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Autore: Mew Notice    10/05/2014    1 recensioni
Come si può celare il male? Come lo si può domare? River cerca in tutti i modi di farlo, ma quando incontra Evangeline, ogni certezza diventa incertezza e l'amore dovrà, come il male, essere domato e celato per non rischiare entrambi di essere uccisi.
Dalla lontana Cina al Canada, tra leggenda e realtà si snoda la storia d'amore tra River Mackenzie, professore di "Antropologia sociale e culturale" alla Bishop's University in Canada, e la studentessa Evangeline Yellowstone.
" Mi controllai la pancia e uno strano livido comparve a contatto con l’acqua. Assunse una strana forma, sembrava quasi un ala, anzi: due ali che si allargavano a proteggere il mio corpo."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Anni fa, in Cina, non esistevano né fiumi né laghi. La pioggia cadeva di tanto in tanto a irrigare i raccolti, ma l’unico bacino d’acqua era il Mare d’Oriente, dove vivevano i quattro re dragoni: il Dragone Nero, il Dragone Lungo, il Dragone di Perla e il Dragone Giallo.
I quattro  draghi cinesi erano asserviti all’Imperatore di Giada. Questi viveva con la sua corte nella residenza celeste, oltre le nubi, e da lì vegliava sulle vicende terrene.
Un giorno che i quattro dragoni si erano elevati in volo dalle acque, il Dragone di Perla notò all’improvviso qualcosa di strano sulla Terra. Tutti gli uomini erano diventati molto magri, perché la pioggia non cadeva da lungo tempo e i raccolti avvizzivano nei campi. Il Dragone di Perla vide gli uomini invocare l’Imperatore di Giada innalzando al cielo frutti, dolci e altre offerte.
I lamenti sofferti della gente catturarono la compassione del Dragone di Perla che fece notare la circostanza agli altri re dragoni. I quattro draghi si mostrarono molto preoccupati.
Sopraffatti dalla commiserazione, chiesero al loro Imperatore di aiutare quella gente sventurata.

I gemiti erano divenuti insopportabili. E così, i quattro dragoni si proiettarono fra le nuvole, diretti alla residenza celeste dell’Imperatore.
Quando giunsero al palazzo, l’Imperatore di Giada, che stava ascoltando una melodiosa musica di fate, si mostrò infastidito nel vederli.
Il Dragone Lungo si fece avanti chiedendo di mandare la pioggia sulla terra al più presto, perché i raccolti stavano avvizzendo nei campi, ma l’Imperatore, che non desiderava essere distolto dalla sua musica, finse di accogliere la richiesta e li esortò a tornare sulla Terra.
I quattro re dragoni, confortati dalla risposta, fecero ritorno sulla Terra. Trascorsero, però, quasi due settimane, senza che una goccia di pioggia cadesse sui raccolti. Gli uomini erano ormai così affamati da essere costretti a cibarsi di erba e radici.
I quattro re dragoni si rattristarono nel constatare che l’Imperatore di Giada non aveva prestato attenzione ai problemi del popolo cinese. Toccava dunque a loro trovare una soluzione. Si misero a riflettere sul da farsi e, alla fine, al Dragone Lungo venne un’idea mentre scrutava il Mare d’Oriente. «Quanta acqua c’è nel mare dove viviamo!» disse. «Perché non la usiamo per aiutare gli uomini? Possiamo raccoglierla e spruzzarla dall’alto del cielo. Come tante gocce di pioggia!»
Gli altri tre dragoni lo giudicarono un buon piano, ma erano certi che l’Imperatore si sarebbe adirato se avesse scoperto che avevano aiutato gli uomini senza chiedere il suo permesso.
«Io, comunque, sono ben felice di rischiare l’ira dell’Imperatore», esclamò il Dragone Giallo.
«Anche noi», convennero il Dragone Nero e il Dragone di Perla.
«Dobbiamo fare tutto quanto è necessario per aiutare gli uomini», elargirono tutti.
Così, i quattro re dragoni cominciarono a raccogliere l’acqua del mare nelle loro bocche e, con un gran frastuono, a portarla lontano e a rovesciarla sulle campagne. Gli uomini, felici per l’arrivo della pioggia, uscirono in strada e si misero a ballare per la gioia.
Presto: il riso, il grano e il sorgo dei campi, riacquistarono un aspetto florido.
Ma la divinità del mare, che aveva osservato l’operato dei quattro re dragoni, riferì l’accaduto all’Imperatore di Giada. Infuriato perché i quattro dragoni avevano agito senza il suo permesso, l’Imperatore convocò immediatamente i propri generali celesti con le loro truppe perché li arrestassero.

I quattro re dragoni vennero condotti nella residenza celeste dell’Imperatore.
«Portami quattro montagne» ordinò l’Imperatore alla divinità delle montagne. «Questi quattro draghi non devono più contravvenire ai miei ordini!»
E fu così che il dio delle montagne radunò quattro altissimi monti e li schiacciò sui quattro draghi, uno per ogni regione della Cina.
La storia, per fortuna, non finisce qui, perché i quattro re dragoni erano ben decisi a fare tutto il possibile affinché gli uomini non restassero più senz’acqua. Si trasformarono così nei quattro fiumi principali della Cina, uno per ciascuno dei quattro monti.
Il Dragone Nero divenne l’Heilung Kiang nell’estremo nord, il Dragone Giallo si trasformò nello Hwang HO o Fiume Giallo nel centro, il Dragone Lungo nel Chang Jiang o Yangstze Kiang nel sud, mentre il Dragone di Perla divenne lo Xi Jiang, detto anche Fiume di Perla, nell’estremo Sud.

Ma dopo cento anni la dea Xiwangmu, la Regina-Madre d’Occidente, divinità della fecondità, decise di non impedire che le anime dei draghi rimanessero confinate nei fiumi, così, una sola notte, nel solstizio d’estate, le acque prendevano vita e i Dragoni rinascevano per vivere tra gli esseri umani. A loro era stata concessa una sola notte perché la divinità Yi l’arciere, eroe solitario e cacciatore, venne assoldato dall’Imperatore per impedire che qualsiasi figlio dei Draghi potesse sopravvivere, uccidendo ogni loro erede.
Si narrano battaglie feroci tra draghi e divinità, tra uomini e draghi ribelli che, pur di ricevere le benevolenze dell’Imperatore, rinnegarono la loro natura.
Ma la storia ci insegna che queste guerre, queste crudeli battaglie per la sopravvivenza di una specie, c’erano e ci saranno sempre.
Noi, Guardiani del Tempo, siamo taciti osservatori degli eventi ma siamo anche i manipolatori dei Fati altrui. L’umanità ha ancora bisogno di un eroe, ha bisogno di poter credere che ancora tutto non è finito.
Ed è per questo motivo che abbiamo concesso ai quattro Dragoni di poter rinascere e vivere sulla Terra. Il loro aspetto nessuno lo conosce, sono tra gli esseri umani e silenziosamente vivono vite diverse per aiutarli. Sono il vento, il fuoco, l’acqua e la terra, sono parte di noi, sono il nostro futuro.
Questi quattro draghi sono la salvezza dell’uomo, sono il mistero, la forza e la determinazione di quattro creature valorose. Non importa che aspetto abbiano, loro fecero una scelta e scelsero di aiutare gli esseri umani e per questo gli venne concessa l’immortalità.
La loro essenza, la loro anima ancora oggi si propaga tra le fronde degli alberi e il turbinio delle acque dei fiumi cinesi, ma guardatevi sempre attorno, loro possono essere lì, pronti ad aiutarvi, sempre accanto a voi.
 
Ai giorni nostri
 
«Vorrei che la lezione del professore Mackenzie non terminasse mai.»
«Vorrei non dover studiare» mi zittì la mia collega universitaria.
Io e Amelie frequentavamo l’ultimo semestre alla Bishop's University in Canada. Vivevamo insieme e condividevamo sempre la stesse cose: camera, libri, club, amici… ma non la passione per l’Antropologia sociale e culturale. Coabitavamo in una piccola camera confortevole con due letti accostati alle pareti e i miei libri che regnavano sui vestiti di Amelie.
L’unica cosa effettivamente bella del nostro alloggio universitario era la visuale che si intravedeva dalla finestra, fonte confortevole di luce naturale e di raggi possenti quando l’estate si avvicinava. Da quello spazio, aperto verso il mondo esterno, osservavamo il trascorrere del tempo e l’avvicendarsi delle stagioni.
L’autunno metteva sempre tristezza. Il cielo terso di pioggia e le nuvole grigie sovrastavano come delle maestose divinità al disopra della nostra vita.
Poi cadevano le foglie e sembrava che tutto si ibernasse sotto un manto spesso di neve con l’arrivo dell’inverno. I laghi vicino a Lennoxville si ghiacciavano e pattinare o giocare a hockey diventava il passatempo preferito di tutti i ragazzi, soprattutto dei nostri amici. Io mi rifugiavo a casa dei miei genitori a  Sherbrooke e la vigilia di Natale era sempre un ricordare quando ero piccola e di tutte le stranezze che combinavo, oltre al solito rituale dello scambio dei regali. Papà riceveva sempre una cravatta che poi non metteva quasi mai, la mamma delle pantofole coloratissime e a me capitava sempre la sciarpa o i guanti in lana.
Poi il clima mutava e la neve si scioglieva per lasciare sbocciare i fiori e l’erba in primavera. I campi diventavano soffici tappeti verdeggianti e i laghi cieli in terra; risplendevano di un incantevole color cobalto e gli uccelli nidificavano lungo le sponde. Il lago Massawippi diventava meta di escursioni e svago per noi ragazzi. Pic-nic e feste in riva alle sue coste anticipavano l’arrivo dell’estate, dove c’era la vera esplosione del caldo e del sole possente. La sera facevamo i falò e musica e baci al chiaro di luna erano delizia per tutti, tranne che per me. L’ultima estate avevo litigato con Matthew Wilson. Io e Mat avevamo deciso di comune accordo di prenderci un mese di riflessione, ma quel mese si era oramai trasformato in quasi un anno. Lui aveva deciso, per entrambi, di non continuare a vederci, anche perché ormai usciva con Emma Taylor. All’inizio fu difficile, ma poi me ne feci una ragione: ero da mollare! Ero così strana che Amelie, la mia migliore amica-collega-universitaria, a volte mi diceva che le sembravo una strega. Avevo momenti di ira tanto funesti che le facevo paura, e a volte facevo paura anche a me stessa!
«Non è poi così difficile!» convenni sistemandomi la tracolla sulle spalle e alzandomi dal banco. La lezione era terminata e il professore se ne stava seduto al suo posto a controllare che uscissimo senza perdere troppo tempo dall’aula. Amava starsene sempre da solo. Ignorava gli altri colleghi e sovente rimaneva a leggere libri antichi. A lui, in oltre, non piacevano le domande e quindi non piacevo neanch’io: pozzo senza fondo di quesiti.
Mi fermai davanti al mio banco e Amelie mi venne contro sbattendo e imprecandomi di evitare di fare le mie solite domande.
«Non posso» l’avvisai, lasciando cadere la tracolla sulla sedia e impettita mi diressi verso il professore Mackenzie. Dal suo sguardo compresi che si era accorto di me e stava sicuramente elaborando qualche scusa per evitarmi, ma io non evitai lui. Con passo deciso raggiunsi la cattedra.
«Signorina Yellowstone, ho una conferenza tra qualche istante e non…» balbettò per evitarmi.
«Quanto di vero esiste nelle leggende dell’antica Cina?» chiesi interrompendolo e ponendogli immediatamente la mia domanda senza attendere che lui potesse proseguire con le solite scuse.
«Nulla!» rispose alzandosi e ignorandomi.
«Un docente di Antropologia sociale e culturale non può rispondermi: nulla!» Lo afferrai per un braccio e, per la prima volta, mi accorsi di una strana luce nei suoi occhi quando si voltò verso di me.
«Evangeline, dobbiamo andare» strillò Amelie, preoccupata che potessi iniziare a polemizzare pesantemente anche con il professore Mackenzie come avevo già fatto con gli altri insegnanti, attirandomi sovente la loro antipatia.
«Attendo una risposta e arrivo» la informai non distogliendo lo sguardo dal professore.
Fissare i suoi occhi era come essere stati tormentati dal fuoco. Un rosso vivo e acceso irradiava le sue pupille e quasi si percepiva il suo calore, tanto che indietreggiai di qualche passo…
Impossibile! Non poteva essere vero! Oppure si era fatto?
Aveva certamente bevuto o inalato qualche sostanza stupefacente. Il fuoco fiammeggiante dei suoi occhi però, dopo qualche istante, si spense e le pupille ritornarono normali come anche l’iride: un tenue celeste. Il bagliore del fuoco aveva lasciato il posto a un tenue cielo primaverile che splendeva nei suoi occhi grandi e attenti. Abili e singolari nello studiarmi.
Odiavo quando non riuscivo a darmi delle risposte a ciò che vedevo o sentivo.
«Ci vediamo mercoledì» disse il professore lasciandomi nei miei dubbi, che non facevano che aumentare. Lui se ne andò e io raggiunsi Amelie, dovendomi assorbire le sue innumerevoli disapprovazioni sul mio comportamento-dopo-lezione.
Per riuscire a calmare Amelie decisi di offrirle il pranzo da Jerry, la pizzeria vicino alla Trinity United Church a Lennoxville. Per arrivare a Lennoxville a piedi impiegavamo circa dieci minuti dall’Università, ma quei dieci minuti mi sembrarono un’eternità: Amelie stava organizzando una piccola vacanza per il fine settimana con i ragazzi al lago Massawippi e doveva, necessariamente, trovarmi un accompagnatore.
«Parliamo di cose serie, come la mangi la pizza?» le domandai per sviarla dalla sua pressante opinione.
«Prenderò quella ai peperoni» rispose Amelie, riuscendo finalmente a deconcentrarla dalle sue convinzioni, quando un losanga, risonante come un tuono, ci fece voltare di scatto. Una macchina sportiva di color rosso fuoco sfrecciò come un animale selvaggio lungo il ponte Bishop, sollevando turbini di polvere e vento. Mi sfuggii un grugnito e di seguito delle imprecazioni.
«È il professore Mackenzie» mi informò Amelie.
«Allora saprò con chi prendermela per lo stato dei miei capelli» ringhiai infuriata. Il vento aveva fatto ondeggiare più del dovuto i miei capelli e si erano ingarbugliati. Il colore nero naturale si era sbiadito a causa della polvere sollevata dal mostro di fuoco, ovvero la sua fuoriserie, che era sfrecciata a più di cento chilometri all’ora. E i mie occhi? Due profonde sfere nere di collera.
«Lo odio!» sbuffai sistemandomi i capelli e spolverandomi i jeans e la camicia a quadretti rossa e verde. Amelie invece, stranamente silenziosa, non aggiunse altro. Diede una frettolosa spolverata ai suoi jeans e proseguì lungo la Rue College fino a quando, arrivate all’incrocio con Rue Queen, non mi informò che il diavolo rosso era posteggiato davanti a Jerry, la nostra pizzeria.
«Adesso gli faccio vedere io» strillai aumentando il passo e raggiungendo il locale.
«Evangeline, ti prego, non fare sciocchezze. Può espellerci dal corso. Non posso permettermelo. Ti prego» mi supplicò con gli occhi lucidi.
Amelie aveva un viso con lineamenti dolci e proporzionati. Occhi nocciola, ciglia lunghe, sopracciglia accuratamente disegnate, bocca grande e aggraziata da un tenue gloss color ciliegia. Non era molto alta, ma quando uscivamo con dei ragazzi, compensava i suoi centimetri in meno con tacchi molto alti.
Io invece ero Evangeline, capelli neri, occhi neri, carnagione troppo pallida, alta e magra. Matthew all’inizio mi diceva che ero bella, dopo diventai simpatica e alla fine rimpiazzabile.
Diedi ascolto alle suppliche di Amelie e facemmo finta di nulla.
Jerry, il ragazzo che preparava le pizze – Geraldo era il suo vero nome – veniva dall’Italia e faceva le pizze più buone di tutto il Québec.
«Ciao Jerry, Amelie prende la pizza ai peperoni, io quella…» mi guardai un po’ attorno e, quando scrutai seduto a un tavolo in fondo la sala il professore Mackenzie, che giocava con la forchetta sopra la pizza appena sfornata, domandai a Ricky cosa avesse preso il tipo con la giacca di jeans che sembrava perso in tanti pensieri, tranne quello di gustare l’ottima pizza.
«River ha ordinato la pizza ai 4 elementi» mi informò mentre attendeva la mia ordinazione. Lo aveva chiamato per nome, evidentemente si conoscevano.
«Ma non l’ho mai letta sul vostro dépliant» gli feci notare.
«Infatti è una pizza che preparo solo per lui» disse sorridendomi.
«Posso assaggiarla anch’io?» chiesi senza sapere cosa fossero i 4 elementi.
«Ti avviso, è molto particolare» mi avvertì, ammiccando uno splendido sorriso.
«Piccante?» chiesi pensando al fuoco.
«Sì.»
«Salata?» continuai pensando al mare.
«Sì» seguitò a rispondermi Jerry, quasi fosse un gioco.
«Soffice?» Pensai alle nuvole nel cielo.
«Sì» disse scoppiando a ridere. «Ti manca l’ultimo elemento» mi informò.
«Selvaggia?» chiesi ridendo, la sua ilarità mi aveva contagiata. Avevo pensato agli occhi del professore, al rombo e all’aspetto della sua vettura.
Jerry continuò a ridere e il nostro gioco terminò quando mi servì le pizze che avevo ordinato. Poi portò due Cherry Cola e finalmente potei gustarmi la pizza ai 4 elementi che altro non era che una pizza al salame piccante con pezzetti di acciughe, mozzarella, pomodoro e basilico, l’ultimo elemento che rappresentava la Terra.
Il gioco era stato divertente, ma non era altrettanto divertente osservare il professore che non aveva assaggiato neanche un pezzo della sua pizza. Se ne stava da solo a osservare il piatto e a perdersi in chissà quali pensieri oltre le risate e le chiacchere della gente che affollava la pizzeria.
«Secondo te perché è sempre da solo?» chiesi ad Amelie mentre stava addentando un pezzo di pizza.
«Non vorrai imitarlo? Mangia la pizza e non guardarlo troppo» mi ammonì.
Ma non potevo farci nulla. Era come se sentissi una vocina che mi diceva: guardalo!
Osservarlo mi stava distraendo dal mangiare la pizza, così abbandonai la mia impresa e mi dedicai al mio piatto, anche se il peperoncino mi fece tossire più di una volta.
Poi successe quello che nessuno di noi si aspettava: un boato, ma questa volta non era la macchina del professore, era un colpo assordante di pistola. Immediatamente dopo si udirono: i vetri frantumati, le urla indistinte dei ragazzi tipici frequentatori del locale e il panico albergò ovunque.
Amelie istintivamente si nascose sotto il nostro tavolo, io rimasi seduta, impietrita, scioccata e impotente su cosa fare. Sentivo le mani di Amelie che mi afferravano l’orlo dei jeans per farmi riparare  sotto il tavolo, ma non potevo. Mi mancava la forza, il fiato…
Abbassai lo sguardo verso la mia camicia, verso la pancia, verso il dolore…
La mia camicia non era più a quadretti rossa e verde, era solo rossa.
Stavo per crollare, non mi sentivo più le gambe e tutti i fragori divennero ronzii, fino a scomparire, fino a quando venni avvolta da qualcosa di caldo, infuocato, vivo…
 
«Evangeline, ti prego, svegliati» Era la voce della mia amica. Era un suono familiare, confortevole ma non quanto quel calore che avevo percepito in tutto il mio corpo qualche istante prima. Lo volevo, ne volevo ancora. Lo desideravo come un assetato brama l’acqua. Era come se necessitavo di tuffarmi in un mare di fuoco per rinfrescarmi, quando le fiamme mi avrebbero solo bruciata, arsa…
«Dove sono?» chiesi non capendo cosa fosse successo.
«Un folle ha iniziato a sparare con una pistola, per fortuna lo hanno preso. Mi sembrava che ti avesse colpito. Ma per fortuna le macchie rosse sulla tua camicia sono di pomodoro. Avevo temuto il peggio.»
«Io…» non sapevo cosa rispondere. Poi aprii meglio gli occhi e notai che eravamo a terra, cosparse di schegge di vetro e avvolte da due coperte. C’era tanta gente e… poliziotti ovunque.
«Lo hanno preso?» domandai sollevandomi da terra.
Poi lo cercai.
Mi voltai da tutte le parti.
Sentivo il suo fiato.
Avvertivo la sua presenza.
Percepivo il suo profumo.
Destra, sinistra, davanti e di fronte.
Dov’era?
«Evangeline, smettila, cos’hai?» mi chiese la mia amica ancora più agitata di me.
«Dov’è il professore?» Non volevo fare quella domanda, ma dovevo sapere. Mi sembrava di impazzire. Mi sembrava di essere legata a un filo che mi conduceva inevitabilmente a lui.
«È stato qui, ci ha aiutato lui, ma poi è sparito. Penso che stia parlando con Jerry.»
Giusto! Eravamo in pizzeria da Jerry. «Jerry! Lui come sta?» chiesi.
Amelie mi tranquillizzò dicendomi che tutti stavano bene e che nessuno era ferito, tranne qualcuno con delle escoriazioni per i vetri che si erano frantumati.
«Perché lo ha fatto?» Non potevo credere che un uomo, seppure etichettato come folle, avesse potuto fare tutto quel pasticcio. Aveva rischiato di poter uccidere qualcuno, meno male che ogni cosa si risolse con un cerotto e qualche livido.
Quando ritornammo nella nostra camera, nessuna di noi aveva voglia di soffermarsi su quello che era accaduto così, prima lei e poi io, facemmo una doccia per spazzare via quella brutta mattinata.
Quando entrai in bagno feci scivolare i jeans e la camicia per terra. Mi sfilai culottes e reggiseno e feci scorrere l’acqua calda sul mio corpo, come una cascata tra le rocce. L’acqua precipitava verso il piatto della doccia disperdendosi chissà dove. Mi controllai la pancia e uno strano livido comparve a contatto con l’acqua. Assunse una strana forma, sembrava quasi un ala, anzi: due ali che si allargavano a proteggere il mio corpo.
Appoggiai le mani sul livido e questo diventò rossastro, ma non mi faceva male. Lo premetti e non avvertii alcun dolore, sarebbe sicuramente passato tra qualche giorno.
Uscii dalla doccia e tamponai il livido con l’accappatoio. Quando lo osservai, notai che mutò nuovamente colore e divenne nero. Feci finta di nulla, lo coprii con la maglietta del pigiama e mi addormentai senza pormi tante domande.
  
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