii osservando il panorama. – Non pensavo fossimo così vicini alla città, ecco.
I due si scambiarono un lungo sguardo e si cucirono la bocca, probabilmente terrorizzati. Avrei sorriso, ma parlare con quelle due abbassava di parecchio il livello spontaneo del mio senso dell’umorismo. E così volete un ringraziamento, giusto? Non risposero. Due bambine permalose, come al solito. D’accordo. Grazie tante per avermi portato fin qui a cavallo di un delfino o attraverso chissà quale corrente oceanica. Grazie. Come se aveste altra scelta. Dove sareste senza di me, eh?
Una fitta lancinante di dolore mi attraversò la testa, da una tempia all’altra, facendomi gemere come un poppante. Decisi che come ringraziamento era sufficiente e presi a remare senza pensare ad nulla.
Nonostante il sapore agrodolce che quel dannato sogno mi aveva lasciato nel petto, la vista del molo e del profilo, in lontananza, dell’Indipendence Hall bastava a farmi traboccare di rabbia da ogni singolo poro. 

 
  
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