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Autore: Maya98    11/05/2014    4 recensioni
"È una dissonanza prodotta tra due voci, o parti, e può avvenire fra due note con lo stesso nome, suonate in successione che siano una naturale e l'altra alterata, ma in parti differenti."
Sherlock capisce che c'è solo un modo per battere Moriarty, e questo modo è fingersi dalla sua parte, con tutte le conseguenze e i sacrifici che questa scelta comporta. Ovviamente, John ne è totalmente all'oscuro.
Note: Johnlock, accenni pesanti di Jary e "Sheriarty" senza sentimento, e qualche cosa di Sherlock&Mary. Cammei vaticani, P.O.V. di Sherlock, Post-HLV.
Avvertimenti: Non è non-con perché è consensuale, ma sicuramente non voluto.
 
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Note:
Capitolo ancora tranquillo, forse un po’ noioso. Dal prossimo arrivano i fuochi d’artificio, e James Moriarty. Non vi ho detto nulla circa gli aggiornamenti: ho i prossimi quattro capitoli già scritti. Pubblicherò il prossimo appena finirò di scrivere il successivo. E così via: ogni capitolo che scrivo è un aggiornamento, quindi non saranno proprio regolari, ma cercherò di non farvi aspettare troppo. L’altra cosa sono i ringraziamenti per il successo che la storia sta riscuotendo (inaspettato!). Tre recensioni e dodici che hanno inserito la storia tra le seguite, wow!. Non me lo aspettavo. Grazie, perché credevo fosse il genere di storia che al fandom non piace.
 
 
 
 
 
2. Adieux
L. Beethoven - Adagio-Allegro, l’Addio (*)

La stanza sembra quasi triste, mentre Sherlock raduna la propria roba. Cupa.
Non è che possa veramente dare questa impressione, in quanto oggetto inanimato, ma l’atmosfera le conferisce quest’aria di malinconia.
Lo infastidisce. Si potrebbe quasi dire che lo irriti fino a dargli sui nervi. Non è giusto che gli faccia pesare quel momentaneo addio a Baker Street. È come se gliene facesse una colpa, quando non ne ha. Per una volta, davvero, non ne ha.
La luce filtra debolmente attraverso uno spiraglio tra le tende, che rimarranno chiuse per un po’, illuminando le due poltrone. Una vuota ormai da mesi e un’altra che lo sarà presto. La polvere galleggia nell’aria, sottile e impercettibile, come se già tutto stesse cadendo in disuso. E i vuoti, là nella libreria, sul tavolo, sul pavimento, quello strano ordine impreciso e irriverente che pesa più del silenzio che regna.
Sherlock finisce di mettere gli ultimi vestiti nelle sacche, con il cappotto appeso al braccio e lo sguardo che si perde nella stanza cercando qualche dettaglio dimenticato. Non avrà tempo per tornare a prendere qualcosa, in caso se lo sia scordato. Forse non avrà neanche mai un tempo di tornare definitivamente.
Mentre il suo sguardo vaga su quelle lande desolate, abbandona quasi con nostalgia il profilo della sua apparecchiatura scientifica, in particolare del microscopio, che sembra guardarlo dal tavolo della cucina con disapprovazione. In ogni caso non potrà prenderlo con sé, sarebbe troppo sospetto. Una vacanza è la giustificazione della sua assenza, e non avrebbe senso portare via anche il suo set scientifico, quindi per un po’, purtroppo, dovrà farne a meno.
Ripercorre i libri, il teschio sulla mensola del caminetto e il coltello una volta destinato alla posta che ancora infilza al muro il tabellone di cluedo. Lascia che lo sguardo si perda sul tappeto, e poi sul divano dove è solito pensare, verso l’appendiabiti, lo smile giallo sul muro e poi di nuovo indietro. Ed infine, i suoi occhi si soffermano sulla longilinea forma di qualcosa di preziosissimo, che mai potrebbe dimenticare, neanche tra mille vite.
Si allunga e prende in mano il manico del violino, mentre le sue mani gioiscono a quel contatto, come se la mancanza di quella sensazione al tatto fosse qualcosa di incredibilmente doloroso. Apre la custodia con calma, facendoci scorrere le dita sopra, quasi con reverenza, saggiando la consistenza de velluto sotto i polpastrelli. Ripone accuratamente lo strumento e l’archetto, con l’attenzione che una madre riserverebbe ad un figlio, ed infine, dopo aver impugnato il manico della custodia, si decide ad alzarsi e andarsene. Non si guarda indietro, per osservare l’appartamento ormai vuoto, con quell’aria desolata.
Già era solitario prima, che mancava uno dei suoi due abitanti. Ora sarebbe autoinfliggersi ferite gratuitamente.
Si infila il cappotto, annodandosi la sciarpa attorno al collo e sistemandosi i guanti sulle lunghe dita. Daffodils, pensa, apparentemente senza motivo. (1). Scaccia in fretta dalla sua mente le strofe della poesia, così come si scaccia una mosca fastidiosa, concentrandosi sulla vestizione. Un gesto così familiare, compiuto milioni e milioni di volte in quell’ingresso, come se ormai fosse inciso nell’eco del tempo, ostinato a risuonare tra quelle pareti. Scende velocemente le scale, senza soffermarsi, arrivando con un balzo davanti alla porta del 221a. Un respiro, il tempo di calarsi sugli occhi la maschera. In fondo, ha sempre sostenuto che Londra ha perso un grande attore quando lui ha diretto la sua carriera altrove.
In scena, pensa teatralmente, senza spirito. Bussa con impazienza, stirando le labbra in un sorriso frettoloso e impaziente, che non ha assolutamente nulla di sincero. La signora Hudson gli apre con un’espressione quasi sorpresa, e lui le sorride prima di stringerla in un abbraccio entusiasta, come se stesse per andare a fare qualcosa di estremamente divertente, come se non vedesse l’ora. La sente ridacchiare un po’, mentre ricambia la stretta, scuotendo la testa per il troppo entusiasmo di lui. È convinta. Sente una fitta: avrebbe quasi voluto che si accorgesse che sta fingendo, che lo interrogasse sull’accaduto, che lo fermasse. È ancora in tempo, ma al tempo stesso non può: come al Bart’s con John, prima della Caduta. La recitazione impeccabile: oh, che grande dono e che grande condanna.
-Pronto per la tua vacanza, caro?-chiede con la sua voce sottile, mentre gli stringe un braccio con un po’ di apprensione, cercando il suo sguardo.
-Prontissimo, signora Hudson.-risponde allora, alzando le braccia e rivolgendole il solito sorriso-caso-in-corso:-In realtà, sono già in partenza, visto che il mio treno lascerà la stazione di King’s Cross esattamente tra quaranta minuti. Mi sento in forma!
-Allora immagino che tu abbia un po’ di tempo per un tè, non è vero?-chiede, mentre si avvicina ai fornelli, afferrando saldamente la teiera e un paio di tazze già pronte e consumate negli anni di uso:-Ne ho giusto fatto un po’.
-Ho sempre tempo per il suo tè, mrs. Hudson.-dice bonariamente, spostando una sedia con un gesto secco e appollaiandocisi sopra, mentre la donna gli appoggia di fronte un piccolo vassoio con le due tazze e lo zucchero, per poi sedersi anche lei.
Sorseggiano per qualche minuto, in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Sherlock continua a stirare le labbra verso l’alto, soprappensiero, più per automatismo che per vera intenzione.
Poi lei interrompe il silenzio:-Sono proprio contenta che tu abbia deciso di prenderti una pausa dopo tutta quella faccenda del...oh, sai cosa.-dice, portandosi una mano alla bocca e guardandolo con espressione sinceramente preoccupata.
Mrs. Hudson è stata una delle persone che ha preso peggio il processo per l’omicidio di Charles Augustes Magnussen, ed anche forse la più contenta del suo ritorno, preoccupazione per Moriarty a parte.
-Anche se forse la tempistica non è delle migliori, con la nascita della bambina così vicina...a proposito, come l’ha presa John?-si informa la donna, stringendosi nello scialle, con le sue dita sottili. Sherlock si affretta a buttar giù un sorso di tè, sperando che la sua lingua ne rimanga scottata abbastanza da permettergli di non rispondere. Non succede.
-Bene.-mente, annuendo con convinzione, accennando un sorriso con l’angolo della bocca, mentre qualcosa nel suo stomaco si attorciglia in modo spiacevole:-Meglio di quanto pensassi, in effetti.
-Meglio così,-commenta la signora Hudson, decisa, mordendosi un labbro come se temesse di essere indiscreta:-con tutto quello che ha passato, voglio dire...ma finalmente le cose sembrano essersi messe a posto, non è così?
-Sì.-dice Sherlock, ma questa volta con meno convinzione. Lascia passare ancora un paio di minuti, dopo quell’affermazione sussurrata a forza, quasi sputata, prima di decidersi a finire il suo tè a labbra strette. Getta un’occhiata all’orologio, non sopportando già più di stare lì, e si alza. Sente un’improvvisa nausea farsi largo nel suo stomaco e risalirgli fino al fegato, e poi ai polmoni, facendogli mancare l’aria. Non ha più così tanta fiducia nelle sue capacità di attore, o forse non vuole sostenere quella parte più a lungo:-Devo andare, signora Hudson.-si affretta a dire.
-Ma caro, sei appena entrato...-inizia a protestare lei.
-Mi sono appena ricordato che la mia partenza era stata anticipata. Mi scusi davvero.-la interrompe bruscamente, senza preoccuparsi: la signora Hudson è abituata ai suoi bruschi sbalzi d’umore e alla sua ruvidezza, non se la prenderà:-Passi dei buoni momenti e si riguardi, mi raccomando.
-Anche tu, giovanotto.-gli esclama lei dietro, sull’uscio della porta, mentre lo guarda allontanarsi. Sherlock apre la porta principale e poi la richiude dietro di sé, forse un po’ troppo bruscamente, con il viso contratto. Non si guarda indietro, non ancora. Non lo farà proprio ora. Non riuscirebbe a guardare il 221b di nuovo, sapendo che non potrà tornarci per molto tempo. Però si ferma, lì, sul marciapiede sul quale ha stretto per la prima volta la mano alla persona che ora è la più importante della sua vita. Si ferma lì, con il petto occluso e il respiro che manca.
Il suo cuore comincia a battere, lento, e a danzare al ritmo dei narcisi (2). Il vento tra i capelli e qualche goccia di pioggia lo riporta alla realtà, bruscamente, dolorosamente, riaprendo come una vecchia ferita.
Respira forte, secco dal naso, prima di avanzare velocemente, con un passo netto. Raggiunge la strada, alza la mano per chiamare un taxi, tutto come un automa.
Non ha detto nulla a John. Niente di niente, nemmeno la scusa della vacanza. Non ne ha trovato il coraggio, o forse la forza. Gli è mancata. Non una parola è uscita dalla sua bocca, l’ultima volta che è andato a trovare lui e Mary per chiedergli di seguirlo in un caso, neanche un sussurro tirato, o un accenno. Lui non sa che se ne sta andando via.
Di nuovo.
Dopotutto, a Sherlock non sono mai piaciuti, gli addii.


( Continua )


1 - Accontentatevi di sapere che è una poesia
“Daffodils”, di Wordsworth.
2 - È il riferimento alla poesia che gli era venuta in mente prima. Questa frase è la rielaborazione di uno degli ultimi versi della poesia.

(*) No, okay, questo ve lo devo dire. È il primo tempo di una sonata di Beethoven, i cui tempi si chiamano rispettivamente L’addio, l’assenza e Il ritorno. Cioè: una sonata per il Reichenbach. Non potevo non farne accenno anche qui, contando quanto io ami Beethoven.

 
  
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