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Autore: Letterenascoste    10/05/2014    4 recensioni
«Dove andiamo?» chiese Faith, seduta sul sedile centrale posteriore, avvicinandosi ai posti anteriori.
«A casa mia» le rispose Hannibal, guardandola dallo specchietto retrovisore.
Faith deglutì e un piccolo brivido di orrore la percosse, mentre le mani cominciarono a sudarle.
Non ci pensare, andrà tutto bene.
La casa era imponente, proprio come il dottore.
Per lo meno non è isolata, pensò lei varcandone la soglia.
«Va tutto bene?» le chiese Hannibal chiedendole, con un gesto della mano destra, il giubbotto.
Faith, lentamente e scrutando le intenzioni dell'uomo, si tolse il giubbotto «Tutto bene» rispose lei.
«Mi sembrava un po'... terrorizzata, a dire il vero» asserì lui sorridendole.
Lo sono.
Attenzione: riprende esplicitamente alcune scene degli episodi.
Genere: Commedia, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hannibal Lecter, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Will Graham
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Faith.

Capitolo terzo.




«Will» lo chiamò lei afferrandogli le spalle e scuotendolo con forza.
«Ci sono» affermò lui togliendosi gli occhiali e chinandosi sulle proprie ginocchia

« Va tutto bene »

Era già mezzogiorno inoltrato quando Jack ordinò di sgomberare il campo. Il superstite era stato trasportato su un'autovettura dell'FBI, pronto per il viaggio fino in Virginia.
 
«Dobbiamo essere veloci » disse Will «Non gli ci vorrà molto per vedere che abbiamo estirpato la sua coltura »
Faith guardò nevrotica l'orologio che segnava un quarto d'ora dopo l'una del pomeriggio.
 « E' tardi »  disse tra sé e sé.
« Faith »
Lei alzò gli occhi, sentendosi chiamare, e vide l'amico aprire lo sportello della macchina di Jack Crawford
«Cosa ti è sfuggito del 'dobbiamo essere veloci'?»
Faith si stropicciò le mani, si morse un labbro. Con passi veloci si avvicinò a Will.
«E' martedì» gli sussurrò.
Will corrugò la fronte cercando di capirne il senso e il fine della frase, senza riuscirci.
«Lo so bene che giorno della settimana è oggi» rispose lui «Ma grazie per tenermi aggiornato»
«Dobbiamo andare» si sentì da dentro l'auto da uno Jack Crawford tutt'altro che rilassato.
Faith si scorse leggermente, piegandosi, così da poter vedere l'agente.
«Non posso venire» disse a Jack.
L'agente Crawford poggiò un braccio sul sedile accanto a quello del conducente, inarcò entrambe le sopracciglia «Non si aspetterà che me ne importi qualcosa, suppongo»
Faith sospirò «Oh non si preoccupi per me, prenderò un taxi»  disse poi indossando gli occhiali da sole.
Si sollevò per salutare Will.
«Fai attenzione» gli disse baciandogli una guancia «Non accettare caramelle dagli sconosciuti»
«Dove devi andare?» chiese lui, come se si fosse fermato a un punto morto del discorso.
«Will» si sentì urlare dalla macchina.
Faith fece qualche passo indietro mentre l'amico entrava nell'autovettura, abbassava il finestrino e le alzava una mano in segno di saluto.
«E' martedì» gli disse più forte, mentre l'auto cominciava a muoversi lontano da lei.
Faith rimase da sola in quel parcheggio decentrato. Prese il cellulare e chiamò un taxi, sarebbe arrivato a breve, solo un paio di minuti d'attesa.
«E' martedì» si ripeté più volte, da sola, nella sua mente, in silenzio, in attesa.
E' martedì: è così semplice, così intuitivo.
E' martedì, non un martedì qualunque ma quel martedì di ogni due settimane.
E' martedì, ma forse Will non se n'era mai reso conto.

Quando Faith tornò, quel martedì giungeva al termine. Il sole accarezzava con i suoi raggi bassi la terra ombrosa, mentre la luna nascosta dalle nubi si affacciava distrattamente sull'orizzonte, per iniziare il suo ufficio notturno pregno di luci soffuse, parole sussurrate e calde carezze.
Il tassista le aveva chiesto un prezzo esorbitante.
Era stanca e assonnata, le cinque ore totali di taxi avevano dissanguato sia lei che il suo portafogli.
Aprì la porta di casa, si tolse stancamente le scarpe, camminò su quel legno freddo che dominava in quelle stanze vuote, polverose e chiuse.
Si buttò sul letto spossata, maledicendo Lewisburg e la Pennsylvania per sembrare ogni volta così lontane da Baltimora.
Chiuse gli occhi ignorando la vibrazione del cellulare che lampeggiava, di una luce bianca e forte, in cui risaltava, violento e spiccato, il nome di Will.
---

Era giovedì e Faith non usciva di casa da giorni: doveva scrivere qualcosa, doveva cominciare o non avrebbe mai finito.
Bevve a grandi sorsi della Coca Cola zero, che con la sua lattina nera tanto contrastava il bianco quasi ingrigito del bancone di marmo della cucina.
Piegò in collo, prima a destra e poi a sinistra, facendolo scrocchiare.
Incrociò le dita, facendo scrocchiare anch'esse: era pronta.
Scalza percosse quei pochi passi che la separavano dal piccolo cantuccio che si era creata: un tavolino tondo, troppo piccolo e malconcio, sovrastato dal computer, nuovo e pulito, e dal telefono cellulare rovinato dalle troppe cadute; a terra una stampante con qualche foglio pronto a essere mangiato prima e sputato poi.
Si sedette e la sedia scricchiolò, stanca di essere usata.
La luce dello schermo del computer illuminò la stanza buia a causa delle imposte serrate.
Si grattò nevroticamente la cute, infastidita per il nodo che tirava troppo i capelli scomposti e annodati.
Aprì la pagina per comporre: si inizia.
Le sue dita sottili picchiettavano sui tasti del suo notebook, creando una piccola sinfonia tanto soave per l'orecchio di uno scrittore.
Frase, punto, spazio, a capo, cancella, cancella, pausa.
Rilegge. Corregge. Riflette. Riprende.
Parole, pensieri, virgole, appunti.
Rilegge. Corregge. Riflette. Cancella.
Frase. Cancella.
Cancella.
Tre ore e mezza dopo Faith si trovava, di nuovo, di fronte a una pagina bianca. Chiuse con rabbia il suo notebook, diede un calcio alla stampante. Non era possibile che ancora non riuscisse a scrivere nulla: era circondata da mille elementi utili, dettagli succulenti e immagini raccapriccianti che si imponevano rapide e crudeli nei flash della sua memoria... Eppure le mancava qualcosa, quella scintilla che la portasse oltre l'ordinario scribacchiare di qualsiasi individuo, le mancava la musa, il suo biglietto d'oro.
La vibrazione del cellulare la destò dalla sua frustrazione: era Jack Crawford che le ordinava di andare, quanto prima le fosse possibile, nell'aula in cui Will stava già tenendo la sua lezione.
«Perché tutta questa fretta?» chiese svogliata lei al pensiero di togliersi quel pigiama di pile blu tanto comodo.
«Abigail Hobbs si è svegliata. Non farci perdere tempo ad aspettarti, perché non lo faremo»
Poi il click che chiude la conversazione.
Faith, velocemente e senza cura, andò in camera da letto e aprì i cassettoni del comò e prese la prima maglietta che le capitò a tiro, una nera a maniche corte con un teschio bianco che sovrastava la scritta 'rock'; aprì l'armadio e tirò giù un paio di jeans stropicciati, scoloriti, aderenti; calzò gli stivaletti di pelle nera, senza cambiarsi le calze ormai sporche della polvere del pavimento; indossò il giubbotto scuro e lo chiuse per ripararsi dal freddo; scese veloce quei dieci scalini che separavano il piano 'giorno' dal piano 'notte'; afferrò le chiavi che giacevano sul ripiano della cucina, rovesciando la Coca Cola che ora si insinuava tra le fessure del vecchio pavimento di legno.
Quando uscì fu investita da uno sbuffo d'aria autunnale che le fece infreddolire il viso.
Aprì la porta del garage e uscì la sua Crosstourer Abs, nera e lucida.
Salì sulla moto e si sistemò il giubbotto prima di indossare il grande casco scuro, mettere in moto e accelerare.

Arrivò appena in tempo di fronte all'aula e vide le figure del dottor Lecter e dell'agente Crawford entrare.
Accelerò il passo e quasi dovette correre per raggiungerli, casco sotto braccio.
Quando Faith entrò nell'aula si trovò di fronte, proiettata sul grande schermo dietro le spalle di Will, l'immagine della ragazza trovata poche settimane prima, in un campo di Duluth.
La voce di Will sovrastava il silenzio che regnava nella stanza; i suoi occhi vagavano bassi, senza incrociare gli sguardi degli alunni; i suoi passi erano nervosi, lenti e incerti.
«E' uno psicopatico intelligente» diceva Will parlando dell'emulatore dell'Averla del Minnesota «E' un sadico, non ucciderà mai più così. E come lo prendiamo?»
Il respiro affannoso di Faith destò l'attenzione di Jack, che si voltò a guardarla.
Faith poggiò le spalle sulla parate vicina e lasciò il casco per terra, per riposarsi.
«Tiene una lezione sull'emulatore di Hobbs?» sentì la voce nitida di Hannibal insinuarsi nell'attenzione di Jack.
«Ci servono più menti possibili» asserì Jack prima di prestare nuovamente attenzione a Will.
«Questo emulatore» continuò il professor Graham «E' un avido lettore di Freddie Lounds e Tattlecrime.com, aveva una conoscenza profonda degli omicidi di Garret Jacob Hobbs, movente, modalità, abbastanza per ricrearli e paradossalmente elevarli persino ad arte. Quanto conosceva Garret Jacob Hobbs? Lo apprezzava da lontano o l'aveva avvicinato? Hobbs conosceva il suo emulatore allo stesso modo?»
Will fece qualche secondo di pausa, si sedette leggermente sulla scrivania posta al centro dell'aula.
«Garret Jacob Hobbs, prima di uccidere la moglie e tentare di fare lo stesso alla figlia, ha ricevuto una telefonata non tracciabile. Sono convinto che l'autore non identificato di questa chiamata fosse il suo emulatore»
Una chiamata non tracciabile.
Una chiamata.

Faith spostò lo sguardo verso il dottor Lecter. Era leggermente più indietro di lui ma, essendo poggiata al muro sinistro, poteva vederne il profilo: due labbra sottili che si increspavano in un sorriso, in un piccolo ghigno di compiacimento.
L'attenzione di Faith fu poi richiamata dal rumore e dal vociare degli alunni dovuti alla fine della lezione. Prese il casco, prima riposto a terra, e se lo mise sotto braccio.
«Guida una moto o si è fatta accompagnare?» sentì chiedersi dallo psichiatra, avvicinatosi.
«Guido» rispose lei dubbiosa «Ma, se posso, preferisco farmi accompagnare»
Ci fu un piccolo e leggero movimento del capo da parte di Hannibal, Faith lo notò e ripensò a quando, la prima volta che si incontrarono, le diede dell'opportunista.
«Suppongo che non siate qui per assistere alla prossima lezione» affermò Will avvicinandosi.
Faith vide Jack fare un passo avanti, come se stesse prendendo coraggio per dire qualcosa che potesse sconvolgere Will.
«Abigail si è svegliata» sputò fuori tutto d'un fiato Faith, che si beccò l'ennesima occhiataccia da parte di Jack.

Si recarono alla struttura che ospitava Abigail Hobbs con la macchina, definita da Faith 'sciccosa', dello psichiatra.
Durante il tragitto il dottor Lecter chiese ulteriori dettagli sulla teoria d'emulatore collegato alla telefonata.
Ne è interessato.

Quando aprirono la porta della camera di Abigail, li accolse la voce stretta e stridente di Freddie.
Faith, sentendola, cercò di coprirsi un po' con i capelli, per evitare di farsi riconoscere. Entrò dopo di Will e prima di Hannibal in quella stanza fiorata con sfondo celeste, che ospitava un letto ospedaliero e qualche sedia.
«...cattura gli squilibrati perché pensa come loro»
Sentirono quest'ultima parte di quel discorso tra Freddie e Abigail.
Freddie si girò, sentendo aprire la porta e udendo i passi, e restò sorpresa nel vedersi di fronte l'oggetto del suo discorso, ma affondò lo stesso il colpo.
«Perché è uno squilibrato» disse accentuando il verbo essere affermativo.
Faith si sentì ferita da quelle parole e stava per dirgliene quattro, ma poi rispose Will per se stesso.
«Vuole scusarci, per cortesia?» le disse.
Freddie si alzò e prese la sua borsa.
«Sono l'agente speciale Will Graham» disse poi rivolto alla ragazza distesa sul letto.
« 'Agente speciale' vuol dire che non è un vero agente, non ha superato le selezioni... troppo instabile» commentò Freddie
«Lui non è instabile» si inserì furiosa Faith, piegando la gamba e poi sbattendola a terra con forza, come se il gesto desse autorevolezza alle sue parole.
Freddie la guardò e sembrò di ricordare.
«Le devo chiedere di andarsene» affermò Hannibal rivolto alla giornalista.
«Se vuoi parlare...» stava dicendo Freddie porgendo il suo bigliettino da visita ad Abigail, ma il gesto fu fermato da Will.
Faith guardò l'amico con orgoglio e piegò la testa in segno di consenso.
«Sono arrivata prima io, Williams» le sussurrò Freddie prima di lasciare la stanza.

Accompagnarono la ragazza a fare due passi, sotto suggerimento di Hannibal, nella piccola serra adiacente alla struttura.
«Mi dispiace, non siamo riusciti a salvare tua madre» le disse Will che la scortava «Abbiamo fatto il possibile ma lei era già morta»
«Lo so, l'ho vista ucciderla» disse Abigail mentre si sedeva «Era affettuoso, poi all'improvviso non lo è stato più. Continuava a dirmi che gli dispiaceva, che dovevo stare tranquilla, che sarebbe finito tutto»
Gli occhi chiari e ombrosi della ragazza vagavano tristi tra i ricordi.
«Tuo padre aveva molte cose che non andavano, ma non c'è niente che non va in te» le disse Will per confortarla.
Abigail lo guardò, con due occhi grandi e indifesi.
«Hai detto che era affettuoso e io ti credo. L'affetto glielo suscitavi tu»
«Non gli ho suscitato solo questo» disse piano Abigail.
«Sarò una persona disturbata?» chiese poi.
«Probabilmente si» si intromise Faith incrociando le braccia «Ma non per questo diventerai un'omicida»
Gli occhi di Abigail si posarono su di lei, indiscreti.
«Faith» la riproverò severo Will, facendole fare un passo indietro.
---

«Non è molto saggio far arrabbiare un uomo che pensa di uccidere le persone per guadagnarsi da vivere» diceva la voce pesante di Jack.
Si trovavano nello studio di Jack, al di là della scrivania.
Jack da una parte che leggeva l'articolo di Freddie; Alana Bloom, Will, Faith e Hannibal ascoltavano in silenzio quello che si preannunciava come un rimprovero.
«Sa cos'altro non è saggio?» chiese Jack picchiettando con le dita della mano destra sull'altra mano e spostando il suo sguardo su Hannibal «Che lei era lì con lui... e anche lei» disse poi spostando lo sguardo su Faith «Mi chiedo per cosa la paghiamo a fare»
Faith si scorse leggermente, appoggiando i gomiti sulla scrivania.
«Ma voi non mi pagate» affermò lei «Ma se vuole cominciare a farlo...»
Sorrise canzoniera in risposto al sorriso irritato di Jack.
«A quel punto però potrei licenziarla come e quando voglio» rispose Jack.
«Io sono felice che l'articolo non fosse su Abigail Hobbs» disse Alana intromettendosi con quella che, secondo Faith, fu solo un'opinione inutile e banale.

Cominciarono a discutere sul desiderio di Abigail di tornare a casa.
Alana Bloom affermava che sarebbe solo stato nocivo per lei a livello psicologico e pericoloso, a causa dell'emulatore. Tuttavia Jack chiese il parere di Hannibal Lecter, che risultò opposto a quello precedente.
Poco più di un'ora dopo, Faith si ritrovava sul sedile posteriore centrale di un auto dell'FBI guidata da Will; accanto a lei la dottoressa Bloom, sulla destra, e Abigail, sulla sinistra. 
Il silenzio era uno di quelli imbarazzanti: nessuno sapeva cosa dire, cosa fare
Faith sentì i muscoli delle cosce di Abigail contrarsi quando arrivarono a casa sua. Poggiò una mano sul suo ginocchio, per farle capire che non era sola, che poteva stare tranquilla. Abigail le afferrò quella mano e la strinse, come se volesse condividere paure e angosce, condividere e dividere.
Cannibals, era questa la scritta che li accolse quando scesero dall'autovettura.
Faith camminò piano, dietro l'intero gruppo, così da allontanarsi dalla ragazza.

Fecero un silenzioso giro della casa.
Le foto erano girate e tutto era o in ordine o dentro grandi scatoloni gialli con su scritto 'Evidence'.
Sostarono qualche minuto in più nella cucina, rievocando il ricordo di quel terribile giorno. Le parole di Abigail sembravano dure e severe nei confronti di quell'uomo che aveva levato la vita al padre, ma i suoi occhi erano riconoscenti perché, dopotutto, le aveva salvato la vita.
Si fermarono nel salotto più a lungo.
Il dottor Lecter, Alana e Will portarono diversi scatoloni così che la ragazza potesse cercare qualcosa di utile ai fini dell'indagine.
«Si può prendere la follia di un altro?» chiese Abigail rivolta a Faith, mentre rovistava tra i ricordi di una famiglia ormai inesistente.
«Temo di si» rispose lei a voce bassa.
I loro occhi si scontrarono e si riconobbero, neri e azzurri, così diversi ma così simili.
«Folie à deux» si intromise Alana portando il suo ultimo scatolone e spiegando la sua teoria alla ragazza.
«Una persona non può essere uno psicopatico se i suoi valori sono ritenuti normali nella sua cultura... o dalla sua famiglia» affermò Hannibal adagiando a terra anche il suo ultimo scatolone.
«Mio padre non sembrava uno psicopatico»
«Tutti gli psicopatici non sembrano psicopatici, fin quando non lo scopri a tue spese» disse Faith stropicciandosi il naso che le pungeva a causa della polvere.
Questa volta lo sguardo di Faith si scontrò con quello dello psichiatra. Repentinamente e istintivamente distolse subito il suo sguardo da lui, per dedicarsi alle increspature della moquette.
«Tuo padre non ha quasi lasciato prove» disse Will.
«Quindi mi avete portato qui per cercarle» dedusse, quasi infastidita, Abigail.
Faith notò come il suo fastidio si tramutò in un sadico divertimento.
«Quindi dobbiamo rivivere il crimine» disse con un mezzo sorriso sulle labbra «Lei sarà mio padre» disse a Will «e lei mia madre» affermò rivolta poi ad Alana «e lei...» disse soffermandosi sulla figura imponente e composta di Hannibal Lecter «lei sarà l'uomo al telefono»
Faith fu quasi scossa da quelle parole, alzò gli occhi e registrò, come in un'istantanea, lo sguardo che Abigail riservò al dottore.
Intesa.
Quella volta fu Hannibal che si sforzò di guardare altrove. 
Abigail posò la propria attenzione su delle vecchie foto di famiglia mentre, con voce annoiata, raccontava di come le ossa delle vittime stessero probabilmente tenendo insieme dei tubi; poi promise che l'indomani li avrebbe portati nella baita, dove il padre produceva da sé lo stucco. Dopo l'attenzione di tutti fu richiamata dai passi pesanti di qualcuno che si avvicinava, ora, a una delle entrate che davano sul salotto.
«Ciao Abigail» disse una ragazza di media altezza, occhi chiari e capelli scuri.

Abigail chiese se potesse scambiare due parole con l'amica.
Le lasciarono passeggiare sul retro della casa, che dava sul bosco. 
«Deve essere orribile per lei stare qui, in questa casa» affermò Alana chiudendo uno scatolone.
«Ma è pur sempre casa sua» le disse Faith sedendosi su una poltrona «Niente potrà mai farle dimenticare questa casa, l'odore di questo luogo, la sensazione che prova varcandone la soglia»
«Dalle sue parole» si intromise Hannibal sistemandosi la giacca che si era increspata a causa del movimento dell'uomo «Si potrebbe dire che lei per prima è molto legata alla sua casa d'infanzia»
Faith si voltò verso di lui.
«Il luogo dei desideri infranti, dei sospiri, delle lacrime, dei gemiti» continuò Hannibal che corrugò leggermente la fronte, nell'atto di ricordare « Una casa ricolma di solitudine, in cui risiedono solo fantasmi d'amore e parole troppo pesanti per essere pronunciate»
Faith rimase stupita, sorrise. Chiuse gli occhi ad una fessura, prima di rispondere.
«Lei ha letto il mio libro»
«Tutto in una notte» rispose Hannibal «Ho constatato con mano il motivo del suo successo»
Faith sorrise, ancora. Sapeva di doversi sentire lusingata da quelle parole ma, in realtà, ne fu solo infastidita.
«Immagino la sua noia durante una lettura così» Faith si fermò un secondo, come se stesse cercando la parola giusta per deludere qualsiasi risposta che lo psichiatra si sarebbe aspettato «Banale»
«Lei si sottovaluta. Le accade spesso di sottovalutarsi?»
Faith si alzò, indispettita da quella domanda. Alzò il suo sguardo che, ancora una volta, si urtò con quello del dottore.
«Credevo fossimo d'accordo sul fatto» disse lei facendo il giro della poltrona e piazzandosi davanti alla figura alta di Hannibal «Che non deve psicanalizzarmi. Non sono una sua paziente, né desidero esserlo in un futuro prossimo... Quindi, per favore, rispetti la mia volontà»
Lo vide sorridere lievemente con l'angolo sinistro delle bocca.
«Ma avrò sempre la possibilità di analizzare il suo scritto» disse lui «Non è forse vero che nelle parole si cela l'animo dello scrittore?»
Faith deglutì. Per un attimo le sembrò di far parte di una partita a scacchi... e Hannibal Lecter le aveva appena mangiato la regina.
«Può pensare quello che vuole del mio libro» disse a denti stretti con parole che nascondevano irritazione «Ma se mi farà ancora domande inopportune, come risposta avrà solo e soltanto un'altra domanda inopportuna»
«Do ut des» le disse lui.
Lo vide sorridere, di nuovo, di quel sorriso che le sembrò il più irritante e fastidioso di questo mondo.
«E' latino» continuò Hannibal «Vuol dire...»
«So perfettamente cosa vuol dire» rispose Faith a denti stretti.
Hannibal stava per replicare e la sua bocca sottile si mosse, ma non fece in tempo a emettere suono perché furono destati dalle urla e dagli insulti che si udirono dall'esterno. Così, in un attimo, corsero tutti fuori.
Ogni passo era contraddistinto dallo scricchiolio delle foglie calpestate che, gialle e secche, ricoprivano il manto erboso.
«Ha detto di essere il fratello di qualcuno» disse Abigail andandogli incontro.
Faith non vide il volto di quel ragazzo, ne vide solo la sagoma che fuggiva via tra gli alberi.
Le foglie si mossero ancora.
«Marissa» urlò una donna spuntando alle spalle del gruppo. Quando la vide, Faith pensò che fosse una classica casalinga del luogo, con jeans e maglioncino, con un mestolo in mano e un rimprovero in bocca.
«Vieni a casa» disse la signora, evidentemente madre dell'amica di Abigail.
Ci fu un astioso e breve battibecco tra le due, che si concluse con un «La vuoi smettere di rompere?!» da parte della figlia.
Le foglie registrarono i loro passi che, via via, si allontanavano.
«E' proprio quando pensi che la giornata non possa peggiorare» disse Faith infilandosi dei guanti di pelle per ripararsi, in parte, dal freddo autunnale «Che assisti a una crisi adolescenziale»
«Crisi?» chiese Hannibal porgendole attenzione.
Faith non rispose, ancora urtata dalla conversazione precedente.
«Io la chiamerei 'maleducazione'» suggerì lo psichiatra guardando un'ostinata Faith che continuava a fissarsi le scarpe pur di non prestargli attenzione.
«E' un argomento controverso» continuò lui imperterrito «La maleducazione è colpa del genitore, che non ha ben insegnato le regole del vivere civile, o del figlio che le infrange pur conoscendole?»
Faith sentiva lo sguardo dell'uomo pesare su di lei. Non capiva cosa volesse, non era di certo obbligato a parlare con lei.
Calciò una foglia che, dopo aver fatto una mezza capriola in aria, si adagiò sulle sue simili.
Faith lo guardò e si espresse ritraendo le labbra sulla parte sinistra, in una smorfia infantile e capricciosa.
«Non è una domanda volta a psicanalizzarla» le disse lui facendo un passo avanti verso Faith.
«Credo della figlia, in questo caso» si decise Faith a rispondere «E' abbastanza grande da capire cosa sia giusto o meno»
Subito dopo riportò la sua attenzione a quelle foglie, gialle e morte, che si muovevano con il leggero soffio del vento freddo: a destra e a sinistra, calpestate e distrutte, leggere e impotenti, vive ma pur sempre morte.
---

Il giorno dopo Abigail li portò nella baita in cui il padre svolgeva le mansioni inerenti alla caccia.
Faith si portò la macchina fotografica. Will, che aveva in precedenza già fatto un sopralluogo, le aveva descritto il piccolo edificio in maniera confusa: tutto ciò che era riuscita a capire era la molteplice e ossessiva presenza di palchi di cervi.
Quando arrivarono, Abigail solcò il terreno con passi grandi e veloci, anticipando tutti gli altri.
Un agente della polizia staccò il nastro giallo che vietava l'entrata, aprì la porta.
Per prima entrò Abigail, seguita da Faith che con un flash violento illuminò la stanza, poi Alana, Hannibal e Will. 
La porta fu chiusa alle loro spalle.
Abigail raccò di come il padre provvedesse a fare da sé stucco, colla, burro.
La ragazza sembrava ferita e sconvolta al pensiero che suo padre fosse un cannibale e che, inconsapevolmente, anche lei ne fosse partecipe.
«Prima di tagliarmi la gola, mi ha detto che aveva ucciso quelle ragazze per non uccidere me» aggiunse sotto shock.
«Tu non sei responsabile per quello che ha fatto tuo padre, Abigail» disse Alana facendo un passo avanti verso quella ragazza a cui, era ormai evidente, si era legata, partecipe del suo dolore.
«Se avesse ucciso me, nessuna di quelle ragazze sarebbe morta» continuò Abigail. 
Faith incrociò il suo sguardo e si capirono, le loro anime si riconobbero nel silenzio e di quello sguardo falso e veritiero contemporaneamente.
Concentrando il quel momento tutta la sua attenzione sulla ragazza, Faith poté vedere con precisione la goccia di sangue rosso e scuro che andò a sporcare la fronte pallida di Abigail.
Salirono sul soppalco, dal quale proveniva il rivolo di sangue.
Faith seguì Will su per le scale. Fecero qualche passo avanti rimanendo poi pietrificati di fronte al corpo esanime di una donna trafitta da grandi e possenti  corna.
Gli occhi di Faith fissarono per parecchi secondi quel nuovo trofeo esposto lì, per loro.
Non fu ridestata dalla chiamata che fece Will, ma fu scossa da un fremito di angoscia e turbolenza quando Abigail urlò il nome dell'amica.
Istintivamente fece qualche veloce passo indietro, gli occhi fissi sul pezzo d'esposizione. La testa era vuota, pesante, impotente. Non riuscì a muovere un muscolo quando la sua retromarcia fu fermata da mani, grandi e possenti, che le afferrarono le spalle. Non si seppe muovere, non riuscì a ribellarsi: restò immobile e pietrificata, incarcerata. Guardava il sangue grumoso lasciare il corpo di Marissa Schurr e adagiarsi sul pavimento di legno ormai impregnato di lei, della sua vita, della sua morte. Vide Will alzare, con un fazzoletto pulito, il volto della giovane donna; sentì una di quelle mani che l'imprigionavano stringere la sua e, in un atto di violenza che le fece sanguinare l'anima, farle schiacciare il pulsante che avrebbe dato vita allo scatto, che avrebbe immortalato Marissa Schurr per l'ultima volta. Poi un flash illuminò la stanza, ridestando la morte e la vita, e fu finalmente libera da quella presa.
---

Jack non permise a Will, e quindi anche a lei di conseguenza, di accompagnare Abigail Hobbs a casa, per l'ultima volta.
Quando Faith tornò a casa era agitata e nervosa. Si grattò con violenza e rabbia la pelle delle braccia che, sotto le sue unghie poco curate, diventò rosso sangue, riportando graffi e lividi. Si spogliò veloce sull'ingresso di casa, gettando gli abiti per terra. Il respiro affannoso le toglieva la lucidità, lasciandole un vago senso di terrore immotivato. Affondò le unghie nella pelle chiara e delicata dei polsi; si graffiò lo stomaco come se volesse eliminare pezzi di pelle morta e fastidiosa. Graffia, gratta, affonda. Se avesse seguito le sensazioni del suo corpo avrebbe cominciato a grattar via anche gli occhi, che placidi le prudevano di lacrime nascoste e inesistenti. Prurito, sporco, calore. Un violento tremore le scosse i muscoli del corpo, ogni minuto più forte. Prese un bicchiere, facendone cadere qualcuno per terra e calpestandone il vetro che si dipingeva di rosso, lo riempì per metà di acqua a cui aggiunse diverse, troppe, gocce di un vecchio sedativo. Si sdraiò a terra e aspettò inerme che i tremori le passassero. Tremava sopra quel legno freddo che calpestava ogni giorno con i piedi scaldi o con le suole delle scarpe. Tremava e non riusciva a pensare. Tremava e le sembrava che da un momento all'altro sarebbe morta. Poi, come una grossa nuvola in un caldo pomeriggio estivo, sentì la tiepida pesantezza del calmante che le fece chiudere le palpebre. Restò lì, per tutta la fredda notte, tra le schegge di vetro, il sangue e la polvere.

Faith si svegliò solo il pomeriggio dopo.
Era leggermente stordita e con della saliva che scendeva giù dalla sua bocca per bagnare il pavimento.
Si portò una mano alla bocca per pulirsi, con l'altra scostò i capelli che le oscuravano la vista.
Dovette muoversi piano perché i muscoli le dolevano.
Provò un dolore lancinante quando fece aderire i piedi al legno, svenne.
Si risvegliò e tutto intorno a lei girava. Aspettò qualche minuto e poi, portandosi le gambe al petto, si estrasse le schegge ormai incrostate alla pelle.
Zoppicando e lasciando piccoli segni di sangue, riuscì ad arrivare in camera da letto e si medicò.
Restò sdraiata sul suo letto perché il camminare le recare troppo dolore.
Si portò le mani agli occhi e li stropicciò. Poi, d'un tratto, sembrò che la memoria fu di nuovo libera, come se si fosse ricordata in quell'istante di qualcosa che le sembrava più un sogno che realtà. Incurante del dolore, si alzò e zoppicando e strisciando quei piedi gonfi, si sedette nell'unica sedia del salotto. La sedia la salutò con il solito scricchiolio. Accese il pc e collegò con il cavo usb la macchina fotografica da cui scaricò le foto. Eccola: Marissa Schurr.
Era vero.
Faith si fermò, raggelata.
La chiamata, lei aveva visto.
L'interesse, l'aveva percepito.
La reazione, l'aveva udita.
Chiuse la finestra che le mostrava la foto a tutto schermo.
Prese il telefono da terra e compose il numero di Will.
Picchiettò con le dita sul tavolino, nevrotica.
Doveva premere una cornetta: verde chiama; rossa cancella.
Rossa.
Aprì la pagina per comporre.
Frasi, parole, spazi, punteggiatura: tutto fluiva leggero e veloce sotto le sue dita e tra i suoi pensieri.
Scrive, rilegge, coregge. Questa volta non cancella.
Pensieri, immagini, vita e morte tra quelle parole nere su fondo bianco.
Scrive, rilegge. Non c'è nulla da correggere.
Faith guardò le parole scivolarle via dalla mente e prendere vita.
Scrisse per ore, paga e realizzata.
Scrisse senza pensare al bene o al male.

Erano le sei del pomeriggio quando fu costretta a interrompere per la mancanza di luce.
Avrei dovuto cambiare la lampadina.
Guardò lo schermo e vide che era sbagliato.
Picchiettò le dita scarne ancora sul tavolino, più forte di prima.
Prese il telefono, compose il numero di Will.
Stava per premere la cornetta verde quando il cellulare si illuminò con un numero che non conosceva.
«Pronto?»
«Faith Williams?»
«Si»
«Sono Abigail Hobbs»

Faith si vestì e con molto dolore calzò di nuovo i suoi stivali.
Zoppicando e cercando di ignorare le pulsazioni del piede ogni volta che lo poggiava a terra, si diresse in garage e mise in moto la sua Crosstourer Abs.
Arrivò nei pressi del centro di riabilitazione, fece il giro da dietro come le era stato detto.
Aspettò dieci minuti circa, poi vide Abigail scavalcare le mura che cingevano la struttura, la vide correre verso di lei.
Faith prese un casco e lo glielo lanciò.
«Andiamo via, prima che se ne accorgano» disse Abigail indossando il casco e montando sulla moto.
Faith vagò un po' per le strade deserte della periferia di Baltimora, poi si fermò in un piccolo e vecchio locale.
«La locanda di Barney» lesse Abigail seguendo la donna dentro il pub.
Una sola stanza con carta da parati rovinata, un bar poco fornito.
Si sedettero a uno dei tavoli, l'imbottitura delle sedie si mostrava loro a causa dei grandi tagli che riportavano.
«Un posticino carino» disse Abigail guardandosi intorno e vedendo che erano le uniche presenti in sala.
«Sicuramente qui nessuno verrà a chiedere alla cameriera se ti ha vista» obiettò Faith.
Abigail stava per rispondere ma si bloccò alla vista di un uomo che si dirigeva verso di loro.
Grasso, unticcio, stempiato e sudato. Strisciava i piedi per noia e per lo stesso motivo non si tirava su i pantaloni che lasciavano intravedere il solco del sedere peloso.
«Cosa vi porto, dolcezze?»
Abigail guardò Faith dubbiosa.
«Per me un mojito e per lei uova strapazzate e salsiccia» rispose Faith sorridendo all'uomo che, dopo aver annuito ripetutamente col capo, entrò nella cucina grattandosi una natica.
«Non ho voglia di uova» disse Abigail.
«Non ti porteranno uova o salsicce, se la cosa ti può consolare. Qui hanno solo due cose: whisky e hamburger. Ma non ti preoccupare» continuò Faith vedendo la ragazza disgustata «Il cuoco è un amico mio, è pulito... Solo che gli piace cucinare gli hamburger in questo periodo»
«Cosa hai fatto alla gamba?» chiese Abigail cambiando repentinamente discorso.
Faith si guardò la parte dolente «E' il piede, è stato un incidente con un po' di vetro»
«Guarda un po’ chi è venuto a trovarmi!» sentì Faith dirsi alle spalle.
Si girò e sorrise nel vedere il vecchio John, vispo e arzillo come sempre, con in mano un piatto con un panino.
«Qual buon vento ti porta in questo posto dimenticato da Dio?» gli chiese mentre si lisciava prima la canottiera bianca e poi i capelli grigi.
«La mia amica aveva fame e l'ho portata nel paradiso degli hamburger» mentì lei.
John posò il piatto di fronte ad Abigail e poi, girando il bancone del bar, versò del whisky in un vecchio bicchiere.
«Devi guidare?» le chiese poi prima di servirlo.
Faith annuì col capo e lui per tutta risposta mandò giù la bevanda in un sol sorso «Allora per te niente» disse poi prima di andarsene.
Faith rise.
«Ci conosciamo da molto» spiegò alla ragazza che addentò il panino.
Faith la guardò per un po'.
«Chi ti ha dato il mio numero?» le chiese.
«Il dottor Lecter» rispose Abigail prima di dare un altro morso.
«E... per quale motivo mi hai chiamato?» chiese Faith incrociando le braccia «Non credo che dovresti uscire dal centro, soprattutto dopo quello che è successo a casa tua, dopo l'aggressione»
«Non ce la facevo più a stare là dentro» rispose lei mandando giù un boccone.
Faith la guardò mangiare, boccone dopo boccone, e la invidiò.
«Vorrei pubblicare la mia storia» le disse la ragazza «Puoi aiutarmi?»
Faith scosse la testa «E' meglio se ne parli con Freddie Lounds»
Abigail poggiò l'ultimo pezzo di panino sul piatto.
«Non mi vuoi aiutare perché non credi che sia innocente?» le chiese con quegli occhi azzurri che imploravano perdono «Pensi che io sia come mio padre, l'hai detto l'altro giorno!» fece una pausa «Pensi che io l'abbia aiutato?»
«Io penso che tu non sia innocente come ti crede invece Will» confermò Faith poggiando i gomiti sul tavolo e avvicinandosi alla ragazza «Credo che qualsiasi cosa tu abbia fatto, è stato per sopravvivere»
Abigail si avvicinò anche lei e le due donne si ritrovarono occhi negli occhi a pochi centimetri di distanza.
«Non è una colpa scegliere di vivere, Abigail»
«Secondo te sono un mostro, come lo era mio padre?» le sussurrò piano la ragazza, mentre due lacrimoni lucenti le rigavano il viso.
«Si» sussurrò ancora più sommessamente Faith.
Allungò una mano e le asciugò le lacrime «Ma puoi decidere di non esserlo più, puoi decidere di essere migliore di lui»

Quando uscirono dal locale Abigail le chiese di accompagnarla allo studio del dottor Lecter.
Faith non chiese il perché, lo fece e basta.
«Digli che ti ho accompagnato io e che ti aspetto qui, non di nuovo» disse poi slacciandosi il casco e spegnendo la moto.
Abigail annuì.
«Grazie»
Faith la vide entrare nell'edificio, poco dopo una mano scostare una tenda e poi vide il dottor Lecter scrutarla dall'alto del suo studio.
Faith gli volto le spalle, si accese una sigaretta e aspettò Abigail mentre l'ombra primeggiava sulla luce e i lampioni si accendevano in serie illuminando le strade.
   
 
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